Le Nuvole Nel Cuore 532j68

GIUSY AMATO

LE NUVOLE NEL CUORE

Titolo | Le nuvole nel cuore

Autore | Giusy Amato

ISBN | 9788891155795

Prima edizione digitale: 2014

© Tutti i diritti riservati all’Autore

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Tutti i diritti riservati © 2014 Giusy Amato

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale.

Prefazione Quando si addensano “le nuvole nel cuore”, non è facile fare la scelta giusta, dare alla propria vita la direzione che più desideriamo. Forse è proprio questo groviglio di dolore e di smarrimento che avvince e spiazza piacevolmente il lettore di questo romanzo di Giusy Amato. Una scrittura trasparente e godibile, la sua, messa al servizio di una storia che sa parlare del lato oscuro della forza: violenza alle donne, scandalose gravidanze, adozioni illegali, sofferte separazioni, acute nostalgie. E poi, in sottofondo, quel costante dissidio tra finzione e realtà che a volte spezza il fiato dei giorni e lascia scrivere sulla lavagna dell’esistenza i più insopportabili sensi di colpa. Eppure il romanzo si fa leggere con grande coinvolgimento emotivo, senza paura e senza ombre, come un dono inaspettato. Il filo del racconto segue due vicende diverse, distanti. Finché, misteriosamente, s’intrecciano in un finale sorprendente. Da un lato, due sorelle, Eleonore e Tess, molestate da un padre alcolizzato e violento; dall’altro Carole, una ragazza ignara delle proprie origini che s’innamora di un uomo sbagliato. In mezzo, tanta voglia di normalità e di quotidianità, tanto bisogno di rapporti veri, profondi, duraturi. Di una famiglia. Ma quelle “nuvole” sono sempre lì, nel cuore delle protagoniste, e portano solo pioggia, vento e naufragio. Per ognuna di loro ci vuole una dose incredibile di coraggio per prendere in mano la propria vita e decidere di cambiarla: contro i pregiudizi, contro le abitudini, contro tutti gli interessi schierati lì, davanti ai loro occhi, sul prato del loro (e del nostro) futuro. Giusy Amato riesce a prendere per mano i suoi personaggi, a seguirli, a vederli crescere e lottare per il proprio diritto ad essere finalmente risolti e felici. E il lettore non può fare altro che rendersi complice e partecipe di questa commedia umana così ricca di svolte, illuminazioni, scelte. Gianni Maritati (giornalista TG1)

Prologo

Due sorelle, Eleonore e Tess che il destino divide da bambine. Ad entrambe la vita riserva solitudine e sofferenza. Una subisce la violenza del padre, l’altra è costretta a prostituirsi. Sebbene lontane, il forte legame che le univa da bambine, non si spezzerà mai. Eleonore diventa una star del cinema e decide, dopo trent’anni, di cercare la sua famiglia con l’aiuto di Claude, da sempre innamorato di lei. L’incontro con una giovane ragazza, Carole, appena uscita da una storia di stalking, cambierà la vita delle due sorelle?

1

Roma 1990 Era una delle giornate più calde, di un agosto ancora più rovente che si potesse ricordare a memoria d’uomo. Carole se ne stava immobile sul letto in quella piccola mansarda infuocata col ventilatore e un succo di frutta in mano. “Mah, sarà vero che l’ananas aiuta a combattere la cellulite? Tutte stupidaggini!” Aveva appena preso il telecomando della tv quando squillò il telefono, chi poteva avere voglia di parlare alle tre del pomeriggio con un’afa così soffocante? «Pronto?» Certo, chi se non lei, sua madre, sempre a lamentarsi degli acciacchi dell’età ma con un’energia che Carole le invidiava, nonostante i suoi ventidue anni. La conversazione si era svolta come al solito, lei parlava e Carole ascoltava o come spesso accadeva, fingeva di farlo. Dopo venti minuti… «… e tu, piccola tutto bene?» «Sì, tutto ok mamma riguardati, ciao.» Per le mamme i figli non crescono mai, specialmente se non sono sposati e Carole aveva deciso già all’età di quindici anni che non aveva nessuna voglia di dividere il bagno con un estraneo. Duke si stava stiracchiando davanti alla porta della camera da letto, non stava facendo la guardia alla sua padrona, era semplicemente il punto più fresco di quel minuscolo monolocale bollente. «Opportunista!» esclamò Carole e scavalcandolo s’infilò sotto la doccia. Dopo qualche minuto il telefono ricominciò a trillare. “Maledetto rubinetto! Sempre la stessa storia, troppo calda o troppo fredda!” Questa volta gliene avrebbe detto quattro a quell’accattone del suo padrone di casa, sempre lì a sbavarle dietro, con le mani sempre sudaticce e l’alito pesante, ma quando gli si chiedeva di spendere un soldo ecco che s’irrigidiva e prendeva le distanze. «Mi dispiace signorina sa, è l’usura!» Il telefono continuava a trillare. Non poteva essere ancora la madre, pensò Carole, l’orecchio le si era appena raffreddato. «Pronto, mamma?» «Ciao Carole, come stai?» Le si gelò il sangue nelle vene, le si irrigidirono i muscoli della faccia e improvvisamente faceva fatica a deglutire. No, non poteva

essere lui, non di nuovo. «Finalmente ti ho trovata!» Avrebbe riconosciuto quella voce, anche se fosse diventata sorda come Duke. Quel suo modo di parlare lentamente, scandendo le parole, come se volesse essere certo che avessi capito. «Pr…pronto?» Click. Si sedette sul letto inebetita e la sua mente tornò indietro nella frustrazione, nell’impotenza e nel terrore, che quell’uomo le aveva fatto provare qualche anno prima. Rimase immobile per un bel po’, fino a quando sentì la mano umida, era il naso di Duke. Stava tentando di consolarla, lo faceva sempre quando sentiva che la sua padrona aveva qualche problema o stava male. Carole si chiedeva com’era possibile che un cane, per di più, un “meticcio puro”, come lo chiamava lei, potesse essere più sensibile di un essere umano. Gli diede la sua dose di coccole e cominciò a prepararsi per andare al lavoro. Solitamente sceglieva con cura cosa indossare, anche se il suo guardaroba era molto limitato, ma dopo quella telefonata sembrava che nulla avesse più importanza. Com’è imprevedibile la vita, un rubinetto che non funziona sembra un disastro e un minuto dopo accade qualcosa che ci fa sentire stupidi per esserci arrabbiati a causa di una sciocchezza. Diede un’ultima arruffatina a Duke e uscì. «Posso darti un aggio?» Carole trasalì pensando al peggio, per fortuna era solo un giovane con la moto che le si era avvicinato con la voglia di attaccare bottone. I ragazzi non hanno proprio fantasia pensò, quante volte aveva sentito quella frase? Gli elargì un sorriso forzato. «No, grazie.»

Carole era una ragazza minuta, capelli e occhi scuri che sorridevano più della sua bocca carnosa, più che bella era semplicemente deliziosa. Aveva un modo così sensuale di camminare, di parlare, di muovere le sue bellissime mani, che sembrava quasi tutto studiato a tavolino e invece era assolutamente spontanea. Quel suo lieve accento se poi, in un paese di esterofili come l’Italia, le dava un pizzico di fascino in più, se mai ce ne fosse stato bisogno. Era abituata a essere corteggiata e spesso si chiedeva cosa ci trovassero in lei di così irresistibile.

Aveva avuto delle storie brevi e abbastanza deludenti e questo, insieme al suo desiderio di libertà e indipendenza, facevano di lei una delle poche ragazze al mondo che alla sua età, non rincorreva il principe azzurro a tutti i costi. Aveva deciso che essere single, non era poi una condizione così terribile come spesso volevano farla apparire i vari opinionisti che partecipavano a quei noiosissimi talk show. Tuttavia, amava stare in mezzo alla gente e quando Franco, il suo migliore amico, le aveva detto che al ristorante dove lavorava cercavano una cameriera, Carole si era precipitata a fare il colloquio. Da qualche mese lavorava presso lo studio di un commercialista ma quel ruolo di tuttofare, non le piaceva proprio. Stare tutto il giorno rinchiusa in una stanzetta a preparare caffè, fare fotocopie o interminabili operazioni matematiche, non era per niente gratificante. Da Gigì aveva ritrovato il sorriso, il proprietario era se come lei e si era trovata subito a suo agio. Il ristorante aveva delle bellissime vetrate che davano su un immenso giardino, dove d’estate i tavoli venivano sistemati intorno alla piscina. Era frequentato da tanta bella gente che lasciava mance da favola superando di gran lunga il suo stipendio di apprendista cameriera. E poi c’era Franco, con cui si divertiva da morire. Carole stava contando i soldi delle mance, i clienti il sabato oltre a essere più numerosi erano anche molto più generosi, forse perché finalmente potevano rilassarsi. Evidentemente dopo una settimana di stress da lavoro, stare con la propria famiglia o in compagnia degli amici, li metteva di buon umore. Lei era figlia unica e già dall’età di diciotto anni, per sua scelta, viveva da sola ma quando vedeva ai tavoli delle famigliole al completo, le veniva un po’ di nostalgia. Con la madre non era mai andata tanto d’accordo, era troppo autoritaria, severa e possessiva e Carole con il suo innato spirito d’indipendenza, era costantemente in guerra per qualunque cosa. Fortunatamente, i loro rapporti erano notevolmente migliorati da quando non condividevano più lo stesso tetto. Suo padre era un uomo di poche parole, l’opposto della madre che sembrava una radio perennemente accesa, sempre a lamentarsi di qualcosa, soprattutto della sua salute. Secondo Carole, era tutta una manfrina per farsi compatire dal prossimo poiché aveva un’energia inesauribile. Aveva molto sofferto per il fatto di essere figlia unica. Quando era piccola, qualche volta chiedeva a sua madre di regalarle un fratellino o una sorellina ma

la madre le dava sempre la stessa risposta: «Se Dio lo volesse!» E poi si chiudeva a riccio. Un giorno, aveva circa dieci anni, si mise ad origliare dietro la porta della camera da letto dei suoi genitori, naturalmente si sentiva solo la voce della madre e qualche bisbiglìo del padre. «Anne, se vuoi possiamo consultare un altro medico, neanch’io voglio perdere le speranze di avere un altro figlio, ti amo lo sai e farei qualunque cosa per renderti felice.» Anche se Carole era poco più di una bambina, capiva che il padre era molto innamorato della madre, non era certa del contrario, e in cuor suo sperava d’incontrare un giorno, quando sarebbe diventata grande, un uomo che l’amasse in quello stesso modo. «Basta Paul, sono stufa di farmi rivoltare come un calzino, se questa è la volontà di Dio, così sia e comunque Carole è già stato un dono inaspettato.» Il padre sapeva che quello che diceva la moglie era solo un modo per chiudere la discussione e pensava che tutti i malesseri veri o finti di Anne, dipendessero dal fatto che non potesse avere figli. Quando Carole crebbe, si convinse che durante il parto, doveva esserci stato qualche problema e per questo la madre non poteva più affrontare altre gravidanze. In qualche modo, pensava che fosse lei la causa di quel malessere dei genitori, soprattutto della madre. Il giorno del suo diciottesimo compleanno, annunciò che voleva andare a vivere da sola. Si scatenò un putiferio, la madre si fece venire uno dei suoi svenimenti preferiti, quello con gli occhi sbarrati e assenza di suoni. Poi c’era quello più divertente, sguardo perso nel vuoto e la solita domanda: «Dove sono? Chi siete?» Il repertorio era variegato, a secondo dell’ispirazione del momento. Ovviamente, quando Carole era piccola, si spaventava a morte ma il padre la rassicurava e abbracciandola le diceva che non era niente. Lei non capiva come potesse essere niente vedere la madre in quelle condizioni, fino a quando crescendo, anche lei capì che Anne, se avesse avuto la possibilità, sarebbe diventata una grande attrice. Sorrise, anche se la telefonata di qualche ora prima, l’aveva buttata nello sconforto più totale.

Saltò in aria quando Franco le si avvicinò. «Scusa Carole, non volevo

spaventarti!» Franco era come un fratello per lei, era proprio quel fratellino che aveva tanto desiderato da bambina. A volte pensava che era una fortuna il fatto che Franco fosse gay, si confidava con lui come si fa con la più cara amica, cosa impossibile da farsi con un ragazzo, dal momento che alla fine tutti miravano alla stessa cosa e cioè, portarsela a letto. D’altro canto come si poteva biasimarli, era semplicemente adorabile. «Non è colpa tua Franco, è che sono preoccupata, non so come, mi ha trovata!»

2

Parigi 1990 Eleonore Legrand se ne stava immersa nella sua Jacuzzi con una sigaretta tra le dita. “Prima o poi dovrò smettere se non voglio farmi venire le rughe”, ma al momento sul suo viso non ce n’era l’ombra, nonostante i suoi quarantacinque anni. Ne aveva fatta di strada da quando aveva lasciato la casa dove aveva vissuto da bambina, tra le urla del padre che tutte le sere tornava a casa ubriaco e con una gran voglia di picchiare la madre. Sua sorella, Tess, era nata quando lei aveva già dieci anni e non aveva mai capito come Corinne fosse stata così incosciente da mettere al mondo un’altra creatura in quell’inferno. Una sera il padre era tornato a casa più ubriaco del solito, aveva cominciato a insultare la moglie, l’aveva trascinata per i capelli e l’aveva chiusa in bagno. Si era avvicinato a Tess, l’aveva fatta salire sulle sue gambe e aveva cominciato ad accarezzarla in un modo che Eleonore, nonostante la sua giovane età, capì che non era amore paterno. L’aveva fatto anche con lei, ma a un certo punto Eleonore cominciò a reagire selvaggiamente con morsi, pugni e strilli. Quando la madre chiedeva cosa stesse succedendo il padre farfugliava qualcosa. «Lo sai che tua figlia è una pazza, chissà cosa le è saltato in mente!» Lei non aveva mai capito se la madre fe finta di non sapere o se si rifiutava di credere a un simile orrore. Quando Tess iniziò a crescere, il padre smise di “giocare” con lei e cominciò con la sorella. Quella sera Eleonore non sopportava proprio quelle attenzioni rivolte alla sorellina, prese un coltello dalla cucina e come una furia si scagliò sul padre colpendolo come meglio poteva fare una ragazzina della sua età, contro la montagna che era suo padre. Tess cominciò a piangere, mentre lui pieno di sangue sul viso, sul collo e sulle mani cominciò a inseguire Eleonore, urlando come un animale ferito.

Spense la sigaretta e uscì dalla vasca, sì infilò l’accappatoio e guardò la sua immagine riflessa nello specchio. Era senz’altro una bella donna, anche se aveva sempre quello sguardo triste, quasi malinconico, dovuto probabilmente alla forma dei suoi occhi. Gli “addetti ai lavori” dicevano che era una caratteristica che l’aveva aiutata a raggiungere il successo, ma a lei non piaceva. Tante volte aveva discusso animatamente con i truccatori di turno, affinché dessero ai suoi occhi una forma che andasse verso l’alto, bastava un tocco di matita o di eyeliner, una piccola virgola e il gioco era fatto! Quella virgola, in ogni caso, mancava soprattutto nel suo cuore e per quello non esisteva nessun trucco. Prese il suo Rolex, poggiato sul ripiano sotto lo specchio e si rese conto che stava facendo tardi. Doveva partecipare ad uno di quei noiosissimi ricevimenti, a cui, di tanto in tanto, era costretta ad andare. Non amava fare vita mondana, quasi incredibile per una persona che fa un mestiere dove devi continuamente esibirti! Eleonore amava il suo lavoro ma non sopportava tutto quello che ruotava intorno ad esso. Falsità, opportunismo, persino cattiveria, erano queste le cose con le quali era costretta a convivere. Quando era sul set stava bene, era instancabile e non si atteggiava neppure a grande diva, tranne quando lo faceva di proposito quando qualcuno non le andava a genio. Finite le riprese, non vedeva l’ora di tornarsene a casa o in albergo per non avere nessuno tra i piedi.

“Cosa diavolo mi metto questa sera?” Eleonore aveva armadi pieni di vestiti, scarpe e accessori di ogni genere, sempre rigorosamente costosissimi, eppure quella era una domanda che si poneva quasi tutti i giorni, un po’ come la maggior parte delle donne. Alzò il telefono, spinse un tasto e dopo dieci secondi bussò alla porta Maria. «Dov’è il mio vestito di Dior?» Maria la guardò come se le avessero chiesto di cercare un ago in un pagliaio. «Quale vestito di Dior?» «Come sarebbe a dire quale?» «Ely, ne avrai otto o nove da sera, per non parlare della serie da cocktail.» «Ho capito l’antifona, parlo di quello nero con le spalline di Swaroski.»

«Me l’hai fatto portare alla Chiesa del Cristo Re insieme a un altro quintale di vestiti per i poveri. Che ci faranno poi con un abito da sera come quello!» Eleonore, accennò un sorriso. «Beh, non si sa mai! Vedi, se non t’ingozzassi di dolci, l’avrei regalato a te.» Maria si girò verso la porta. «Pensa che comodo per are l’aspirapolvere!» Maria era l’unica che si poteva permettere di parlarle così ed era anche la sola con quale riusciva ad essere quasi completamente sincera. Si erano conosciute due anni dopo quella tragica sera in cui aveva accoltellato suo padre. Allora, né lei, né Maria, avrebbero mai immaginato che quella ragazzina impaurita sarebbe diventata una delle attrici più famose e più pagate al mondo.

Peter, il suo agente, la stava aspettando pazientemente in macchina, ancora visibilmente arrabbiato. Il giorno prima, avevano avuto un battibecco, cosa che accadeva spesso. Lui adorava quella donna, ma nonostante l’avesse resa ricca e famosa, tutti i suoi sforzi per conquistarla erano risultati assolutamente vani. Nell’ambiente si vociferava che Eleonore fosse lesbica, non solo perché raramente si accompagnava a un uomo, ma soprattutto per una foto uscita di recente su tutti i giornali che la ritraeva mentre baciava sulla bocca Janet Linn, durante le riprese del film “Il sole nelle tenebre”. Eleonore non aveva fatto commenti e nonostante Peter avesse insistito, per organizzare un’intervista allo scopo di difendersi da quella campagna denigratoria che rischiava di farle perdere lo scettro di sex-simbol, lei era stata irremovibile. «Fagli scrivere quello che vogliono, devono pur guadagnarsi da vivere!» Peter era su tutte le furie. «Non te lo puoi permettere! Soprattutto dopo che quella troia della Linn ha dichiarato che ti è anche piaciuto!» Lei lo fulminò con lo sguardo. «Magari ha detto la verità, o è solo questo che vuoi sapere?» La limousine si avviò ed Eleonore ignorò Peter per tutto il tragitto. La sua mente la riportò nella casa, dove era vissuta da bambina e ancora una volta l’aveva assalita la nostalgia per la sua famiglia. Nei momenti più difficili della sua vita, sentiva sempre il desiderio di tornare a casa per rifugiarsi tra le braccia della madre, coccolare Tess e raccontarle una di quelle storie che a lei piacevano tanto. Si sforzava di superare quei momenti che lei considerava un segno di debolezza ma ogni volta era sempre più difficile e doloroso.

Tanti anni prima, aveva deciso di chiudere ogni rapporto con la sua famiglia. Aveva cambiato nome, anzi solo il cognome, cambiato il colore dei capelli e portava perennemente lenti a contatto colorate. Da paffutella adolescente, con l’allenamento il suo fisico era diventato perfetto, ma soprattutto aveva abbandonato quel modo di fare da ragazzaccio ed era diventata un’icona di femminilità. Nessuno l’avrebbe mai potuta riconoscere, neppure la sua stessa madre. Guardò Peter e capì che era ancora arrabbiato, distolse lo sguardo facendo finta di niente. Per troppo tempo era stata costretta a fare quello che volevano gli altri, ormai non era più una ragazzina spaventata, era diventata una celebrità e poteva permettersi di fare quello che voleva senza chiedere il permesso a nessuno.

Scesa dalla limousine fu accolta da decine di flash. «Eleonore di qua... girati da questa parte…ci fai un sorriso? Mandami un bacio, uno solo... Madame Legrand!» Le voci dei paparazzi si avvicendavano. Lei cercava di accontentare tutti, salutava, sorrideva, fingeva di aver riconosciuto qualcuno tra la folla e allora il saluto diventava più confidenziale. Erano i trucchi del mestiere che le aveva insegnato Peter. Lei non solo aveva imparato in fretta, ma faceva tutto con estrema naturalezza. Il pubblico la amava ma ovviamente, c’era anche chi la detestava. Qualcuno vedeva in lei, la classica diva fredda e irraggiungibile, altri invece s’identificavano talmente tanto nei suoi personaggi, che la consideravano una donna comune, la famosa ragazza della porta accanto. Quando ancora faceva parte della lunga lista di attrici sconosciute, nonché disoccupate, aveva sognato mille volte momenti come questo. Immaginava di firmare autografi e di essere riconosciuta da tutti. Adesso che i sogni si erano trasformati in realtà, avrebbe voluto essere invisibile. “Come sarebbe bello infilarsi una tuta, uscire senza un filo di trucco e andare a fare la spesa al supermercato senza che nessuno ti degni di uno sguardo. Incontrare un amico per strada e abbracciarlo senza pensare che il giorno dopo, tutti i giornali avrebbero parlato di una nuova love story”. Peter, cercò un contatto distogliendola dai suoi pensieri. «Ehi, tutto bene?»

«Sì, tutto ok. Si va in scena!» Avevano fatto la pace. Era sempre lui a fare il primo o dopo un litigio o una discussione animata, diceva che non riusciva a tenerle il muso. Eleonore pensava che lo fe perché aveva timore che lei cambiasse agente. Anche se Peter aveva altri artisti nella sua agenzia, Eleonore era la punta di diamante e perdere il venti per cento delle provvigioni sui suoi contratti sarebbe stato un vero disastro, non solo economico ma anche d’immagine, cosa che in questo ambiente, conta forse più del denaro. Il ricevimento si svolse come al solito, tanti abbracci, tanti baci, tante frasi fatte: «Tesoro, sei bellissima, questo vestito ti sta divinamente!» Oppure: «Nel tuo ultimo film sei stata grande!» Per poi girarsi e dire a qualcun altro che il film era stato di una noia mortale o troppo melenso o che la protagonista aveva messo su qualche chilo, e via così all’infinito. Per il resto la fauna era più o meno variegata, dal regista pseudo intellettuale che ce l’aveva col mondo perché i suoi film non incassavano e il produttore era incazzato, all’attore che recitava la parte dello sciupafemmine pur essendo gay, all’attricetta di turno che aveva posato nuda su qualche giornale e si sentiva già una grande star. E poi non poteva mancare il solito via vai nei bagni per un tiretto di coca. Solitamente Eleonore quando era costretta a partecipare a questo tipo di eventi, si fermava il tempo indispensabile per poi darsela a gambe con grande irritazione di Peter che invece in queste occasioni, non solo si sentiva perfettamente a suo agio ma secondo lui era un modo per consolidare rapporti di lavoro o allacciarne di nuovi. Otto volte su dieci, l’aveva vinta lei.

3

Brest 1967 Dopo quella tragica sera in cui Eleonore aveva accoltellato il padre ed era fuggita via, Tess si era chiusa in un mutismo quasi totale, era diventata triste e apatica, condizione non naturale per una bambina di sei anni. Eleonore per lei non era solo la sorella maggiore, era la madre, la sua migliore amica, la sua complice, ma soprattutto con lei si sentiva protetta e al sicuro. L’atmosfera in casa era peggiorata, i litigi erano aumentati e la madre accusava il padre di qualcosa che Tess non capiva. All’inizio aveva pianto tanto per l’assenza di Eleonore ma più ava il tempo e più la odiava, o forse voleva fortemente che ciò accadesse, nella speranza di alleviare il suo dolore. Come aveva potuto abbandonarla? Perché non l’aveva portata con sé? A volte pensava di aver fatto qualcosa di brutto e per questo la sorella era andata via, era tutta colpa sua? Queste e mille altre domande continuavano a frullare nella sua testa ma il vuoto dentro era sempre lo stesso. Tess era l’opposto della sorella, magrolina, lineamenti delicati, capelli castani e ricci, la sua pelle pareva di porcellana, era aggraziata, sembrava una piccola principessa uscita da un libro di favole per bambini. Era come una rosa nata in un campo di ortiche. Ma nonostante fossero tanto diverse, le due sorelle si amavano in un modo davvero speciale. Quando era nata Tess, Eleonore non solo l’aveva accettata ma aveva subito provato un senso di protezione nei suoi confronti. La madre lavorava in ospedale come infermiera e spesso, per guadagnare di più, faceva anche i turni di notte. Il padre tranne qualche lavoretto saltuario, ava il resto del tempo al bar, quindi era Eleonore ad occuparsi di Tess. Crescendo le due sorelle erano diventate inseparabili e malgrado quella casa fosse un inferno, loro riuscivano a crearsi un mondo tutto loro, pieno di fate e di principi azzurri. Il loro posto preferito era il piccolo giardino dietro casa, dove durante i loro giochi, proliferavano bestioline parlanti e fiori magici. Tess avrebbe potuto trascorrere anche giornate intere ascoltando la sorella raccontare quelle storie

straordinarie. Spesso si spaventava pure, perché in quelle storie c’era sempre un uomo cattivo che rinchiudeva la principessa di turno dentro una torre o la trasformava in qualche orribile animale con gli occhi iniettati di sangue. Fino a quando capì che, per fortuna, le storie si concludevano sempre con un lieto fine. Compiuti nove anni ed esattamente il giorno del suo compleanno, per lei questo lieto fine non arrivò. Il padre la violentò e Tess smise d’invocare il principe azzurro affinché la salvasse. L’interesse per la figlia più piccola era iniziato già da un po’ ma con il precedente di Eleonore, il padre era diventato più prudente. Una bambina non può capire la differenza tra carezze affettuose e carezze morbose, soprattutto se arrivano dalla persona di cui ti fidi di più al mondo, tuo padre. Da quella notte però, non ebbe più dubbi. Ogni volta che ne aveva l’occasione, il padre abusava di lei. Tess ormai sapeva che quando la madre aveva il turno di notte, la storia si ripeteva. Di giorno accadeva raramente, perché lei andava a scuola e il padre non era quasi mai a casa, ma la notte non aveva scampo. Quella camminata strascicante di chi non sta bene in equilibrio per via dell’eccesso di alcol… tre, due, uno e la maniglia si abbassava. Il giorno dopo, Tess non aveva il coraggio di guardare in faccia la madre, si sentiva in colpa, come se avesse fatto qualcosa di brutto. Altre volte la odiava, perché se lei non lo avesse sposato, lui non avrebbe potuto farle del male. “Come sarebbe bella la vita senza di lui!” Un giorno, in prima elementare, la maestra aveva annunciato che a Pauline, la sua compagna di banco, era morto il padre cadendo da un’impalcatura, quindi sarebbe stata triste e bisognava starle vicino. Tess candidamente aveva detto: «Io sarei contenta se morisse il mio papà, perché i papà sono cattivi, picchiano le mamme!»

Tess stava mettendo in ordine la cucina, mentre la madre era al tavolo con il suo quadernetto dei conti, cercando di stabilire quali fossero le priorità di quel mese. Il padre stava dormendo sul divano con la solita bottiglia accanto e il posacenere stracolmo di cicche sul tavolino che usava come poggiapiedi.

In quella casa quando non si sentivano le urla del padre, c’era quasi sempre silenzio, soprattutto da quando Eleonore era andata via. La madre non era mai stata una gran chiacchierona, era sempre immersa nei suoi pensieri, tanto che a volte secondo Tess, non si rendeva neanche conto della sua presenza. Quanto le mancava la sorella! Con lei, anche quando non parlavano, cosa che accadeva raramente, c’era un gioco di sguardi che le scaldava il cuore. Eleonore la faceva sentire grande e importante. Adesso aveva la sensazione che a nessuno importasse di lei. Quella sera aveva una gran voglia di creare un contatto con la madre, si sentiva più sola che mai e si stupì quando sentì la sua voce fare quella domanda che mille volte aveva pensato di rivolgere alla madre. «Perché lo hai sposato, mamma?» Quando Corinne alzò lo sguardo su di lei, Tess pensò che stesse per zittirla con le solite frasi: “Sei troppo piccola per capire certe cose!” O ancora: “Quando avrai dei figli, capirai!” Invece la madre mise gli occhiali sul tavolo e si appoggiò allo schienale della sedia. «C’è stato un tempo in cui tuo padre era un uomo gentile, bello e persino divertente! Quando si è giovani questo è sufficiente a far innamorare qualunque ragazza ed è quello che è successo a me! In realtà, anche lui s’innamorò di me, diciamo che fu un vero e proprio colpo di fulmine. Ci sapeva fare con le ragazze, eccome se ci sapeva fare, ma lui sembrava avere occhi solo per me. A mio padre non piaceva, perché per quei tempi era fin troppo sfacciato, si comportava come se fosse il padrone del mondo. Però anche quando faceva o diceva qualcosa fuori posto, lo perdonavi nel momento stesso in cui ti guardava e ti sorrideva. Mio padre non si fece incantare e da subito mi mise in guardia. Io naturalmente non lo ascoltai, ero troppo innamorata, per me era il miglior ragazzo che avessi mai potuto incontrare!» Tess non credeva alle sue orecchie, la madre stava descrivendo un’altra persona, non poteva parlare dello stesso uomo che ogni giorno strillava, picchiava la moglie e violentava la figlia, no, non era possibile! Corinne sembrò leggerle i suoi pensieri. «Sembra incredibile, vero? Eppure è la verità. Ci sposammo e per un po’ tutto filò liscio.» «E poi cosa è accaduto?» Lo sguardo della madre diventò ancora più triste. «Non lo so esattamente, e questo non capire mi ha fatto impazzire per anni. Quando è

nata tua sorella, abbiamo avuto qualche difficoltà economica, ma niente di insuperabile, lui cominciò ad allontanarsi sempre più dalla famiglia e cominciò a bere. Forse è per questo che è diventata la persona che è adesso.» Tess, avendo ormai dodici anni, capì che nonostante tutto, la madre stava cercando di giustificarlo. Ma perché? Era ancora innamorata? Impossibile amare quell’essere. Non poteva sapere che per Corinne era un modo per giustificare il suo fallimento totale, non solo come donna e come moglie, ma anche come madre. Tess, incoraggiata da quel raro momento d’intimità, si fece audace e azzardò un’altra domanda. «Mamma, perché Eleonore se n’è andata?» Corinne, abbassò lo sguardo e Tess pensò di aver spezzato l’incantesimo. La madre invece le rispose, anche se solo con un filo di voce. «Non sono stata capace di proteggerla.» “Allora lei sa!” Pensò Tess, ma non ebbe il coraggio chiederglielo. «Mamma, andiamocene via da qui, andiamo in un posto dove lui non potrà più trovarci!» «E dove potremmo andare? A malapena riusciamo a sopravvivere qui, dove almeno ho un lavoro che ci dà la possibilità di tirare avanti. Io non sono più una ragazzina Tess, nessuno mi darebbe un lavoro. Di cosa dovremmo vivere secondo te?» Tess capì che quella che parlava, era una donna rassegnata. Aveva sperato per un attimo, che con il suo aiuto, sarebbero potute uscire da quell’inferno e adesso si sentiva ancora più sola. Quella sera andò a letto più triste che mai. Parlare con la madre non aveva fatto altro che buttarla nello sconforto più totale. Ora si sentiva impotente e senza via di scampo. “Voglio morire!” Una ragazzina di dodici anni non dovrebbe mai avere pensieri di morte. Si addormentò con il viso bagnato di lacrime, come accadeva spesso e da troppo tempo.

4

Berlino Quando Carole salì sul treno, destinazione Berlino, si sentì subito una donna realizzata. Era l’autunno del 1986, finito il liceo e dopo mesi di battaglie, era finalmente riuscita a convincere i suoi genitori a lasciarla iscrivere alla Freie Universitat. Non era affatto interessata a frequentare quell’università, non aveva neanche deciso se continuare o meno gli studi, ma aveva capito che andare a vivere in casa della sorella della madre, era l’unico modo per rendersi indipendente e respirare quell’aria di libertà tanto agognata. Aveva sentito parlare di quella città così vivace e piena di cose da fare, che il sacrificio di vivere con dei parenti sconosciuti, era il problema minore. Sua madre ovviamente, era convinta che quello fosse un luogo di “perdizione”. Nessuno si prese la briga di andare a prenderla alla stazione ma Carole era troppo euforica per restarci male e nonostante non parlasse una parola di tedesco, non si scoraggiò. Scrisse l’indirizzo su un pezzo di carta e lo mostrò al tassista che farfugliò qualcosa d’incomprensibile e avviò il motore. I suoi zii abitavano in un vecchio palazzo vicino ad Alexanderplatz. L’accoglienza non fu delle più calorose, tanto da farla sentire subito una perfetta estranea. Zia Rose somigliava alla madre, soprattutto nel carattere forte e autoritario. Zio Robert era succube della moglie e aveva l’aria rassegnata di chi è consapevole di dover scontare le colpe di una vita precedente. Avevano avuto due figli, un maschio e una femmina, che si erano sposati molto giovani e avevano cambiato continente, chissà se perché avevano trovato il grande amore o per fuggire lontani dalla madre. Carole, aveva un vago ricordo di questi zii a seguito di una loro visita quando era molto piccola ma non aveva mai conosciuto i suoi cugini.

«E così sei arrivata!» «Sì, zia Rose, ti ringrazio per...» la zia non le lasciò finire la frase. «Non c’è bisogno di chiamarmi zia, Rose è sufficiente!» Zio Robert fece un tentativo di dire qualcosa ma lei lo fulminò con lo sguardo. «E poi aspetta a ringraziarmi, vorrei stabilire subito poche regole ma indispensabili, se vogliamo andare d’accordo.» «Sì zi… sì Rose.» Le poche regole erano una sfilza di divieti e doveri. Dalla doccia una volta la settimana per non consumare troppa acqua calda, perché zia Rose era anche molto avara, all’orario di rientro, all’aiuto nei lavori di casa, perché lei “non faceva la cameriera a nessuno”, all’obbligo di andare a messa insieme a loro, tutte le domeniche mattina. Lei era una delle fondatrici del “Gruppo delle sorelle caritatevoli”, mai nome suonò così inappropriato alle orecchie di Carole, e non poteva avere una nipote miscredente. L’elenco fu molto lungo, ma a un certo punto Carole non l’ascoltò più, convinta che quella convivenza sarebbe durata poco. Nello stesso momento in cui formulò quel pensiero, le sembrò di sentire la voce della madre. “Voi giovani, siete tutti uguali, davanti alla prima difficoltà gettate la spugna, non avete spina dorsale!” Finalmente zia Rose si zittì e le mostrò la sua camera, anche se sarebbe stato più appropriato chiamarlo sgabuzzino. L’arredamento consisteva in un lettino senza spalliera, un vecchio comodino, un piccolo armadio di plastica, probabilmente comprato per l’occasione, e una vecchia e ingombrante macchina per cucire che la zia evidentemente, non sapendo dove metterla, aveva lasciato lì. La cosa che più buttò nello sconforto Carole, fu notare che non c’era neanche una finestra e per lei che adorava stare a contatto con la natura, era la cosa più brutta da digerire. Carole amava disegnare all’aperto, per lei era piacevole e rilassante. Sin da piccola però, non disegnava come tutti i bimbi, casette, alberi e farfalle, lei disegnava tutto ciò che leggeva. Cominciò con le favole per bambini per are ai libri di scuola e man mano che cresceva, cominciò a farlo persino con gli articoli di giornale. Tutto prendeva vita nei suoi disegni!

Alexanderplatz diventò uno dei suoi posti preferiti, era uno dei luoghi d’incontro per i giovani berlinesi che non avevano soldi da spendere nei pub. Ci si sedeva sul bordo della vasca, al centro della piazza, a bere birra, fumare, chiacchierare e fare nuove conoscenze. Erano ati tre mesi da quando era arrivata a Berlino, si era iscritta all’Università e aveva trovato un lavoretto come cameriera ai piani di un albergo. Questo le dava la possibilità di guadagnare qualcosa e soprattutto stare il meno possibile a casa con Rose. Sapeva che i suoi genitori non avrebbero mai accettato l’idea che la loro bambina fe un lavoro così umiliante, ma non aveva potuto fare a meno di dirglielo, poiché zia Rose lo avrebbe fatto comunque. Quando lo disse alla madre, la reazione non fu delle più incoraggianti. «Non ti ho cresciuto per mandarti a pulire le latrine di un albergo, potresti anche prenderti qualche malattia!» Carole era sicura che appena finita la telefonata, la madre si sarebbe fatta venire uno dei suoi svenimenti da manuale. Gli schizzi d’acqua la distolsero dai suoi pensieri. Un ragazzo, un po’ alticcio stava scalando le conchiglie di marmo della fontana, tra le incitazioni dei suoi amici. Si unì alle risate e cominciò a battere le mani insieme agli altri. Quella giornata era proprio cominciata bene, aveva conosciuto un ragazzo, anzi un uomo speciale. Stava pulendo le camere del secondo piano, sulla maniglia della 312 c’era il cartellino con su scritto che si poteva pulire la camera. Le regole erano precise, prima si doveva bussare e segnalare la propria presenza, se non si otteneva nessuna risposta, allora si poteva entrare per riordinare la camera. Carole, visto il cartellino entrò senza bussare. Lo scroscio dell’acqua nel bagno le fece pensare che un altro cliente distratto, avesse lasciato il rubinetto aperto. Dal bagno però, sentì arrivare una voce maschile che cantava “O sole mio!” Carole fece dietrofront e si apprestò a scappare dalla camera. «Ehi, ragazzina, non si entra nella camera di un uomo senza bussare!» Lei rimase paralizzata. Non sapeva se preoccuparsi perché rischiava di perdere il posto per l’errore commesso o perché si trovava davanti a un uomo semi nudo, con mezza faccia coperta dalla schiuma da barba. «Mi spiace signore, ma ho visto l’avviso fuori dalla porta e… »

«Ah, quello lo metto apposta per far cadere in trappola le ragazzine sbadate come te.» Si pulì la faccia e si sistemò l’asciugamano intorno alla vita accennando un sorriso, il più bello che Carole avesse mai visto. Si accese una sigaretta e si mise seduto sul letto, l’asciugamano si spostò pericolosamente e Carole abbassò immediatamente lo sguardo. «Che c’è, non hai mai visto un uomo semi nudo?» «Certo, beh… voglio dire sì… qualche volta!» In verità, aveva avuto brevi relazioni con coetanei brufolosi, di cui si era liberata nel giro di pochissimo tempo. Non aveva una grande stima dei ragazzi della sua età, li trovava noiosi, tutti uguali, non solo nel modo di vestire ma anche nell’atteggiamento e soprattutto nel modo di pensare. Forse per questo motivo, diversamente dalle sue coetanee, non sentiva la necessità di avere a tutti i costi un fidanzato, lo trovava un atteggiamento immaturo, pensava già a quell’età, che se non si riesce a stare bene da soli allora non si è in grado di stare bene neanche con gli altri. Le sue compagne di scuola ovviamente erano gelose. «Certo, per te è facile fare la schizzinosa, tutti ti sbavano dietro!» Era vero, aveva una sfilza di corteggiatori ma nessuno che le avesse mai fatto veramente sentire le farfalle nello stomaco. «Mi chiamo Andrea Moretti e tu?» Anche la sua voce era suadente, per non parlare del fisico asciutto e atletico, nonostante non fosse più un ragazzino. «Piacere, Carole Durand, signore.» «Ti prego, non chiamarmi signore, mi fai sentire un uomo di mezza età, ho solo trentasei anni!» Per una ragazza appena maggiorenne, un uomo di trentasei anni, “è” un uomo di mezz’età. Andrea cominciò a parlare come se fossero vecchi amici. Era appena arrivato a Berlino da Firenze, per un congresso di medicina. Era separato con una figlia minorenne che viveva con lui. Amava viaggiare e divertirsi. «E poi mi piacciono le cose belle, quindi è per questo che domani sera cenerai con me!» Non era un invito, suonava come un ordine. In un’altra situazione un atteggiamento simile, a Carole avrebbe dato parecchio fastidio ma un lieve battito d’ali di farfalla, aveva fatto capolino nel suo stomaco e si sorprese a rispondere un timido: «Va bene!»

Quella notte Carole dormì pochissimo, era agitata ed eccitata allo stesso tempo. Doveva aspettare un giorno intero per rivederlo. «Andrea... Andrea... Andrea», sussurrava il suo nome con varie intonazioni e ogni volta che sentiva la sua voce ripetere quel nome, aveva la sensazione che pur essendo notte, il sole illuminasse quell’angusta cameretta. Avrebbe voluto spostare le lancette dell’orologio per far sì che fosse già il momento di rivederlo. La voce di zia Rose spezzò l’incantesimo «Spegni la luce, è ora di dormire!»

5

Parigi “L’ho ucciso, l’ho ucciso, l’ho ucciso!” Continuava a ripeterselo nella sua mente, forse cercando di provare pentimento o qualcosa che somigliasse più che al dolore, al dispiacere per aver ucciso suo padre, e invece non provava nulla di tutto ciò, aveva solo una gran paura di finire in carcere. Aveva sentito tante volte raccontare storie di ragazzini rinchiusi in stanzette buie, legati con le catene e torturati. Probabilmente erano le minacce che il padre le faceva se avesse raccontato a qualcuno il loro “piccolo segreto” e lei essendo una bambina, ci aveva creduto. Dove poteva andare? Era sola, spaventata e senza un soldo in tasca? Aveva il cuore in gola ed era sfinita, si fermò sul ciglio della strada e finalmente scoppiò in un pianto dirotto.

Eleonore si svegliò di soprassalto nella sua splendida camera da letto con il soffitto trasparente e le vetrate con vista sulla Tour Eiffel. «È stato solo un brutto sogno, stai tranquilla!» La voce di Maria la rassicurò, come accadeva sempre da quando l’aveva conosciuta, parecchi anni prima. Per Eleonore, Maria era la madre che avrebbe desiderato avere. Era affettuosa, comprensiva, sempre disponibile ad ascoltarla, anche quando non era d’accordo con le sue scelte. Il marito l’aveva lasciata per una donna più giovane e l’unica figlia nata da quel breve matrimonio, l’aveva accusata per anni di non essere stata una buona moglie e una brava madre, fino a quando decise di unirsi ad un gruppo rock che girava il mondo in autostop. «Una buona colazione vedrai che ti rimette in sesto!» «No, grazie Maria, prendo solo un caffè e vado a correre.» Maria, con i suoi

quasi ottanta chili, la guardò con comione. «Come riesci a fare tutti quei chilometri a stomaco vuoto è un mistero per me!» Eleonore scese dal letto e s’infilò la sua vestaglia di Chanel. «Il mio stomaco si è allenato per anni a non protestare, un’ora in più non fa nessuna differenza.» «Ely, non riesci proprio a buttarti il ato alle spalle? Guardati intorno, hai tutto quello che chiunque possa desiderare!» «Lo so, ma quanto mi è costato? E non sto parlando delle sedute di psicanalisi. Forse sono un’ingrata nei confronti della vita, ma rinuncerei a tutto se potessi avere quello che conta veramente!» Ma quali erano le cose che contavano davvero per lei? Ci sono momenti nella vita di ogni essere umano, in cui si dà un valore assoluto a qualcosa che a distanza di tempo, non ci interessa più. Probabilmente perché l’abbiamo ottenuta o magari perché viene surclassata da un nuovo desiderio. Eleonore era una donna intelligente, quindi era consapevole di tutto ciò, ne aveva parlato tante volte con il suo psicanalista, ma nonostante tutto era certa di non avere quello che avrebbe potuto renderla davvero felice. Maria sembrava quasi leggere i suoi pensieri. «E cosa vorresti?» Eleonore seguiva una coppia di gabbiani che si libravano nel cielo azzurro, per poi scendere in picchiata su qualche preda da catturare. «Vorrei quello che la maggior parte delle persone ottiene senza nessuna difficoltà.» Maria non capì a cosa si riferisse esattamente ma decise di non chiederglielo. «Vado a fare il caffè.»

Sul set c’era l’euforia e nello stesso tempo la malinconia dell’ultimo giorno di riprese. I tecnici andavano su e giù per sistemare le ultime cose. La scenografa stava mettendo dei fiori freschi sul tavolo sistemato al bordo della piscina, dove i protagonisti avrebbero girato la penultima scena. La costumista stava controllando che le comparse non avessero aggiunto accessori non autorizzati o che avessero appesantito il trucco, cosa che facevano quasi sempre. L’unico ad avere un’aria preoccupata era il direttore delle luci, dovevano sbrigarsi, in cielo c’era qualche nuvola e non potevano rischiare di girare quella scena con una luce

diversa rispetto all’inizio della scena stessa. O peggio ancora, allungare di un altro giorno le riprese. I costi di produzione di quel film, erano particolarmente elevati e inoltre la protagonista doveva partire per il Festival del Cinema di Cannes. Finalmente Eleonore uscì dalla sua più che confortevole roulotte. Indossava un tubino blu cobalto come il colore dei suoi occhi, l’ampia scollatura sulla schiena, metteva in risalto le sue curve perfette, i capelli color miele, erano raccolti in uno chignon che valorizzava il suo collo lungo e sottile. Era perfetta! Nonostante fosse la decima settimana di riprese, quando arrivò sul set l’intera troupe per un attimo si fermò ad ammirarla. A lei piaceva molto l’effetto che suscitava sugli altri, ma nonostante fosse diventata una star a livello internazionale, c’era sempre in lei la paura che tutto questo fosse solo un bellissimo sogno e che prima o poi si sarebbe svegliata singhiozzando sul ciglio di quella strada. «Sei bellissima, come sempre!» Peter le sfiorò il braccio e le allungò i fogli del copione con la scena da girare. «Grazie Peter, ma non ne ho bisogno!» In effetti lei era una perfezionista. Già agli inizi della sua carriera si comportava come una vera professionista, studiava il copione, provava le battute davanti allo specchio, non arrivava mai in ritardo sul set e non faceva sprecare tempo prezioso ripetendo la stessa scena infinite volte, come molte delle sue colleghe. Nonostante tutto, Eleonore spesso si era sentita inadeguata. Non aveva frequentato una scuola di recitazione né tantomeno un’accademia, non era figlia d’arte, non aveva conoscenze in grado di poterla aiutare o di inserirla nei salotti giusti. Eppure, quando a vent’anni, fece il suo primo provino per il ruolo di una fioraia che si limitava a recitare una sola battuta, si sentì subito a suo agio. Aveva un rapporto speciale con la macchina da presa, riusciva, come si dice in gergo cinematografico o televisivo, a “bucare lo schermo”. Qualche volta pensava che forse, se non avesse sofferto così tanto, non avrebbe avuto la grinta giusta per fare questo mestiere. Soprattutto nei film drammatici riusciva a dare il meglio di sé, trasmetteva al pubblico tutta la sofferenza e il dolore richiesti in quelle scene, pur non avendo mai studiato il metodo Stanislavskij. Più volte aveva espresso a Peter la voglia di girare un film più leggero, magari una commedia, ma lui rispondeva sempre: «Tesoro, i produttori non mi hanno

mai proposto questo genere, ma stai tranquilla, prima o poi succederà!» Lo disse, sapendo perfettamente che non sarebbe mai accaduto. La fabbrica del cinema, una volta indovinato un filone che rende quattrini, non lo molla più. Peter aveva visto tanti attori e attrici cadere in disgrazia per la smania di cimentarsi in cose nuove, diverse. La frenesia di dimostrare a se stessi e al pubblico di essere degli artisti completi, da sempre mieteva vittime. Tutto era pronto. «Motore, ciak, azione!»

6

Brest Tess si svegliò di soprassalto, forse a causa delle voci dei genitori che tanto per cambiare, stavano litigando in cucina. Era domenica e per fortuna non doveva andare a scuola. Solitamente era contenta di andarci, non solo perché le piaceva ma anche perché era un modo per stare fuori da quell’inferno e soprattutto lontana dal padre. Da qualche giorno, però, non stava bene, si sentiva fiacca e aveva vomitato un paio di volte. Quella appena trascorsa era stata una brutta notte. Le sembrava di sentire ancora addosso l’alito pesante del padre, tipico di chi ha bevuto troppo. La sera prima, la madre aveva avuto il turno di notte e lui prima di entrare nella sua stanza, aveva aspettato un tempo che secondo Tess era stato interminabile. Quell’attesa, da quando la madre usciva a quando vedeva la maniglia della porta abbassarsi, era angosciante. A volte sperava che lui si sbrigasse per evitare quello stillicidio. Quante volte aveva pensato di raccontare alla madre quello che succedeva quando lei non c’era, ma non sapeva da dove cominciare. Le avrebbe creduto? E se si fosse arrabbiata? Se avesse chiesto spiegazioni a lui, quale sarebbe stata la reazione? Magari avrebbe picchiato Corinne e lei non voleva che la madre soffrisse a causa sua. Che cosa poteva fare? Se ci fosse stata Eleonore… ma lei non c’era più. «La mia bambina, sta dormendo o fa finta di dormire? No, lei mi sta aspettando, non è vero piccola?» Il tono era quello di un padre che racconta una fiaba alla propria bambina per farla addormentare o almeno era quello che immaginava Tess, non avendo mai provato il piacere di vivere quell’emozione. Quando era piccola, le compagne di scuola parlavano di questa o quella favola che i genitori raccontavano loro prima di addormentarsi. «Anche a me raccontano le favole» diceva lei imbronciata. «E chi te le racconta?» «Eleonore!» «E chi è Eleonore, la tua mamma?»

«No, è mia sorella!» «E dov’è tua sorella?» A quella domanda Tess abbassava lo sguardo e rispondeva: «Non lo so.»

Le voci erano sempre più concitate e Tess si tappò le orecchie con le mani per non sentire. Dopo un po’ sollevò le coperte e scese dal letto. Ancora quella maledetta nausea. Aspettò un attimo seduta sul letto, s’infilò le pantofole e andò in cucina. Per fortuna trovò solo la madre, lui era uscito. «Buongiorno mamma.» Corinne notò che la figlia era più pallida del solito. «Ciao piccola, come stai?» «Non mi sento bene, ho voglia di vomitare.» Corinne la guardò e Tess vide che stava piangendo. «Mamma, non sto così male, non preoccuparti, forse ho mangiato qualcosa che mi ha fatto male o magari ho preso l’influenza.» La madre l’abbracciò. «Certo piccola, però domani ti porto dal dottore.» «Allora vengo in ospedale con te?» «No, non andiamo in ospedale, ti porto dal dottor Dubois.» «E chi è il dottor Dubois?» Le chiese Tess. «È un bravo dottore, stai tranquilla.» «Mamma non capisco, perché non possiamo andare in ospedale, tu ci lavori lì?» Corinne le voltò le spalle e mise l’acqua sul fuoco per il tè. «Si fa come dico io!» Tess ci rimase male ma sapeva che quando la madre assumeva quell’atteggiamento non c’era nulla da fare, era come parlare a un muro. Era sempre stata così, ava da momenti di tenerezza a momenti in cui diventava intrattabile, un attimo prima ti guardava con occhi pieni d’amore e un attimo dopo, per gli stessi occhi diventavi trasparente.

Lo studio del dottor Dubois non era lontano dall’ospedale, tanto che durante il tragitto Tess pensò che la madre avesse cambiato idea ma evitò di chiederglielo. La segretaria le fece accomodare nella sala d’aspetto completamente vuota.

C’era un divano marrone con due poltroncine dello stesso colore, un paio di sedie attaccate alla parete e il solito porta riviste con dei giornali, che decine di mani avevano sfogliato prima di quel giorno. Tess era nervosa, non per quello che avrebbe diagnosticato il dottore, ma perché aveva sempre pensato che i medici fossero un po’ come dei maghi. Come facevano sennò a indovinare la malattia che avevi dentro, guardandoti da fuori? Dovevi essere per forza un mago! La cosa che più preoccupava Tess era che il dottore, essendo un mago, potesse scoprire quello che lei cercava disperatamente di nascondere al mondo intero. Il dottor Dubois era calvo, un po’ sovrappeso e con gli occhiali poggiati sulla punta del naso che sembravano sul punto di scivolare da un momento all’altro. Somigliava più a un cartone animato che a un dottore, pensò Tess, e questo la rassicurò un po’. La visitò senza dire una parola. Alla fine scrisse qualcosa sul suo ricettario e porse il foglio alla madre. «Me le porti appena saranno pronte.» Si voltò e uscì dalla stanza, senza neanche salutare. Tess guardò la madre. «Beh, non ha detto niente!» «Si vede che non c’era niente da dire.» Nello stesso momento in cui pronunciò quella frase, pensò che il silenzio del dottor Dubois era stato più eloquente di mille parole. “Che Dio ci aiuti!” Disse fra sé e sé.

Uscite dallo studio del dottor Dubois, Corinne fece una proposta che lasciò Tess a bocca aperta. «Che ne dici se restassimo fuori a pranzo, tu e io sole solette?» Se Tess, fosse stata più grande, avrebbe pensato che il dottore aveva diagnosticato qualche terribile malattia. Ma un po’ per la sua giovane età e un po’ perché la cosa la eccitava parecchio, rispose subito sì, battendo le mani come una bambina cui avevano appena regalato un bellissimo giocattolo. Subito dopo però ci ripensò. «Come facciamo mamma, non possiamo permettercelo!» Corinne le circondò le spalle con un braccio, le fece l’occhiolino e sussurrando le disse: «Non preoccuparti, ho il mio gruzzoletto da parte!» Com’era felice Tess! Non solo per questa rara complicità con la madre ma anche perché non era mai andata a pranzo fuori.

Vicino alla sua scuola c’era un bistrot, dove durante la bella stagione i clienti stavano seduti fuori, mangiando e chiacchierando allegramente. Le donne, secondo Tess, indossavano tutte abiti eleganti e avevano un’aria divertita. A lei piaceva inventarsi una storia in base a chi era seduto ad ogni tavolo. Se c’era una coppia che non parlava, pensava che avessero litigato o che stessero per lasciarsi, se vedeva una donna che rideva eccessivamente, immaginava che il suo accompagnatore la stesse corteggiando o che avesse fatto una battuta sconcia. Quando vedeva delle famigliole al completo diventava triste, per are subito dopo a un altro tavolo e inventarsi un’altra storia. Naturalmente, non andarono in quel bistrot, era troppo costoso per loro. Corinne aveva scelto una piccola osteria vicino al porto. Era stato comunque un giorno speciale, una giornata che a Tess aveva regalato un po’ di felicità.

Dal dottor Dubois, Corinne, ci tornò da sola. «Dottore, non c’è la possibilità che si tratti di un errore? Mia figlia è poco più di una bambina?» Lo sguardo di Dubois si fece duro. «Indubbiamente, qualcuno l’errore l’ha fatto! E comunque per me era chiaro ancor prima di vedere i risultati delle analisi. Sua figlia è incinta!» Corinne era così sconvolta che avrebbe preferito scoprire che la figlia soffrisse di una brutta malattia e che col tempo e le sue cure sarebbe guarita. In quel momento i cattivi pensieri si alternavano nella tua testa e si ritrovò a pensare cose terribili. “Sarebbe stato meglio se avesse perso una gamba in un incidente o se fosse diventata cieca, almeno avrei potuto aiutarla, ma questo no! Dio, perché mi fai questo? Che cosa ho fatto di male?” Per un attimo, Corinne, pensò che Tess potesse avere avuto un rapporto con un suo coetaneo, ma in cuor suo sapeva che non era così. Sarebbe stato, comunque, un enorme problema per la giovane età della figlia, ma questa era proprio una tragedia, da qualunque punto di vista la si guardasse. Odiava se stessa, il marito, la sua miserabile vita. Una figlia era andata via e non aveva più avuto sue notizie, non sapeva se fosse viva o morta, se stava bene o se anche lei stesse conducendo una vita di stenti e di dolore. E adesso Tess era incinta! Una bambina che porta in grembo non il frutto di un errore adolescenziale, ma l’orrore a cui si era sempre rifiutata di credere e soprattutto di interrompere.

“È colpa mia, è solo colpa mia! Sono una debole, una codarda e ho rovinato non solo la mia vita, ma anche quella delle mie figlie e adesso c’è un’altra creatura che pagherà in un modo o nell’altro, le conseguenze di questa mia vigliaccheria!” Si sentiva la testa scoppiare e continuava a camminare verso casa, cercando di ritardarne l’arrivo. Non sapeva come dirlo a Tess, come avrebbe reagito alla notizia che aspettava un bambino? Avrebbe deciso di tenerlo oppure di abortire? Come poteva, una bambina, prendere una decisione così importante che avrebbe segnato la sua vita per sempre? No, toccava a lei consigliarle la cosa giusta! Ma qual era la cosa giusta? Lei non lo sapeva, non era nella posizione di poter dare un consiglio come farebbe qualunque altra madre. Lei non avrebbe neanche meritato di diventare madre, questo è quello che pensava in quel momento. E poi c’era lui! Il suo odio era così profondo, che se solo ne avesse avuto il coraggio, l’avrebbe ucciso. Non sopportava l’idea di continuare a vivere sotto lo stesso tetto con quell’essere ignobile che lei aveva amato per tanti anni e che aveva rovinato la vita di tutta la famiglia. Per la prima volta doveva fare la cosa giusta, lo doveva a lei ma soprattutto alle sue figlie. Ancora una volta, si chiese quale fosse la cosa giusta da fare per liberarsi di quell’uomo, evitando possibilmente uno scandalo, che avrebbe inevitabilmente coinvolto anche Tess. Vivevano pur sempre in un paese ed erano i primi anni settanta.

7

Berlino Era una bella giornata piena di sole e questo mise ancor più di buon umore Carole, se mai ce ne fosse stato bisogno. Nonostante avesse trascorso una notte inquieta per via dell’appuntamento con Andrea, si sentiva davvero bene. Entrò in cucina e vide zia Rose che trafficava ai fornelli. «Buongiorno, Rose!» Carole non capiva perché la zia volesse essere chiamata Rose e non zia Rose, solitamente sono le nonne che per paura di sembrare più vecchie, vogliono che i nipoti le chiamino per nome, in ogni caso, per quieto vivere, si atteneva alle regole. Rose non la degnò di uno sguardo. «Questa cucina è uno schifo, se in questa casa non ci fossi io!..» Carole capì l’antifona e non volendo farsi rovinare la giornata dall’umore della zia si affrettò a rassicurarla. «Ci penso io Rose, domani la pulisco.» «Certo, domani! Voi giovani siete tutti uguali, prendete sempre tempo, nella speranza che qualcuno alla fine faccia le cose al posto vostro, ma io non ci casco, sai? Io non sono tua madre, nel caso non te ne fossi accorta!» Carole si era abituata ormai, a questi atteggiamenti ostili della zia, sapeva che era inutile discutere e tentò un altro tipo di approccio. «Tu somigli alla mamma sai, Rose?» Zia Rose la guardò cercando di capire se fosse un complimento oppure no. Non lo capì. «Il sangue non mente». Carole cominciò a prepararsi la colazione. «Qualche volta sì, io non credo di somigliare alla mamma, né fisicamente e men che meno come carattere.» Zia Rose fece una risatina. «Lo credo bene!» «Perché?» Le chiese Carole. Nessuna delle due si era accorta della presenza di zio Robert. «Tua zia, spesso apre la bocca solo per darle fiato.» Carole era sbalordita, si era fatta un’altra idea riguardo al carattere dello zio, sempre silenzioso, sottomesso e soprattutto

sempre attento a non contraddire la moglie. Sembravano la fotocopia dei suoi genitori, anche se in verità, la madre era molto meglio della zia. Pensò che a questo punto Rose si sarebbe scatenata in una serie d’improperi nei confronti del marito, e invece, non accadde assolutamente nulla. Zia Rose, fece dietrofront e uscì dalla cucina. Incredibile!!! Carole non riusciva a credere alla scena cui aveva appena assistito, ma da quel momento la stima nei confronti di zio Robert era notevolmente cresciuta, pur non capendo perché avesse corso il rischio di farsi lanciare qualche stoviglia. Fecero colazione in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri.

Per Carole era il suo giorno di riposo dal lavoro e decise di andare all’università, anche se non era affatto convinta di proseguire gli studi. Lei amava disegnare e più ava il tempo, più si convinceva che non c’era nessun’altra cosa che avrebbe voluto fare nella vita. «Che razza di lavoro potresti fare disegnando?» Le aveva detto la madre al telefono, quando Carole le aveva accennato che questo per lei, non era più un gioco ma era diventata una vera e propria ione. «Mamma, ci sono tanti lavori che puoi fare se sai disegnare. Dalla stilista di moda alla scenografa, potrei persino lavorare nel mondo della pubblicità, ma non basta la ione, devi imparare anche le tecniche se vuoi farlo come lavoro.» «Mi stai dicendo che vuoi lasciare l’università? No perché se è così, non c’è motivo che tu resti lì. Anzi, sarei molto più contenta se tu tornassi a casa, anche perché tuo padre, da quando sei andata via è diventato ancora più musone.» Ripensando a quella telefonata, Carole sorrise pensando a quel pover’uomo di suo padre che doveva sorbirsi tutte le lagne della moglie senza più il suo sostegno. Se avessero saputo che lei non era per niente interessata a studiare a Berlino ma che era stato un semplice escamotage per allontanarsi da casa, ci sarebbero senz’altro rimasti molto male. Si sentiva in colpa nei confronti di entrambi. Non poteva continuare a mentire ma tornare a casa era un po’ come gettare la spugna. Quella giornata, le sembrò lunghissima. Guardava continuamente l’orologio che non voleva collaborare. Le lancette si muovevano a ritmo lentissimo, si ritrovò a contare i secondi...uno, due, tre... sessanta, era ato solo un minuto! Quanti

secondi dovevano are fino alle sette di quella sera, momento in cui avrebbe rivisto Andrea? Tanti, troppi, erano solo le due del pomeriggio. Doveva distrarsi, ingannare il tempo. Poteva andare a comprarsi qualcosa di carino per la serata o magari andare dal parrucchiere. No meglio di no, zia Rose le avrebbe fatto un sacco di domande e tirchia com’era, l’avrebbe sicuramente accusata di buttare via i soldi per cose inutili o peggio ancora, avrebbe potuto sospettare qualcosa e dirlo alla madre. Carole, come tutti i suoi coetanei, pensava che essere giovani significasse avere solo svantaggi. Quando sei adolescente, non vedi l’ora di compiere diciotto anni pensando che quello sia il traguardo che ti consentirà di fare tutto ciò che ti pare. Poi ti rendi conto che non è affatto così perché sei costretta a chiedere il consenso ai tuoi genitori per la maggior parte delle cose che vuoi fare, anche quando pensi che riguarda solo la tua vita e il tuo futuro. Forse sposandoti, puoi finalmente raggiungere quell’indipendenza tanto agognata? Macché! “Non tutti i mariti sono come quel sant’uomo di mio padre, magari rischi di cadere dalla padella nella brace. Beh, tanto io non mi sposo! Ma se non lo faccio quando sarò completamente libera? Mah!» Con questo quesito decise di andare a casa e dare inizio ai preparativi per incontrare il suo principe azzurro, come volevasi dimostrare.

La casa era vuota per fortuna, pensò Carole. Chissà cos’era successo dopo quella performance a sorpresa di zio Robert, non avrebbe voluto essere nei suoi panni. I preparativi furono lunghi e meticolosi e dopo aver provato tutto il guardaroba con le possibili variabili, decise di indossare un paio di jeans e una camicia. Non rinunciò, però, ai tacchi che davano sempre quel tocco di femminilità che non guasta mai. Qualche giorno prima, aveva letto su una rivista femminile, che al primo appuntamento è meglio non agghindarsi troppo per evitare che l’altro pensi che lo hai fatto per lui. “E per chi sennò?” Pensò Carole. Non indossare qualcosa di troppo sexy, altrimenti lui crede che tu sia già pronta per andarci a letto, però bisogna evitare ad ogni costo di sembrare sciatte. Si guardò allo specchio per controllare se avesse rispettato tutte le regole del primo incontro riguardo al trucco e all’abbigliamento e si ritenne più o meno

soddisfatta.

8

Parigi Finite le riprese del film, Eleonore aveva un paio di giorni liberi prima di partire per Cannes, A parte una seduta con il suo psicanalista, aveva deciso di non vedere nessuno. All’inizio non era per niente convinta che quelle sedute fossero utili a fare emergere chissà quali traumi nascosti nella sua psiche, poiché ricordava benissimo tutto quello che era accaduto nella sua vita, ma era un modo per potersi rilassare ed essere se stessa.

La prima volta che incontrò Claude Lemaire risaliva a parecchi anni prima. Peter che era già il suo agente, le aveva consigliato di fare qualche seduta da lui, non tanto perché avesse capito che Eleonore potesse trarne benefici dal punto di vista psicologico, ma andare da “un professionista della mente”, come li chiamava lui, andava di moda. «Tesoro, tutti gli artisti famosi fanno sedute di psicanalisi e anche se non sei ancora una star, vedrai che sarà un buon investimento per te.» Eleonore non credeva alle sue orecchie. «Ma che razza di moda è questa? Voi siete tutti matti!» «Guarda che ormai anche tu fai parte di questo mondo, hai già fatto un film, hai avuto qualche foto sui giornali e stanno arrivando alcune proposte da prendere seriamente in considerazione!» Eleonore si accese una sigaretta. «Io questo mondo non lo capisco proprio, è un concentrato di tutto ciò che detesto. Devi tirare la cocaina sennò ti dicono che sei asociale, devi fumare l’erba o ti etichettano come una provinciale, se non indossi gli abiti di quello stilista, non fai tendenza, non puoi dire quello che pensi davvero perché rischi la carriera...e adesso pure la psicanalisi? A me non va di raccontare la mia vita ad un estraneo!» Peter la guardò come si osserva una bambina che sta facendo i capricci. «Oh, quante storie! Inventati qualcosa che possa piacere al pubblico, qualcosa che se

mai venisse fuori, il che è molto probabile, possa aggiungere fascino al tuo personaggio, sei o non sei un’attrice?» Lei non lo stava più ascoltando. Aveva già sentito quella frase e non le piaceva affatto. Una cosa era recitare un copione e tutt’altra cosa era farlo nella vita. Peter stava dandole dei consigli in buona fede o era come tutti gli altri, un freddo calcolatore che pensava solo a fare quattrini e a coltivare il suo insano egoismo, fregandosene dei sentimenti del suo prossimo?

Una settimana dopo, Eleonore andò al suo primo appuntamento con il dottor Claude Lemaire. Prese un taxi e si fece portare in Saint Germain des Pres, tutto sommato, poteva essere l’occasione per dare un’occhiata ai tanti negozietti della zona in cui lei amava soffermarsi. Contrariamente all’opinione che si era fatta, lo studio di Lemaire era un attico luminoso, arredato in maniera sobria ed elegante. In verità si era sbagliata anche sulla tipologia del dottore, tanto che quando la segretaria l’accompagnò nel suo studio, rimase piacevolmente sorpresa. Era sulla quarantina, capelli neri con una spruzzatina di bianco sulle basette, praticava senz’altro qualche sport, denti bianchissimi e sorriso da ragazzino furbetto. Non aveva un camice bianco come aveva immaginato Eleonore, ma indossava jeans e camicia a righine azzurre con le maniche arrotolate. La mise subito a suo agio, sedendosi accanto a lei. «Puoi anche emettere qualche suono se ti fa piacere, giuro che non prenderò appunti, né ti farò stendere sul lettino!» «Mi scusi, sono un po’ disorientata, cioè..» lui rise. «Sì, faccio sempre questo effetto alle donne e comunque, per favore, dammi del tu, io l’ho già fatto, spero non ti dispiaccia.» A lei non dispiaceva affatto, anzi, la trovò la cosa più naturale del mondo. Col tempo, durante quegli incontri si ritrovò a parlare di sé come non avrebbe mai immaginato di poter fare con un uomo e piano piano, si rese conto che quelle sedute erano un vero e proprio toccasana per lei. Oltretutto, con Claude qualche volta si divertiva, perché era anche spiritoso, il che non guastava affatto.

Eleonore non ricordava più quando cominciò a raccontargli della sua adolescenza, della madre che non riusciva a perdonare perché complice, secondo lei, del comportamento del padre. Gli parlò di Tess verso la quale aveva dei grandi sensi di colpa. Pensava che tutte le sofferenze vissute dopo che era andata via di casa, fossero una punizione divina per aver lasciato la sorella nelle mani di quel bastardo. «Mi hai detto che l’hai ucciso!» Eleonore, si sistemò meglio sulla poltroncina. «Non credo, non lo so, a volte penso di sì, altre volte no. Ci sono momenti in cui spero che sia morto perché questo vorrebbe dire che non ha più potuto fare del male a Tess e... mi... mi fa sentire meglio. Lo so è tremendo, ma non riesco proprio a perdonarlo e…» Claude la interruppe prendendole la mano. «Ehi, cosa vuoi fare, rubarmi il mestiere?» Lui era così, sapeva sempre come strapparle un sorriso se il momento per lei diventava troppo imbarazzante o di grande sofferenza. A volte c’erano dei lunghi silenzi che lui “ascoltava” con pazienza. Poi lei ricominciava a raccontare.

«Quella sera ho corso fino a sentire scoppiare i miei polmoni, mi faceva male la gola per lo sforzo ma avevo paura che mio padre mi seguisse. Non temevo le punizioni che mi avrebbe sicuramente inflitto, avevo paura di tornare a casa, non volevo tornare a casa. Correvo perché avevo timore che mi venisse a mancare il coraggio di lasciare Tess nelle mani di quel maiale.» Fece una piccola pausa e poi riprese. «Si fermò un camion con un tizio che voleva offrirmi un aggio, non mi sono fidata e ho continuato a camminare, cominciavo a sentire freddo, era buio pesto, mi facevano male le gambe e cominciai a piangere, ero stremata. Poi si fermò un’auto con una coppia, mi offrirono un aggio e io accettai. Mi chiesero dove fossi diretta, mi fecero altre domande che adesso non ricordo bene ma che in quel momento mi sembrarono innocue.» Eleonore deglutì, come se avesse difficoltà a parlare. Claude le chiese se voleva fare una pausa ma lei non lo ascoltò o forse lo ignorò volutamente, sapeva che se si fosse fermata, probabilmente, non avrebbe più avuto il coraggio di andare avanti. «La radio trasmetteva “Georgia on my mind” e io scoprii dopo parecchio tempo,

perché detestavo Ray Charles. Sembrava una normale coppia di fidanzati o forse erano sposati pensai, cantavano, ridevano, c’era complicità nei loro sguardi. Mi offrirono dell’acqua o una bibita, non ricordo, avevo la gola secca e bevvi tutto d’un fiato. Dopo un po’ mi addormentai, con la piacevole sensazione che qualcuno si stesse prendendo cura di me. Quando mi risvegliai, non so dopo quanto tempo, mi guardai intorno e mi resi conto che non ero più in macchina. Avevo un gran mal di testa e la bocca amara. Ero su un bel letto comodo, con lenzuola di seta, in una grande camera da letto. C’era un armadio con le ante a specchio, un piccolo tavolo con una poltroncina in pelle, tappeti e una tenda pesante che immaginai, servisse a non far are la luce esterna. L’insieme, però, non era gradevole né tantomeno elegante, anzi era piuttosto pacchiano, con dei colori forti su cui prevaleva soprattutto il rosso. Un colore che quando ero piccola amavo e che adesso non mi piace per niente. Nel momento in cui decisi di alzarmi dal letto, si aprì la porta, non avevo sentito bussare. Entrò lei con un vassoio per la colazione. In vita mia, non avevo mai visto tanta buona roba da mangiare ed era tutta per me! È un sogno, pensai, non poteva essere vero. Forse era una fata uscita da una delle fiabe che raccontavo a Tess. Non ricordavo neanche il nome di quella donna, o forse non me l’aveva detto.»

Il tempo della seduta era terminato. Non che Claude fosse fiscale in merito, anzi, spesso la lasciava continuare ben oltre la fine dell’ora, ma aveva un altro appuntamento e non poteva far aspettare il paziente successivo. Almeno in questo, cercava di salvaguardare la propria professionalità. Si rendeva conto che nella sua posizione, non era corretto farsi coinvolgere da quella ragazza e che la sua voglia di rivederla andava al di là del lavoro. Ma non poteva farci nulla, provava per Eleonore sentimenti che pensava di non poter provare mai più nella sua vita, pur essendo consapevole che lui era un uomo, e lei poco più che una ragazzina. «Scusa, Eleonore, ho un altro paziente in attesa.» Lei lo guardò come se si fosse appena svegliata e avesse scoperto un estraneo nella propria camera da letto. Quella frase in quel momento le suonò inopportuna, la percepì come se lui volesse congedarsi da lei perché aveva cose più importanti da fare. Si alzò immediatamente. «Scusami, tolgo subito il disturbo! Anzi, dal momento che non ho guardato l’orologio, ti prego di mettermi in conto eventuali extra!» Fece per

andar via, ma lui la trattenne per un braccio. «Ti prego, Eleonore, non prenderla così. Non immagini quanta voglia ho di rimanere con te ma adesso non è proprio possibile.» Tentò di abbracciarla ma lei si divincolò furiosamente. «Non mi toccare!» Improvvisamente, Claude vide davanti a sé un’altra persona, la ragazza dolce, timida, fragile e spaventata di cui si stava innamorando, aveva lo sguardo di un killer assetato di sangue. Qualunque persona di buon senso l’avrebbe lasciata andare, lui invece l’attirò a sé e la tenne stretta tra le sue braccia. Eleonore fu colta alla sprovvista da quella reazione e dopo un brevissimo tentativo di staccarsi da lui, scoppiò in un pianto dirotto. Lui continuò a tenerla stretta e cominciò a carezzarle la testa. «Ssst, è tutto ok, stai tranquilla, sono qui... scusami... non volevo farti piangere, te lo giuro!» Mentre si abbandonava sul petto del suo psicanalista, Eleonore pensò che se fosse stata la scena di un film, a questo punto lui l’avrebbe guardata negli occhi, le avrebbe detto: “ti amo” e si sarebbero uniti in un bacio lungo e apionato. Quando Claude, sentì che la pressione si era allentata, si staccò da lei. «Va meglio?» Eleonore si asciugò le lacrime con i palmi delle mani. «Sì, anche se mi sento molto stupida. Scusami, è un periodo molto stressante per me... il lavoro mi consuma tutte le energie e con Peter che non mi dà tregua, faccio fatica a...» Claude la bloccò. «Ehi, non sei affatto stupida e non devi giustificarti di niente, non con me, mai! Intesi?» Eleonore sorrise. «Va bene, il dottore sei tu, no?» Prese la borsa, si allungò verso di lui e lo baciò sulla guancia. «Grazie!» Claude rimase a guardare la porta che Eleonore aveva chiuso alle sue spalle e già le mancava. Si ravviò i capelli e cominciò a srotolare le maniche della camicia, molto lentamente, come se stesse cercando la concentrazione giusta prima di affrontare il paziente successivo. Alzò il telefono, spinse un tasto e si mise in comunicazione con la sua segretaria. «Viviane, fai entrare.»

9

Brest Tess era quasi al quarto mese di gravidanza e la sua nausea non voleva saperne di lasciarla in pace. Mangiava poco ed era perennemente stanca, tanto che era stata costretta a lasciare la scuola, suo malgrado. Aveva perso quel colorito roseo, tipico degli adolescenti e la madre era sempre più preoccupata. Il Dottor Dubois l’aveva messa in guardia al riguardo. «A questa età, uno dei pericoli maggiori della gravidanza, potrebbe essere una forte anemia.»

Due mesi prima, quando la madre le disse che era incinta, Tess, ebbe una reazione inaspettata. Non si spaventò, non pianse, non si arrabbiò, guardò la madre e sorrise. «Avrò un bambino tutto mio?» Come se fosse la cosa più bella e naturale del mondo! Corinne capì subito che Tess avrebbe tenuto il bambino e quella gioia negli occhi della figlia le confermò che nonostante la sua giovane età, sarebbe stata una splendida madre, contrariamente a lei. Cercò, tuttavia, di farla ragionare, più che altro farle capire che non era un gioco, non si trattava di una bambola o di un gattino, ma di un essere umano che sarebbe dipeso totalmente da lei. Avrebbe dovuto rinunciare a tante cose a cominciare dalla scuola. Questo era un argomento, secondo Corinne, che poteva far leva sulla figlia. Tess, infatti, ebbe un attimo di esitazione. «Cosa dovrei fare, secondo te?» Quella era la domanda che Corinne temeva ma non poteva certo esimersi dal risponderle. La soluzione cui lei aveva pensato le faceva orrore ma sarebbe stata, secondo lei, la cosa meno pericolosa per la figlia. Il dottor Dubois le aveva detto chiaramente: «Anche se tutto andasse bene durante la gravidanza, ci sarebbe sempre il rischio del parto, a tredici anni non ha ancora terminato lo sviluppo e non è escluso che il bambino non ce la possa fare.» Quelle parole suonarono alle orecchie di Corinne come una condanna. Tess avrebbe rischiato la sua vita per

portare avanti la gravidanza, ma c’era comunque la possibilità di perdere il suo bambino. Non era giusto! Pensava che Dio avesse deciso di punirla, ancora una volta. “È proprio vero che le colpe dei genitori, spesso, ricadono sui figli, affinché la sofferenza sia ancora più grande”, pensò. Abbracciò la figlia e la tenne stretta sul petto cercando le parole giuste per rispondere alla sua domanda. Negli ultimi tempi, aveva dovuto affrontare più di una prova, ma questa senza dubbio era la più difficile poiché c’era in gioco più di una vita.

Dopo che il dottor Dubois le disse che Tess era incinta, tornò a casa col preciso intento di liberarsi una volta per tutte del “mostro”. La prima cosa a cui pensò fu quella che qualunque madre arrabbiata e spinta dall’odio avrebbe fatto e cioè privarlo della sua sciagurata vita. Il modo le sembrò perfino troppo semplice. Lavorava in ospedale e per lei non sarebbe stato difficile procurarsi della morfina che sciolta nell’alcol, di cui lui abusava, sarebbe stata senz’altro letale. In una piccola cittadina come Brest, in molti sapevano che il marito era un ubriacone, un infarto sarebbe stato la cosa più logica cui pensare, ma c’era l’eventualità che la polizia volesse vederci chiaro, visto il precedente dell’altra figlia.

Quando Eleonore andò via da casa, lei e il marito, dovettero fare una denuncia di scomparsa dal momento che si trattava di una minorenne. «Se le accadesse qualcosa di brutto, voi genitori sareste comunque responsabili, anche se la ragazza è andata via di sua spontanea volontà, quindi vi consigliamo di fare una denuncia.» Questo avevano detto al posto di polizia e comunque, gli agenti non erano sembrati affatto convinti delle motivazioni confuse e farfugliate per cui, secondo i genitori, la ragazza in questione si era allontanata. Corinne, si ricordava benissimo quel giorno, oltre al dolore per la figlia che era andata via, si era vergognata per tutte quelle domande sulla famiglia. Quegli sguardi d’intesa tra gli agenti di polizia, l’avevano fatta sentire colpevole più di quanto già non si sentisse, anche senza il loro contributo. Pensò che con quel precedente, se la polizia avesse sospettato qualcosa e appurato la verità, l’avrebbero sbattuta in carcere. Non era quell’eventualità a preoccuparla, quanto

il fatto di abbandonare Tess al suo destino con un bambino da tirare su da sola. Non ce l’avrebbe mai fatta. Accantonato il progetto di uccidere il marito, almeno per il momento, vedeva altre due possibilità. Poteva denunciarlo, creando uno scandalo che avrebbe distrutto definitivamente la sua vita e quella di Tess, con la paura che una volta fuori la situazione sarebbe degenerata. Oppure minacciare di farlo, a patto che se ne andasse per non tornare mai più in quella casa. In questo caso, il rischio era che lui l’ammazzasse di botte, ma sarebbe andato in galera in ogni caso.

Tess tentò di staccarsi dall’abbraccio della madre. «Mamma non mi hai risposto. Cosa dovrei fare secondo te?» Corinne invitò la figlia a mettersi seduta di fronte a lei, tirò un lungo respiro e cominciò a parlare. «Tess, ti dirò quello che penso sia meglio per te, ma non sono sicura che sia la cosa più giusta da farsi. Per quanto sia stata una pessima madre, sono sicura di amarti con tutto il mio cuore, così come amo Eleonore e perciò desidero solo il tuo bene. Qualunque cosa deciderai ti prometto che non ti lascerò sola.» Fece una lunga pausa. «Mettere al mondo un figlio per ogni donna di qualunque età, di qualunque ceto sociale e a prescindere dal modo in cui... rimane incinta, ha un valore diverso. Vedi, ci sono donne che hanno un innato istinto materno, quelle non hanno mai dubbi su cosa fare. Altre sono semplicemente egoiste, pensano a gratificare se stesse, sono convinte che per essere una vera donna, devi necessariamente fare un figlio. Spesso, non si chiedono cosa realmente possano offrire a una creatura che magari avrebbero fatto meglio a non mettere al mondo. Tante donne invece, decidono di avere un figlio semplicemente perché è il o successivo al matrimonio, senza chiedersi perché, lo fanno tutte, quindi è così che deve andare!» Tess stava riflettendo su quelle parole. «Tu ci hai volute, mamma?» Corinne decise di non mentirle, quello era un momento in cui doveva essere più sincera possibile, se voleva davvero aiutare la figlia. «Quando sono rimasta incinta di tua sorella, io e tuo padre ci amavamo e quando due persone si amano, un figlio è una sorta di sigillo dell’amore, anche se non funziona sempre così e io ne sono la prova vivente.» «Vuoi dire che è stata colpa di mia sorella se tu e... lui, non vi amate più?»

Per una frazione di secondo Corinne pensò di risponderle che... sì, qualche volta aveva creduto che fosse stata proprio la nascita di Eleonore a spezzare l’incantesimo. Decise di non farlo, si vergognava troppo. «No, certo che no!» Disse con troppa veemenza. «E io?» La incalzò Tess. Corinne cercò di prendere tempo. Questo era uno di quei momenti in cui avrebbe preferito risponderle con una delle frasi tipiche che utilizzava quando voleva cambiare argomento. Non lo fece. «Tess, tu ed Eleonore siete la cosa più bella che mi potesse capitare nella vita, ma se avessi saputo tutto quello che sarebbe successo, forse... avrei fatto bene a non farvi venire al mondo.» «Mamma io non sto parlando di adesso, ti ho chiesto se tu mi hai desiderato come è stato per Eleonore oppure no?» In alcuni momenti Tess sembrava una bambina e in altri ragionava come una persona più che matura, mettendo con le spalle al muro chiunque avesse di fronte, con domande o ragionamenti che spiazzavano completamente. Corinne, ancora una volta, nonostante le sue buone intenzioni, aveva cercato di svicolare ma aveva fallito e quindi riprese a parlare, decisa a dire la verità alla figlia, anche a costo di sembrarle brutale. «Quando mi sono accorta di aspettare te, non feci i salti di gioia, erano ati dieci anni dalla nascita di tua sorella e con l’inferno che c’era già in casa, il buon senso mi suggeriva che non sarebbe stato il caso di mettere al mondo un’altra creatura. Ho pensato seriamente di abortire perché dentro di me sapevo che ti avrei resa infelice e purtroppo, avevo ragione. Non sai quanto ci ho pensato su, quanto ho pianto, quanto ho cercato di convincermi che forse sarebbe accaduto un miracolo e tutto sarebbe andato bene. Ma ho imparato che i miracoli non esistono e che tutte le decisioni che prendiamo hanno una conseguenza. È solo colpa o merito delle nostre scelte quello che accade dopo, non c’è nessun miracolo! Nonostante tutto, nonostante fossi certa che stavo per fare la cosa sbagliata, ho deciso di darti la vita.» Tess, l’aveva ascoltata senza fiatare. Non è facile per nessuno e tantomeno per una ragazzina di neanche tredici anni, sentirsi dire che tua madre, non solo non ti ha desiderata ma ha persino pensato di toglierti la vita! Guardò il pavimento vicino ai suoi piedi e cominciò a guardare una piccola formica che andava avanti e indietro forsennatamente, come se cercasse la strada giusta da percorrere. Era sola e questo era strano, le formiche non stanno mai da sole, pensò Tess.

Lei si sentiva esattamente come quella piccola formica. Allungò il piede e la schiacciò.

10

Berlino Carole, prese la metro e si avviò verso l’albergo dove lavorava. L’appuntamento con Andrea era in un bar a un centinaio di metri da lì. Lui le aveva detto che non era opportuno per lei, farsi vedere dal personale dell’albergo con un cliente, poteva dare adito a pettegolezzi. Carole aveva apprezzato questa forma di protezione nei suoi confronti. Era in anticipo sull’ora dell’appuntamento. Aveva letto, sempre su quella rivista, che una donna soprattutto al primo incontro, non dovrebbe mai arrivare per prima. “Al diavolo tutte queste regole” pensò. Ormai era lì, quindi sedette a un tavolino, ordinò un succo di frutta e cominciò a fantasticare su come sarebbe andato quell’incontro. Aveva appena bevuto il primo sorso, quando il rombo di un motore la distolse dalle sue riflessioni. Da una Lotus nera scese Andrea, l’afferrò per un braccio, aprì lo sportello del eggero, la fece salire e ripartì come un razzo ridendosela alla grande. Carole, non fece in tempo a comprendere ciò che stava accadendo, riuscì solo a balbettare: «Non ho pagato il mio succo!» Andrea la guardò facendole il verso. «Non ha pagato il suo succo, povera piccola! Non ti preoccupare tesoro, domani ci compriamo tutto il bar!» Carole non sapeva se ridere insieme a lui per quello che sembrava un gioco nuovo ed eccitante o preoccuparsi. Non solo per la velocità con cui Andrea sfrecciava tra le auto, ma soprattutto perché sembrava un’altra persona. Il giorno prima in albergo era così pacato, affascinante, misurato in tutti i suoi gesti e adesso era talmente su di giri da sembrare ubriaco. Per tutto il tragitto fino al ristorante, che per fortuna era a pochi chilometri dal luogo dell’appuntamento, Andrea continuò a fare lo sbruffone con battutacce e pacche sulla coscia di Carole, che continuava a rimanere zitta e immobile. Lo guardava e si convinceva sempre più che uno spiritello burlone si fosse impossessato di lui. Quando entrarono al ristorante, Andrea tornò l’uomo che aveva conosciuto il giorno prima in quella camera d’albergo, padrone di sé, galante, impeccabile.

Carole era completamente disorientata. Fecero le ordinazioni e lui le propose un brindisi. «Alla mia piccola donna, che spero mi perdonerà per essermi divertito nel prenderla un po’ in giro!» Carole alzò il bicchiere come un automa. «Non capisco.» Lui le sorrise. «Diciamo che considerando la differenza di età che c’è tra noi due, non volevo che tu pensassi che io sia noioso. Se voglio, mi so divertire quanto e forse più di un ragazzino della tua età e poi volevo scoprire quanto potremmo sarcela insieme... ma ho la sensazione che non ti sia divertita granché.» Carole, da una parte era sollevata da questa dichiarazione, dall’altra non era per niente convinta che quello fosse un gioco divertente, neanche fossero stati vecchi amici, figuriamoci poi al primo incontro! Per le donne si scrivevano pagine e pagine sulle tante regole da seguire al primo appuntamento, mentre gli uomini si potevano comportare come degli invasati ed era tutto regolare. «Non sono una musona, se è questo che intendi... è che... non ti conosco abbastanza per capire che tu... ti diverti così.» Bevve un sorso di vino. «A proposito dove l’hai presa quella macchina stupenda con la quale abbiamo rischiato di schiantarci un paio di volte?» Lui schioccò leggermente la lingua sul palato, gustandosi anche lui un sorso di vino. «Piccola, ho imparato che il bello della vita è vivere alla giornata divertendosi il più possibile. E se questo vuol dire schiantarsi con una Lotus che costa un occhio della testa accanto a uno splendore di ragazza come te, beh, sarei felice di morire anche subito! «Comunque stai tranquilla, sono un pilota provetto.» «Meno male, non mi va l’idea di morire così giovane, ho ancora tante cose da fare.» Il cameriere interruppe la conversazione portando due zuppe con i canederli. «E quali sono i tuoi progetti, a parte pulire le camere di un albergo e accettare l’invito a cena dei clienti?» Carole fece fatica a non spalancare la bocca per la sorpresa. «Io non accetto inviti a cena da chicchessia!» «Con me l’hai fatto! O forse vorresti farmi credere che questa è la prima volta? Perché se è così, ne sono onorato, mademoiselle!» Carole era sempre più confusa, Andrea le aveva appena detto una cosa terribile e un attimo dopo l’aveva gratificata, facendola sentire importante. Tutta la serata andò così, con alti e bassi. Quando Andrea diceva qualcosa di

spiacevole lei s’irrigidiva, lui la prendeva in giro dicendo che stava scherzando o che lei non aveva capito. Carole notò che mai una volta Andrea aveva detto che si era spiegato male. In tutto il suo fantasticare su quel primo incontro non aveva certo immaginato una serata così difficile. Alla fine della cena lui l’accompagnò a casa, fermò la macchina, scese per aprire lo sportello del eggero e le diede un bacio sulla fronte. «Buonanotte!» Risalì al posto di guida e sfrecciò via. Carole rimase imbambolata a guardare la Lotus che si allontanava. “Che serata!” Infilò le chiavi nella serratura ed entrò nell’androne del palazzo di casa.

Quella notte dormì anche meno della precedente ma per motivi diversi. La notte prima era agitata ed eccitata per l’appuntamento con Andrea, adesso non riusciva a prendere sonno ripensando a quel suo strano comportamento, non ultimo il modo in cui l’aveva salutata. Non si aspettava certo che lui le saltasse addosso, ma quel saluto le era sembrato particolarmente freddo e distaccato, come se non vedesse l’ora di congedarsi da lei. In alcuni momenti sentiva una vocina dentro di sé che le diceva di lasciar perdere quella storia, ma prevalevano più quelli in cui si sentiva sopraffatta dallo charme di quell’uomo, così diverso dai ragazzi che aveva frequentato. “Quando lo rivedrò?” Si chiese. “Se, lo rivedrò! Domani lascerò un biglietto sotto la porta della sua camera, anzi no, aspetto che mi cerchi lui”. Guardò l’ora, erano ati appena dieci minuti dall’ultima volta che l’aveva fatto, erano le tre del mattino e di dormire non se ne parlava proprio. “Domani devo assolutamente chiamare Franco, lui saprà cosa consigliarmi”. Con Franco, si erano conosciuti all’università, lui veniva da un paesino della Sicilia, di cui Carole non ricordava mai il nome e viveva a Berlino da un anno. Era stato amore a prima vista, non in quel senso, poiché Franco era inequivocabilmente gay, ma da subito c’era stata un’attrazione reciproca e avevano cominciato a frequentarsi anche fuori dall’università. Carole gli raccontò i motivi che l’avevano portata a Berlino, il suo desiderio di libertà, il rapporto con i genitori troppo protettivi, gli parlò di zia Rose, imitandola e facendo ridere Franco fino alle lacrime.

Poi un giorno, sorseggiando una birra in un pub, dai semplici racconti della sua vita, Carole cominciò a parlargli delle sue emozioni, di come si sentiva, di quello che provava. «Non lo so, ma spesso mi sento come incompleta, come se nella mia vita mancasse qualcosa e questo mi rende inquieta.» Franco si accese una sigaretta. «Credo che tutti noi, chi più chi meno, sentiamo questo senso di vuoto che ci appesantisce il cuore, però magari il giorno dopo succede qualcosa che ci dà gioia, anche una cosa banale ed ecco che ce ne dimentichiamo.» Carole gli sorrise. «Mi piace questo tuo modo di trovare sempre una risposta per tutto!» Si allungò verso di lui e gli diede un bacio sulla guancia. Franco si guardò in giro. «Ehi signorina, così mi rovini la piazza!» Carole rise insieme a lui. «E tu come stai, veramente?» Gli chiese. «Beh, io mi sento sempre fuori posto, in verità da quando sto a Berlino va un po’ meglio, ma è da quando ero ragazzino che ho questa sensazione di inadeguatezza.» Carole lesse della tristezza nei suoi occhi. «È per il fatto che sei omosessuale?» «No, non per quello, io sono felice della mia scelta, è... per come ti giudicano gli altri, a cominciare dalla mia famiglia. Non parlo solo dei miei genitori, mio fratello ha solo due anni più di me e non ha mai accettato la mia omosessualità. Si vergogna di me, non siamo mai usciti insieme, non mi ha mai presentato i suoi amici e quando ha scoperto che avevo una storia con Paolo, un mio coetaneo, l’ha detto ai miei genitori e la mia vita è diventata un vero inferno!» Carole gli strinse la mano in un gesto d’affetto. «Il fatto che vivevi in un piccolo paese non ti ha certo aiutato.» «No, per niente! Ho sempre pensato di essere nato nel posto sbagliato e questo è stato lo stimolo per mollare tutto e andarmene.» «E con la tua famiglia come va, adesso?» Franco fece un sorriso amaro. «Ci sentiamo raramente e quando chiamo, riesco a malapena a parlare con mia madre, mio padre e mio fratello stranamente, non sono mai in casa. E sai qual è la cosa buffa?» Carole lo interrogò con un cenno della testa. «La cosa buffa è che mi mancano... mi mancano da morire! Lo so, starai pensando che sono infantile, ma è quello che provo e mi sembra assurdo che... ne stia parlando con qualcuno!» Carole si alzò dalla sedia e lo abbracciò forte. «Al diavolo se ti rovino la piazza!» Rimasero stretti per un po’ come a giurarsi reciprocamente eterna amicizia.

Carole, guardò ancora una volta la sveglia, segnava le quattro.

11

Parigi Maria aveva appena finito di preparare i bagagli di Eleonore, in partenza per Cannes. In occasione del festival del cinema, avrebbero proiettato un film fuori concorso, dove lei era la protagonista. Eleonore, come sempre, diede una sbirciatina finale ai bagagli non facendosene accorgere da Maria che senza dubbio ci sarebbe rimasta male. Qualche volta era riuscita a convincerla e l’aveva portata in giro per il mondo insieme a lei. Da tanto tempo non glielo chiedeva più, un po’ per l’età che avanzava e un po’ per gli acciacchi, di cui Maria si lamentava raramente. Eleonore sapeva che lei era molto più contenta di restare a casa. «Non ho niente da spartire con questo mondo di lustrini e anoressiche scosciate!» «Su, Maria ti prego, questa è l’ultima volta che te lo chiedo!» A Maria piaceva quella versione di Eleonore che nessuno conosceva. Tirava fuori una vocina da bambina e metteva il broncio se le dicevi di no. «Non ci provare, me lo hai detto altre cento volte che sarebbe stata l’ultima! E poi sto invecchiando, abbi rispetto per una persona anziana!» Lo disse fingendosi arrabbiata. Eleonore era una vera e propria anti-diva. Mentre le sue colleghe anche meno famose di lei, andavano in giro con bodyguards, autisti e assistenti tuttofare prestanti e più o meno efficienti, a lei bastava Maria che gestiva gran parte delle incombenze quotidiane. Una persone si occupava della pulizia della casa e per le questioni di lavoro c’era Peter, con il quale, tanto per cambiare, aveva fatto delle belle litigate anche per questo motivo.

«Io non ti capisco Eleonore, non puoi andartene in giro con la “tata”! In questo lavoro l’immagine è tutto, che figura ci facciamo?»

«Oh, Peter, basta con questa storia dell’apparire, non mi sembra che i produttori che incassano fior di quattrini con i miei film, si siano mai preoccupati del fatto che io vada in giro con la tata, come la chiami tu! Sono sicura che non si preoccuperebbero nemmeno se andassi in giro con un nano al guinzaglio.» Peter sapeva che quella era la sacrosanta verità, perlomeno finché il botteghino rispondeva bene. Quando le cose non andavano più a gonfie vele, i giornali di gossip erano capaci di distruggerti anche per una cosa come quella. Si guardò bene dal dirlo ad Eleonore. «Sei testarda come un mulo, certe volte sembra che tu lo faccia apposta per mettere alla prova la mia pazienza, io non ti capisco!» «È per questo che non ti ho sposato, caro il mio Peter, perché non-mi-capisci!» Aveva scandito bene le parole facendolo innervosire ancora di più. Quello era un argomento che a Peter bruciava troppo, anche se era ato tanto tempo da quando le aveva chiesto di sposarlo. Lei non ne aveva voluto sapere. «E poi con Maria mi sento libera, non devo stare attenta a come parlo, come mangio, se quando mi alzo ho i capelli arruffati o gli occhi gonfi o se mi va di girare per casa in mutande!» Come poteva essere diversamente, Maria sapeva tutto di lei, in ogni caso era la persona che la conosceva meglio in assoluto, più di quanto Eleonore ne fosse consapevole. Grazie al suo aiuto era uscita da quell’inferno durato dai sedici ai diciotto anni. Il ricordo di quegli anni era ancora vivido nella mente di Eleonore, così come ricordava benissimo la dolcezza di Maria, mentre ascoltava il racconto della vita sventurata di una ragazzina che sembrava tanto forte, quanto insicura e bramosa di amore. Eleonore ci mise un po’ di tempo prima di fidarsi di lei, non solo perché l’ultima volta che lo aveva fatto era sprofondata in un baratro, ma anche per la circostanza in cui le loro vite si erano incrociate, esattamente ventisette anni prima.

Maria a quell’epoca viveva nella periferia di Parigi, in un appartamentino più che modesto. Il marito si era invaghito della sua segretaria, ma non era sparito mollando moglie e figlioletta senza il becco di un quattrino. Si era messo in ginocchio ai piedi di Maria supplicandola di capire che non era colpa sua, si era innamorato, poteva succedere a chiunque! Glielo disse come se fosse stato

colpito da una malattia che non gli dava via di scampo. Se non altro si era impegnato a prendersi cura di loro, almeno economicamente. Maria ferita nell’amor proprio, aveva accettato solo un piccolo mantenimento mensile per la piccola Sophie, per lei non aveva voluto neanche un franco. Questo però significava tirarsi su le maniche, andare a lavorare e accontentarsi di quel piccolo bilocale che spesso aveva bisogno di manutenzione. Quando Maria conobbe Eleonore, viveva da sola, Sophie era andata in giro per il mondo, con una strana band, e lei si era impegnata ad ospitare quella ragazza per un breve periodo, fino a quando la figlia non fosse ritornata. Don Sebastian, le aveva assicurato che al più presto avrebbe trovato un’altra sistemazione per Eleonore. Il parroco non seppe rispondere a nessuna delle domande che gli fece Maria riguardo a questa giovane ospite, le disse solo che aveva appena compiuto diciotto anni e che aveva bisogno di aiuto. Lei si aspettava di vedere una specie di relitto umano con vestiti laceri, unghia sporche e una busta di plastica con dentro le sue misere cose e invece vide una bella ragazza, curata, con vestiti costosi e una piccola borsa di Louis Vuitton. La sorpresa fu davvero grande per Maria, tanto che immaginava di veder comparire una schiera di facchini pronti a portare dentro casa i bauli con le sue cose. Eleonore, invece, aveva solo quella borsetta, tutti i suoi averi erano racchiusi in quei pochi centimetri griffati. Don Sebastian fece velocemente le presentazioni e si dileguò.

Peter arrivò con il taxi che li avrebbe accompagnati all’aeroporto Charles de Gaulle da dove sarebbero partiti per Nizza. Da lì, una limousine in una mezz’oretta, li avrebbe portati a Cannes, dove Eleonore avrebbe alloggiato in una splendida suite con vista mare, al Carlton Hotel, sulla Croisette. A lei piaceva quell’albergo, non solo per la vista magnifica ma soprattutto perché era stato il primo albergo di lusso dove aveva dormito, agli inizi della sua carriera. Spesso, sceglieva gli stessi alberghi perché ogni occasione era buona per crearsi una sorta di radici che, nonostante la fama e la ricchezza, continuavano a mancarle. Le piaceva pensare che qualcosa di lei restasse in quelle camere d’albergo. Sui

mobili, nel bagno o sulla maniglia di una finestra e immaginava che questo “qualcosa” le desse il benvenuto ogni qualvolta faceva ritorno in quei posti. Non a caso, negli alberghi dove era già stata, chiedeva sempre la stessa camera o la stessa suite. Durante il volo, rigorosamente in business class, Peter la mise al corrente sul programma di quei quattro giorni a Cannes, mentre sorseggiava il suo champagne. «Che ne pensi? Ho cercato di ridurre al minimo i tuoi impegni ma meno di così, non si poteva proprio!» Eleonore sapeva che si poteva, eccome, ma non le andava di cominciare l’ennesima discussione con Peter, sapeva quando non era il caso di tirare troppo la corda. «Grazie, va benissimo.» Peter poggiò la flûte e la guardò, incredulo. «Che succede bellezza, sei troppo accondiscendente oggi, devo preoccuparmi? Anzi farò di meglio, approfitto per chiederti di allungare la vacanza e trascorrere qualche giorno a Cap Ferrat o a Saint Tropez, ti piacciono così tanto quei posti! Ce ne stiamo tutti e due soli soletti a rilassarci e a prendere il sole. Hai appena finito di girare un film, avrai voglia di staccare un po’, no?» Eleonore, reclinò la sua poltrona e distese le sue splendide gambe. «Non ti arrendi mai, eh? Ma con tutte quelle belle ragazze che ti girano intorno, come mai continui a provarci con me?» Peter tentò di mantenere un tono leggero. «Perché sono follemente innamorato di te, sei una specie di droga che mi dà dipendenza e anche quando provo a disintossicarmi, e Dio sa quanto ci ho provato, non ci riesco. Presumibilmente perché non ne sono convinto, ti basta come risposta?» Eleonore sapeva benissimo che a parte il tono scherzoso, stava dicendo la verità, ma continuò a stuzzicarlo. «Ma se ti sei portato a letto tante di quelle donne da far invidia a Robert Redford!» - che negli anni novanta era nella top ten degli attori più amati dal genere femminile- «Non esagerare! So di essere un bel bocconcino e le donne di sicuro non mi mancano, ma con loro mi sento coinvolto solo con una parte del mio corpo e non è né il mio cervello né tantomeno il mio cuore.» Eleonore si rese conto che l’argomento stava prendendo una piega meno giocosa e preferì cambiare registro. «Sì, è vero io sono diversa dalle altre, sono l’unica donna che ti fa guadagnare il venti per cento sui miei contratti, il che vuol dire un bel mucchio di soldi, per non parlare dei vari benefit, come viaggiare in business class sorseggiando champagne. Però ti voglio bene lo stesso, anche se

discutiamo come una vecchia e noiosa coppia sposata da tanti anni.» L’hostess si avvicinò per dire che in pochi minuti sarebbero atterrati a Nizza.

12

Brest Tess era determinata a portare avanti la gravidanza, nonostante fosse consapevole che poteva essere pericoloso sia per lei che per il suo bambino. Corinne non era più tornata sull’argomento e pregava ogni giorno affinché tutto andasse bene. Il marito, nonché padre e nonno del bambino, aveva capito che la sua posizione era diventata alquanto “scomoda” e quindi era uscito dalle loro vite. Prima di andarsene via sbattendo la porta, minacciò la moglie promettendole che la cosa non sarebbe finita lì. Corinne aveva deciso che fino a quando Tess non avesse partorito, avrebbe lavorato il più possibile per potersi permettere il “lusso” di stare un po’ a casa con figlia e nipote, almeno per i primi tempi. Una sera, tornando a casa trovò Tess sul divano, in lacrime. Gettò la borsa per terra e le si avvicinò pensando che stesse male o che disgraziatamente, fosse tornato il marito. «Tesoro, come stai? Cos’è successo?» Tess l’abbracciò con tutta la forza che aveva. «Ho paura, mamma, l’ho sentito muovere dentro la pancia e ho paura che gli succeda qualcosa.» Corinne tirò un sospiro di sollievo, l’abbracciò, le strofinò la schiena con la mano in un gesto affettuoso e la rassicurò tenendola stretta. «Non preoccuparti amore mio, con una mamma come te non potrà succedergli niente di brutto, te lo prometto!» Tess, si staccò dall’abbraccio e la guardò negli occhi. «Mamma... se invece succedesse qualcosa a me... giura che ti prenderai cura del mio bambino.» Corinne cercò di ricacciare indietro le lacrime. Tess non poteva sapere che quella era la sua più grande paura e che spesso nelle sue preghiere quotidiane si ritrovava a dire: “Dio mio perdonami ma se uno dei due non ce la dovesse fare, fai che non sia la mia bambina!” «Mamma, me lo prometti?» «Ma cosa sono questi brutti pensieri? Su, fammi un sorriso e vai a sciacquarti il viso.» Tess non mollava. «Non mi hai risposto!» «E va bene testa dura, se dovesse succedere qualcosa, mi prenderò cura del tuo

bambino e adesso me lo fai un sorriso?» Tess la compiacque e si avviò verso il bagno. «La cena è solo da scaldare!» Corinne raccolse la borsa dal pavimento e non fu più in grado di arrestare le lacrime che scesero copiose sul quel viso, segnato dalle sofferenze e dalle preoccupazioni. Aveva quarantacinque anni ma ne dimostrava almeno dieci in più e spesso, non aveva né il coraggio né la voglia di guardarsi allo specchio.

Era stata una bella ragazza, molto corteggiata e questo faceva diventare matto suo padre che era fin troppo protettivo nei confronti di quell’unica figlia. I suoi genitori erano morti a causa di una polmonite virale quando Eleonore era ancora piccola ma a Corinne mancavano ancora tanto. Tante volte, nel corso del suo disgraziato matrimonio, si rifugiava nel ricordo di quell’atmosfera serena in cui era cresciuta, con due genitori che si amavano e si rispettavano a vicenda. “Papà, perché non ho ascoltato i tuoi consigli? Perché non mi hai rinchiusa in un convento? Ma adesso ti prego, fai che a Tess e al suo bambino non accada nulla di brutto!”

Dopo essersi sciacquata il viso, Tess si guardò allo specchio, tirò su la maglietta e si mise di profilo. Era un gesto che faceva sempre, qualche volta anche più volte al giorno. Aveva iniziato a guardarsi la pancia sin dall’inizio della gravidanza ma ovviamente non notava nessun cambiamento. Adesso che era incinta di quasi cinque mesi, poteva finalmente vedere una rotondità appena accennata. Si faceva mille domande su come un bambino potesse crescere e vivere dentro la pancia. Come respirava? Come mangiava? Cosa vedeva? Cosa sentiva? Aveva scoperto da poco, con suo grande stupore, che i bambini non uscivano dalla pancia attraverso l’ombelico, come aveva sempre pensato. E non aveva voglia di fare di nuovo la figura della stupida facendo altre domande a Lucille, l’ostetrica dell’ospedale dove lavorava la madre. Ricordava benissimo quella brutta sensazione e ancora si mortificava al pensiero di quel giorno.

Durante una visita, Lucille aveva fatto uscire dalla stanza Corinne,

probabilmente per evitare a Tess momenti d’imbarazzo e invece l’aveva fatta sentire un’ignorante, quando ridendosela alla grande, le aveva spiegato che i bambini non escono dall’ombelico. Tess con aria innocente aveva ribadito che non c’erano altri buchi nella pancia. Lucille cercando di contenere la voglia di continuare a ridere le spiegò da dove sarebbe uscito il suo bambino, dandole persino uno specchio. Tess era terrorizzata. «Come fa a are da lì? È ... è... troppo piccolo, soffocherà!» Lucille con molta calma, le disse che aveva fatto nascere decine di bambini spiegandole esattamente cosa sarebbe successo al momento del parto. Tess era sconvolta, non capiva se quella donna si stava prendendo gioco di lei o se era tutto vero, in tal caso, le sembrava una cosa orribile. Avrebbe potuto chiedere conferma alla madre ma si vergognava troppo, con Corinne non c’era mai stato un grande dialogo, anche se ultimamente parlavano di più. Erano tante le cose di cui avrebbe voluto parlare con lei anche se avrebbe preferito farlo con Eleonore, ma la sorella l’aveva abbandonata. “Come ha fatto a dimenticarsi di me? Sta per diventare zia e non lo saprà mai. Mi odio quando mi manca!”

«Tess, tutto bene?» La madre bussò alla porta del bagno. «Si può sapere perché chiudi la porta?» «Scusa, mamma, arrivo!» Tess si accarezzò un’ultima volta la pancia e abbassò la maglietta. Il bagno era l’unica stanza che si chiudeva a chiave in quella casa ed era l’unico posto dove Tess si sentiva al sicuro. Anche se “lui” non c’era più, ormai era diventata una tale abitudine che si chiudeva lì dentro anche quando era sola in casa. Tante volte, in ato, avrebbe voluto chiedere alla madre di mettere una chiave nella porta della sua camera ma poi avrebbe dovuto spiegare il motivo e aveva una paura tremenda che la madre si potesse arrabbiare con lei. Anche quando rimase incinta e Corinne le chiese se aveva avuto rapporti con qualche coetaneo, Tess si sentì avvampare il viso e scosse la testa in segno di diniego, non avendo neanche il coraggio di guardarla in faccia. La madre non le chiese più nulla, fino a qualche tempo dopo, quando durante la notte Tess aveva avuto il solito incubo e si era messa a urlare nel sonno. Sognava spesso il padre, le sembrava quasi di sentire quell’alito pesante e quelle mani che

si intrufolavano sotto le coperte. Corinne era accorsa in camera sua e l’aveva trovata in uno stato quasi confusionale. L’aveva abbracciata e le aveva chiesto se aveva voglia di parlare di quel brutto sogno. Tess continuò a piangere e non emise un fiato. Aprì la porta del bagno e si avviò verso la cucina.

«Ma lo sai che sei diventata proprio una brava cuoca?» Le disse Corinne leccando il mestolo. «Questo pollo è delizioso, quasi più buono di quello che faccio io!» Tess fece finta di arrabbiarsi. «Non dovevi assaggiarlo senza di me!» «Tu non uscivi più dal bagno! Ma cosa fai chiusa lì dentro tutto questo tempo?» Tess non aveva voglia di dire alla madre che restava chiusa in bagno anche intere ore a disegnare, a leggere sul bordo della vasca, e a cercare di immaginare il suo bambino. «Un po’ di tutto!» Le rispose. Si misero a tavola, gustandosi il pollo con le patate che aveva cucinato Tess. Corinne a un certo punto le chiese se aveva pensato al nome da dare al bambino, certa che se fosse stata femmina l’avrebbe chiamata Eleonore. «Ho pensato a qualche nome ma ancora non ho deciso, mi piacciono sia Richard se fosse maschio, che Audrey come l’attrice, se fosse femmina.» Corinne rimase stupita, sapeva quanto Tess era legata alla sorella ed era certa che le mancasse ancora tanto. «Ero sicura che se fosse una bambina l’avresti chiamata Eleonore.» L’espressione di Tess diventò dura. «E perché dovrei farlo, dal momento che a lei non gliene importa più nulla di noi?» «Come fai a esserne così certa?» Adesso Tess era proprio arrabbiata. «E allora perché non si è più fatta viva? Avrebbe potuto scrivere una lettera o almeno una cartolina, potrebbe anche essere morta e non lo sappiamo, potremmo essere morte noi e lei non lo saprebbe, come non saprà mai che sta per diventare zia!» Corinne capì che a Tess mancava ancora tanto la sorella, più di quanto volesse ammettere ma probabilmente si sentiva tradita e comunque, sentirla parlare così le faceva male. In un altro momento l’avrebbe rimproverata per quel modo di esprimersi ma lesse negli occhi della figlia la sofferenza e la rabbia per quel vuoto che Eleonore le aveva lasciato nel cuore.

«Quando sono morti i tuoi nonni, anch’io mi sono sentita come te, mi sembrava quasi che l’avessero fatto di proposito per punirmi o per farmi un dispetto. Quando ami con tutto il cuore una persona e questa se ne va via per sempre, a prescindere dal modo in cui lo faccia, può succedere che ci si senta traditi e diamo a loro la colpa del nostro dolore.» «Non è la stessa cosa, mamma, Eleonore è andata via, non è morta per una malattia o per un incidente!» Corinne si rese conto che per quanto Tess fosse matura, non era in grado di capire totalmente il senso del suo discorso. «Perché se fosse morta, ti mancherebbe meno?» Tess rifletté per qualche secondo. «Beh, almeno mi rassegnerei!» L’aveva detto ma non lo pensava davvero, in cuor suo c’era sempre la speranza di poterla rivedere, prima o poi.

13

Berlino Carole si svegliò con un gran mal di testa e gli occhi gonfi. Aveva trascorso una pessima nottata pensando all’incontro della sera precedente con Andrea ma la notte non le aveva portato consiglio. Aveva deciso che sarebbe andata in albergo qualche minuto prima dell’inizio del suo turno di lavoro e avrebbe lasciato un biglietto sotto la porta della camera di Andrea. “E cosa scrivo? Grazie per la magnifica serata? Non direi proprio! Mah, mi verrà in mente qualcosa, magari chiedo a Franco”. Dalla cucina sentì la voce di Rose che parlava con zio Robert. «Io credo che sia abbastanza grande per sapere la verità, non è più una bambina!» «Ma non puoi dirglielo tu, Rose, se i suoi genitori non l’hanno fatto fino ad ora, avranno i loro buoni motivi e in ogni caso non spetta a noi!» Zia Rose sembrava sempre più seccata. «Nella vita bisognerebbe avere un po’ di coraggio, non si può sempre mettere la testa sotto la sabbia!» «Rose, ti prego, abbassa la voce, potrebbe sentirci!» Carole ebbe la sensazione che stessero parlando di lei e vedendo la loro reazione imbarazzata quando mise piede in cucina, ne ebbe quasi la certezza. «Buongiorno! Cosa non dovrei sentire?» Ci fu qualche secondo di silenzio, poi fu zio Robert a parlare. «Buongiorno Carole, stavo dicendo a Rose di abbassare la voce per non svegliarti, tutto qua. Stavamo parlando di...di una persona che non conosci.» Carole guardò Rose che stranamente abbassò lo sguardo, si girò e andò a mettere l’acqua sul fuoco per il tè. Zio Robert cambiò discorso chiedendole com’era andata la serata con i suoi nuovi amici. Carole si era ben guardata dal dire loro che sarebbe uscita con un ragazzo, anzi con un uomo. Così cominciò a descrivere una presunta serata in compagnia di amici immaginari, con dovizia di particolari. Cosa avevano mangiato, dov’erano stati, insomma, si era inventata una storiella credibilissima. Zio Robert sembrava interessato al racconto della nipote contrariamente a Rose

che rimase incredibilmente in silenzio. Carole pensò che le stessero nascondendo qualcosa ma non aveva né l’energia né la voglia di andare a fondo, quel giorno la sua testa era già abbastanza occupata da altri pensieri. Finì la colazione e andò a prepararsi per andare al lavoro, avrebbe indagato in un altro momento. Era tardi e durante il tragitto pensò che non aveva tempo di chiamare Franco. “Pazienza, lo chiamerò dopo il lavoro. Devo pensare a cosa scrivere ad Andrea sul biglietto. Oddio, perché deve essere tutto così complicato quando ti piace qualcuno!” Quando varcò l’ingresso dell’albergo, il suo cuore aveva accelerato i battiti. Aveva deciso di non lasciare nessuna missiva ad Andrea, sarebbe solo andata davanti alla porta della sua camera, così… per sentirsi più vicina a lui. Immaginarlo mentre dormiva e lui magari, sentendo la sua presenza, improvvisamente avrebbe aperto la porta, proprio come succede nei film. I battiti erano sempre più veloci. Salì al terzo piano, qualcuno la salutò all’uscita dell’ascensore, la camera 312 era subito dopo un breve corridoio, la terza a sinistra, ancora quattro i e... vide il carrello delle pulizie davanti alla camera di Andrea, era aperta. “È uscito presto”, pensò. Denise, una ragazza polacca che amava farsi chiamare con un nome se, stava pulendo la camera e quando vide Carole la salutò allegramente. Lei rispose con un sorriso forzato, sbirciò all’interno della camera, era vuota, un’anonima camera d’albergo. Pulire le camere di un hotel non era certo un lavoro divertente, ma Carole si era inventata un gioco che faceva ogni volta che si avvicendavano i clienti. In base ai vestiti e agli oggetti personali che c’erano nella camera e a come li disponevano, cercava di indovinare com’erano sia fisicamente che nel modo di essere. Quando le capitava di intravedere gli occupanti della camera corrispondere all’idea che si era fatta di loro, esultava per aver indovinato. Certe volte si sentiva stupida nel fare quel gioco, ma era un modo per rendere più piacevole quello che non sarebbe stato certamente il lavoro della sua vita. Guardò nuovamente la porzione di camera che riusciva a sbirciare dal corridoio ed ebbe la conferma che era completamente vuota. Si sentì mancare. Era andato via? Non era possibile! Doveva entrare e verificare, trovò una scusa per farlo.

«Denise ho qualcosa nell’occhio ti dispiace se uso lo specchio del bagno?» La ragazza le sorrise. «Figurati! Il cliente ha lasciato la camera dieci minuti fa e mi ha anche dato una bella mancia. Era pure un bell’uomo, sai?» Carole era confusa, allora era partito, così, senza dire nulla, senza neanche salutarla. Si sentì salire un groppo alla gola, fece dietrofront e si avviò verso l’ascensore. «Ehi, Carole, il tuo occhio?»

Quando squillò il telefono, Franco interruppe le sue flessioni. Tutti i giorni faceva la sua mezz’oretta di allenamento per tenersi in forma. Addominali, affondi, flessioni e quando era possibile, evitava di prendere i mezzi pubblici per fare delle lunghe eggiate. Ci teneva molto alla sua forma fisica e non potendosi permettere di frequentare una palestra si allenava da solo. D’altra parte, condividere un minuscolo appartamento con un personal trainer aveva i suoi vantaggi. Si alzò dal pavimento e andò a rispondere. Era Carole ed era fuori di sé. Gli raccontò della sua strana serata con Andrea, di come aveva scoperto della sua partenza, intercalando insulti e parolacce che Franco non avrebbe mai immaginato potessero uscire dalla bocca di quella ragazza così tanto a modo. Cercò di calmarla anche perché aveva difficoltà a comprendere tutto quello che Carole gli stava vomitando addosso, soprattutto quando cominciò a parlare, anzi a sbraitare, in se. «Cerca di calmarti, tesoro! Non ho capito tutto quello che hai detto ma di una cosa sono certo, quell’uomo è uno stronzo! Lascialo perdere, con una persona così è meglio non avere nulla a che fare, credimi!» Carole sembrava non volesse saperne di calmarsi. «Ma ti rendi conto? Si è comportato come un verme schifoso! E io ci sono cascata come una ragazzina stupida. Se potessi, lo strozzerei con le mie stesse mani!» Franco non sapeva proprio cosa dirle per calmarla. «Non sei affatto stupida, Carole! Sei una delle tante ragazze che subiscono il fascino dell’uomo maturo. Non sei la prima e non sarai neanche l’ultima, ma non è la fine del mondo! Ascoltami, sei una ragazza stupenda, sai quanti uomini potrai avere nella tua vita?.. E ‘fanculo tutti gli Andrea del mondo!» Silenzio. «Carole, ci sei?» Quando riprese a parlare sembrava che si fosse calmata. «Si, sono qui... scusa Franco. Ci vediamo più tardi? Ho bisogno di essere un po’ coccolata!»

«Ci puoi contare sorellina, ti voglio bene.» «Anch’io ti voglio bene.»

Carole si avviò verso casa, aveva voglia di farsi una doccia e buttarsi sul letto per piangere in santa pace. Per fortuna, era uno dei giorni in cui Rose, era impegnata con il “Gruppo delle sorelle caritatevoli” e zio Robert ne approfittava per uscire, senza dover riferire alla moglie dove andasse. Stava per inserire la chiave nella serratura, quando Rose aprì la porta. Carole rimase stupita nel vederla e si sentì subito in colpa, come se stesse per sce un appartamento sicura di trovarlo vuoto. «Zi... ehm... Rose, cosa ci fai qui?» Zia Rose la guardò come quando si osserva un insetto fastidioso. «Questa è bella! Sono a casa mia, mi pare!« Carole cominciò a balbettare. «No, volevo dire... cioè… non sei andata alla riunione del Gruppo? Non... non stai bene?» «Sto benissimo! Anche se non mi piace essere presa per il naso!» Carole si chiese dove fosse zio Robert, senz’altro era successo qualcosa e la sua presenza sarebbe stata rassicurante per lei. Non aveva idea del motivo per cui Rose fosse sul piede di guerra. Forse aveva lasciato aperta l’acqua calda o si era accorta che la luce della sua camera era rimasta accesa fino a tardi? Sì, senz’altro era questo, spesso quando si metteva a disegnare perdeva la cognizione del tempo e zia Rose, tirchia com’era, aveva deciso di farle una bella ramanzina. Mentre ipotizzava vari scenari, seguì zia Rose verso il salotto e nel bel mezzo del tavolo, vide un grande vaso con dentro stipato un enorme mazzo di rose rosse. Zia Rose con il piglio di un investigatore che aveva scoperto l’assassino, allargò un braccio in direzione dei fiori. «Questi sono per te!» Tirò fuori dalla tasca del grembiule un biglietto e lo lesse. «Grazie per la splendida serata. A presto, tuo Andrea.» Carole era allibita. Come aveva fatto Andrea a mandarle dei fiori? Non c’era il suo cognome sui camli. In ogni caso, lei gli aveva spiegato com’era zia Rose, sapeva che questo gesto le avrebbe creato dei problemi. Nonostante questo pensiero negativo, c’era in un angolino del suo cuore la gioia di sapere che lui aveva intenzione di rivederla. L’aveva scritto nel biglietto, no? “A presto!” Guardò Rose che sbraitava sulle regole e sulla fiducia mal riposta, quando si rese

conto che le stava sventolando davanti al naso, il biglietto che accompagnava i fiori. «Non avresti dovuto leggerlo, zia Rose!» Scandì volutamente la parola zia, sapendo che a Rose non piaceva essere chiamata così. La tensione era alle stelle. La zia con aria di sfida, strappò il biglietto e lo buttò ai piedi di Carole. «E tu non avresti mai dovuto mettere piede in questa casa! Mia sorella mi aveva detto che eri una brava ragazza e che potevo fidarmi di te e invece non ha capito proprio niente, come al solito! Sei una bugiarda e io non voglio essere responsabile delle schifezze che vai facendo in giro!» Carole guardò il biglietto ridotto in coriandoli sparsi sul pavimento. Era mortificata, perché era chiaro che zia Rose, aveva capito che la cena della sera prima non era stata una cena tra amici. Però era anche arrabbiata perché non meritava di essere trattata come una poco di buono. Doveva assolutamente difendersi da quell’attacco. «Io non ho fatto nessuna schifezza! Sono andata a cena con un amico, tutto qua!» «Non provare a fare la santarellina con me Carole, non sono nata ieri! Nessun amico spende una fortuna in fiori per ringraziarti di una semplice cena.» Fece una breve pausa per riprendere subito dopo con un tono sarcastico. «E poi un giovane che spende una fortuna per un mazzo di fiori, sicuramente è un poco di buono. A meno che, non abbia tanti soldi perché é di ottima famiglia e in questo caso, ho seri dubbi che possa corteggiare una cameriera d’albergo!» Carole era furiosa, Rose stava proprio esagerando e lei non aveva più intenzione di farsi trattare in quel modo. «Si può sapere perché ce l’hai con me? E non sto parlando di oggi, è da quando sono arrivata in questa casa che ho l’impressione che a malapena tolleri la mia presenza. Non potevi dire a mia madre che non avevi intenzione di ospitarmi, invece di aggredirmi continuamente?» Rose non si scompose. «Ci ho provato, sai? Ma lei mi ha pregato di farlo, e siccome è pur sempre mia sorella, mio malgrado, ho accettato di ospitarti. Ma se vuoi tornare a casa tua, quella è la porta, me ne farò una ragione!» Carole capì che la zia non vedeva l’ora di liberarsi di lei, anche se non riusciva a comprendere il motivo di tanta acredine. Non aveva nessuna intenzione di tornarsene a casa con la coda tra le gambe, in ogni caso, non poteva più restare in quella casa.

14

Parigi A Cannes splendeva il sole e anche se era solo il mese di Maggio, la temperatura era quasi estiva. Quando Eleonore entrò nella sua suite, al Carlton, si tolse scarpe e vestiti e s’infilò sotto la doccia sapendo che quello sarebbe stato uno dei pochi momenti in cui sarebbe rimasta da sola. Aveva deciso di restare a Cannes solo quattro giorni ma sapeva che sarebbero state giornate piene di impegni, tra proiezioni, conferenze stampa, cene e party. Al solo pensiero si sentiva già stanca. Il cellulare cominciò a squillare interrompendo quel momento di quiete prima della tempesta. Eleonore non pensò neanche per un secondo di uscire dalla doccia per rispondere. “Perché hanno inventato i cellulari?” Tutto sommato, non erano così tante le persone che avevano il suo numero privato, dava sempre quello di Peter per tutte le questioni che riguardavano il lavoro, e di amici, non ne aveva poi così tanti. Conosceva centinaia di persone in varie parti del mondo ma gli amici veri si contavano sulle dita di una mano. Quando uscì dalla doccia prese il cellulare e controllò chiamate e messaggi, solo uno la fece sorridere. «Bonne chance! Sempre tuo, Claude.» Eleonore guardò l’orologio, sollevò la coperta e si stese sul letto, aveva ancora un po’ di tempo prima che Peter asse a prenderla per il primo impegno della giornata. Riascoltò il messaggio di Claude e i ricordi presero il sopravvento. Era già qualche mese che Eleonore andava nel suo studio e poco alla volta aveva cominciato a fidarsi di quell’uomo. A ogni seduta si apriva sempre di più e quando usciva si sentiva meglio, più leggera e di buon umore. La settimana appena trascorsa, era stata piena d’impegni e non era riuscita a prendere neanche un appuntamento con Claude. Essendo ancora all’inizio della sua carriera, Peter non le dava nessuna possibilità di rinunciare a qualunque possibilità di lavoro. La mandava a fare provini per cose che Eleonore non avrebbe mai accettato e spesso anche Peter era d’accordo con lei.

«Devi andare lo stesso, poi se ti scelgono, diremo che hai accettato un altro lavoro perché c’era una trattativa in corso e ... bla... bla... al resto ci penso io.» «Ma allora che senso ha farmi sbattere da una parte all’altra della città se già sappiamo che non accetteremo?» «Cara la mia stellina, prima di tutto, più ti vedono e meglio è, secondo, se addirittura rinunci a un lavoro perché sei già impegnata, beh... allora scattano altri meccanismi... Eleonore non capiva. «Per esempio?» Peter sospirò. «Per esempio l’interesse per qualcuno che in qualche modo, hai rifiutato.» Peter capì che Eleonore era più confusa di prima. «Ti spiego meglio... quando dici a un regista che non accetti di lavorare con lui perché hai un impegno precedente, lui intenderà solo che hai scelto un altro al posto suo. Di conseguenza o lo metti in crisi o si offende, perché la maggior parte delle volte, quel regista si sente migliore degli altri. In ogni caso hai suscitato la sua curiosità, un interesse, e stai tranquilla che non si dimenticherà di te ed è proprio questo il nostro scopo al momento, farsi ricordare. Voglio fare in modo che tu non diventi un numero come le altre.» Peter pronunciò quella frase pur sapendo che quella ragazza aveva una marcia in più. Lei era poco convinta. «Secondo me a una persona che si sente rifiutata non rimane un buon ricordo, è come darsi la zappa sui piedi!» «E no, cara mia! Perché la volta successiva quando accetterai di fare un suo lavoro, quello stesso regista, si sentirà talmente gratificato che si convincerà del fatto che non era stato rifiutato ma che effettivamente avevi un altro impegno!» Eleonore si accese una sigaretta. «È troppo macchinoso! E comunque a sentirti parlare così, sembra di avere a che fare con degli stupidi!» «Tanti lo sono davvero! Molti sono narcisisti, altri talmente fragili che per loro, anche solo un alito di vento potrebbe essere fatale quanto un tornado!» Effettivamente Eleonore stava cominciando a capire che Peter non aveva tutti i torti, in ogni caso, aveva voglia di vedere Claude e provò a fissare un appuntamento con lui per il sabato successivo. Il fine settimana, per fortuna, non c’erano quasi mai provini. Claude era ben felice di vederla, quindi non fece obiezioni.

Quella fu una seduta lunga e difficile, ma anche liberatoria. Lui non aveva impegni quel pomeriggio e forse anche per questo motivo, Eleonore si lasciò andare parlando per ore. «Mi buttai su quel vassoio pieno di cose buonissime, come un orso sul miele. Lei, che poi mi disse chiamarsi Yvonne, mi guardava compiaciuta, come una madre che guarda il suo bambino finire tutta la pappa. La ringraziai e cominciai a fare domande su dove mi trovavo, perché mi avevano portato lì, di chi era quella casa e soprattutto perché non mi avevano portato in un posto di polizia. Yvonne fu evasiva e rispose con altre domande. Mi chiese se non mi fosse piaciuta la colazione o la casa, anzi la camera, o se non fossero stati gentili con me. Poi mi spiegò che se mi avessero denunciato, essendo minorenne e senza documenti, la polizia mi avrebbe rispedito immediatamente a casa e io la sera prima le avevo detto che non volevo tornarci. Non ricordavo se le avevo spiegato il motivo per cui mi trovavo in condizioni pietose, sul ciglio di quella strada dove mi avevano raccolta. Una parte di quella notte non me la ricordavo, capì dopo un po’ di tempo che nella bibita che mi avevano offerto c’era qualcosa, non so esattamente cosa, probabilmente della droga.» Claude le spostò una ciocca di capelli dal viso e la guardò con tenerezza. Aveva intuito che in quella casa, Eleonore aveva sofferto molto e che per lei era difficile parlarne. Voleva aiutarla ad aprirsi completamente, a liberarsi da quel peso che aveva nell’anima, nella speranza di non farla sentire mai più, così sola. «Ti va di dirmi cosa è successo dopo?» Eleonore fece un cenno di assenso con la testa, senza guardarlo. «Furono due anni terribili, i più brutti della mia vita. Quando stavo a casa, a Brest, non ho certo trascorso un’infanzia felice, però alle violenze di mio padre si alternavano momenti di gioia con Tess e qualche volta, persino con mia madre. Invece in quella casa ero completamente sola, in balìa di due estranei perversi e pervertiti. I primi giorni vedevo solo Yvonne che mi coccolava in ogni modo, tutte le mattine mi portava delle colazioni buonissime, vestiti meravigliosi, regali di ogni genere che non avevo mai e poi mai, sognato di possedere in tutta la mia vita. Potevo chiedere qualsiasi cosa e il giorno dopo

compariva, come per magia. Trascorreva con me parecchio tempo a ridere e scherzare come se fossi la sua migliore amica. Il mio stato d’animo era un continuo turbinio di emozioni... c’erano momenti in cui stavo bene con lei, addirittura mi divertivo... poi subentrava il senso di colpa nei confronti di Tess. Come potevo ridere e scherzare con un’estranea, nello stesso modo in cui lo facevo con mia sorella che avevo lasciato in balìa del suo miserabile destino? Mi ero accorta che quando Yvonne usciva, chiudeva a chiave la porta della camera, capivo che c’era qualcosa di strano, ma era come se stessi vivendo un bel sogno e avevo paura che farle troppe domande, potesse spezzarlo. Avevo il terrore di essere catapultata un’altra volta a Brest, con mio padre che picchiava mia madre e molestava me e mia sorella.» Eleonore cominciò a tremare, le pause del suo racconto diventavano sempre più lunghe e Claude si rese conto che stava facendo uno sforzo enorme. Avrebbe voluto abbracciarla e baciarla, dirle che adesso c’era lui, che non doveva più temere nulla, ma aveva paura di rovinare tutto. Sentiva o forse sperava in cuor suo, che anche Eleonore ricambiasse quei sentimenti nei suoi confronti ma non voleva rischiare, meglio rimandare, meglio aspettare l’occasione giusta. Si sentiva come un’adolescente alla prima cotta, sensazione che non ricordava di aver provato neanche all’età di quindici anni. Cercò, non senza difficoltà, di concentrarsi sul suo ruolo di medico. «Quando, hai scoperto cosa volevano da te in cambio di tutte quelle attenzioni?» Eleonore stava girandoci intorno già da un po’ e quella domanda così secca era l’occasione giusta per aprirsi completamente a Claude, non solo come “professionista della mente”, ma anche come uomo. E lei voleva farlo. «Sono stata io a chiederlo a Yvonne. Dopo quattro o cinque giorni o forse una settimana che stavo in quella camera, decisi di chiederle perché facevano tutto questo per me. Le chiesi anche che fine aveva fatto il suo fidanzato. Lei mi guardò e scoppiò a ridere. Mi disse che Daniel non era il suo fidanzato ma una specie di amico. Mi feci coraggio e le chiesi se potevamo uscire a fare una eggiata insieme, temevo di farle una domanda troppo diretta sul perché mi chiudeva a chiave ogni volta che usciva. Cominciò ad adularmi dicendomi che ero una ragazza sveglia e che senza dubbio, sapevo che tutto quel ben di Dio aveva un costo. Io pensai per un attimo... che forse mi stava offrendo un lavoro, era giusto che fi qualcosa

per ricambiare quel trattamento. Le dissi subito che ero disposta a lavorare, che ero una ragazza forte, sapevo cucinare, stirare, lavare la biancheria, badare alla casa... lei m’interruppe facendosi una grassa risata. «E secondo te, tutte le domestiche si possono permettere tutto questo? Non fare la sciocca Eleonore, so che non lo sei. Ma adesso sta a te decidere se vuoi continuare ad avere tutto questo e anche di più o se vuoi essere rispedita a casa, dal paparino!» Lo disse con un’aria compiaciuta. Mi chiesi cosa sapesse a proposito di mio padre? Le avevo detto che forse l’avevo ucciso? Potevano denunciarmi? Capii che ero in trappola e che quella scelta che Yvonne mi offriva, era solo apparente. Mi feci coraggio e le chiesi cosa voleva che fi?»

Peter era nella hall del Carlton, aspettava Eleonore che stranamente era in ritardo. Cominciava ad innervosirsi e stava per chiamarla un’altra volta, quando si aprì l’ascensore e lei comparve in tutto il suo splendore. Il suo sguardo fra il triste e malinconico era più evidente del solito. A Peter, che ormai la conosceva da parecchi anni, non sfuggì questo particolare. «Cosa c’è, tutto bene?» Eleonore si calò immediatamente nella parte della star. «Ho un po’ di emicrania, sarà stata l’aria condizionata dell’aereo. Non capisco perché debbano sempre far congelare i eggeri!» Peter finse di crederle. C’era una parte della vita di Eleonore che gli era oscura, ma da tanti anni aveva smesso di fare domande. Tutte le volte che ci aveva provato, lei si irritava e si chiudeva a riccio o peggio finivano per litigare. «Sei sempre la numero uno!» Si limitò a dire. La prese sotto braccio e uscirono dall’albergo, recitando entrambi un copione non scritto.

15

Brest La messa della domenica, era un impegno a cui Corinne non rinunciava mai. Anche quando il marito tentava di proibirglielo, dicendo che era tempo sprecato, lei trovava sempre un modo per andarci. Spesso pensava tra sé e sé, che pure lui avrebbe fatto bene a entrare in chiesa qualche volta, chissà, magari il buon Dio avrebbe potuto perdonargli qualche peccato. Certe volte si chiedeva se era fede la sua o se era solo un modo per sentirsi bene perché nonostante tutti i suoi problemi, quando entrava in chiesa, percepiva un senso di pace che purtroppo, spariva subito dopo esserne uscita. Le piaceva quell’aria fresca che si respirava nella casa del Signore anche quando fuori si soffocava, quel silenzio prima della funzione, quel bisbigliare rispettoso di chi va a prendere posto ai banchi. Tutto questo era rassicurante per lei, pensava che non potesse accaderle niente di brutto finché stava lì. Almeno fino a quella domenica. Quel giorno Tess stava peggio del solito. Non lo disse alla madre per non farla preoccupare ma non se la sentiva di accompagnarla. Non era la prima volta che la figlia non andava a messa insieme a lei e quindi Corinne non se ne curò. Non poteva sapere che era stata una pessima notte per Tess. Aveva sognato il padre, ma non era stato il solito incubo, era stato anche peggio. Nel sogno lui l’aveva legata al letto e le aveva portato via il suo bambino. Tess urlava e piangeva cercando di liberarsi ma non ci riusciva. Si svegliò di soprassalto, credendo di sentire le sue urla ma per fortuna, si rese conto che era stato solo un brutto sogno. Aveva dei crampi alla pancia e non riuscì più a riprendere sonno. La mattina prima di andare in cucina, si diede qualche pizzicotto sulle guance per celare quel pallore più evidente del solito. La madre non si rese conto di nulla e dopo colazione, uscì per andare a messa.

Era una bella giornata di sole e alla fine della funzione, Corinne decise di andare

a piedi fino al porto, dove c’era la pasticceria di una sua vecchia compagna di scuola. Faceva delle torte buonissime e decise di comprarne una piccolissima da portare a casa, Tess ne sarebbe stata felice. I dolci le piacevano da morire ma potevano permettersi di comprarli raramente e solo per qualche occasione speciale. Quando Tess vedeva qualcuno con il pacchetto dei dolci in mano, lo seguiva con lo sguardo, come se stesse ammirando un eroe con in mano un trofeo da esibire al mondo intero. Il pacchetto della pasticceria, pensava, non è anonimo come la busta della spesa o di qualunque altro acquisto, quello era riconoscibile. Tutti capivano che quella persona aveva comprato dei dolci per fare festa insieme alla propria famiglia o ai propri amici. Quando era lei ad avere il raro privilegio di avere uno di quei pacchetti in mano, si pavoneggiava e si guardava intorno per carpire gli sguardi dei anti che, immaginava, stessero ammirando il suo trofeo. Corinne, che sapeva tutto questo, pensò che a Tess sarebbe dispiaciuto perdersi questa esibizione, ma era certa che la sorpresa sarebbe stata così bella che l’avrebbe perdonata. Più si avvicinava a casa e più pregustava il momento in cui avrebbe visto la felicità negli occhi di Tess alla vista del pacchetto della pasticceria. Sorrise. Entrò in casa e la chiamò. «Tess, sono tornata!» Silenzio. «Tess, dove sei? C’è una sorpresa per te!» Poggiò il pacchetto sul tavolo della cucina e si avviò verso il bagno, sicura di trovarla lì. Non c’era. Aprì la porta della sua cameretta e vide il letto disfatto. “Strano!” Pensò, Tess era molto ordinata, non sarebbe mai uscita senza rifare il letto. Tornò in cucina e cercò con lo sguardo un eventuale messaggio che la figlia lasciava sempre quando usciva. Era stata lei ad obbligarla a farlo da quando era incinta, poiché troppe volte si era preoccupata inutilmente e per Tess ormai era diventata un’abitudine. Cominciò ad agitarsi ma cercò di non pensare al peggio. “Si sarà dimenticata!” Nonostante i suoi sforzi per restare calma, cominciò ad andare su e giù non sapendo cosa fare.

Quando Tess arrivò in ospedale, i portantini pensarono che fosse già morta, tale era il pallore sul suo viso. L’aveva accompagnata Tom, il suo vicino di casa che

l’aveva vista barcollare nel vialetto adiacente il suo giardino. Aveva capito subito che la situazione era grave e senza pensarci un attimo, l’aveva caricata sul suo furgoncino e si era diretto all’ospedale. Tess piangeva e continuava a ripetere la stessa frase, come una litania. «Il mio bambino, salvate il mio bambino!» Per tutto il tragitto fino all’arrivo in ospedale non aveva detto altro, fino a quando aveva perso i sensi. La barella fu spinta velocemente all’interno del pronto soccorso e Tom la seguì con lo sguardo finché sparì dalla sua vista. Non poteva fare nient’altro che pregare per quella sfortunata ragazza.

Al trillo del camlo, Corinne saltò in aria. Il suo nervosismo era cresciuto minuto dopo minuto e adesso era tesa come una corda di violino. “Adesso mi sente!” Aprì la porta ma non era Tess, bensì la moglie di Tom. Una volta erano amiche lei e Isabelle, ma a un certo punto Tom le aveva proibito di continuare a frequentarla e soprattutto le aveva vietato di mandare in quella casa la figlia, Alexandra. Isabelle era mortificata quando comunicò a Corinne la decisione del marito. All’inizio lei c’era rimasta molto male, poi capì che Tom aveva i suoi buoni motivi. D’altra parte come dargli torto? Tutti conoscevano il caratteraccio del marito che peggiorava soprattutto quando era ubriaco, cioè quasi sempre. Quando Tess rimase incinta, la sua famiglia o quel che restava di essa, era stata messa al bando un po’ da tutti. Anche se Corinne non aveva certo sbandierato ai quattro venti che Tess aspettava un figlio dal padre, tutti lo avevano capito. Un po’ per il precedente di Eleonore, e un po’ perché non avevano avuto un’altra versione, come per esempio, un matrimonio riparatore con un coetaneo della ragazza. Vedere Isabelle davanti alla sua porta la stupì non poco e l’espressione sulla faccia dell’amica, non fece altro che accrescere la sua preoccupazione. «Isabelle, cos’è successo?» «Corinne, Tom ha portato Tess in ospedale. Si è sentita male, tu non c’eri e abbiamo pensato che fosse la cosa migliore da farsi.» Corinne si sentì crollare il mondo addosso. Tutte le sue paure di quei mesi si stavano avverando? Non era possibile che anche questa volta e ancora per colpa sua, rischiava di perdere un’altra figlia. «È colpa mia, non dovevo lasciarla da

sola!» Prese la borsa, le chiavi e uscì da casa come un fulmine. «Corinne, non dire sciocchezze, non è colpa tua! Tess sta da sola in casa tutti i giorni quando vai al lavoro!» Cercò di fermarla. «Tom mi ha detto che sarebbe tornato per accompagnarti in ospedale.» «Non posso aspettare Isabelle, la mia bambina è in pericolo!» Corinne si avviò a piedi verso l’ospedale, che distava da casa sua circa quattro chilometri. Non poteva aspettare il ritorno di Tom, pur essendo consapevole che le ci sarebbe voluto parecchio tempo per arrivare a destinazione. Era domenica e i mezzi di trasporto facevano meno corse. Sperava in cuor suo d’incontrare qualcuno che potesse darle un aggio, anche se tra i suoi conoscenti, chi possedeva un’automobile agli inizi degli anni settanta, si potevano contare sulle dita di una mano. Le sue gambe andavano veloci come se fosse tornata ragazzina ma più correva e più le sembrava di stare ferma. “Tess resisti, sto arrivando!” Continuò a correre come se la vita della figlia dipendesse dal tempo avrebbe impiegato ad arrivare in ospedale. Secondo i calcoli di Lucille, Tess non aveva ancora maturato il tempo della gravidanza, quindi pensò che dovesse essere successo qualcosa di grave, sperando che non fosse niente di irreparabile. Quando la macchina del dottor Dubois l’affiancò, Corinne ringraziò il cielo, interpretandolo come un segno positivo.

Tess a tratti, sentiva delle voci concitate ma non aveva la forza di parlare. Cercava di capire cosa stesse succedendo, forse era svenuta? Sentiva qualche parola ma non riusciva a capirne il senso. «Il bambino... la pressione... è così giovane... i genitori... dottore...» Tess cercava disperatamente di aprire gli occhi ma erano pesanti, aveva sonno, tanto sonno. Voleva parlare, desiderava che non fero del male al suo bambino. “Eleonore... mamma, ho tanto freddo”. Decise di smettere di lottare contro quell’ottundimento che l’avvolse definitivamente.

16

Berlino La piazza adiacente il Duomo, era come sempre affollata di turisti. Carole si stava godendo il sole di quella splendida giornata, almeno dal punto di vista meteorologico. Dopo aver appurato che Andrea era partito senza degnarla di una parola e dopo lo scontro della sera prima con zia Rose, si sentiva a pezzi. Quando arrivò Franco, gli buttò le braccia al collo. «Grazie per essere venuto.» Franco le porse un pacchettino. «Krapfen alla marmellata, i tuoi preferiti! Uno è mio, anche se mi toccherà fare una bella corsa per smaltirlo!» Carole prese il pacchetto. «Adoro i dolci, anche se preferisco quelli si.» «Non esistono dolci più buoni di quelli che fanno al mio paese, sono im-bat-ti-bili!» Carole aprì il pacchetto e prese il suo krapfen. «Perché non sono nata maschio? Ti avrei fatto una corte spietata!» Finito il suo krapfen, Carole gli raccontò di Andrea, della strana cena con lui, di come aveva scoperto che era partito e dei fiori che avevano causato lo scontro con zia Rose. «Ti rendi conto? Ho pensato persino che l’abbia fatto apposta per causarmi problemi con lei!» Man mano che andava avanti con il racconto Franco si convinceva sempre di più che quel tizio era inaffidabile, lo disse a Carole e le consigliò nuovamente di lasciarlo perdere. «E poi che storia sarebbe? Lui a Firenze e tu a Berlino? Solo le storie di sesso possono funzionare a distanza e solo se non ti fai coinvolgere mai e poi mai, sentimentalmente!» Anche se non voleva ammetterlo, Carole sapeva che Franco aveva ragione ma decise di concentrarsi su un’altra questione. «E come se non bastasse, adesso non so proprio dove andare. Non voglio restare a casa di zia Rose, mi ha sempre fatto sentire un’intrusa, però non voglio neanche tornare dai miei!» «E che problema c’è sorellina! Vieni a stare da me. Non è una reggia ma se ti

accontenti di dormire su un divano e non avere più un briciolo di privacy, sei la benvenuta!» Carole lo guardò per essere sicura che non stesse scherzando. «Stai parlando sul serio?» «Ti sembro uno che sta scherzando?» «E se Luc non fosse d’accordo?» «Quella è anche casa mia e comunque non credo che abbia qualcosa in contrario. Anzi, dal momento che a lui purtroppo, piacciono le donne, magari sarà anche contento di vivere sotto lo stesso tetto con una bella ragazza!» «Che vuol dire, purtroppo? Ci hai provato e ti ha risposto picche.» Franco mise il suo indice davanti al viso di Carole, con fare minaccioso. «Attenta signorina, è rischioso prendere in giro chi ti sta offrendo un tetto su quella testolina dura.» «Va bene, va bene, mi arrendo!» Carole non aveva pensato a quella possibilità e considerò che potesse essere un’ottima soluzione, anche se solo temporanea. Prima di sera, aveva raccolto le sue poche cose e si era trasferita a casa di Franco, non prima di aver affrontato una lunghissima e faticosa telefonata con la madre che inorridita, aveva appreso che la sua bambina sarebbe andata a vivere con un omosessuale. Carole si era ben guardata dal dirle che in quella casa, viveva anche un ragazzo che avrebbe potuto attentare alle grazie della sua bambina. Fortunatamente Luc era simpatico oltre che niente male, pensò Carole, quando lo incontrò per la prima volta, quella sera. Mangiarono pizza e bevvero birra tutti e tre insieme, seduti sul divano che da quella sera sarebbe diventato il suo letto.

Carole decise di fare la spesa e di cucinare qualcosa di se per Luc e Franco. Voleva fargli una sorpresa. Zuppa di cipolle, ratatouille e omelette alla provenzale. Erano stati gentili e comprensivi con lei e dopo qualche giorno di convivenza, nonostante il divano scomodo, aveva deciso che era meglio stare con i ragazzi che con quell’arpia di zia Rose.

Uscita dal supermercato, si avviò verso la sua nuova casa. Una fastidiosa pioggerellina stava diventando più insistente e Carole aumentò il o. Mancava poco per arrivare a casa e si sistemò il cappuccio del giaccone sulla testa. Quanto meno, sarebbe stato utile a salvare la piega dei suoi capelli ribelli che con la pioggia diventavano crespi. “Perché non ho dei bei capelli lisci come mia madre? Sarebbe fantastico!” I fari delle auto, uniti alla pioggia e al cappuccio sugli occhi, rendevano scarsa la visibilità. Andò ad urtare contro qualcuno o qualcosa, rischiando di cadere insieme alle buste della spesa. Si accorse che era una persona. «Oh, mi scusi!» «Ma figurati, Carole!» «Andrea?!» «Sei felice di vedermi, piccola?» Lei non lo sapeva, in quei pochi secondi non aveva deciso se era più contenta di rivederlo o più arrabbiata per come si era comportato con lei. «Sei sparito senza dirmi una parola e adesso mi chiedi se sono contenta di rivederti? A proposito come hai fatto a trovarmi?» Il tono di lui diventò meno gentile. «Non mi hai risposto, sei felice o no di rivedermi?» Carole non voleva dirgli che sì, era felice ma anche infuriata con lui. «E tu non mi hai detto come hai fatto a trovarmi.» Andrea le afferrò il braccio facendole cadere una delle due buste della spesa. Il contenuto andò a finire dentro una pozzanghera sotto il marciapiede. «Quando ti chiedo qualcosa, devi rispondermi, senza farmelo ripetere!» Carole prima guardò desolata le uova rotte sul terreno e poi si rivolse a lui con tono di sfida. «Ma chi ti credi essere? Invece di chiedermi scusa per questo… », indicò con la mano la spesa nel fango, «…pretendi che io mi metta sull’attenti solo perché me lo ordini?» Si stupì lei stessa non solo per ciò che aveva detto ma per il tono con cui l’aveva fatto. Evidentemente la rabbia e la frustrazione accumulata in quei giorni avevano preso il sopravvento. L’effetto su di lui però, fu disastroso. Andrea le prese dalle mani l’altra busta la svuotò nella pozzanghera e cominciò a schiacciare il contenuto con i piedi. «Volevi preparare la cena per il tuo amichetto, vero? Mi dispiace tanto, sai? Peccato che tu non sappia quanto sia dispiaciuto a me, vederti flirtare con un altro dopo poche ore che ci siamo lasciati! E io che come un imbecille, ti ho pure mandato dei fiori!» Carole era allibita e anche un po’ spaventata da quella reazione. «Ma di che diavolo stai parlando?»

«Vorresti negare che hai un altro? Ti ho visto ai giardini davanti al Duomo, mentre facevi la gatta morta col palestrato!» Dopo un attimo di smarrimento, Carole capì che si stava riferendo all’incontro di qualche giorno prima, con Franco. “Come faceva a sapere di quell’appuntamento? E perché non si era avvicinato? Forse l’aveva seguita? L’aveva fatto altre volte? O forse la sua era solo gelosia? Se così fosse, vuol dire che ci tiene a me!” Troppe domande e non conosceva neanche una risposta. «Franco è il mio migliore amico e mi stava consolando poiché il mio umore era pessimo, dopo che sei sparito senza dirmi una parola. Comunque, anche se non ti devo nessuna spiegazione, voglio dirti che se invece di spiarmi ti fossi avvicinato, avresti capito che tra me e Franco c’è solo amicizia. Lui è gay!» L’atteggiamento di Andrea cambiò repentinamente. «Scusa, scusa, scusa! Sono un imbecille!» L’abbracciò. «Non sono mai stato un tipo geloso... non so cosa mi è preso... anzi lo so.» La guardò con occhi imploranti. «Credo di essermi innamorato di te e non voglio perderti. Mi perdoni, amore?» Non aspettò la risposta, si mise a raccogliere in mezzo al fango quel poco di spesa rimasta integra, continuando a darsi dell’idiota e a chiedere perdono. Carole era combattuta, non sapeva se mandarlo al diavolo o se mettersi a ridere come aveva fatto qualche ante, vedendo quella scena. «Lascia stare, tanto ormai la cena è andata.» Si guardò bene dal dirgli che voleva fare una sorpresa non solo a Franco ma anche a Luc. Andrea si alzò. «Amore ti porto a cena nel più bel ristorante di Berlino, che ne dici?

Carole accettò l’invito e trascorsero una serata magnifica. La cena fu squisita e bevvero, un po’ troppo, champagne. Andrea fu perfetto, un vero gentleman. Parlarono, risero tanto e lei dimenticò la rabbia di quegli ultimi giorni, archiviando tutte le domande che si era riproposta di fargli. Alla fine della cena, quando lasciarono il ristorante, Carole si chiese cosa avrebbe fatto Andrea. “Mi accompagnerà a casa, come ha fatto l’altra volta? Spero proprio di no!” Quando lui le chiese se aveva voglia di restare ancora un po’ in sua compagnia, Carole rispose all’istante. «Sì.» L’albergo dove era andato ad alloggiare era altrettanto confortevole del precedente. Lui prese le chiavi della camera e si avviarono verso l’ascensore. «Ti stai chiedendo perché ho lasciato l’albergo dove ci siamo conosciuti, vero?»

Effettivamente, Carole stava proprio pensando a quello. «Tanto non rispondi mai alle mie domande!» «E invece lo faccio subito. Avevo prenotato per i pochi giorni del convegno, poi ho incontrato una ragazza meravigliosa che mi ha fatto perdere la testa e ho deciso di restare, peccato che non c’erano camere disponibili.» Carole, nonostante l’effetto dello champagne, ricordava che l’albergo dove lavorava, non era al completo e per di più, era bassa stagione. Ecco che stava ricominciando a dubitare delle parole di Andrea. Ma lui disse la cosa giusta al momento giusto. «E poi, te l’ho già detto il primo giorno che ci siamo conosciuti, non voglio che il personale dell’albergo si faccia una cattiva opinione di te. Ti ricordi che dopo la nostra cena dell’altro giorno, ti ho lasciato davanti al portone e sono fuggito via?» Come poteva dimenticarlo, c’era rimasta malissimo. «Sì, certo che mi ricordo.» L’ascensore arrivò al piano e lei lo seguì lungo il corridoio. «Avevo voglia di stare con te ma non volevo crearti problemi e per paura di lasciarmi tentare, sono fuggito via.» Carole si sentì persino in colpa per aver interpretato quel comportamento in modo negativo. Adesso era felice di sapere che quello era stato un bel gesto, dettato dalla sensibilità di un uomo innamorato. Le farfalle nello stomaco erano tornate più numerose e facevano un gran baccano. Fecero l’amore e lui fu dolcissimo. Esausti si addormentarono abbracciati.

Uno spiraglio di luce filtrava a malapena attraverso le tende davanti alla finestra. Quando Carole si svegliò, non si rese subito conto di dove fosse. Non era nella cameretta angusta di zia Rose e neanche sul divano a casa di Franco. “Oh, mamma, adesso mi ricordo!” Sorrise al pensiero e si girò verso l’altra metà del letto. Andrea non c’era. Pensò che potesse essere in bagno ma invece di aspettarlo a letto scattò in piedi per andare a controllare. Sotto, sotto aveva timore che lui fosse andato via un’altra volta, mollandola in albergo.

In bagno non c’era, ma almeno le sue cose erano lì. Sul tavolino, accanto alla televisione vide un biglietto. “Buongiorno amore, sono uscito presto per un impegno di lavoro e non ho voluto svegliarti, quando dormi sei ancora più bella! Ti amo. Andrea.” Ancora una volta Carole, si sentì in colpa per aver dubitato di quell’uomo, un po’ strano sì, ma anche dolce e apionato. Erano le nove e per fortuna non doveva andare al lavoro. Se la prese comoda, le piaceva il ruolo della cliente. Doccia, ricca colazione e già non vedeva l’ora di rivederlo!

17

Parigi Il rientro a casa metteva sempre di buon umore Eleonore. Le piaceva il suo lavoro e amava anche viaggiare, ma tornare a casa era piacevole quasi come partire. Maria poi in quelle occasioni, la coccolava più del solito come solo lei sapeva fare. Quando Eleonore entrò in casa, Maria l’abbracciò con particolare trasporto. «Ehi, sono mancata solo quattro giorni, a cosa devo tutto questo calore?» «Forse sto invecchiando, non farci caso! Allora com’è andata a Cannes? Quanti ne hai stesi?» Eleonore sorrise. «Maria non sono più una ragazzina, sono una donna matura ormai, la concorrenza è spietata e gli uomini che cadono ai miei piedi, sono sempre meno.» «Non fare la finta modesta che tanto non me la bevo, signorina.» «E tu continuerai a chiamarmi signorina fino a quando avrò ottant’anni?» «Quando tu avrai ottant’anni io sarò già marcita sotto terra!» Fece una pausa e il suo sguardo diventò triste. «E allora chi si prenderà cura di te? Ci hai mai pensato? Perché non ti fermi un po’ e cominci a pensare alla tua vita, a trovarti un uomo che ti voglia bene e a mettere su famiglia?» Questo era un argomento di cui avevano parlato decine e decine di volte. Maria desiderava davvero, che quella “ragazza” alla quale voleva bene come a una figlia, trovasse un uomo che la amasse come meritava. «Ma cosa sono questi discorsi? E poi chi ti ha detto che morirai prima di me? Almeno nella morte non ci sono regole! Per quanto riguarda il resto lo sai, non sono adatta a mettere su famiglia, dovrai sopportarmi ancora per un bel po’, rassegnati!» Maria sapeva perfettamente che quel convincimento era reale per Eleonore,

talmente ben radicato in lei che nemmeno Claude era riuscito ad estirparglielo dall’anima. Non credeva nella famiglia per via di quello che le era successo da bambina prima, e da adolescente poi. Era terrorizzata dal pensiero di scoprire che l’uomo che avesse avuto accanto, potesse fare a sua figlia quello che il padre aveva fatto a lei e a Tess. Non riusciva a fidarsi mai completamente di nessuno, men che meno di un uomo. Maria si ricordava una frase di Eleonore detta tanti anni prima, quando era poco più di una ragazzina. «Non sarò mai degna di essere amata sul serio da un uomo!»

Quando appena diciottenne, Eleonore arrivò a casa di Maria e per un lungo periodo a seguire, quasi non parlava. Tanto che Maria si convinse che avesse dei problemi legati alla parola o che soffrisse di qualche disturbo mentale. Non era certa che quella ragazza capisse tutto quello che lei diceva. Di contro però, aveva uno sguardo intelligente e degli occhi che, quando non li teneva bassi, erano molto espressivi. Si limitava a dire poche parole e sempre le stesse: “grazie, scusi, prego, si, no, posso?” Quando Maria le chiedeva anche cose banali, come per esempio, se preferiva il latte o il tè a colazione o la brioche piuttosto che i biscotti, Eleonore faceva spallucce e dava sempre la stessa risposta. «È lo stesso.» Sembrava che nulla la interessasse, trascorreva giornate intere dentro casa in assoluta apatia. Maria non riusciva proprio a capirla, non era normale per una giovane di quell’età, questo distacco nei confronti di qualunque cosa. Certo non pensava che tutti i giovani dovessero essere ribelli come la figlia, ma Eleonore era proprio agli antipodi e lei aveva intenzione di scoprire il motivo di quell’atteggiamento. Prima tentò con la dolcezza e parlandole lentamente cominciò a farle delle domande. Nessun risultato. Poi provò ad essere meno dolce e un po’ più autoritaria. Peggio. In ultimo, sperimentò la chiave ironica. Cominciò a prenderla in giro, a imitare i suoi atteggiamenti, a farle il verso quando dava le solite risposte criptiche, addirittura qualche volta le anticipava. Forse era la strada giusta, perché notava che a volte Eleonore accennava un sorriso, anche se non voleva farsi scorgere. In altri momenti, Maria aveva l’impressione che Eleonore marcasse volutamente il tono di una risposta per poi guardarla, in attesa di essere imitata. Maria naturalmente stette al gioco. Alleluia!

Poco per volta e con tanta pazienza, seguì questa strada e man mano che trascorrevano le settimane notava dei progressi notevoli. Eleonore cominciava cautamente a fidarsi di lei che a sua volta, si era affezionata a quella strana ragazza. Una mattina, durante la colazione, Eleonore si alzò e l’abbracciò. «Che succede, ragazzina? Non è la mia festa oggi!» Eleonore, che ormai era abituata alle sue battute canzonatorie, la guardò e sorrise. «Non si può mai essere seri con te, rovini sempre tutto!» Maria fece finta di diventare seria e si accomodò meglio sulla sedia. «Va bene, scusa, ti ascolto... perché vuoi dirmi qualcosa, no?» Eleonore assunse un atteggiamento serio. «Volevo ringraziarti. Mi hai accolto nella tua casa senza chiedermi niente e mi hai sempre trattata come... come una figlia... anzi meglio di una figlia e io ti sarò eternamente grata per questo. Però non voglio essere un peso per te, e quindi ho deciso di trovarmi un lavoretto che mi permetta di mantenermi, così vado via e non dovrai più preoccuparti per me.» Le ultime parole le pronunciò con fatica, come se non fosse affatto convinta di quel progetto o come se avesse paura che Maria le dicesse: “sì, mi sembra buona idea” o peggio: “era ora che te ne andassi!” Maria sentì un groppo alla gola, non solo per quelle parole di riconoscenza che mai avrebbe pensato di sentir pronunciare da quella ragazza, che fino a qualche settimana prima a malapena le rivolgeva la parola, ma anche perché l’idea che Eleonore andasse via la rattristava enormemente. Le si era affezionata sul serio tanto che, si era chiesta più volte, se questo affetto fosse dovuto alla mancanza di Sophie. Si chiedeva se la stesse sostituendo in qualche modo alla figlia e spesso l’assalivano i sensi di colpa. La guardò con tenerezza. «Ely, io sono felice che tu stia qui e vorrei che ti togliessi dalla testa che per me sei un peso. Mi piace averti intorno e mi piacerebbe ancora di più… sapere che ti fidi di me. Questo non vuol dire che voglio tenerti chiusa in casa, anzi, sono contenta se ti cerchi un lavoro ma puoi rimanere qui tutto il tempo che vuoi. Stai tranquilla, qui nessuno ti farà del male. E adesso abbracciami, è un ordine!» Maria lo disse sorridendo. Eleonore le cinse le braccia intorno al collo e a malapena riuscì a sussurrarle all’orecchio: «ti voglio bene.» prima di scoppiare a piangere. «Anch’io ti voglio bene, piccola!» E anche Maria non riuscì a trattenere le lacrime.

Rimasero abbracciate per un po’ senza parlare ed Eleonore decise in quel momento, che non avrebbe mai abbandonato quella donna che la faceva sentire amata incondizionatamente, sensazione che pensava di aver provato solo con la sorella. Si staccò dall’abbraccio e dopo essersi soffiata il naso, cominciò a raccontarle della sua vita. Restarono in quella piccola cucina fino all’ora di pranzo. Eleonore sembrava un fiume in piena.

«Ho una sorella, sai? Si chiama Tess e ha dieci anni meno di me.» Maria l’ascoltava provando emozioni diverse, dalla rabbia alla tenerezza, a secondo degli episodi che raccontava Eleonore. Si chiese se Don Sebastian sapesse qualcosa della sua vita, spiegherebbe il suo comportamento sbrigativo quando le parlò di una ragazza che aveva dei problemi. Il pensiero del prete le fece rammentare che le aveva chiesto di ospitare Eleonore solo per un breve periodo, fino a quando non avesse trovato una sistemazione migliore. Decise in quel momento che avrebbe chiamato Don Sebastian per dirgli che la ragazza sarebbe rimasta lì, a casa sua. Maria a un certo punto, chiese ad Eleonore come aveva conosciuto quel prete. A quella domanda la ragazza s’irrigidì, non era ancora pronta a raccontare quegli ultimi due anni della sua vita, ma non voleva ferire Maria. «Me l’ha fatto conoscere... una persona. Te ne parlerò in un altro momento... adesso però sono stanca.» Maria capì che non era il caso di insistere e cercò di alleggerire l’atmosfera. «Scommetto che sei anche affamata!» Eleonore le fece segno di sì con la testa e le fu grata per questo suo modo di saper cambiare discorso con leggerezza. Mentre le dava una mano a preparare il pranzo, Eleonore si chiese che opinione si sarebbe fatta Maria, se avesse saputo come aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita, sempre che avesse trovato il coraggio di parlargliene. Inevitabilmente, ripensò alla sua carceriera.

Quando Yvonne le disse che poteva avere tutto ciò che desiderava, le spiegò cosa avrebbe dovuto fare per ottenerlo. Eleonore era allibita. «Dovrei prostituirmi? È questo che mi stai chiedendo?» Yvonne non si scompose minimamente. «Tutti si prostituiscono! In politica, nel mondo del lavoro, persino all’ufficio postale se qualcuno ti fa are avanti, siamo disposte ad elargire sorrisi e sguardi ammiccanti che sott’intendono qualcos’altro, non è così?» «Ma che c’entra quello non vuol dire prostituirsi, è solo un modo per... ringraziare!» «Forse sei ancora troppo giovane per capire certi meccanismi! Ti assicuro che l’unica differenza sta nel fatto che se prendi i soldi vieni considerata una prostituta, se non li prendi, qualunque altra cosa tu faccia, anche peggiore, non sarai mai catalogata come tale.» Improvvisamente Yvonne abbandonò l’atteggiamento spavaldo. «Mia madre ha speso la sua vita a pulire le case dei ricchi e quando qualcuno le metteva le mani addosso lei stava zitta per paura di perdere quel suo schifoso lavoro. Quando si ammalò di tubercolosi nessuno alzò un dito per aiutarci, si era prostituita una vita intera per poi morire peggio che un cane randagio. Io ho fatto una scelta diversa!» Si alzò per andarsene. «Abituati all’idea, anche perché Daniel non accetta rifiuti!» Uscì e chiuse a chiave la porta. Eleonore si sdraiò sul letto e cominciò a piangere. Cosa aveva voluto dire Yvonne con quell’ultima frase, sembrava un avvertimento, o era solo un modo per spaventarla? Non potevano tenerla rinchiusa in quella stanza per sempre. Il solo pensiero l’angosciava ma non aveva nessuna intenzione di prostituirsi. «Dio mio, cosa ho fatto? Devo trovare il modo di fuggire da qui!»

Presa dai suoi pensieri non aveva sentito Maria che stava blaterando qualcosa. «Aiuto, c’è un fantasma nella mia cucina!» «Che stai dicendo, Maria?» «Ah, ma allora sei tu? Pensavo che fossi un fantasma! Saranno cinque minuti che ti parlo e non mi degni di uno sguardo.» «Scusa Maria, ero sovrappensiero». Maria lo aveva capito benissimo, ormai

riconosceva quell’espressione vacua che tante volte aveva visto sul viso di Eleonore. «So già che non mi dirai a cosa stavi pensando e quindi non te lo chiederò, ma sappi che se volessi farmi partecipe dei tuoi brutti pensieri, io ci sarò sempre, in qualunque momento.» Fu proprio quel giorno che Maria sentì quella frase che Eleonore sussurrò quasi a sé stessa. «Stavo pensando che non sarò mai degna di essere amata sul serio da un uomo!»

18

Brest Durante quel breve tragitto in macchina per arrivare in ospedale, Corinne fece mille domande al dottor Dubois. Voleva capire a quali pericoli era esposta Tess, anche se alcune risposte le sapeva già. Lui all’inizio della gravidanza, le aveva spiegato i rischi che avrebbe potuto correre la figlia data la giovane età, ma in quel momento Corinne aveva un disperato bisogno di sentire qualcosa di positivo, anche se in cuor suo temeva l’irreparabile. Il dottor Dubois rispondeva alle domande senza nessuna emozione e senza neanche guardarla. Lei si chiese come poteva essere così freddo e distaccato un uomo che era anche padre. Sì, era un medico, forse era abituato al dolore, non solo dei pazienti ma anche dei loro familiari, però questa indifferenza di fronte alla sua disperazione era insopportabile. La macchina si fermò davanti all’ingresso dell’ospedale, Corinne si affrettò a ringraziarlo e salutarlo ma il dottor Dubois spense il motore e la seguì. «Dottore, non voglio approfittare della sua gentilezza, oggi è domenica e la sua famiglia la starà aspettando.» Lui non si scompose e continuò a guardare davanti a sé. «Non si preoccupi, non ho fretta. Ne approfitto per salutare un’amica che oggi è di turno.»

L’espressione di Lucille non prometteva niente di buono e Corinne si sentì mancare. «Mi dispiace ma abbiamo fatto il possibile, te l’assicuro… la bamb…» Corinne la interruppe non rendendosi conto che stava urlando. «Cosa ti dispiace? Che vuol dire che avete fatto il possibile? Dov’è Tess?» Il dottor Dubois sembrava essersi innervosito. «Si calmi, siamo in un ospedale! Credo che Lucille stesse parlando del bambino e non di sua figlia, vero?» Si rivolse all’ostetrica con un tono severo.

Corinne guardò Dubois e poi Lucille che sembrava imbarazzata. «Certamente... stavo parlando del bambino, dovevamo decidere se salvare la vita a Tess o al bambino e non potevamo aspettare. Tess è minorenne, non c’era nessun familiare...» Corinne si aggrappò a quella flebile speranza. «Quindi mia figlia sta bene?» Lucille le mise una mano sulla spalla. «No, non sta affatto bene, ha perso molto sangue e... non sappiamo se ce la farà.» Corinne si sentì morire, le avevano appena detto che suo nipote era morto e che la figlia poteva anche non farcela. Non era possibile! Neanche nei suoi peggiori incubi aveva preso in considerazione uno scenario così terribile. Le gambe le cedettero e Lucille e Dubois, quasi la trascinarono su una sedia, per poi spostarla su una barella. Quando riaprì gli occhi vide un giovane dottore che le stava auscultando il cuore. «Come si sente?» Corinne si rese conto che purtroppo, non era stato solo un brutto sogno e appena si ricordò cos’era successo, provò a tirarsi su dal letto. «Devo andare da mia figlia!» «Signora, non può andare da nessuna parte, non ce la farebbe nemmeno ad alzarsi. Le abbiamo dato un sedativo per calmarla, ha avuto un collasso nervoso.» Corinne fece un altro tentativo ma le sue braccia non volevano saperne. «Signora, stia calma! Lei non sta affatto bene! Non è solo per quello che è successo oggi, nel suo cuore c’è qualcosa che non va e dobbiamo fare altri accertamenti.» Cosa ne poteva sapere quel dottore del suo cuore, dell’inferno della sua vita, per non parlare di quegli ultimi mesi? Aveva lavorato dieci ore al giorno e spesso quando tornava a casa piluccava qualcosa, facendo credere a Tess che aveva già mangiato. La figlia doveva essere forte per affrontare quella gravidanza e lei non poteva permettersi di mangiare quello che comprava per Tess. Cosa ne poteva sapere quel dottore, della sua preoccupazione per la vita della figlia e del suo bambino. Della vergogna che provava quando incontrando qualcuno che conosceva, li vedeva girarsi da un’altra parte facendo finta di non vederla. Cosa poteva saperne quel dottore dei suoi sensi di colpa, accumulati in tanti anni? “No, i dottori non sanno un bel niente, per loro siamo solo numeri!” Sperava soltanto che tutto quel suo struggimento non fosse completamento vano.

«Signora, mi ha sentito?» Corinne non aveva nessuna intenzione di starlo ad ascoltare. «Dottore, voglio solo sapere come sta mia figlia.»

Tess a fatica aprì gli occhi. Vide una luce al neon sopra la sua testa e nient’altro. Le sembrava di avere il fuoco nelle viscere e istintivamente mise la mano sulla pancia. Infinite volte aveva fatto quel gesto sorridendo, sognando un futuro migliore del suo, per quel bambino che non vedeva l’ora di abbracciare. Non sorrise. Il suo cuore le diceva che anche lui l’aveva abbandonata. Le sembrava di sentire la voce di Lucille... sì era lei. Voleva chiederle del suo bambino. Perché non riusciva ad aprire gli occhi? «Tess, mi senti?» Sì, la sentiva, le fece un lieve cenno di assenso. «Adesso dormirai un po’ ma più tardi torno e vengo a controllare se stai meglio, d’accordo?» No, lei non voleva dormire, non voleva che Lucille andasse via, desiderava sapere del suo bambino, perché non lo sentiva più? Forse dormiva anche lui? Provò a parlare ma dalla sua bocca uscì solo un suono simile a un rantolo. Si sentiva impotente. Una lacrima silenziosamente disperata colò sul suo viso di bambina. Lucille gliela asciugò con le dita e poi le mise una mano sulla fronte. Scottava, la febbre era ancora alta.

Corinne aveva provato in tutti i modi a convincere quel giovane dottore, affinché la lasciasse andare dalla figlia, senza alcun risultato. «Dottore, non lo capisce che se sto qui senza sapere come sta la mia bambina, mi agito di più? Per favore, mi basta solo un minuto e le prometto che dopo farò tutto quello che vuole lei!» Effettivamente, il dottore aveva capito che quella donna non si sarebbe data pace fino a quando non avesse visto la figlia e tutto quell’agitarsi non faceva sicuramente bene al suo cuore. Acconsentì a malincuore, a condizione che Corinne accettasse di farsi accompagnare da un’infermiera sulla sedia a rotelle e solo per qualche minuto. Mentre Corinne andava da Tess, vide in fondo al corridoio Lucille che parlava animatamente con Dubois. Pensò che l’amica che voleva salutare il dottore, fosse proprio l’ostetrica, anche se in quel momento il loro modo di conversare

non le sembrò affatto amichevole. Nell’istante in cui si avvicinò alla figlia, Corinne capì perché Lucille non l’aveva rassicurata sullo stato di salute di Tess. Era bianca come il lenzuolo che la copriva, le prese una mano ma lei non ebbe nessuna reazione, le accarezzò la testa e sentì che scottava. «Amore mio, sono qui, sono la tua mamma, mi senti? Sei la cosa più importante della mia vita, ti prego Tess, combatti e vedrai che andrà tutto bene.» Nello stesso istante in cui disse quella frase, si chiese cosa sarebbe andato bene. Come avrebbe reagito Tess, sempre che ce l’avesse fatta, alla notizia che il suo bambino era morto? Dei piccoli lamenti simili a un pianto sommesso, le sembrarono la risposta alla sua domanda.

Corinne fu dimessa il giorno dopo. Sembrava che a parte lo stress, i medici non avessero trovato ragioni sufficienti, tali da giustificare una prolungata degenza in ospedale. Lei pensò che fosse un’altra opportunità che il buon Dio le stava dando, non per meriti, ma solo per aiutare la figlia che diversamente sarebbe rimasta sola al mondo e con la disperazione nel cuore. Quando Lucille le chiese se voleva vedere il bambino, Corinne si rifiutò. In quelle ultime ore non sapendo con chi prendersela e non avendo la possibilità di uccidere quel bastardo del marito, nella sua testa quel bambino diventò il capro espiatorio. “La colpa é sua se Tess sta rischiando di morire”. Lo immaginava come un male che avesse attecchito nel corpo della sua bambina, per farla soffrire e forse anche morire. Quando si è disperati, la visione delle cose a volte, diventa distorta. Il terzo giorno, Tess cominciò a riprendersi e come un disco rotto continuava a chiedere notizie del suo bambino. Anche se aveva capito quello che era successo, voleva restare a tutti i costi aggrappata ad un filo di speranza. Alla fine Corinne con l’aiuto di Lucille dovettero dirle la verità. Cercarono le parole e il modo più giusto per dirglielo, ammesso che esista la maniera giusta per dire a una donna, anche se adolescente, che il bambino che desiderava così ardentemente, era morto. «Nooo!!!» Fu il grido straziante di Tess. Da quel momento e per parecchio tempo, questo fu l’ultimo suono che uscì dalla sua bocca.

Quando tornò a casa, era ancora molto debole, ma non era questo a preoccupare i dottori e la stessa Corinne, quanto la sua imperturbabilità. Sembrava che Tess avesse voluto spegnere l’interruttore della sua vita. Non parlava, mangiava pochissimo e svogliatamente, quando le si chiedeva qualcosa non rispondeva, spesso non si prendeva neanche la briga di guardare chi stesse parlando. Tutti quei discorsi sul tempo che avrebbe avuto per fare un altro figlio, sui milioni di donne che avevano vissuto la sua stessa esperienza, sulle avversità della vita che bisognava trovare la forza di superare, lei li percepiva o no? Nessuno lo sapeva. Nessuno riusciva a capire cosa c’era nella testa di Tess. Corinne non usciva da casa, neanche per andare a fare la spesa. Fortunatamente, con Isabelle e Tom i rapporti erano tornati buoni e la stavano aiutando molto. Non solo per le piccole incombenze quotidiane ma soprattutto con Isabelle, Corinne poteva sfogarsi e confessare le sue paure. «Come farò quando dovrò tornare al lavoro? Non posso lasciarla sola, temo che possa fare qualcosa di sconsiderato!» Isabelle sapeva che la sua amica non si perdonava il fatto di essere andata a messa, lasciando sola Tess. «Corinne, non puoi pensare che tutto quello che succede sia sempre colpa tua! È giovane, vedrai che col tempo questa ferita guarirà.» «Non so più che fare, cerco di stimolarla in tutti i modi ma senza risultato. Quelle rare volte che incrocia il mio sguardo, mi sento come se fossi diventata trasparente. Preferirei che mi fe capire che mi odia, vorrebbe dire che prova delle emozioni, non sopporto di vederla in questo stato!» «Devi avere pazienza Corinne, forse non dovresti neanche insistere, si dice che il tempo guarisce tutte le ferite, no?» «Non tutti ci riescono... e questa per Tess purtroppo, è l’ennesima. Temo che sia la famosa goccia che fa traboccare il vaso!» In quel momento Isabelle si ricordò della ione di Tess per il disegno. «Potresti comprarle qualcosa per disegnare, dei nuovi colori o magari degli acquarelli!» «È un’idea fantastica, Isabelle! Come ho fatto a non pensarci prima? Tempo fa è rimasta a guardare un cavalletto in una vetrina con aria sognante, potrei comprarglielo! Ti prego, puoi occupartene tu? Io...»

«Si lo so, non vuoi lasciarla sola.» Le due amiche si abbracciarono, fiduciose che il piano avrebbe funzionato.

19

Berlino Carole non vedeva Andrea da una settimana. Dopo quella splendida serata e ancor più magnifica notte trascorsa insieme a lui, era sparito un’altra volta. Aveva chiamato l’albergo dove alloggiava ma le avevano risposto che era partito. La sua frustrazione era a un livello insopportabile. Tutte le sue perplessità su Andrea, erano tornate prepotentemente a frullare nel suo cervello di ragazza giovane, intelligente ma pur sempre innamorata. Aveva la sensazione che ogni volta che si lasciava andare, lui faceva qualcosa per spiazzarla, per farla ricredere. “Per quale motivo?” Si era chiesta mille volte. Al citofono una voce le disse che c’era una consegna per lei. Il suo primo pensiero fu quello che Andrea volesse farsi perdonare con un altro mazzo di fiori. Si chiese quale scusa avesse addotto questa volta per giustificare il suo comportamento, in ogni caso era eccitata all’idea di quella consegna. Aprì la porta col sorriso sulle labbra, sorriso che si trasformò immediatamente in paura. Andrea la spinse dentro casa e chiuse la porta dietro di sé. «Sapevo che non potevo fidarmi di te!» La sua espressione era dura, il tono sibilante. «Sei una puttana, ecco che cosa sei!» Carole, terrorizzata, indietreggiò fino a inciampare e cadere rovinosamente sul divano. Lui continuava ad insultarla, a farneticare sulle donne che sono tutte delle poco di buono. Era confusa, ma chi era quell’uomo? Non era lo stesso che pochi giorni prima la teneva abbracciata sussurrandole parole d’amore. Le venne in mente il celebre romanzo di Stevenson, “Dottor Jekyll e Mr. Hyde”, ma questo non era un romanzo e neanche un film, stava accadendo realmente. «Ma che ti prende? Si può sapere perché ti comporti così?» Quel tono supplichevole non migliorò affatto la situazione. Lui le afferrò il polso e Carole pensò che volesse spezzarglielo, tanto fu il dolore. «Hai pure il coraggio di chiedermelo? Mi hai raccontato la storiella del tuo amico gay, ma ti sei dimenticata di dirmi che vivi non con uno, ma con due uomini... dimmi c’è qualcun altro in casa con cui fai le orge?»

«Non sai quello che dici, io non faccio niente di male!» Lui le mise una mano intorno al collo facendo pressione. «Togliti quell’espressione da brava ragazza e soprattutto smettila di trattarmi come uno stupido!... Dimmi, Anna e Paul sanno quello che sei venuta a fare a Berlino?» Sentire i nomi dei suoi genitori la fece sussultare. «Che cosa c’entrano i miei genitori?» Andrea continuava a guardarla con un’espressione schifata. «Qui le domande le faccio io! E adesso vai a preparare un caffè, che per colpa tua non ho neanche fatto colazione.» Mollò la presa al collo e Carole tirò un sospiro di sollievo. Era terribilmente spaventata, si alzò dal divano e si avviò ubbidiente verso la piccola cucina. Lui cominciò a guardare dappertutto, come se quella fosse casa sua. Aprì la porta della camera di Franco e poi quella di Luc. «E tu dove dormi? Una sera su un letto e il giorno dopo su un altro? Dimmi piccola bugiarda!» Carole avrebbe voluto prendere una padella e dargliela in testa ma aveva capito che non era il momento di fare la dura. «Non è come pensi, Luc è un amico di Franco, con cui condivide questo appartamento e lui è davvero solo un mio amico ed è gay. Io dormo sul divano fino a quando non troverò una sistemazione migliore.» Non fece in tempo a finire la frase che si ritrovò la polvere del caffè addosso e sul pavimento. Andrea la prese per le spalle e la girò verso di sé. «Continui a trattarmi come uno stupido e io mi sto innervosendo e quando m’innervosisco faccio cose di cui potrei pentirmi... o forse no, quindi ti consiglio di dirmi la verità!» «Ma è questa la verità, non ti ho detto di Luc perché pensavo che ti arrabbiassi e da come ti stai comportando capisco che avevo ragione!» Aveva le lacrime agli occhi. Lui continuò a fissarla. «E va bene, facciamo finta che io ti creda. Quindi se fimo l’amore qui e i tuoi amici ci sorprendessero, non sarebbe un problema per te, no? Ci faremmo tutti una bella risata e fine dei giochi, dico bene?» Carole cercò di valutare rapidamente una risposta che non lo irritasse ulteriormente. Non aveva nessuna voglia di fare l’amore con lui ma a parte questo, la possibilità che tornassero Luc e Franco era molto improbabile, diversamente sarebbe stato piuttosto sgradevole. Sperò che lui cascasse nel tranello rinunciando ai suoi propositi. «Se questo basterà a fidarti di me, non c’è nessun problema.» L’effetto della sua risposta,

non fu quello sperato, lui sorrise e cominciò a raccogliere la polvere del caffè. «Guarda cos’hai combinato? Adesso puliamo e poi ti faccio tante coccole.» Fecero l’amore nella camera di Franco. Andrea fu dolcissimo e per fortuna, non si rese conto che lei avrebbe voluto essere in qualsiasi altro posto, tranne che lì.

Franco era furioso, andava avanti e indietro, ma le dimensioni della cucina lo costringevano a fare meno di tre i in un senso per poi tornare indietro, ripercorrendo lo stesso tragitto. «Ti rendi conto che è come se ti avesse violentata?» Carole gli aveva raccontato tutto, pregandolo di non dire niente a Luc, sarebbe stato troppo imbarazzante per lei. «Non è stato aggressivo a letto... è solo che...» «La violenza, non è solo fisica Carole, quell’uomo ti sta abusando psicologicamente! Devi assolutamente troncare questa relazione.» «Ti giuro che lo vorrei tanto ma... mi fa paura.» Il trillo del telefono la fece saltare in aria. Fu Franco a rispondere. «Pronto?» «Sei Franco?» «Si, chi parla?» La voce dall’altro capo del telefono era allegra e cordiale. «Sono Andrea, il fidanzato di Carole, mi fa piacere conoscerti anche se solo al telefono. Anzi, se ti va, potremmo andare a cena insieme, per me va bene anche domani, così ci conosciamo, che ne pensi?» Nel frattempo Carole, intuendo chi era al telefono, unì le mani in segno di preghiera, facendo capire a Franco di non dire nulla che potesse irritare Andrea. A malincuore lui ubbidì. «Avrei già un impegno per domani sera, magari mi metto d’accordo con la tua fidanzata, adesso devo proprio scappare, ciao.» Quando ò la cornetta a Carole, si sentiva la voce di Andrea che stava continuando a parlare, ma Franco aveva già fatto una gran fatica a non mandarlo al diavolo e non vedeva l’ora di troncare quella telefonata. Lei prese la cornetta e la coprì con la mano. «Non gli ho dato il numero di telefono!» Gli sussurrò all’orecchio. Andrea sembrava averla sentita, anche se era impossibile, ma certe volte Carole aveva la sensazione che lui fosse capace di leggere persino i suoi pensieri. Cercò di parlare con un tono normale. «Ciao Andrea!» «Quel cazzo del tuo amico è un gran maleducato! Non mi ha dato neanche il

tempo di finire, lasciandomi a parlare da solo! Cosa gli hai raccontato, eh? Stronza!» Carole cominciò ad agitarsi. «Sono sicura che non l’ha fatto apposta... è che stava uscendo.» «Sentitela come è subito pronta a giustificare il suo amichetto!» Il suo tono era minaccioso e cominciò a scandire le parole. «Adesso dimmi perché non mi hai detto che in quella stramaledettissima casa c’è un fottuto telefono! Ti sei dimenticata di dirmi anche questo?» Carole capì che quando Andrea aveva ispezionato l’appartamento, aveva visto il telefono ma in quell’occasione non aveva detto nulla. Evidentemente, il numero se l’era procurato per conto proprio. «Non ci ho pensato, questa non è casa mia... scusa!» Franco rivolse gli occhi al cielo, in segni di disapprovazione per quell’atteggiamento sottomesso dell’amica. Dall’altra parte del telefono Andrea non mollava la presa. «Questa è l’ultima bugia che mi racconti, sono stato fin troppo paziente. Alla prossima, ti assicuro che ti presenterò il conto. Non approfittare del fatto che ti amo!» Click. Carole rimase a fissare il telefono. Andrea l’aveva appena minacciata e nello stesso istante le aveva detto che l’amava. Solo che in tutto quello che faceva e diceva quell’uomo, di amore non ce n’era traccia e lei, ormai, ne era consapevole. Franco aveva ragione, doveva interrompere quella relazione, solo che era più facile dirlo che farlo. Di una cosa era certa, quell’uomo dolce e affascinante che l’aveva fatta innamorare non c’era più o forse non era mai esistito. In ogni caso, con quel mostro non voleva avere più niente a che fare. Si sentiva in trappola, spiata e in balìa dei suoi repentini cambi di umore. Per Franco era solo uno schizofrenico pericoloso che andava fermato, prima che potesse accadere l’irreparabile.

Nei tre mesi successivi, la situazione peggiorò notevolmente. Carole fu costretta a frequentare sempre meno l’università perché lui le faceva continue scenate di gelosia. Non soltanto al telefono, ma anche davanti all’ateneo, non curandosi minimamente dell’imbarazzo che le causava. I suoi soggiorni a Berlino erano sempre più frequenti e anche quando era in Italia, Carole aveva la sensazione di essere spiata. Spesso, faceva appena in tempo ad entrare in casa che il telefono squillava e cominciava l’interrogatorio. Non usciva quasi più con i suoi amici

per evitare che lui le fe qualche piazzata. Se trovava il telefono occupato, andava su tutte le furie accusandola di flirtare con qualche amante e se Carole gli diceva che non era lei al telefono, s’infuriava e cominciava ad insultarla. E poi aveva quella brutta sensazione di vederlo dappertutto. Si rese conto di aver perso una delle cose più importanti della vita, la libertà. Franco le aveva consigliato di denunciarlo ma lei aveva troppa paura e poi sarebbe stata la sua parola contro quella di Andrea. Lui era bravissimo a fare la parte dell’innamorato gentile e premuroso. Era un medico, mentre lei era una ragazzina che viveva da sola, lontana dalla famiglia, aveva quasi abbandonato gli studi, faceva la cameriera in un albergo e viveva in una casa con due ragazzi. Non era credibile. Intanto, la situazione degenerava sempre di più. Quando Andrea si rese conto che Carole era diventata insofferente e forse disposta a rischiare il tutto per tutto, pur di troncare quella relazione, cominciò a minacciarla pesantemente. «Ascolta piccola, nella malaugurata ipotesi che tu mi denunciassi e mi mandassi in galera, sappi che quando uscirò ti farò a pezzi! Anzi, prima vado a trovare i tuoi genitori, gli racconto che razza di bugiarda sgualdrina hanno come figlia e poi ti faccio rimpiangere di essere nata. L’ho già fatto sai? Non è così difficile! Se fai le cose per bene non ti scopriranno mai!» Tutto questo glielo aveva detto sorridendo, guardandola negli occhi e accarezzandole i capelli, seduti al ristorante. Guardando quella scena, chiunque avrebbe pensato ad una comune coppia di innamorati. Quella stessa sera, la costrinse a guidare la sua Lotus, Carole non voleva ma lui aveva insistito fino a che lei, non avendo scelta, si mise al volante. L’aveva incitata più e più volte a premere l’acceleratore ben oltre i limiti di velocità, lei era terrorizzata, sperava che la polizia li fermasse. Niente! Lui continuava ad offenderla, a darle della pappamolle, tanto che lei, era così sfiancata che pensò di andarsi a schiantare e farla finita una volta per tutte. Per fortuna l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio.

20

Parigi Un’automobile con dentro una bara bianca, stava entrando nel cimitero di Brest. Non c’erano fiori, non c’era un corteo di persone, solo lei e una figura di donna vestita di nero. Eleonore non riusciva a vedere il viso ma era certa che fosse sua madre. Tess si materializzò accanto a lei. «Non ti voglio al mio funerale, vattene! È troppo tardi ormai, avresti dovuto pensarci prima. Mi hai abbandonata e adesso non puoi fare più niente, vai via!» Lei tentava di abbracciarla, voleva spiegarle, giustificarsi, ma Tess era già sparita.

Eleonore si svegliò in un bagno di sudore. Fortunatamente, era stato solo un brutto sogno ma nonostante ciò, non si sentì così tanto sollevata. Era lo stesso incubo che aveva vissuto tanti anni prima, quando era ancora prigioniera di Yvonne e di Daniel. Allora, lo aveva interpretato come un grido di aiuto da parte della sorella, ma lei cosa poteva fare? Chiusa lì dentro non poteva aiutare neanche se stessa.

Aveva ispezionato ogni angolo di quella stanza, aveva provato decine di volte ad aprire quella maledetta porta ma non c’era stato niente da fare. Non c’erano finestre, tranne una piccolissima, appena sotto l’alto soffitto, impossibile arrivarci o guardare fuori. Yvonne l’aveva messa in guardia. «Non provarci nemmeno, anche se ti trasformassi in un gatto, l’unica cosa che potresti fare è sfracellarti al suolo.» Eleonore pensò che se solo ne avesse avuto il coraggio, avrebbe scelto di morire piuttosto che vivere in quelle condizioni. Continuava ad appoggiare l’orecchio su ogni centimetro delle pareti e del pavimento, niente, nessun rumore. Da tre giorni, Yvonne non si faceva vedere e non le portava da mangiare. Era un modo per farle capire chi era più forte, volevano piegarla e costringerla ad

accettare quella nuova vita, se così si poteva chiamare. I morsi della fame si facevano sentire e il terzo giorno le forze vennero meno. Cercava di non sprecare energie, standosene a letto tutto il giorno. “Se mi avessero abbandonata qui? Se fossero andati via? Se avessero avuto un incidente d’auto? Nessuno sa che sono qui, morirò come un topo in trappola”. Per fortuna, non avevano chiuso l’acqua nel bagno, almeno non sarebbe morta disidratata. Eleonore beveva quanta più acqua poteva per avere la sensazione di riempire lo stomaco, ma l’effetto era solo momentaneo. Quanto avrebbe resistito? Quando alla fine del quarto giorno, Yvonne entrò nella stanza con un vassoio in mano, nonostante la rabbia che aveva dentro, a Eleonore venne voglia di abbracciarla. La sua gioia svanì, quando vide il contenuto del vassoio. Yvonne lo appoggiò sul comodino vicino al letto con un’espressione quasi divertita. «Stai attenta, potresti fare indigestione!» Sul vassoio c’era una piccolissima ciotola con del brodo e dei minuscoli pezzettini di carne. Eleonore si avventò su quella scodella, il brodo era salatissimo, ma ebbe la sensazione di non aver mai assaggiato nulla di più buono in tutta la sua vita. Che fine avevano fatto quelle leccornìe dei primi giorni? Pensò che le avesse solo sognate. Sentì un piacevole calore salirgli fino alla cima dei capelli. Yvonne continuava a guardarla. «Stai bene più magra, sai? Dovresti ringraziarmi!» «Perché mi fai questo, Yvonne?» «Non sono io che ti faccio questo, sei tu che ti stai facendo del male, inutilmente poi. Fidati, non sei la prima e non sarai l’ultima, so già come andrà a finire. Stai solo sprecando tempo ed energie. Adesso ti saluto, vado a bere il mio pastis prima di cena.» «Quando torni?» Era più un grido disperato che una domanda. Yvonne non si girò neanche e uscì.

Eleonore rimase altri quattro giorni senza cibo e questa volta fu più dura. Prima di perdere completamente le forze, ruppe lo specchio del bagno pensando di tagliarsi le vene e farla finita. D’altra parte, quali erano le sue prospettive di vita? Nel migliore dei casi avrebbe fatto la prostituta fino a venticinque o al massimo ventotto anni e poi? Si vedeva già in mezzo alla strada, povera, vecchia e magari

anche malata. All’ultimo minuto, però, ci aveva ripensato. Non poteva arrendersi, doveva provare a lottare. Portò un pezzettino di specchio con sé e si mise a letto, lo avrebbe usato quando Yvonne sarebbe tornata a portarle da mangiare. Non aveva nessuna intenzione di morire dissanguata, sarebbe stata solo un’azione dimostrativa. Si sentì una codarda per aver formulato questo pensiero, ma aveva scelto di vivere. Maria entrò con una bella tazza di caffè fumante e una spremuta d’arancia. «Cosa hai fatto, hai visto un fantasma?» Eleonore si tirò su dal letto. «Buongiorno Maria, sono felice di vederti!» Maria la interrogò con lo sguardo. «Non guardarmi così! Stavo riflettendo su quanto a volte siamo degli ingrati nei confronti della vita. Cerchiamo sempre qualcos’altro e non apprezziamo quello che abbiamo.» «Stai parlando di Claude?» «No Maria, stavo parlando della libertà e di… ma quando ti erà questa fissazione per Claude, la famiglia, i figli, gli anni che ano, eccetera, eccetera?» Maria sembrava un po’ delusa. «Va bene, va bene, come non detto! Comunque a proposito di Claude, ha chiamato Peter e ha detto che deve parlarti urgentemente per una proposta arrivata dall’Italia, esattamente da Roma.» Alzò volutamente il tono della voce quando pronunciò il nome della città. Eleonore controllò il suo cellulare, anche se sapeva benissimo che era spento, non lo accendeva mai prima di fare colazione e la sua corsetta quotidiana, era un modo per illudersi di essere indipendente. Aveva un lavoro e una vita, completamente condizionati da tutto e da tutti, a cominciare da produttori, registi, agenti, giornali, ufficio stampa, pubblico… la lista era infinita. “Le persone sono convinte che quando hai raggiunto una posizione come la mia, puoi fare tutto quello che vuoi!” Pensò che era una mera illusione. «Allora, non dici niente?» «Maria, ho sentito benissimo e ho visto anche il sorrisino stampato sulla tua faccia quando hai nominato l’Italia. È successo tanti anni fa, rassegnati!» Si stiracchiò. «Se richiama Peter digli che lo chiamo, tra un paio d’ore.» Quella giornata aveva preso una strana piega, sembrava che il tempo avesse deciso di scorrere al contrario. Prima il sogno, poi Yvonne e adesso l’Italia e Claude. Se non altro questo era un bel ricordo.

Alla fine di una difficile seduta, in verità erano tutte molto faticose, Claude le prese le mani e gliele baciò con delicatezza. A Eleonore salirono le lacrime agli occhi, era sempre emotivamente molto fragile durante quegli incontri con il suo psicanalista, ma quel gesto e quello sguardo pieni d’amore, l’avevano scossa più del solito. Da un po’ di tempo, provava un trasporto verso Claude che da una parte la spaventava ma dall’altra la faceva sentire appagata. In modo diverso e con altre motivazioni anche Claude provava gli stessi sentimenti e quel giorno, quasi all’unisono, decisero che era il momento di lasciarsi andare. Lui le stava carezzando i capelli, il viso, le ò un dito sulle labbra, senza dire una parola. Rimasero per un bel po’ a guardarsi negli occhi, sembravano volersi leggere nell’anima. Poi fu Claude ad avvicinare le sue labbra a quelle di Eleonore. A distanza di tanti anni, quando ricordava quel bacio, sentiva dei brividi correrle lungo la schiena fino alla radice dei capelli, esattamente come allora. Aveva baciato altri uomini, nella realtà e nella finzione, ma quello era sempre in testa alla classifica. Eleonore aveva fantasticato più volte su come sarebbe stata la prima volta con Claude, l’aveva immaginata come una scena di un film. Una cenetta a lume di candela, buon cibo, ottimo vino e poi la solita domanda: “Vogliamo bere qualcosa a casa mia?” Non andò affatto così, tuttavia, anche se il divano del suo psicanalista non era proprio comodissimo, fu fantastico. Tra le braccia di Claude, i fantasmi come per magia, sembravano spariti, almeno in quel momento. Fu proprio quella prima volta che lui le propose di partire per l’Italia. Eleonore spense la sigaretta e si tirò su dal divano sul quale erano rimasti rannicchiati a lungo. «Dici sul serio!?» «Certo che dico sul serio! Vorrei farmi perdonare per questa prima volta, che avevo sognato mille volte in tutt’altro modo.» Eleonore sorrise. «Anche tu?» «Anch’io cosa?» «No, niente! Lo sai che l’Italia è uno dei paesi che vorrei visitare più di ogni altro?»

«Allora è una fortuna che io ci debba andare per lavoro! Ma non ti preoccupare, Roma è una città bellissima e sicuramente non ti annoierai, io sarò impegnato solo tre giorni.» Adesso Eleonore era proprio entusiasta. «Andremo a Roma? È fantastico!» Claude si alzò e andò ad aprire la finestra, non glielo disse ma il fumo gli dava fastidio. «Beh, allora è deciso, si parte tra una settimana, così hai tutto il tempo di far digerire la notizia al tuo agente.»

In effetti, fu dura convincere Peter che sarebbe stata via due settimane. Lui aveva appena fissato un paio di provini con due registi che avevano visto Eleonore interpretare egregiamente un piccolo ruolo nell’ultimo film di Claude Chabrol. Era su tutte le furie ma lei era così felice, che per niente al mondo avrebbe rinunciato a quel viaggio con Claude.

Una settimana dopo, sbarcavano mano nella mano all’aeroporto Leonardo Da Vinci di Roma. In quegli ultimi giorni, non erano riusciti a stare insieme quanto avrebbero desiderato ed entrambi non vedevano l’ora di recuperare il tempo perduto. La prima cosa di cui s’innamorò Eleonore, fu il clima. Era il mese di Aprile ma già nell’aria si sentiva il profumo di primavera. Salirono su un taxi per raggiungere l’albergo. «Via Veneto, Hotel Excelsior, s’il vous plait.» Dopo aver dato l’indicazione al tassista, Claude guardò Eleonore con fare sornione, sapeva perfettamente quale sarebbe stata la sua reazione. «Ma... è quella via Veneto? La stessa della Dolce Vita?» Claude le diede un bacio sulla fronte. «Credo proprio di si.» La sorpresa aveva avuto l’effetto desiderato, Eleonore era felice, più bella che mai e lui ne era perdutamente innamorato.

21

Brest Il piano di Corinne e Isabelle non funzionò. Quando Tess fu quasi costretta dalla madre ad aprire il pacco con cavalletto, tele e colori, il risultato non fu per niente quello sperato. Tess aprì il pacco svogliatamente, guardò il contenuto, scoppiò a piangere e andò a rifugiarsi in camera sua. Le due donne, deluse e amareggiate da quella reazione, si guardarono senza parlare. Corinne andò in cucina e cominciò a preparare il tè. Non aveva nessuna voglia di farlo, era solo un modo per cercare di occupare la mente. Ci aveva creduto, aveva sperato che Tess nel vedere quel regalo, mostrasse una minima reazione di piacere o quanto meno di sorpresa, invece non aveva battuto ciglio, anzi l’effetto era stato disastroso. In un altro momento, si sarebbe messa a strillare e saltellare per la gioia e Corinne a questo punto, temeva che non avrebbe mai più rivisto la figlia felice o almeno serena. Avrebbe voluto urlare dalla rabbia, avrebbe voluto piangere disperatamente, avrebbe voluto afferrare Tess per le spalle e scuoterla fino a provocarne una reazione, anche di odio nei suoi confronti, qualunque cosa, tranne quel silenzio e quella disaffezione della figlia nei confronti della vita. Isabelle entrò in cucina e le appoggiò una mano sulla spalla. «Lascia, faccio io.» Quel gesto premuroso fece scoppiare in lacrime Corinne che cominciò a singhiozzare come una bambina. Isabelle la strinse a sé. «Mi dispiace... mi dispiace tanto. Calmati adesso, non vorrai farti sentire da Tess?» Corinne si staccò malvolentieri dall’amica, non ricordava più quando era stata l’ultima volta che qualcuno avesse dimostrato un segno di affetto nei suoi confronti. «Non so neanche se è in grado di percepire ciò che la circonda. Certe volte mi fa rabbia e altre volte mi fa una tenerezza infinita, avrei voglia di tenerla in braccio e coccolarla come quando era piccola... ma... credo che mi odi.» «Non è te che odia, Corinne! In questo momento rifiuta tutto ciò che la circonda, credo che stia metabolizzando il suo dolore, a modo suo, dalle tempo!» Corinne scattò come una molla. «Non ho più tempo, se non torno al lavoro, tra una

settimana rischio di perdere il posto e allora si che saranno guai!» Isabelle andò a spegnere il fuoco e finì di preparare il tè. «Troveremo una soluzione, a costo di fare i turni a casa tua per non lasciarla sola, calmati ora, non risolverai niente reagendo in questo modo!»

Tess se ne stava rannicchiata sul letto a fissare l’abat-jour sul comodino. Quell’oggetto le piaceva molto, forse perché era colorato o perché era stato uno dei pochi regali che avesse mai ricevuto nella sua vita. L’aveva vista nella vetrina di un negozio proprio il giorno del suo ultimo compleanno e la madre gliela aveva regalata. Era stata una giornata fantastica! Adesso le cose erano ben diverse, come poteva pensare sua madre di consolarla per la perdita del suo bambino, con un cavalletto e un po’ di colori? Per colpa sua non avrebbe mai saputo che aspetto avesse. Aveva i capelli, di che colore? Era grassottello o magro come lei? Com’erano le manine e i piedini... e tutto il resto? Se almeno la madre l’avesse visto avrebbe potuto descriverglielo e invece non aveva voluto vederlo. L’aveva sentita in ospedale mentre parlava con la sua amica Isabelle, pensavano che lei dormisse e invece aveva sentito tutto. Se lei aveva rischiato di morire non era certamente colpa del suo bambino! “Possibile che i grandi dicono di sapere tutto e poi non capiscono le cose più semplici? Se ci fosse stata Eleonore di sicuro avrebbe voluto vederlo il mio bambino”. Tess trascorreva la maggior parte delle sue giornate a rimuginare sulla sua vita e ad immaginare come sarebbe stata diversa insieme al suo piccolino. Si era creata una dimensione tutta sua, dove non c’era posto per nessun altro.

Dopo una settimana Corinne fu costretta a tornare al lavoro. Come promesso, Isabelle fece in modo di non lasciare mai da sola Tess. Cercava di stimolarla in tutti i modi, tentava di farla parlare facendole delle domande o cercando di coinvolgerla raccontando qualche episodio accaduto in paese o con i ragazzini a cui dava lezioni private. Niente! Alzate di spalle e cenni del capo, erano tutto ciò che concedeva. Isabelle si era illusa che il distacco dalla madre, potesse avere addirittura un effetto positivo su di lei e invece, la situazione era persino peggiorata. «Tess, tua madre doveva tornare al lavoro, lo capisci? Non ti ha abbandonata, se

è questo che pensi! Se tu sapessi quanto era preoccupata quando stavi in ospedale e quanto ancora stia soffrendo vedendoti in questo stato!» Nessuna reazione. «Certe volte noi adulti facciamo degli errori... e per mettervi riparo ne facciamo altri, ancora più gravi. Non siamo perfetti sai? Fortunatamente il buon Dio ci ha insegnato a perdonare e questa è la nostra salvezza.» Tess, seduta a tavola, continuava a piluccare molliche di pane senza guardarla. Aveva ragione Corinne, era snervante, pensò Isabelle. Bisognava trovare qualcosa, che in qualche modo, la fe reagire. Lei non poteva fare il cane da guardia a vita, aveva una famiglia a cui pensare e anche se Tom continuava a dimostrarsi comprensivo, non poteva calcare troppo la mano. Il problema era: cosa poteva scuotere quella ragazzina da quel torpore malinconico? La risposta arrivò da sola, dopo qualche giorno.

Era mattina presto, il cielo non preannunciava niente di buono e Tess se ne stava come al solito, raggomitolata sul letto della sua cameretta. Lei amava il sole e quelle giornate bigie non facevano altro che aumentare lo sconforto della sua giovane anima. Improvvisamente, sentì una specie di mugolio, distolse lo sguardo dall’abat-jour e si girò a guardare la finestra. Non sentiva nulla, forse si era sbagliata. Riprese quella specie di sogno ad occhi aperti nel quale stava immaginando di fare il bagno al suo bambino. “Devi stare fermo, altrimenti il sapone ti va negli occhi e poi ti bruciano, hai capito?” Di nuovo quel suono, sembrava un lamento. Tess pensò che la sua immaginazione le stesse giocando un brutto scherzo. Adesso sentiva anche il pianto del suo bambino? Ancora… sembrava proprio un pianto. Si alzò dal letto e guardò da dietro il vetro della finestra. Non vedeva quel giardino, dove trascorreva tanto tempo con Eleonore, da mesi. Non se lo ricordava così piccolo, che fine avevano fatto i fiori? E le piante? Come poteva aver fantasticato infinite volte su storie di fate e principi in quell’arido fazzoletto di terra? Qualcosa si mosse dietro un cespuglio quasi bicolore, una parte era ancora verde e l’altra quasi spoglia e giallastra. Dietro quest’ultima vide qualcosa che si muoveva, forse un’animale? Un grosso topo? Aspettò ancora qualche secondo e sentì di nuovo quella specie di lamento, poi lo vide uscire barcollando dal suo rifugio, era un cucciolo di cane. Tess sorpresa, corse ad infilarsi le scarpe e si precipitò in giardino.

Era piccolissimo, bianco con una macchia nera sulla testa, anche la coda era nera. Aveva gli occhi semichiusi e a stento cercava di tenersi in equilibrio. Tess lo prese in braccio e cominciò ad accarezzarlo, era sporco di fango, tremava e continuava ad emettere quegli strani suoni. Isabelle, vedendola uscire di corsa, l’aveva seguita preoccupata. Tess la guardò sorridendo e dopo tanto tempo fece sentire di nuovo il suono della sua voce. «Credo che abbia fame!»

Quando Corinne tornò a casa, pensò che stesse sognando. Sentiva la voce di Isabelle provenire dalla cucina. “E quell’altra? Era la voce di Tess?” Si affacciò sulla porta e le vide entrambe piegate, con le teste dentro una scatola di cartone. La prima ad accorgersi della sua presenza, fu Isabelle che le fece l’occhiolino, poi fu la volta di Tess. «Mamma guarda, qualcuno lo ha lasciato nel nostro giardino! Ti prego lo posso tenere?» Corinne avrebbe voluto mettersi a saltare per la gioia, la sua bambina aveva parlato e stava sorridendo! “Mio Dio, fa che sia vero”, pensò, “fai che non sia un sogno!” Si avvicinò alla scatola e vide l’esserino che aveva fatto tornare il sorriso alla sua Tess. Lei, sapendo che la madre non aveva mai voluto animali in casa, cominciò a preoccuparsi per quel silenzio. «Non ti darà fastidio, te lo prometto!» Non poteva sapere che in quel momento, Corinne vedeva quel cucciolo come una benedizione. «Certo che puoi tenerlo, ma dovrai occupartene tu!» Finse un tono più severo. «Io non ho tempo di badare a lui!» Avrebbe voluto abbracciare la figlia ma aveva paura di rompere l’incantesimo. Era un giorno splendido anche così!

22

Berlino Carole era stanca e soprattutto spaventata. Gli atteggiamenti violenti di Andrea erano sempre più frequenti e più pericolosi, ormai la sfidava in continuazione, sembrava divertirsi. ava davanti a una pattuglia della polizia e la incitava a denunciarlo, poi salutava sorridendo, gli agenti in servizio che ricambiavano cordialmente il saluto. Questo come tanti altri, erano atteggiamenti che non facevano che gratificare il suo ego malato e intimidire sempre di più Carole. Lei ormai, era succube di quegli sporchi giochetti, di quelle sue esibizioni di “machismo”, ma non aveva la forza di reagire. Lui la terrorizzava continuamente con minacce di ogni genere, e intanto le settimane trascorrevano nell’attesa di qualcosa che mettesse fine a quella brutta storia. Un pomeriggio, ando per Alexanderplatz, guardò con invidia quei giovani spensierati che solitamente si riunivano lì a ridere, scherzare o parlare dei loro problemi. Guardandoli sorrise amaramente, le sembrava di sentirle le loro preoccupazioni. Un’interrogazione andata male, una litigata con i genitori per un permesso negato di andare in discoteca, una macchia sui jeans nuovi e altre sciocchezze del genere. Sì per lei, adesso, quelle erano sciocchezze. “Se sapessero quanto è bello starsene seduti lì, liberi, senza quella paura che ti attanaglia il cuore e non ti lascia respirare”. In quei mesi, non era la prima volta che si ritrovava a desiderare cose cui prima non dava nessun valore. Cose apparentemente banali, come sedersi a un tavolino di un bar, leggere un giornale, bere un cappuccino e lasciarsi baciare dai raggi del sole in una giornata di primavera. Nel suo cuore da troppo tempo ormai, era sempre inverno.

La svolta arrivò una sera, quando Andrea dopo una cena al ristorante, durante la quale era stato impeccabile. Saliti in macchina, lui la guardò, sorrise, poi con estrema calma le mise una mano intorno al collo e strinse forte. «Dimmi che mi

ami?» In quel momento, Carole si convinse che fosse arrivata la fine. Pensava che quello fosse una sorta di addio che lui le stava dando prima di ucciderla. Non capiva se quelle lacrime che sentiva colare sulle sue guance, erano dovute alla pressione delle dita sul collo, alla paura, all’impotenza o alla rabbia. Lei, che era capace di mettersi a piangere alla vista di una lucertola morta, in quel momento, se l’avesse visto stramazzare davanti ai suoi occhi, non avrebbe provato nessuna pietà. «Ti amo.» Rispose. Lui mollò la presa e Carole cominciò a tossire. Andarono in albergo e fecero l’amore. Odiava quell’uomo con tutta se stessa. Non sopportava di essere toccata, non sopportava quel sorrisino stampato perennemente sulla sua faccia, non sopportava niente di lui. Eppure era lì a fingere che le pie fare l’amore. È facile pensare che se ci trovassimo al posto di una persona che subisce tante e tali violenze, avremmo un atteggiamento diverso. C’è solo un piccolo particolare, la differenza tra immaginare e vivere una determinata condizione, è abissale. Questo convincimento si radicò nella mente di Carole, per il resto della sua vita. Quella sera, la goccia aveva fatto traboccare il vaso. Il giorno dopo raccolse le sue cose, decisa a tornare a casa dei genitori e al diavolo l’orgoglio! Sì, aveva gettato la spugna e questo le bruciava, ma il desiderio di riprendersi la sua vita e la sua libertà era più forte. Sperava di trovare a casa Franco per dirgli che stava partendo. Lasciarlo le dispiaceva da morire, anche se era sicura che il suo amico l’avrebbe capita e appoggiata. Gli avrebbe lasciato un biglietto, non poteva aspettarlo, aveva paura di perdere quella briciola di coraggio, che finalmente sentiva di avere in quel momento.

Anche se Andrea le aveva detto che sarebbe stato impegnato tutto il giorno - per fare cosa era un mistero - e che l’avrebbe chiamata nel tardo pomeriggio, Carole non si sentiva per niente al sicuro. Durante il tragitto in metropolitana che la stava portando alla stazione, si guardava continuamente intorno con il terrore di vederlo comparire da un momento all’altro. Quando arrivò a destinazione aveva i nervi a fior di pelle, guardò gli orari e fece immediatamente il biglietto che l’avrebbe riportata a casa, a Nantes. Due ore, ancora due ore e quell’incubo

sarebbe finito! Forse. Aveva il tempo di chiamare i suoi genitori per avvisarli del suo arrivo. Immaginava già la reazione della madre! In ogni caso aveva deciso di raccontare loro la verità, omettendo le cose che più li avrebbero fatti soffrire. Il pensiero di tornare a casa la tranquillizzò. A parte quella brutta storia, quei mesi a Berlino le avevano fatto capire quanto sia importante la famiglia. Si stupì per aver formulato quel pensiero. Comprò dell’acqua e un panino, scelse una panchina e si mise a sedere.

Quando Franco tornò a casa, lesse il biglietto di Carole, guardò l’orologio e sprofondò sul divano. Troppo tardi! Sicuramente la sua amica era già partita. Era rincuorato dall’idea che Carole, avesse finalmente deciso di liberarsi da quello psicopatico, ma nel contempo era dispiaciuto per la sua partenza. Si sarebbero sentiti al telefono il giorno dopo, certo che prima o poi l’avrebbe rivista.

Il ritorno a casa con nessi e connessi, non fu poi così drammatico come aveva immaginato Carole. Persino la madre le risparmiò reazioni plateali da repertorio, quando raccontò la storia di Andrea. Miracolo! Dopo qualche giorno l’idillio era già finito e ci fu il primo litigio, a causa di Rose. La madre pretendeva che Carole chiamasse la zia per salutarla e chiederle scusa per come si era comportata. «Non ci penso neanche! Lei piuttosto, dovrebbe chiedermi scusa per come mi ha trattata sin dal primo giorno!» Anne non mollava. «È mia sorella e anche se… so che ha un brutto carattere, sei pur sempre stata sua ospite! Il minimo che tu possa fare è chiamarla... almeno solo per ringraziarla.» Per fortuna Paul arrivò in soccorso della figlia. «Dai Anne, chiamala tu e facciamola finita con questa storia dei ringraziamenti!» Carole gli lanciò uno sguardo di gratitudine che purtroppo venne intercettato dalla madre. «Ecco, ci risiamo! È tornato il figliol prodigo e io non conto più niente, come sempre!» Carole cercò di sdrammatizzare e andò ad abbracciare la madre. «Ti prego, mammina non voglio parlare con la strega cattiva!» Quel tono spiritoso e la faccia divertita di Paul, fecero vacillare Anne. «E va bene, la chiamo io! Ma la prossima volta non scappi!» Carole si rifugiò nella sua camera, per non rischiare un eventuale ripensamento

della madre, meglio non farsi vedere in giro. Accese la TV e la prima immagine che vide fu un bel primo piano di Eleonore Legrand che stava promuovendo il suo ultimo film. Adorava quell’attrice, anzi, era la sua preferita. Aumentò il volume per sentire meglio. Le piaceva non solo come donna ma anche come interprete, tanto che aveva visto tutti i suoi film. Era bella sì, ma quello che più le piaceva era il fatto che non si dava arie da grande star, pur essendo una delle attrici più quotate a livello internazionale. Nonostante il volume della TV, sentì la voce concitata della madre. Per un attimo pensò che stesse litigando col padre. Abbassò malvolentieri il volume e tese l’orecchio. Si sentiva solo la voce di Anne, non che fosse così strano, anche quando i genitori litigavano, prevaleva sempre e solo la voce di lei, ma in quel momento non sentiva neanche un bisbiglìo del padre. Forse era ancora al telefono con zia Rose? Si alzò dal letto e aprì piano la porta. La sua impressione era giusta, la madre stava parlando proprio con la sorella. “Chissà cosa le sta raccontando quella strega?” Rimase ad origliare. La madre sembrava agitata. «Se tu glielo avessi detto avresti fatto un grosso errore... si lo so che è abbastanza grande ma tocca a noi dirgl... non è facile, sai? Non sto temporeggiando, sto cercando il momento adat... no, non sono scuse!» Carole percepì che la madre stava giustificandosi per qualcosa, ma non riusciva a capire di cosa stessero parlando. La risposta arrivò qualche secondo dopo, come una doccia fredda. «Ti sembra facile dire a una figlia che non l’hai partorita tu e che è stata adottata?» Carole si sentì mancare, forse non aveva capito bene, forse stavano parlando dei suoi cugini, i figli di Rose. Quel tono concitato della madre però, la dissuase da quella ipotesi. Continuò ad ascoltare, anche se non era più tanto lucida, le girava la testa ma si sforzò di restare accanto alla porta per prestare maggiore attenzione. «Amo mia figlia più di chiunque altro e... ho paura di farle del male, non riesco ad immaginare quale potrebbe essere la sua reazione, lo capisci o no?» Stavano proprio parlando di lei, non aveva dubbi! Si sedette sul letto inebetita, la testa continuava a girare come una trottola. «Non è possibile!» Si alzò e andò a cercare l’album delle foto, le guardò una per una come una forsennata. Lei al parco, le torte di compleanno, le facce sorridenti dei suoi genitori... Come

avevano potuto nasconderle una cosa del genere? Mille ricordi si accavallavano nella tua testa ma non trovò nessun segnale che potesse confermare quello che aveva appena detto la madre, se mai ce ne fosse stato bisogno. Poi ebbe come un’illuminazione. “Zia Rose, lei lo sapeva! Ecco perché era sempre così distaccata, non voleva neanche essere chiamata zia, in effetti non sono sua nipote!” Nella sua mente affiorarono frammenti di una conversazione in cucina tra Rose e zio Robert, aveva avuto la percezione che stessero parlando di lei ma quel giorno era troppo presa dalla storia con Andrea e se ne era completamente dimenticata. “Che stupida!” Nonostante la confusione che c’era nella sua testa in quel momento, cominciava a ricomporre il puzzle della sua vita. Si era sentita in colpa per anni, pensando che al momento del parto la madre avesse avuto dei problemi e per questo non aveva avuto altri figli. Tra tante foto, non ricordava di averne mai vista una della madre col pancione. Ancora una volta si diede della stupida. Anne la stava chiamando, la cena era pronta. E adesso cosa doveva fare? Non poteva certo far finta di niente! Doveva sapere, voleva una conferma di ciò che aveva sentito, anche se in cuor suo, sperava che questa conferma non arrivasse. Andò in bagno e si sciacquò il viso. L’acqua fredda le diede una sensazione piacevole. Si strofinò le mani a lungo, si rese conto che stava temporeggiando. Per quale motivo? Qualche minuto in più non poteva cancellare come per magia, quello che aveva appena sentito. Aprì la porta del bagno e come un cane bastonato entrò in cucina, Anna e Paul erano già a tavola. Chi erano quei due estranei che per tutta la vita aveva chiamato mamma e papà?

23

Parigi Eleonore e Peter erano sull’aereo, destinazione Roma, dove si sarebbero fermati un paio di giorni per poi proseguire per Genova. Lei aveva accettato di partecipare come ospite, ad un festival canoro che si svolgeva ogni anno in Italia e che trasmettevano in molti paesi del mondo. Era un modo come un altro per stare sulle copertine dei giornali e guadagnare una barca di soldi, senza fare quasi nulla. Amava l’Italia, anche se tante cose erano incomprensibili per lei. Aveva avuto modo di conoscere alcuni personaggi, che lei riteneva alquanto privi di etica professionale, se non addirittura loschi, che avevano incarichi di grande rilievo in aziende importanti. La televisione pubblica poi, era un vero e proprio puttanaio. Ragazze disposte a tutto pur di comparire sul piccolo schermo, e quelle determinate a non prostituirsi, non avevano speranza di lavorare, anche se dotate di talento, qualità non richiesta. Politici e registi, cosiddetti di serie A, disposti a perdere la faccia, si fa per dire, pur di portarsi a letto la soubrette o aspirante tale, di turno. E questa era solo una piccola parte di quello che aveva potuto constatare con i propri occhi. Ringraziava il cielo per non avere avuto a che fare con questo marciume all’inizio della sua carriera. Per il resto adorava quel paese.

Si era innamorata dell’Italia e di Roma in particolare, da quando tanti anni prima c’era stata con Claude. Erano stati giorni meravigliosi e lei, dopo tanto tempo, si sentiva felice e per la prima volta innamorata. Con lui si era lasciata andare e aveva ricominciato a fidarsi un po’ più del prossimo. Il giorno prima di ripartire per Parigi mentre erano abbracciati sul letto, Eleonore gli disse che quando sarebbero diventati vecchi, le sarebbe piaciuto vivere in un piccolo attico in piazza di Spagna. «Perché non lo facciamo subito? Chi ce lo vieta?» Lei pensò che stesse scherzando, ma dall’espressione di Claude, capì che

parlava sul serio. «Ho diversi amici qui che potrebbero darmi una mano a continuare la mia professione ancora per qualche anno, e poi quando sarò diventato un anziano signore, ce ne andremo a zonzo per tutto il paese.» Eleonore cominciava ad agitarsi sempre di più, man mano che lui si entusiasmava nel programmare la vita di entrambi. «Ci sono tanti posti meravigliosi che vorrei farti vedere, sai? Pensa che in alcune isole nel sud dell’Italia, l’acqua è così trasparente che puoi vedere i pesci nuotare!» Lei si accese una sigaretta, non aveva voglia di fumare anche perché aveva intuito che a Claude desse fastidio, ma era convinta che l’aiutasse a concentrarsi. In quel momento, quel programma sembrava meraviglioso, ma dall’altra parte Eleonore si rese conto che lui stava pianificando le loro vite senza prendere in considerazione né il suo lavoro, per quanto fosse agli inizi, né una sua eventuale carriera. Quella fu la prima volta che litigarono seriamente. Claude intuì che lei non era altrettanto entusiasta di questo progetto. «Tesoro, vuoi are il resto della tua vita a fare provini a destra e a manca, nella speranza che ti diano una particina per guadagnare due soldi?» Eleonore a questo punto sbottò. «Quindi pensi che io non abbia abbastanza talento per smettere di girare come una trottola e magari cominciare a firmare contratti meno insignificanti di quelli che ho accettato finora?» «Non sto dicendo questo! È solo che non sempre le cose vanno come desideriamo. Sai quante ragazze belle come te, vorrebbero fare le attrici? Il tuo è un... un lavoro con troppe variabili che...» Eleonore lo interruppe. «Non riesci neanche a dire che il mio è un lavoro. Ma non preoccuparti, sei in buona compagnia.» «Dai, adesso, non fare la permalosa! E poi non ci sarebbe niente di male se tu lo fi come hobby!» Più Claude parlava e più lei diventava irritabile. I toni si erano alzati e a un certo punto Eleonore, decise di calmarsi, almeno apparentemente, per chiudere quella discussione. «Comunque, voglio dirti una cosa, a prescindere dal lavoro che sto facendo adesso e che non so neanch’io dove mi porterà. Tanti anni fa ho giurato a me stessa che non dipenderò mai più da nessuno e tanto meno da un uomo, quindi grazie per la tua proposta, ma la risposta è no!» Claude era amareggiato. «Io non sono come gli uomini che hai conosciuto, io ti amo! Non fa nessuna differenza per te?»

Sì, la differenza la faceva, eccome! Era innamorata e consapevole di essere ricambiata, ma aveva giurato che non sarebbe mai più dipesa da nessuno all’infuori di se stessa. Non poté fare a meno di pensare ai suoi aguzzini.

Yvonne era la sua carceriera, ma era anche l’unico essere umano con cui aveva contatti. La guerra psicologica che aveva subito in quelle prime settimane, chiusa all’interno di quattro mura, era diventata insopportabile. Per giorni la lasciava senza mangiare e senza farsi vedere, fino a quando Eleonore aveva provato a farsi dei tagli ai polsi pensando che questo atto di ribellione, servisse a convincere Yvonne e il suo amico Daniel, che non avrebbe mai accettato di prostituirsi. L’effetto non fu quello sperato. Yvonne capì che non era stato un reale tentativo di suicidio e dopo averla medicata, le diede la solita minestra, questa volta con del sonnifero. Quando Eleonore si svegliò, si ritrovò legata al letto, mani e piedi, completamente nuda. In un primo momento, pensò che si trattasse di un incubo, forse stava ancora dormendo? Cominciò a guardarsi intorno e anche se era ancora intontita dal sedativo, si rese conto che non era affatto un brutto sogno. Con le poche forze che le erano rimaste, cominciò a strattonare braccia e gambe, ma più ci provava e più si faceva male. Il dolore aumentava sempre di più, fino a che sfinita, la rabbia lasciò il posto alla disperazione. Aveva bisogno di andare in bagno e quando la sua vescica si riempì, non riuscì più a trattenersi. Pianse fino a non avere più lacrime. Il mattino dopo si svegliò stremata e infreddolita, per via delle lenzuola bagnate dalla sua urina. Nonostante ciò, quando Yvonne entrò nella camera, cercò istintivamente di coprirsi. I suoi polsi erano talmente irritati dalle abrasioni che dopo i primi tentativi, cominciarono nuovamente a sanguinare e il bruciore era insopportabile. Il quel momento, non era il dolore a darle sofferenza ma piuttosto quello stato d’impotenza, di disperazione e soprattutto di vergogna. L’alternativa a non soccombere alla volontà di quei due mostri, era il supplizio, probabilmente la morte o nel migliore dei casi, il rischio d’impazzire. Doveva rassegnarsi, questa battaglia l’aveva persa, almeno per il momento.

Grazie alla sua giovane età e alla sua tempra dopo una settimana aveva ripreso le forze e anche il colore sulle guance. Aveva promesso a Yvonne che avrebbe fatto quello che volevano e lei l’aveva ricompensata con pasti abbondanti e appetitosi. Era ritornata l’amicona dei primi giorni, sempre allegra e pronta ad accontentare la sua vittima. Solo che adesso, Eleonore era consapevole che quell’atteggiamento non era né sincero né tantomeno disinteressato. Yvonne la istruì su quello che avrebbe dovuto fare, non tralasciando nessun dettaglio. «Devi recitare una parte, come se fossi in un film. Tutto sommato non è così difficile, parla poco, sorridi e fai credere al cliente di turno che lui è il tuo preferito. L’importante è che tu sia sempre perfetta, elegante e desiderabile. Loro pensano che tu sia il loro premio perché sono speciali, non hanno voglia di pensare che stanno pagando per averlo!» Eleonore l’ascoltava esterrefatta. Come poteva quella donna parlare con quel tono, quasi scanzonato, di una cosa del genere? Per di più lo stava facendo, pianificando la vita di un’altra persona! Decise di mordersi la lingua e di fingersi accondiscendente, d’altro canto ormai era consapevole che non aveva nessuna possibilità di uscire da quell’inferno, finché sarebbe rimasta rinchiusa lì, da sola, come un topo in trappola. «Dove incontrerò questi uomini?» Yvonne la guardò con sospetto. «Non è importante il luogo, concentrati sul come fare il tuo lavoro.» Fece una pausa e la guardò dritta negli occhi. «Ti do un consiglio Eleonore, comportati bene e attieniti alle istruzioni, diversamente quello che hai sopportato finora, non è niente rispetto a quello che potrebbe farti Daniel. Io tra i due, sono quella col cuore tenero.» Eleonore sapeva che stava dicendo la verità. «Ho detto che farò quello che volete! Vorrei solo sapere per quanto tempo?» «Oh, quante domande! Dove, per quanto tempo… ma ti sei chiesta che alternative hai? Sola, senza un soldo e senza nessuno che ti protegga! Per non parlare del fatto che sei minorenne e probabilmente anche un’assassina! Dovresti ringraziarci piuttosto, e pregare che non saremo noi a cambiare idea e a mandarti via a calci nel culo!» Eleonore pensò, che quello che le aveva appena detto Yvonne, per quanto potesse sembrare spietato, non era così insensato. Qual era l’alternativa? Tornare a casa? Andare in carcere? O peggio, se il padre fosse stato ancora vivo, che vita sarebbe stata la sua? Aveva deciso di recitare quel ruolo, solo che l’avrebbe fatto

anche con loro, fino a quando non avesse trovato una soluzione per uscire da quell’incubo. Claude le si avvicinò cauto. «Tesoro, lo so che hai sofferto tanto... ma devi lasciarti alle spalle quello che ti è successo, soprattutto devi ricominciare a fidarti di qualcuno... e questo qualcuno, vorrei tanto essere io. Io ti amo veramente e tu sai che non potrei mai e poi mai farti del male!» Lei voleva credergli con tutta se stessa ma non riusciva a farlo fino in fondo. L’unica persona di cui si fidava veramente era Maria ma non era il caso di dirglielo. Rimase in silenzio e Claude che come al solito sapeva cosa fare, l’abbracciò e la strinse a sé.

Peter chiuse la sua agenda, il tavolino davanti a sé e si allacciò la cintura, stavano per atterrare. Era stato stranamente poco loquace durante il viaggio ed Eleonore sapeva qual era il motivo. Una settimana prima di partire gli aveva detto che era in contatto con un’agenzia immobiliare per affittare un piccolo attico nei pressi di piazza di Spagna e Peter non l’aveva presa bene. Ne era scaturita l’ennesima discussione. «Cosa farai da sola a Roma? Non posso mica mollare tutto per fare il tuo cavalier servente? Anch’io ho un lavoro, sai?» Eleonore si sforzò di rimanere calma. «So benissimo che hai un lavoro, dal momento che io sono la tua maggiore fonte di guadagno e comunque non ti ho chiesto di seguirmi. In ogni caso, anche se non è affar tuo, sto tentando di comprare quell’attico perché mi sembra un buon investimento. Per adesso mi accontento di prenderlo in affitto, dopo si vedrà.» Peter si mise a ridere. «A Parigi puoi fare tutti gli investimenti che vuoi, non prendermi in giro!» Eleonore pensò che quella reazione fosse dovuta alla gelosia che nutriva ancora, dopo tanti anni, nei confronti di Claude. «Ascolta Peter, tu sei il mio agente e lo rimarrai per sempre, anche se a volte sei insopportabile! Ti sono riconoscente per tutto quello che hai fatto e che continui a fare per me, ma questo non ti autorizza ad interferire continuamente in quella piccolissima parte di vita privata che a stento cerco di ritagliarmi!» Peter sapeva perfettamente che era inutile tentare di dissuaderla, quando Eleonore prendeva una decisione, nessuno poteva farle cambiare idea. Certe volte pensava che quella donna che lui amava da sempre, fosse un essere privo di sentimenti e di emozioni.

24

Brest Tess e Molly erano diventati inseparabili. Molly era un maschio anche se Tess aveva voluto darle un nome da femmina. Non lo mollava mai e quel cucciolo era diventato la sua ombra, dormiva persino sul letto con lei. La madre aveva fatto un timido tentativo di dissuadere la figlia, spiegandole che non era igienico far dormire il cane sul letto ma fece subito un o indietro, constatando la reazione contrariata di Tess. Corinne faceva il possibile per non contraddirla, consapevole che la figlia pur avendo fatto notevoli progressi, non era ancora la Tess di prima. Era talmente felice che le loro vite stessero tornando alla normalità che non si accorgeva neanche che quell’attaccamento della figlia a Molly poteva diventare rischioso. Fu Isabelle a parlargliene, perché come spesso accade, da fuori si riesce ad essere più obiettivi, più razionali.

Corinne era appena tornata dal lavoro e Isabelle la intercettò prima che entrasse in casa. «Vieni da me, ho dei biscotti appena sfornati!» Corinne guardò prima lei e poi la porta di casa, l’amica la tranquillizzò. «Non preoccuparti, non si accorge nemmeno di chi le sta intorno!» Appena entrate, Corinne deliziò le sue narici col profumo di biscotti appena sfornati. La casa di Isabelle era piccola ma ordinata, pulita e trasmetteva allegria. Corinne pensò che ogni casa, rispecchia l’atmosfera delle persone che ci vivono e lì regnava amore e serenità, sentimenti assenti da lungo tempo nella sua casa. Tom non era ancora tornato dal lavoro e la figlia, era in camera sua a studiare. Tess e Alexandra erano coetanee e compagne di scuola ma non erano mai state amiche e forse non lo sarebbero mai diventate, contrariamente alle loro madri. Si misero sedute in cucina e Corinne assaggiò un biscotto, era ancora tiepido. «Sono buonissimi, diventi sempre più brava! Hai mai pensato di venderli?» Isabelle la ringraziò per il complimento e Corinne notò che era diventata

pensierosa. «Che c’è, ho detto qualcosa che non va?» «No, non hai detto niente di strano! Certe volte penso che, quando ero giovane, credevo di poter conquistare il mondo e adesso mi gratifico con i complimenti di un’amica per i miei biscotti fatti in casa.» Corinne capiva benissimo quello che provava Isabelle. Anche lei da ragazza non aspirava certo a un’esistenza fatta di stenti, sgobbando dalla mattina alla sera. «Sapessi quante volte ho invidiato la tua vita. Il fatto è, che non siamo mai contenti!» Isabelle prese un biscotto. «Non voglio sembrare un’ingrata e ringrazio Dio per quello che ho, però ho buttato al vento anni di studi per fare cosa? I biscotti? Sai che avrei voluto fare l’insegnante, era la mia ione e adesso mi accontento di dare lezioni private a qualche somaro del paese! Tu almeno hai fatto il lavoro che ti piaceva… me lo ricordo sai, che volevi sempre giocare al dottore!» «Beh, fare l’infermiera non è proprio la stessa cosa, però mi piace aiutare gli altri.» Fece una lunga pausa. «Peccato che non sia riuscita ad aiutare le persone che più amo al mondo!» Cambiò tono, cercando di alleggerire quella conversazione che stava prendendo una piega triste. «Tu almeno hai sposato il principe azzurro… a me è rimasto l’orco!» Sorrisero insieme. «Corinne, non vorrei farti preoccupare, ma sono in pensiero per Tess.» Quella frase, fu sufficiente ad allarmare l’amica.» In che senso?» «L’attaccamento a Molly è diventato quasi morboso, non si accorge neanche di chi le sta intorno, vive in funzione di quel cane, non è una cosa positiva. Mi accorgo che quando le parlo è come se non mi vedesse neanche, come se avesse sempre la testa altrove, ho l’impressione che viva in un mondo tutto suo dove non c’è spazio per nessuno, tranne che per Molly. Lo so che sei contenta perché ha ripreso a parlare e lo sono anch’io, tanto, però non vorrei che… avesse sostituito quella bestiola con... con il suo bambino. Questo, secondo me, potrebbe essere pericoloso. Se Dio non voglia, dovesse accadere qualcosa di brutto a quel cane, non so quale potrebbe essere la sua reazione!» Corinne sapeva in cuor suo che Isabelle aveva ragione. «Sei sempre stata molto brava a capire le persone, sin da ragazza. Comunque anch’io mi sono accorta che Molly sembra essere l’unica ragione di vita per Tess, però, non posso preoccuparmi anche di quello che potrebbe accadere. La mia mente è sempre occupata a risolvere problemi esistenti, e tu sai che ne ho avuti a bizzeffe! Non

ce la faccio a pensare anche a quelli che… probabilmente non lo diventeranno mai!» Isabelle pensò che forse, se Corinne nella sua vita si fosse preoccupata prima di quello che sarebbe potuto accadere, avrebbe risparmiato a lei e alla sua famiglia tante sofferenze. Si sentì un verme solo per aver formulato quel pensiero. Si alzò e andò a preparare un pacchettino con dei biscotti da portare a Tess. «Prova a chiederle di tornare a scuola, ha già perso un anno scolastico... magari questo potrebbe distrarla da quel cane!»

Quando la madre entrò in casa, vide Tess che stava spazzolando Molly. «Ciao tesoro, Isabelle mi ha dato dei biscotti appena sfornati, sono buonissimi!» Tess non la guardò neanche. «Molly li può mangiare?» Corinne le si avvicinò. «Isabelle me li ha dati per te, non credo che Molly capisca la differenza tra una cosa così buona e…» Tess non la lasciò finire. «E invece lui capisce tutto!» Corinne ripensò a quello che le aveva appena detto la sua amica. «Non ho detto che non capisce perché è stupido, ma è un cane non è un..» si bloccò per tempo, «...un essere umano. E comunque se proprio vuoi privarti di un tuo biscotto, fai pure!» Corinne credette di vedere uno sguardo ostile negli occhi Tess che non replicò. Decise che era meglio allontanarsi, Isabelle aveva proprio ragione, come sempre! “Ma perché non c’è mai pace nella mia vita?” Pensò. «Vado a preparare la cena, non dimenticare di lavarti le mani prima di sederti a tavola!» Fortunatamente, Tess aveva ricominciato a mangiare, non piluccava più distrattamente come prima e per Corinne era un altro segnale positivo, anche se ovviamente una parte del suo pasto andava a Molly. “Meno male che é piccolo”, pensava, lo spreco era limitato. Per lei, naturalmente, era uno spreco bello e buono. Quella sera aveva deciso di affrontare l’argomento scuola. Pensò e ripensò a come cominciare quel discorso e alla fine lo fece nel modo più diretto. «Quando pensi di tornare a scuola?» Tess la guardò come se le avesse chiesto di andare sulla luna. «Non posso!» «Perché non puoi?»

«Come faccio con Molly? Non posso mica lasciarlo solo. Non voglio che gli succeda qualcosa di brutto!» Lo disse con una tale naturalezza che spiazzò completamente Corinne. Come doveva interpretare quella frase? “Non sono come te! Mi hai lasciato sola e per colpa tua ho perso il mio bambino!” «Tess, a volte le cose accadono a prescindere dai nostri comportamenti. Sarebbe troppo facile se tutti noi, fossimo artefici delle nostre vite.» Tess si era messa sulle difensive. «Adesso non venirmi a dire che è il Padreterno che decide tutto perché non ci credo. Se così fosse, allora sarebbe davvero cattivo!» Corinne rimase allibita. Si rese conto che la figlia, dietro tutta quella dolcezza che riversava in Molly e quell’apparente serenità, covava dentro una rabbia inaudita. «È una cosa molto brutta quella che hai detto!» Tess diede sfogo alla sua collera. «E non è brutto che io abbia perso il mio bambino? Non è brutto che Eleonore sia andata via? Non è brutto che tu e il tuo buon Dio, non abbiate fatto nulla per non far accadere tutto ciò?» Si alzò da tavola e si diresse di corsa verso la sua camera, Molly si mise ad abbaiare e la seguì. Corinne decise che questa volta, non poteva lasciar correre come spesso faceva, per non irritarla ulteriormente. Doveva andare fino in fondo, tutto sommato era meglio una reazione come quella, che la finta calma che regnava da troppo tempo in quella casa. Non si spiegò come, con uno scatto felino raggiunse Molly, lo prese per la collottola e lo lasciò fuori dalla porta della camera, dove Tess si era rifugiata buttandosi piangente sul letto. Corinne la strinse a sé, anzi ci provò, perché la figlia la respinse con rabbia, ci provò ancora nonostante Tess continuasse a dirle che la odiava. Non si lasciò scoraggiare e continuò il tentativo di abbracciarla, Tess scalciava. «Vai via, ti odio!» Molly continuava ad abbaiare da dietro la porta. Corinne ci provò e riprovò ancora, era straziante vedere la figlia in quelle condizioni ed era altrettanto doloroso avere la conferma che la riteneva responsabile di tutte le sue sofferenze. “Com’è possibile fare così tanto male alla persona che più ami al mondo?” Si chiese. Tess sembrò calmarsi e Corinne finalmente riuscì ad abbracciarla. Cominciò ad oscillare avanti e indietro, come a volerla cullare. Le sembrò di percepire una pressione, era un tentativo di abbraccio? Le lacrime cominciarono a scendere silenziose sul suo viso.

Rimasero in quella posizione a lungo Molly aveva smesso di abbaiare.

25

Berlino Franco era su di giri, aveva appena concluso una conversazione telefonica con Paolo, il suo fidanzatino dei primi anni della scuola superiore. Era stata una bella chiacchierata, Paolo gli aveva detto che viveva a Roma già da qualche tempo e che si trovava bene. Dopo che la loro relazione, a causa del fratello di Franco, divenne di dominio pubblico, la vita di Paolo diventò un inferno. In un paesino di poche anime, nel profondo sud dell’Italia, dove non accade mai nulla di eccitante, quella storia era sulla bocca di tutti. Veniva continuamente deriso, intorno a sé era un continuo di sguardi ammiccanti e gomitate tra amici quando lo incrociavano per strada, per non parlare dei bulli del paese che ci andavano giù con parole e atteggiamenti ancora più pesanti. Fortunatamente i suoi genitori, contrariamente a quelli di Franco, non lo buttarono fuori di casa. Il padre di Paolo, aveva un fratello a Roma che accolse il nipote nella sua casa e lo mise a lavorare nel suo negozio di parrucchiere. Paolo si fece benvolere subito non solo dallo zio ma anche dalle clienti del negozio che gli lasciavano laute mance. Tra l’altro, aveva scoperto che quel lavoro, che mai avrebbe pensato di fare, gli piaceva tanto. Il suo modo di vestire e i suoi atteggiamenti un po’ eccentrici nel suo paese erano ragione di critica, a Roma nessuno vi badava. Aveva dei nuovi amici e cominciò a partecipare a feste, dove qualche volta, incontrava persino dei VIP! Se lo avessero visto quei bulletti da strapazzo del suo paese, sarebbero morti d’invidia! Tutto sommato il fratello di Franco, anche se inconsapevolmente, gli aveva fatto un grosso favore. Durante quella lunga telefonata con Franco, Paolo gli propose di andare a vivere a Roma, ormai conosceva tanta gente e sicuramente un lavoretto per il suo amico lo avrebbe trovato. Per quanto riguardava l’università che a differenza sua, Franco voleva continuare a frequentare, a Roma non avrebbe avuto nessuna difficoltà a continuare gli studi.

Cominciarono a fantasticare su come sarebbe stato bello ritrovarsi e magari affittare un piccolo appartamento, dove andare a vivere insieme. Insomma, alla fine della telefonata, Franco accarezzò seriamente l’idea di trasferirsi a Roma. D’altra parte non si era mai completamente abituato a vivere a Berlino. Il clima era troppo freddo, non gli piaceva la cucina con tutte quelle salse che aggiungevano dappertutto, anche imparare quella lingua così dura, era stato ed era ancora un problema per lui. E poi i tedeschi, secondo lui, sorridevano troppo poco, sembravano sempre incavolati. Doveva dirlo a Carole, chissà come avrebbe preso questa notizia? L’aveva chiamata il giorno dopo la sua partenza e poi non si erano più sentiti. Franco aveva appena dato un esame all’università che lo aveva impegnato molto e adesso riflettendoci, si rese conto che anche lei non lo chiamava da quasi un mese. C’era qualcosa di strano, sperò che non si trattasse di Andrea. Il telefono squillò a lungo prima che qualcuno rispondesse, poi sentì la voce di Carole, quasi irriconoscibile. Lei quando capì che era il suo amico, scoppiò a piangere. Franco ci mise un po’ a calmarla e a cercare di capire cos’era successo, sicuro che la causa di quella disperazione fosse quell’esaltato di Andrea. «Quel bastardo, cosa ti ha fatto ancora?» Carole tirò su col naso. «Sono felice di sentirti e comunque lui non c’entra niente.» Franco si sentì sollevato, non poteva essere successo niente di più grave che avere a che fare con quell’essere disgustoso. Cercò di sdrammatizzare. «Beh, se quando sei felice di sentire qualcuno versi fiumi di lacrime, chissà cosa fai quando ti chiama qualcuno che ti sta antipatico!» La sua battuta non provocò la risatina che si aspettava di sentire. Carole cominciò a raccontare quello che era successo, con molte pause, segno evidente che tentava di trattenere le lacrime. Franco era basito, in questa circostanza non sapeva proprio che dire. Una cosa è non andare d’accordo con i propri genitori, ma tutt’altra storia è scoprire, tra l’altro per caso, che chi ti ha dato la vita, si é liberato di te come un oggetto di cui sbarazzarsi, queste erano state le parole di Carole. Durante una pausa più lunga delle altre, Franco le chiese se ne aveva parlato con loro. «È stato terribile! Quando sono entrata in cucina, erano già a tavola… e non so come, hanno capito subito che io sapevo. Mio pad… Paul si è alzato, mi è venuto incontro e mentre mi chiedeva cos’era successo, mi ha abbracciato

forte.» Carole ricominciò a piangere. Lui aspettò che riprendesse a parlare. «Ero molto arrabbiata e ho iniziato ad insultarli, ho detto delle cose bruttissime di cui mi vergogno... continuavo a chiedergli perché avevo dovuto scoprirlo in questo modo? Perché mi avevano sempre mentito? Perché i miei veri genitori mi avevano abbandonata? Non ricordo neanche tutto quello che gli ho vomitato addosso.» Franco si sedette affranto, sullo sgabello vicino al telefono. Qualche minuto prima era eccitato per la telefonata con Paolo e adesso era sinceramente addolorato per la sua amica. «Gli hai chiesto... dei tuoi veri genitori?» «Sì, anche se da quello che mi hanno detto non sanno nulla... è solo che... adesso non mi fido più di loro. Mi hanno spiegato che non essendo stata un’adozione regolare, anche volendo, non troverò mai i miei genitori. Lo capisci Franco? Non so chi sono, da dove vengo, potrei essere nata in un altro paese, non saprò mai perché sono stata abbandonata, se si sono pentiti, se mi hanno cercata... sono mille le domande che mi faccio da giorni e questo mi angoscia non sai quanto!» «Immagino, deve essere stato tremendo! Ascolta, ma anche se non è stata un’adozione regolare, come sei arrivata a loro? Non ti hanno trovato davanti alla porta di casa, no?» «Ho usato quasi le tue stesse parole quando gliel’ho chiesto e ho avuto l’impressione, che si fossero già preparati il discorsetto. Mi hanno detto che era stato il loro medico di famiglia a organizzare tutto e guarda caso, essendo già anziano quando sono nata io, è morto già da parecchi anni.» Franco rimase deluso da quella spiegazione. «Beh, sicuramente è morto sul serio, i tuoi genitori sanno che questa non è una cosa difficile da verificare, il problema è che non potrà più dire chi ti ha consegnata a lui.» Carole sospirò. «L’ho pensato anch’io! In ogni caso, qualunque cosa dicano non mi fido più di loro. Ho sempre sentito dire che i genitori sono le uniche persone che non ti tradiranno mai e io adesso, non riesco neanche a guardarli in faccia... anche se in alcuni momenti mi fanno quasi pena con quell’aria da cani bastonati.» Lui sentì che la sua amica stava lottando per non rimettersi a piangere. «Hai un cuore grande, lo so!.. Adesso non ti arrabbiare, perché non è mia intenzione

giustificarli, però loro ti hanno voluta e ti hanno amata come se fossi stata una figlia naturale. Guarda me, io non sono stato adottato ma i miei genitori mi hanno sbattuto fuori di casa senza battere ciglio!» «Lo so, infatti non riesco a odiarli... è solo che mi sento ingannata. Per colpa loro non riuscirò mai a sapere chi sono i miei veri genitori!» Franco voleva trovare a tutti i costi, qualcosa di positivo da dire. «Potrebbero non piacerti, ci hai pensato? D’altra parte ti hanno data via e non ti hanno mai cercata, da quanto ne sai!» Silenzio. «Cosa pensi di fare?» «Non lo so, vorrei sparire ecco cosa voglio fare! o le mie giornate chiusa in camera mia a rimuginare sempre sulle stesse cose, cerco di immaginare che aspetto abbiano i miei veri genitori, penso che potrei avere delle sorelle o dei fratelli… mi sento figlia di nessuno!» Il rumore di una porta che si chiudeva fece cambiare tono a Carole. «Sono rientrati, non mi va più di parlare. Raccontami tu, qualcosa di carino, come va lì?» «Mi sento quasi in colpa, ma ti avevo chiamato proprio per parlarti di una grande novità!»

In cucina la madre di Carole stava svuotando le buste della spesa mentre Paul apriva la posta. C’era una cartolina indirizzata a Carole, spedita da Firenze. “Ciao tesoro, mi manchi! A presto, Andrea”. Quasi senza parlare la mostrò alla moglie che si mise le mani sulla testa. «E adesso che facciamo?» Paul prese la cartolina e la mise in tasca. «Niente, non è proprio il momento di angosciarla con altre preoccupazioni. Se quel pazzo si presenta a casa mia lo accoglierò come merita! Non dire una parola, intesi?» Anne acconsentì con un cenno della testa ma era comprensibilmente preoccupata per la figlia. Carole era tornata a casa per sfuggire a quel matto che aveva ancora il coraggio di perseguitarla e poi era successo il patatrac per quella maledetta telefonata con la sorella. L’aveva voluta quella bambina e l’aveva amata come se l’avesse partorita lei. Dopo tanti tentativi falliti lei e il marito, avevano deciso di adottare un bambino. Avevano scoperto che sarebbe stata una cosa molto lunga, dispendiosa ed esasperante. Il suo medico che l’aveva in cura sapeva che Anne già di suo, era

stressata, non avrebbe sopportato quell’attesa estenuante. Così le fece la proposta di un’adozione illegale, ma molto più rapida. A Carole non avevano detto che avevano pagato per averla, era una cosa che lei e il marito avevano giurato di non dirle mai! Paul schioccò le dita per attirare la sua attenzione, non sopportava di vedere la moglie in quello stato, era già abbondantemente preoccupato per la figlia, non poteva occuparsi anche di lei in quel momento. «Anne, ti prego, cerca di tirarti su! Vedrai che la nostra bambina capirà e ci perdonerà. Abbiamo sbagliato a non dirglielo prima ma è una ragazza intelligente e comprenderà che non volevamo ingannarla!»

Carole terminò quella lunga conversazione con Franco e il suo umore era senz’altro migliorato. Non è che i suoi problemi fossero spariti, ma parlare con il suo amico l’aveva fatta sentire meglio, era sempre stato così con lui. Cominciò a valutare la sua proposta di trasferirsi a Roma. “Perché no? Cambiare aria non mi farebbe male!” L’unica perplessità, stava nel fatto che allontanarsi da lì, significava rendere ancora più difficile la ricerca dei suoi veri genitori. Sapeva che sarebbe stata un’impresa ardua ma se non ci avesse almeno provato, non avrebbe trovato pace.

26

Parigi Dopo otto mesi di prigionia, finalmente Eleonore ricevette una splendida notizia. Trascorreva le sue giornate chiusa in quella camera ad aspettare d’incontrare il cliente di turno. La mattina faceva colazione, mentre Yvonne le comunicava quali sarebbero stati i suoi “appuntamenti” della giornata. Lei si preparava e ubbidiente eseguiva gli ordini. Questo atteggiamento un po’ troppo accondiscendente, all’inizio non convinceva affatto la sua sorvegliante, che si era fatta un’idea diversa del carattere di Eleonore, ma piano piano si convinse che la ragazza, non potendo fare altrimenti, si era rassegnata e aveva accettato quella condizione. Non poteva immaginare che Eleonore, stava recitando perfettamente un ruolo anche con lei, nella speranza che questo l’aiutasse a fuggire prima possibile da quell’inferno. Aveva conosciuto tanti uomini, di ogni genere e provava ribrezzo per loro. Come le aveva detto Yvonne all’inizio, tutti indistintamente, pensavano di essere dei numeri uno e la consideravano il loro premio. Erano ben lontani dall’intuire cosa c’era, davvero, nella testa di quella ragazza con la quale facevano sesso. In quel periodo, l’opinione che Eleonore si era fatta sul mondo maschile, era davvero pessima. A letto erano tutti uguali, giovani, vecchi, grassi, magri, brutti o bellocci, benestanti o no, le sembravano un branco d’imbecilli. Qualcuno le diceva di amarla, altri addirittura, le facevano proposte di matrimonio, per non parlare di quelli che piagnucolavano a causa dei sensi di colpa nei confronti della fidanzata o della moglie, ma che ritornavano per fare sesso con lei. Ma tutti quei libri che leggeva durante la sua prigionia, - era una delle poche cose che aveva preteso - dove si parlava di eroi e di imprese epiche, erano solo frutto della fantasia degli autori? Quegli uomini si erano estinti? O non frequentavano i bordelli? Dopo un po’ di tempo, superata la fase in cui a stento tratteneva i conati di vomito, cominciò a vederli con altri occhi, tutto sommato se erano lì, anche loro non dovevano avere una vita appagante. Pagavano per un’aleatoria felicità che

durava qualche minuto. A volte anche meno. Si lavava in continuazione, pensando di far sparire così quel senso di sporcizia che si sentiva perennemente addosso. Era diventata una specie di mania, fino a quando si rese conto che era inutile, quella sensazione era nella sua testa e certamente non l’avrebbe eliminata con un sapone. Era dura, durissima! Tante volte aveva pensato di chiedere aiuto a qualcuno di loro, ma poi ripensava alle parole di Yvonne. «Se ti venisse in mente di spifferare qualcosa a qualcuno, te ne pentirai per il resto della tua inutile vita!» E poi aveva sempre quel dubbio. Aveva ucciso il padre? L’avrebbero messa in prigione? E intanto avano i giorni, le settimane, i mesi. La notte dormiva pochissimo, smaniava in continuazione e in quel breve tempo, durante il quale riusciva ad appisolarsi, faceva dei sogni orribili.

Quel giorno, Eleonore notò che Yvonne era più allegra del solito, ormai aveva imparato a conoscerla. Poggiò tutta sorridente il vassoio sul tavolino e prese posto sulla solita sedia. Guardando quella scena isolata dal contesto, sembrava una cameriera che portava la colazione alla padrona. Eleonore si era domandata più volte, che vita avesse Yvonne al di fuori di quella stanza. All’inizio della sua prigionia le aveva accennato a una madre che era morta povera e malata e poi nient’altro. Yvonne versò il caffè per entrambe. «Oggi non lavori!» Pausa. «Non mi chiedi come mai?» Eleonore prese un croissant. «Non saprei, non è il mio compleanno e neanche Natale.» «Oggi usciamo!» Ci mancò poco che Eleonore si strozzasse col caffè. «Hai detto usciamo??» Yvonne si stava godendo la scena. Eleonore sapeva di cosa era capace quella donna, ma in quel momento ebbe la sensazione che fosse contenta di darle quella notizia, come un’amica vera che sa di averti appena detto qualcosa che ti dà gioia. «Yvonne, se questo è uno scherzo, ti assicuro che non è affatto divertente!» «Non è uno scherzo, non cominciare ad agitarti! Con Daniel abbiamo deciso che dal momento che in tutto questo tempo, non hai mai creato problemi e hai seguito le regole... meriti un premio!» Eleonore non credeva alle sue orecchie, sarebbe uscita da quella stanza dove non vedeva la luce del sole da mesi? Avrebbe visto le strade, i negozi, gli alberi, il

cielo... l’elenco delle cose che avrebbe potuto vedere, aumentò in pochi secondi, in maniera spropositata. «Quando?» «Quanto tempo ti ci vuole a prepararti?» Eleonore scattò dalla sedia. «Sono pronta!» Yvonne non riuscì a trattenere una risata che a Eleonore parve sincera. «Forse è meglio se ti togli la camicia da notte!» Si avviò verso la porta e prima di aprirla disse qualcosa che riportò sulla terra Eleonore. «Inutile dirti che se farai la stupida, sarà la prima e anche l’ultima volta che metterai il naso fuori da questa stanza.» La porta si richiuse alle sue spalle. Eleonore era troppo felice per farsi rovinare il buon umore dalle ultime parole di Yvonne, d’altra parte cosa credeva, che improvvisamente fosse diventata davvero una sua amica? No, lo sapeva benissimo, anche se qualche volta percepiva qualcosa di umano in lei. O era solo una sua impressione? Chissà, quando si è disperati, si vede ciò che si vuole vedere, un po’ come quando si è innamorati. Dieci minuti dopo era già pronta ed emozionata. Il suo battito cardiaco era accelerato. Dopo otto mesi, che a lei erano sembrati interminabili, sarebbe uscita da quel buco. In quel momento si sentì come un carcerato che scontata la pena sta per riprendersi la sua libertà, pur essendo consapevole che la sua di pena, non aveva ancora finito di scontarla. Cominciò a eggiare avanti e indietro per la stanza, era già ata mezz’ora e non si vedeva nessuno. “E se avessero cambiato idea? Se fosse stato uno scherzo di cattivo gusto? No, non aveva senso!” Dopo un’altra ora, quando ormai era sull’orlo di una crisi di nervi, si aprì la porta e Yvonne fece il suo ingresso trionfale. Aveva in mano una specie di foulard. «Questo devi metterlo sugli occhi fino a quando non ti dirò di toglierlo!» In quel momento Eleonore, era così sollevata dal fatto che non avesse sognato quella promessa di libera uscita, che l’avrebbe abbracciata e avrebbe indossato persino uno scafandro, se lei glielo avesse chiesto. «Non c’è problema!» Aveva capito perfettamente che non volevano che lei vedesse la casa o la zona dove la tenevano segregata, meglio prendere qualche precauzione. Si fece guidare da Yvonne come una bambina ubbidiente. Scesero delle scale,

sentì aprire una porta, poi un’altra, sentì sotto i piedi qualcosa di soffice… un tappeto, fecero ancora qualche o, ancora scale. “È una casa grande”, pensò Eleonore. Poi, il rumore di un chiavistello e l’aria fresca investì il suo viso. Era fuori! Sentì il profumo che emana la terra dopo la pioggia, che sensazione meravigliosa! Pensò a Tess e al loro piccolo giardino dove si rifugiavano, lasciando fuori il resto del mondo. Yvonne la fece salire su una macchina. «Possiamo andare.» Anche se Eleonore non poteva vedere chi fosse alla guida, intuì che c’era Daniel. Non perché glielo avesse suggerito la logica, ma per quell’odore orrendo mischiato alla brillantina che in quegli anni andava tanto di moda e che a lui piaceva tanto. Come avrebbe potuto dimenticare quel puzzo così sgradevole. Daniel aveva voluto essere il primo a fare sesso con lei, una specie di esame, e non gli era bastata una sola volta per capire. “No, no, no! Non voglio farmi rovinare questo momento!” Eleonore cercò di scacciare quell’immagine. Tastoni, cercò la maniglia del finestrino e lo aprì un po’, voleva sentire l’aria addosso. Camminarono per un tempo che lei non riuscì a stabilire, era troppo presa dai profumi e da quell’aria meravigliosa. Un’altra cosa di cui stava godendo erano i suoni, i rumori. Da mesi ascoltava solo la voce di Yvonne e degli uomini ai quali vendeva il proprio corpo, aveva dimenticato che esistono una varietà infinita di suoni. Anche sentire come in quel momento, il fischio del treno, la fece sentire come una bambina che comincia a scoprire il mondo. Annusò meglio l’aria e capì che erano vicini al mare, sì, non poteva sbagliarsi, lei era nata e vissuta in un posto di mare. Continuò ad allungare il collo come un cane quando fiuta l’odore della carne. Che profumo magnifico ha il mare! Yvonne le tolse il foulard mentre l’auto continuava ad andare. Eleonore che non aveva più il senso dei grandi spazi, alla vista di quel panorama si sentì girare la testa. Quante cose da guardare! Dopo qualche secondo capì che stavano percorrendo una strada su una specie di collina, leggermente in basso c’erano delle case seminascoste dalla vegetazione e poi una distesa infinita di acqua... il mare. Strizzò gli occhi per proteggerli dalla luce naturale, un’altra cosa a cui si era disabituata. Era tutto straordinariamente fantastico! Quello fu uno dei giorni più belli che Eleonore avrebbe ricordato per il resto della sua vita.

Maria ascoltava quasi in religioso silenzio, quel racconto che conosceva bene. Quante volte Eleonore, le aveva descritto quella giornata? E ogni volta arricchiva la storia con qualche particolare in più. L’unica cosa che non cambiava mai era quell’espressione elettrizzata e apionata mentre descriveva nei minimi particolari, quel turbinio di sensazioni meravigliose provate in quelle poche ore di quel giorno, ormai lontanissimo. Anche adesso che era diventata ricca e famosa continuava ad eccitarsi a quel ricordo. Maria non vide mai quell’espressione sul volto e negli occhi di Eleonore, neanche quando cominciò a firmare contratti importanti o quando cominciarono ad arrivare premi prestigiosi. “Com’era incomprensibile l’essere umano! Quando potremmo gioire delle piccole cose che abbiamo intorno, aspiriamo ad altro e quando riusciamo ad ottenerlo, non ci rende poi così felici!” Maria pensò che quella “ragazza”, rispecchiava perfettamente quel concetto. Eleonore si rese conto che la sua interlocutrice non aveva detto neanche una parola, durante il suo racconto. «Ti sto annoiando, vero? Ti ho già raccontato decine di volte di questa giornata e conoscerai la storia a memoria, scusa… è solo che di quel brutto periodo è l’unico ricordo bello che ho.» Maria la guardò con affetto. «Non devi scusarti, lo sai che mi piace quando ce ne stiamo qui in cucina a chiacchierare, succede così raramente!» Eleonore stava per dire qualcosa ma Maria non le diede il tempo di farlo. «Lo so, lo so che non è colpa tua, sei una star e hai mille impegni! Ai miei tempi chi correva di qua e di là erano le persone povere che non potevano permettersi il lusso di riposarsi. Chi stava bene invece, aveva il tempo di sarsela… adesso è esattamente il contrario, mah! A proposito, come mai oggi te la stai prendendo comoda?» Eleonore si stiracchiò. «Ho un impegno importante, devo incontrare una persona e voglio essere concentratissima!» Maria cominciò ad agitarsi sulla sedia ed Eleonore si mise a ridere. «Non è un appuntamento galante, se è questo che stai pensando, e so che lo stai pensando. Devo incontrare quel detective… ti ricordi? L’amico di Claude.» «Quello che tempo fa ti ha detto che tuo padre non è morto?» «Sì, ma è ora che io sappia che ne è stato del resto della mia famiglia e devo

farlo con la massima discrezione, per ovvie ragioni. Fontaine ha già dimostrato di essere la persona giusta!»

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Brest Corinne stava organizzando una piccola festa in occasione del diciottesimo compleanno di Tess. La sua bambina era diventata una bellissima ragazza, era brava a scuola e sembrava serena. Sapendo quanto Tess fosse abile a disegnare, era convinta che la figlia scegliesse di frequentare una scuola confacente a quella ione, invece Tess aveva deciso di fare la veterinaria. Lei aveva provato in tutti i modi a distoglierla da quell’idea, qualche volta seriamente e altre volte scherzando. «Puzzerai di stalla! Nessun ragazzo si avvicinerà a te!» Provò a scoraggiarla con ogni mezzo, ma alla fine si arrese. Con l’aiuto di Isabelle, stava mettendo le decorazioni sulla torta di compleanno. Tess non sapeva di quella festa, sarebbe stata una sorpresa! Le due amiche da giorni, cercavano di fare tutto di nascosto. Non era stato difficile dal momento che Tess era sempre impegnata a fare qualcosa, sembrava che volesse recuperare il tempo perduto. La mattina andava a scuola, il pomeriggio si chiudeva in camera sua a studiare e poi andava a fare un po’ di pratica, nell’ambulatorio di un giovane veterinario. Corinne aveva capito benissimo che tra i due c’era qualcosa che andava al di là della comune ione per gli animali, ma quando l’aveva chiesto alla figlia, era diventata rossa come un peperone e aveva negato. Riguardo ai rapporti con l’altro sesso era sempre molto schiva, sembrava vergognarsi, Corinne si chiedeva se era solo timidezza o se era la conseguenza di quello che le era successo da piccola. In ogni caso, era contenta di quella relazione, non solo perché Armand era un bravo ragazzo ma anche perché i suoi problemi di salute erano peggiorati e se fosse accaduto il peggio, sapere che la figlia avrebbe avuto accanto qualcuno che sembrava amarla sinceramente, la tranquillizzava. Il guaito di Molly la fece saltare in aria, probabilmente gli aveva pestato involontariamente una zampa. «Accidenti a te, stai sempre tra i piedi!» Si mise una mano al petto. «Il mio cuore ha già i suoi problemi, ci manca solo che tu mi faccia venire un infarto!» Lo disse col sorriso sulle labbra ma Isabelle sapeva che Corinne da anni, aveva problemi al cuore, anche se non ne parlava mai.

Vedendo lo sguardo preoccupato dell’amica sorrise. «Dai, stavo scherzando! Non sarà certo questo esserino puzzolente a darmi il colpo di grazia, ormai sono convinta che se non sono morta finora, non morirò più. L’erba cattiva non muore mai, no?» «È inutile che tu finga con me, ti conosco fin troppo bene e so che sei preoccupata più per Tess che per la tua salute. Questo non è giusto Corinne! Devi cominciare a pensare un po’ a te stessa. Adesso le cose vanno bene con tua figlia, no? Smettila di farle da balia, è una ragazza sveglia e intelligente e sa quello che vuole.» Corinne mise l’ultima rosellina di zucchero sulla torta e si mise a sedere. «Quando hai trascorso quasi tutta la vita a tribolare, anche i momenti sereni ti fanno paura. Pensi che sia troppo bello per essere vero e ti aspetti che da un momento all’altro, ti debba capitare qualcosa di brutto.» Tess arrivò in ambulatorio trafelata, come sempre. Era una delle solite giornate ventose, e quel giorno pioveva anche a dirotto. Armand stava visitando un cocker spaniel particolarmente nervoso e quando arrivò Tess tirò un sospiro di sollievo. «Meno male, sono arrivati i rinforzi!» La proprietaria del cane, che fino a quel momento non era stata di nessun aiuto, quando vide Tess se la svignò nella sala d’attesa. «Io aspetto fuori!» Armand era un bel ragazzo, non di quella bellezza che ti colpisce al primo sguardo, bensì di quella che ha bisogno di tempo per essere apprezzata. I suoi modi un po’ all’antica, i suoi sani principi, la sua visione su quali siano le cose veramente importanti della vita, i suoi piedi per terra, erano le cose che avevano colpito Tess, probabilmente perché su quasi tutto la pensava esattamente come lui. L’anziano veterinario del paese, zio di Armand, aveva deciso di stare accanto alla moglie malata e aveva chiesto al nipote di dargli una mano. Non si aspettava che lui accettasse, Armand era giovane, viveva a Parigi, avrebbe senza dubbio declinato l’offerta. Invece il nipote sembrò addirittura entusiasta di quella proposta, era stufo di continuare a fare tirocinio in un ambulatorio dove nessuno sembrava voler ascoltare la sua opinione. Si sentiva pronto a rischiare in prima persona e quella secondo lui era l’occasione giusta, in un paese a misura d’uomo e per di più con l’aiuto di zio Charlie, col quale sin da bambino aveva condiviso quella ione. Entrambi avevano pianificato un breve periodo ma dopo la

morte della moglie, lo zio di Armand era così depresso che non ce la faceva nemmeno a uscire di casa, così il nipote prolungò la sua presenza a Brest.

Quando Tess conobbe Armand, si stava lentamente riprendendo dal trauma della perdita del suo bambino. Molly le era stato di grande aiuto, la faceva sentire amata incondizionatamente, come solo i cani sanno fare. In quei giorni Molly, contrariamente al solito, mangiava pochissimo e se ne stava mogio mogio, nella sua cuccia. Corinne, vedendo la figlia preoccupata, tentava di minimizzare ma Tess alla fine, decise di portarlo dal veterinario. Da quel giorno Tess e Armand cominciarono a frequentarsi, parlavano per ore senza mai annoiarsi, ridevano e scherzavano come Tess non faceva più dai tempi in cui la sorella viveva ancora a casa. A un certo punto, scoprirono di essersi innamorati. C’era solo un problema che Armand non riusciva proprio a capire, quando si avvicinava a lei per baciarla o accarezzarla, Tess s’irrigidiva e trovava una scusa per scostarsi da lui o addirittura per andare via. All’inizio pensò che essendo ancora molto giovane e vivendo in un piccolo paese, Tess non avesse ancora avuto esperienze con l’altro sesso, ma lei sembrava terrorizzata anche da un semplice bacio sulla guancia. Lei, per la prima volta, cominciava a capire cosa voleva dire essere innamorati. Si addormentava pensando ad Armand, appena sveglia il primo pensiero andava a lui, aspettava con ansia il momento di rivederlo e quando finalmente lo aveva davanti, sentiva una specie di vuoto allo stomaco e le gambe molli. Aveva letto storie d’amore su qualche libro, preso in prestito alla biblioteca comunale, aveva visto film in televisione con trame piene di ione, dove i protagonisti si baciavano e si avvinghiavano l’un l’altro con bramosia. Ecco, quella parte non capiva proprio come potesse rendere felici le persone, eppure quando Armand le si avvicinava un po’ di più, tanto da sentire il calore del suo alito, provava sensazioni mai sperimentate prima. Le veniva una specie di pelle d’oca che arrivava alla testa, proprio fino alla radice dei capelli. Da una parte questa sensazione le dava piacere ma dall’altra la turbava. Si chiedeva se questa era la felicità, se questo era l’amore! Quando captava qualche conversazione tra le compagne di scuola che

parlottavano dei rispettivi fidanzati riguardo al sesso, notava che ridacchiavano sempre, sembravano divertirsi, ma cosa c’era di divertente riguardo a quell’argomento, non lo capiva proprio. Tra le sue compagne, lei era l’unica a non avere mai avuto un fidanzato, quindi anche volendo non poteva partecipare a quei discorsi, e comunque aveva l’impressione che loro smettessero di parlare quando lei si avvicinava. All’inizio non capiva, ma col are del tempo si rese conto che l’avevano quasi completamente emarginata e il motivo, comprese in seguito, era che in paese tutti conoscevano la storia della sua famiglia. Probabilmente i genitori delle sue compagne avevano proibito alle figlie di socializzare con lei, non sapendo che tra tutte, lei era la più pudìca, la meno audace, in fatto di sesso. Adesso, però, avrebbe tanto voluto avere un’amica con la quale parlare di “quella cosa”, di Armand, di quello che provava, delle sue paure. Come sempre, la persona che le venne in mente fu Eleonore.

Il rapporto tra zio Charlie e il nipote era speciale, tanto che Armand decise di parlargli di Tess e del suo strano comportamento. Lo zio, naturalmente, conosceva la storia di Tess e della sua famiglia ma non era facile dire a quel ragazzo innamorato, che si era preso una cotta per la figlia di un ubriacone che l’aveva pure messa incinta. In tutti i modi, si sentiva quasi obbligato a dire la verità a quel nipote che amava come un figlio, non avendone avuti di suoi. «Armand, quella che sto per raccontarti non è una bella storia, anche se ti aiuterà a capire molte cose di quella ragazza. Sei sicuro di volerla sentire?» Glielo chiese pur sapendo che il nipote avrebbe risposto di sì. «Certo zio, sono pronto!» Nel racconto di zio Charlie c’erano molti “si dice”, “si pensa”, “forse”, “pare”. Armand non fece nessuna domanda e lo zio guardandolo, si rese conto che il nipote sembrava più addolorato che stupito o scandalizzato, da lì capì che quella di Armand non era una semplice cotta. Quando zio Charlie finì di parlare, calò il silenzio. Adesso Armand cominciava a comprendere le ragioni di quegli strani comportamenti di Tess e forse, per deformazione professionale, la paragonò a un cucciolo spaventato che conoscendo la sofferenza, non si fida più di nessuno. «Cosa dovrei fare secondo te, zio Charlie?» Lo zio sorrise, alzandosi dalla sua

poltrona preferita. «Io non so cosa dovresti fare ma so benissimo quello che farai!» Zio Charlie, non si era sbagliato. Armand decise di affrontare l’argomento con Tess.

28

Nantes Dopo tre mesi dalla telefonata con Paolo, Franco stava lasciando Berlino per trasferirsi a Roma. Gli piaceva viaggiare, spostarsi e affrontare nuove avventure. Vivere a lungo nello stesso posto o fare le medesime cose lo annoiava da morire. In questo suo modo di vivere, c’era non solo curiosità ma anche inquietudine. Questa volta, il cambiamento gli piaceva di più, non solo per Paolo ma anche perché Carole alla fine, aveva deciso di raggiungerlo prima possibile. Quando presentò la carta d’imbarco all’aeroporto di Tempelhof, Franco si girò come per dare un ultimo saluto a quella città che gli aveva regalato tanti bei momenti. A differenza delle altre volte, la malinconia che lo assaliva sempre quando lasciava un posto, non la percepì, era troppo felice di tornare in Italia. L’idea di mangiare un piatto di spaghetti con le vongole in riva al mare, lo fece sorridere. Una ragazza interpretò quel sorriso in un altro modo e lo ricambiò facendogli anche l’occhiolino. “Che spregiudicate!”

Paolo aveva trovato un appartamentino sulla via Cassia ed era certo che sarebbe piaciuto anche a Franco. Era già arredato e l’insieme rispecchiava molto il suo stile, colorato e un po’ bizzarro. Gli piaceva quel soffitto della camera da letto, azzurro con le nuvole bianche, la cucina bianca e celeste, persino le imposte erano blu così come la moquette. Ecco, questa era l’unica cosa che non gli piaceva tanto ma dagli anni ottanta in Italia, era di gran moda. L’appartamentino era immerso nel verde e molto silenzioso, a differenza del quartiere Prati, in cui lavorava. Sistemò un mazzolino di fiori di campo sul tavolo, diede un ultimo sguardo intorno e soddisfatto uscì per andare a prendere Franco in aeroporto. Era domenica e per fortuna c’era poco traffico.

Per Carole, quei mesi erano stati molto difficili. Era ata da una prima fase di rifiuto per i genitori adottivi, a quella della comione per lo stato di

avvilimento in cui erano caduti. E piano piano, si cominciava a profilare la fase della comprensione, non certo del perdono. I primi giorni erano trascorsi in preda alla rabbia, si sentiva come se le avessero rubato una parte della sua vita che non avrebbe mai più recuperato. Non riusciva neanche a guardare in faccia Anne e Paul e se malauguratamente, uno dei due tentava un approccio, andava su tutte le furie. Se ne stava tutto il giorno chiusa in camera sua, non usciva neanche per mangiare. Paul le lasciava il vassoio con il pranzo e la cena dietro la porta della sua cameretta ma lei mangiava meno della metà del contenuto. Un giorno sul vassoio c’era un foglio piegato in due, Carole ne lesse il contenuto.

“Bambina mia, so che sei arrabbiata con noi e hai tutte le ragioni per esserlo. La nostra unica colpa, però, è quella di non averti detto prima, che non siamo i tuoi genitori biologici. Quando eri piccola avevamo paura che non avresti capito, volevamo proteggerti, continuando a rimandare, aspettando il momento più opportuno. Poi sei diventata grande e probabilmente, anzi sicuramente, ci è mancato il coraggio. Hai ragione quando ci hai accusato di egoismo, è vero, ma non nel senso che intendi tu! Avevamo paura di perderti, avevamo il terrore che tu non capissi o peggio che decidessi di lasciarci! Carole, bambina mia, noi ti abbiamo voluto con tutte le nostre forze e ti amiamo con tutto il cuore. Quanti “veri” genitori, come li chiami tu, fanno figli con la stessa consapevolezza? Qualunque cosa deciderai di fare anche la più terribile, come lasciarci, sappi che potrai sempre e comunque contare su di noi, seguiteremo ad amarti come abbiamo sempre fatto! Perdonaci, se puoi! Il tuo papà”.

Carole ripiegò il foglio e si asciugò una lacrima che involontariamente, era scesa sul suo viso. La sua commozione non era per quello che aveva scritto il padre, tutto sommato erano parole semplici, dettate solo dal cuore, ma lei sapeva quanto gli era costato scriverle. Paul era un uomo riservato, timido, introverso, incapace di parole e atteggiamenti smielati, per scrivere quelle poche righe, sicuramente aveva fatto uno sforzo enorme. Si mise seduta sul letto e si prese la testa tra le mani. Non poteva rimanere chiusa nella sua camera per sempre, prima o poi doveva affrontare quella

situazione. Rifletté sulle parole di Franco a proposito della sua famiglia, lo avevano sbattuto fuori di casa e adesso a malapena, riusciva a parlare solo con la madre. Lei, contrariamente al suo amico, nemmeno una volta, si era sentita non amata da quei genitori, mentre la madre che l’aveva partorita, si era liberata di lei come un vestito che butti via perché non ti piace più. “E se non fosse così? Magari sono figlia di una ragazza madre che non poteva permettersi di mantenermi? E se fossi il frutto di un tradimento inconfessabile? Un ministro che è andato a letto con la sua segretaria, o peggio con la sua cameriera! O semplicemente, mia madre era una donna in carriera e non aveva tempo da perdere con una mocciosa!” Non avrebbe mai saputo la verità e questo senso d’impotenza le dava un dolore quasi fisico, pensava e ripensava le stesse cose, decine di volte al giorno, tutti i giorni! Doveva uscire da quel vortice e l’idea di cambiare aria per un po’di tempo, come le aveva suggerito Franco qualche mese prima, forse era proprio quello che le ci voleva in quel momento. Sentì un rumore di i, era già ora di cena! Carole, come spesso le accadeva in quel periodo, aveva perso la cognizione del tempo. Si alzò e andò ad aprire la porta, proprio nel momento in cui il padre stava appoggiando il vassoio su un tavolino che aveva messo lì per quella funzione. Paul rimase stupito, non si aspettava di vedere quella porta aprirsi, non sapeva cosa fare, si guardarono e poi, senza dire una parola, si abbracciarono. Quella sera cenarono insieme, nessuno dei tre fu particolarmente loquace ma si percepiva aria se non di pace, almeno di tregua. Per diverse settimane a seguire, si era creata una strana atmosfera in quella casa, sembravano studiarsi a vicenda. Anne e Paul stavano attenti ad ogni parola o gesto che potesse in qualche modo turbare quell’esile equilibrio. Carole dal canto suo, li osservava pensando che quelle due persone, pur essendo degli estranei, da sempre si erano presi cura di lei, l’avevano coccolata, nutrita, consolata e adesso stavano soffrendo terribilmente. Anne e Paul, si sentivano rifiutati da quella che avevano sempre considerato la loro figlia e Carole, provava lo stesso senso di rifiuto da parte dei genitori che l’avevano abbandonata. Un o alla volta, la situazione cominciava a migliorare, con tutte le riserve da

parte di Carole. Ormai, l’idea di trovare la donna che l’aveva messa al mondo, si era insinuata nel suo cervello, pur non sapendo da dove cominciare.

Il sabato pomeriggio, Anne andava dal parrucchiere, era un appuntamento fisso ma ogni volta, tornando a casa si lamentava per le lunghe attese e giurava che non ci sarebbe andata mai più di sabato. Carole non aveva mai capito perché non scegliesse un altro giorno, dal momento che non lavorava e aveva tutta la settimana a disposizione. Quel sabato si stupì vedendola uscire insieme al padre, avevano un’aria cospiratrice e si scambiavano sorrisetti d’intesa. Il mistero fu svelato al loro ritorno, anzi dopo cena, quando Paul tirò fuori un pacchettino che poggiò sulla tavola ancora apparecchiata. «Questo è per te!» Per Carole l’attesa di scartare un regalo, era quasi più bella del dono stesso. Prima lo soppesava, lo scuoteva leggermente, cercava di indovinarne il contenuto, poi cominciava con una lentezza estenuante, a togliere il fiocco o il nastro adesivo se c’erano, per poi cominciare a scartarlo centimetro dopo centimetro. Anne si alzò. «Va beh, io vado a fare il caffè, forse lavo anche i piatti, intanto che finisci di aprirlo!» Sorrisero tutti e tre. Quella volta per Carole sarebbe stato impossibile indovinare, mai avrebbe pensato a quell’oggetto messo in commercio da poco tempo e che era già diventato uno status symbol, il cellulare! Quando lo vide, fece quasi un salto dalla sedia e andò ad abbracciare prima Paul e poi Anne. «Grazie, grazie, grazie, è bellissimo! Vi sarà costato un occhio della testa!» Nei pochi minuti che seguirono, sembrava essere tornata l’atmosfera gioiosa che c’era in quella casa, prima di quella maledetta telefonata a Rose. «Papà, come mai mi hai fatto un regalo così costoso? Il mio compleanno è lontano!» Paul non sapeva come interpretare quella domanda, cosa voleva insinuare la figlia, che era un tentativo di ingraziarsela? Guardò la moglie. «Non è un caso se ti abbiamo fatto questo regalo... è che se tu dovessi decidere di... di allontanarti per un po’ da casa, vorremmo che tu... se ti va naturalmente, possa chiamarci a qualunque ora del giorno e della notte.» Paul non le disse che la sua maggiore preoccupazione, era quella che se si fosse trovata in pericolo a causa di quel farabutto di Andrea, la figlia avrebbe potuto

chiamare aiuto immediatamente. Carole era senza parole, da giorni cercava di dirgli che sentiva il bisogno di allontanarsi per un po’ e il padre sembrava aver letto nei suoi pensieri. Fortunatamente, non aveva letto che lei voleva anche allontanarsi da loro, che non si fidava più, che faceva fatica a considerarsi ancora la loro figlia. Non voleva far sparire la gioia che vedeva nei loro occhi, ma decise che quello era il momento per dirgli, che voleva andare a Roma.

29

Parigi L’attico in piazza di Spagna, sembrava fatto apposta per lei. Eleonore se ne era innamorata già dalla prima volta che l’aveva visitato, un vero e proprio colpo di fulmine! Era piccolo ma ristrutturato con eleganza e le finestre davano proprio su Trinità dei Monti. L’architetto, seguendo in gran parte le sue direttive, aveva fatto il resto. Eleonore era riuscita, dopo un’estenuante opera di convincimento, a portare Maria con sé e questo la rendeva particolarmente felice. «Il sole dell’Italia farà bene alle tue ossa, vedrai!» Maria mugugnò qualcosa, mentre da dietro i vetri di una delle grandi finestre, si chiedeva dove andasse tutta quella gente che a qualunque ora, riempiva la piazza sottostante. Quelle scale lunghissime poi, la stancavano solo a guardarle. Quando si comincia ad invecchiare non piacciono i cambiamenti, neanche i più insignificanti e questo per lei era radicale. Si confortava all’idea che non sarebbe stato per sempre, in ogni caso c’era Eleonore e questo le bastava a farla sentire al sicuro. I ruoli si erano invertiti! «Cosa stai rimuginando?» Maria si girò e le sorrise rassicurante. «Stavo guardando dei ragazzini che corrono su e giù per quelle scale. Dove la trovano tutta questa energia? Mi è venuto il fiatone solo a guardarli!» Eleonore si accese una sigaretta e sorseggiò il suo caffè appena fatto con la moka. Le piaceva il caffè italiano, un’altra scoperta che aveva fatto tanti anni prima, grazie a Claude. Spesso le capitava di associare dei bei ricordi a lui, dopo tutto, la loro era stata una bella storia d’amore. Altrettanto frequentemente però, dopo i ricordi piacevoli legati a Claude, si rattristava quasi sempre, consapevole che la fine di quella liaison, era per gran parte dovuta a lei. Non era stata una relazione tutta rose e fiori, anzi, era stata molto travagliata, si erano lasciati tante volte, avevano preso le famigerate pause di riflessione, ma poi bastava che si rivedessero per riaccendere la scintilla, non solo dell’amore ma anche della ione.

Sicuramente l’ascesa al successo di Eleonore e quel cane da guardia di Peter che le stava sempre col fiato sul collo, non li aiutava a chiarire malintesi e continue scenate di gelosia da parte di entrambi. Nonostante tutto erano rimasti insieme, alti e bassi compresi, per ben dieci anni. Lei era sempre più impegnata sia a Parigi che all’estero e quando provava a rinunciare a qualche lavoro, doveva sorbirsi le ramanzine del suo agente che l’accusava di non essere una vera professionista o di essere un’ingrata o ancora, a seconda di quanto fosse arrabbiato, la incitava a scegliere tra il fare l’attrice o la mogliettina. Della stessa opinione, anche se per motivi ben diversi, era Claude. Peter, che aveva visto lungo, aveva paura di perdere una possibile fonte di guadagno, di notorietà e di successo, perché la differenza tra le innumerevoli agenzie per attori, sta nel portfolio che metti a disposizione delle società di produzione. Se hai dei nomi appetibili, è fatta! Se come agente rappresenti dei bravi attori ma sconosciuti, non farai mai il cosiddetto salto di qualità! In entrambi i casi, la maggior parte degli agenti, sono dei parassiti che guadagnano sul lavoro degli altri non facendo quasi nulla. Claude, invece, aveva paura di perdere la donna di cui era innamorato. Non riusciva a capire perché Eleonore, pur dicendo di amarlo, sottraeva sempre più tempo alla loro relazione, lasciandogli solo le briciole. Era sempre più stressata, nervosa, a volte diventava persino intrattabile se temeva di prendersi un semplice raffreddore.

«Tutte le persone si ammalano, tu non sei immune!» «Claude, non posso permettermi di ammalarmi! Se mi viene la febbre e sono costretta a stare a casa, si ferma la produzione e sono soldi buttati al vento!... E poi in questo ambiente, si fa presto a far circolare la voce che hai una salute precaria e quindi è meglio se te ne stai a casa, possibile che non capisci!» Claude si sforzava di capire ma riusciva a farlo fino a un certo punto. Non aveva un buona opinione del mondo dello spettacolo, lo equiparava a un baraccone di esaltati, privi di sentimenti, che vivevano in un mondo irreale, fatto solo di celluloide. Questi battibecchi crescevano in modo esponenziale, parallelamente al successo

di Eleonore, fino a quando arrivò la rottura definitiva. Claude voleva un figlio! All’inizio cominciò a chiederglielo da uomo innamorato che voleva creare una famiglia con la donna che amava, poi continuò a farlo in modo sempre più pressante e naturalmente, anche quello divenne un argomento di discussione, fino a farsi del male a vicenda. «Non sono più un ragazzino e neanche tu lo sei, che male c’è se facciamo un figlio?» «Un bambino non si fa perché c’è una scadenza, non è uno yogurt! E poi credo che tutta questa voglia improvvisa di volere un figlio, è perché vuoi costringermi a lasciare il mio lavoro!» «Credi che io sia così meschino? Ma che razza di persone frequenti per arrivare a fare un ragionamento simile? Io voglio un figlio perché ti amo, non è una ragione sufficiente per te?» Si ravviò i capelli, lo faceva sempre quando era nervoso. «Stento a riconoscerti Eleonore, se non avessi conosciuto il lato migliore di te, penserei che sei un’arrampicatrice sociale priva di sentimenti veri.» Quelle parole furono peggio di una pugnalata per lei. Proprio l’uomo al quale aveva aperto il suo cuore, non aveva esitato a ferirla in quel modo così irrispettoso. Ogni volta che si tirava in ballo questo argomento, i toni si alzavano sempre di più, fino a quando Claude le diede un aut aut. «Eleonore, devi fare una scelta!» E lei la fece.

Un milione di volte si era chiesta se avesse fatto la scelta giusta e ancora oggi non era riuscita a trovare la risposta. Maria un giorno le disse: «Ragazza mia, non puoi privarti di una gioia così grande, solo per paura di non essere all’altezza! I genitori, non sono tutti uguali e io sono sicura che tu saresti una madre migliore di quella che hai avuto e Claude è una brava persona.» Eleonore non sapeva se era solo questo il motivo per cui aveva rinunciato ad avere un figlio. Si chiese se era davvero diventata cinica, come diceva Claude. In ogni caso non sopportava nessuna forma di ricatto, lei se l’era sudato quel successo!

Gli inizi erano stati durissimi, ma Eleonore era temprata dalla sua vita precedente. Quello che faceva piangere le altre, come un provino andato male o un’umiliazione subita dal regista di turno, a lei non faceva nessun effetto, anzi a volte girava i tacchi e salutava sorridendo. Si aggrappava a quel concetto che aveva sentito spesso e cioè che più hai sofferto, più possibilità hai di diventare un bravo artista. Lei era sicura di avere le carte in regola in tal senso. Non aveva potuto frequentare una scuola di recitazione o di dizione, non era figlia d’arte e non frequentava i salotti giusti. Di contro, aveva avuto la fortuna d’imbattersi in quella santa donna di Maria, che non solo l’aveva ospitata e trattata come una figlia, ma la incoraggiava a seguire quella sua ione. Senza di lei, probabilmente, non ce l’avrebbe mai fatta.

Dopo tanti anni, si ricordava perfettamente lo stato d’animo della sua prima esperienza televisiva, era una trasmissione in diretta. Quando giri un film, tutto sommato, se sbagli ripeti la scena fino a che il regista non urla: «Buona!» La televisione, se sei in diretta, non perdona! L’avevano scritturata per un show televisivo dove si parlava di un po’ di tutto: attualità, casa, cucina e altro ancora. Lei aveva un ruolo marginale all’interno di uno spazio dedicato alle piante, doveva leggere qualche notizia e fare un paio di domande all’ospite di turno. Su un bancone c’erano piante, attrezzi per il giardinaggio, semi, sacchetti di terra, guanti, eccetera. Da casa, guardando il programma, si aveva la sensazione di stare in un bel giardino e invece era tutto quasi ammucchiato, su un bancone lungo circa due metri. Intorno, un enorme spazio vuoto, buio e disadorno, lo studio televisivo. A circa cinque metri da quel giardino fittizio, erano state allestite altre due postazioni per rubriche diverse. Doveva stare attenta a mille cose: ai cavi che non dovevi calpestare, a non are davanti alle telecamere, se indicavi qualcosa sul bancone dovevi muovere lentamente le mani per dare il tempo di cambiare l’inquadratura. «Parla solo quando vedi la lucetta rossa sulla telecamera!» «Quando hai finito rimani immobile fino a che sul monitor vedi che la scena è cambiata!» Ma nello stesso tempo, qualcuno urlava: «Non guardare il monitor!» E naturalmente, dovevi sorridere rassicurante perché dietro quell’oggetto inanimato, il buco nero della telecamera, c’erano milioni di persone che ti stavano guardando.

“Troppe cose da ricordare, non ce la farò mai!” Era tesa come una corda di violino e più si avvicinava il momento in cui si sarebbe accesa quella stramaledettissima lucetta rossa, più lei pregava che succedesse qualcosa d’irreparabile. Pensò a un terremoto, a un alluvione, a un incendio provocato da un corto circuito, tutto, pur di far saltare la diretta e scappare da lì. Non accadde nulla di tutto ciò, la trasmissione iniziò e lei se la cavò alla grande. «Sono atterrati dei marziani in piazza di Spagna, cosa faccio, gli dico di salire?» «Sì, sì come vuoi!» Maria continuò a guardarla ed Eleonore capì che aveva risposto a qualcosa che non aveva sentito. «E va bene, cos’hai detto?» «Dicevo cosa vuoi mangiare a pranzo?» Eleonore si alzò dal divano. «Oggi non si cucina, ti porto a mangiare in un ristorante se. Così ti sembrerà di stare a casa e magari sparisce quel muso che hai da quando siamo arrivate a Roma!» «Non ho il muso è che... devo abituarmi a tutte queste novità. Non lo sai che i vecchi diventano abitudinari?» Eleonore la guardò con affetto. «Smettila di fare la vittima, non sei affatto vecchia! Vado a prepararmi, vedrai che Gigì ti piacerà!»

30

Brest Il giorno che Armand decise di dire a Tess che conosceva la sua storia, lo fece con una delicatezza non comune per un ragazzo della sua età, o almeno, ci provò. Dietro suggerimento di zio Charlie, Armand comprò dei fiori, andò a prenderla a casa e la portò a pranzo fuori. Tess il giorno prima, non poté fare a meno di dire alla madre, che con Armand stava nascendo qualcosa che somigliava ad una relazione sentimentale. Diversamente, non avrebbe potuto giustificare quell’invito a pranzo. A Corinne veniva voglia di sorridere vedendo la figlia balbettare in preda al panico, tentando disperatamente di dare un senso alle sue parole. Cercò di trattenersi per non peggiorare la situazione dandole una mano. «Piace anche a me quel ragazzo, sai? Ed è pure carino, il che non guasta!» Buttò lì quella frase, con la stessa leggerezza che avrebbe usato una qualunque coetanea della figlia e Tess grata, tirò un gran sospiro di sollievo, finalmente non doveva più inventarsi scuse per frequentarlo. «Da quanto lo sai, mamma?» «Vediamo un po’... uno, due, cinque, ...» cominciò a contare con le dita della mano mentre Tess continuava a guardarla sempre più stupita. Corinne si mise a ridere. «Dai sto scherzando! Ma poi cosa importa da quanto lo so? Conta solo che tu sia felice. Comunque, alla festa del tuo compleanno ci siamo accorti tutti che, insomma... c’è del tenero fra voi.» Tess diventò rossa come un pomodoro maturo e Corinne l’abbracciò con tenerezza. «Sei proprio una brava figlia!»

Il pranzo con Armand andò benissimo e Tess dopo parecchio tempo sembrava davvero felice, tanto da non accorgersi che lui non era stato loquace come al solito.

Alla fine del pranzo, Armand le propose di fare una eggiata al porto, era una splendida giornata e camminarono a lungo mano nella mano, era tutto perfetto. Fu Tess che involontariamente, gli diede l’imput per cominciare. «Che cos’hai?» Armand sentì un tuffo al cuore. “Ecco ci siamo!” Pensò, era arrivato il momento tanto temuto poiché non aveva idea di come avrebbe reagito lei. Con un filo di voce le chiese: «Ti va di sederti su quella panchina? Devo dirti una cosa.» Tess si sentì morire, quel tono e l’espressione così seria di Armand, non promettevano nulla di buono. “Sta per lasciarmi!” Fu la prima cosa che le venne in mente. “Deve tornare a Parigi!” Fu la seconda. Di sicuro non si aspettava di sentire quelle prime quattro parole. «Conosco la tua storia!» Zio Charlie gli aveva consigliato di non girarci troppo intorno e andare dritto al punto, ma forse non intendeva esattamente in quel modo. Tess ebbe l’impressione che il suo respiro si fosse bloccato in quell’istante, la prima reazione fu quella di alzarsi e scappare più lontano possibile, ma era impietrita come la panchina sulla quale si erano appena seduti. Armand, nonostante il brusco inizio, cominciò a parlare pacatamente, stringendole la mano, nella speranza di trasmetterle la forza del suo giovane amore. Tess fissava il brecciolino vicino ai suoi piedi incapace di guardarlo, quasi incapace di battere ciglio. Armand continuava a parlare. «Tess non ti sto accusando né tantomeno criticando, non è colpa tua se è successo tutto questo, sei tu la vittima di questa brutta storia. Dì qualcosa!» Silenzio. «Se sono qui e te ne sto parlando, è perché ti amo e se anche tu mi ami, fidati di me!» Tess trovò la forza di alzarsi e lo guardò diritto negli occhi. «Io ti odio! Perché hai voluto rovinare tutto?» Scappò via e Armand, preso alla sprovvista, rimase immobile sulla panchina.

Zio Charlie impiegò parecchio tempo per far capire al nipote che quella reazione era più che plausibile. «Ma cosa ti aspettavi che ti buttasse le braccia al collo e che si mettesse a frignare? Armand quella ragazza porta dentro delle ferite che forse non guariranno mai! Piuttosto dovresti chiederti se sei veramente disposto a condividere questa sofferenza con lei.» «Zio tu non hai visto il suo sguardo mentre diceva di odiarmi!» «Ragazzo mio, non pensi che magari provasse vergogna?»

«Ma non è colpa sua quello che è successo!» Zio Charlie, era convinto che Armand fosse un ragazzo intelligente e più maturo rispetto alla sua età, ma dovette riconoscere che era pur sempre un giovane innamorato, che in quel momento si sentiva ferito. «Dalle un po’ di tempo e se davvero anche lei ti ama, come dici, vedrai che tutto si aggiusterà!» Corinne temette che quell’episodio, potesse far ricadere Tess in un’altra crisi di rifiuto nei confronti del mondo. Cercò di farle capire che in tutta quella brutta storia, non era Armand il colpevole solo perché conosceva i fatti, anzi, aveva dimostrato un buon senso auspicabile in uomini ben più maturi di lui. Tess sapeva che la madre aveva regione ma si vergognava, pensava che non avrebbe mai più avuto il coraggio di guardarlo in faccia, esattamente come quando il giorno dopo le molestie del padre, non aveva il coraggio d’incrociare lo sguardo di Corinne.

Erano ate tre settimane da quella giornata iniziata benissimo e finita in modo disastroso. Tess stava tornando a casa, quando vide Armand in compagnia di una ragazza. Era alta, capelli lunghi scuri e con un fisico da fare invidia. Poteva avere la sua stessa età o forse qualche anno in più e lei era certa di non averla mai vista prima, in paese. “Strano!” Pensò, una così non ava certo inosservata. Stavano mangiando un gelato e ridevano, sembravano molto affiatati, poi Armand le mise un braccio intorno al collo, l’avvicinò a sé e le diede un bacio sulla guancia. Tess fu colta da un’ondata di gelosia, sentimento mai provato prima in vita sua. “Ti sei consolato in fretta, brutto schifoso!” Molly sfuggì alla sua presa, presumibilmente per rincorrere un gatto, lei gli corse dietro chiamandolo a gran voce ma Armand fu più veloce di lei e afferrò il guinzaglio. Si ritrovarono faccia a faccia, lui le sorrise, sembrava felice di vederla. “Che faccia tosta!” pensò Tess. Prese il guinzaglio e sfiorando la mano di Armand, suo malgrado, sentì un brivido. «Grazie, puoi tornare dalla tua fidanzata!» Nel frattempo la ragazza misteriosa si avvicinava sempre di più a loro. Lui sembrava divertito. «Preferisco presentartela!» Tess pensò a quali insulti potessero essere più efficaci in quel momento, fece per aprire la bocca ma Armand, intuendo le sue intenzioni, la bloccò con un cenno della mano. «Loraine, ti presento Tess, Tess questa è Loraine, mia sorella!» La ragazza le

strinse la mano. «E così tu sei Tess, finalmente ti conosco.» «Ciao!» Bisbigliò a stento Tess, dandosi della stupida. Loraine guardò il fratello e capì che era il momento di svicolare. «Allora vado a sbrigare quella commissione, ci vediamo più tardi. Ciao Tess, spero di rivederti prima di ripartire per Parigi!»

Da quel giorno Tess e Armand ripresero da dove avevano lasciato, più forti e più innamorati che mai. Tess superò gli esami di maturità e Armand faceva programmi per il futuro. Non voleva lasciare zio Charlie, anche se si stava riprendendo a poco a poco dalla morte della moglie, ma pensava che per Tess allontanarsi da quel posto, sarebbe stata la cosa migliore. Era sicuro che Parigi le sarebbe piaciuta! Stava proprio bene con lei ed era sempre più convinto che sarebbero invecchiati insieme. Tess, dal canto suo, finalmente era serena, soprattutto dopo aver superato quell’ostacolo per lei insormontabile, il sesso. Anche in quella situazione, Armand si era dimostrato maturo, nonostante gli ormoni in subbuglio dovuti alla sua giovane età. Lei cominciò a fidarsi, a lasciarsi andare, non senza difficoltà, fino a quando finalmente scoprì che fare l’amore con la persona che ami, può essere davvero una cosa bellissima. Lucille la chiamò in ambulatorio dicendole che la madre era stata ricoverata in ospedale. «Sta molto male!» Nient’altro e aveva riattaccato. Quando Tess arrivò in ospedale, in preda al panico, era ormai troppo tardi. Corinne era morta durante il tragitto. Per strada, dei anti l’avevano vista accasciarsi con in mano le borse della spesa e avevano chiamato un ambulanza. Infarto. Una semplice parola, un secondo per pronunciarla, una vita che si spegne. L’ultimo pezzo della sua famiglia non c’era più e Tess si sentì disperatamente sola. Pianse accarezzando il viso della madre, i capelli, le mani, non voleva staccarsi da lei, ogni attimo le sembrava prezioso, voleva bloccare quell’immagine nella sua mente, non l’avrebbe mai più rivista, non avrebbe più sentito il suono della

sua voce. Tra poco, il rumore delle viti che avrebbero chiuso il coperchio della bara. E poi più niente.

Al funerale c’erano poche persone, non c’era da stupirsi, fortunatamente non erano stati così ipocriti da far finta di essere dispiaciuti, pensò Tess. C’erano Isabelle e Tom con la figlia Alexandra, un’amica e compagna di scuola della madre che aveva chiuso la pasticceria per partecipare alla messa, Lucille incredibilmente invecchiata, se ne stava in disparte, c’era anche zio Charlie e due o tre colleghe dell’ospedale. Quando Tess tornò a casa con Armand dopo il funerale, Molly le si avvicinò tutto mogio con la coda abbassata. Di solito saltava e abbaiava felice di rivederla, quel giorno non fece nulla di tutto questo, si limitò a leccare la mano della sua padroncina quando lei si abbassò per fargli una carezza. «Come fanno i cani a capirci molto meglio degli esseri umani?» Armand a sua volta accarezzò Molly. «Il nostro cervello è pieno di barriere e fronzoli inutili che loro per fortuna non hanno, tutto qui!»

Ora più che mai, Tess non aveva nessun motivo per restare a Brest e tanto più in quella casa, piena di ricordi tristissimi. Quando Armand le prospettò l’idea di andare a Parigi, lei accettò subito. In un altro momento quel programma l’avrebbe resa felice ma era troppo addolorata per la perdita della madre. Le sembrava di abbandonarla, consapevole che in quel piccolo cimitero dove ora finalmente, riposava in pace, nessuno sarebbe andato a lasciarle un fiore o a dire una preghiera per lei.

«Non sarai stata una madre modello ma eri pur sempre mia madre!» Baciò la foto e la mise in uno scatolone. Tess stava raccogliendo alcune cose, poche in verità, che avrebbe portato con sé a Parigi. Per il resto Isabelle si era offerta di occuparsene, prima di riconsegnare la casa al legittimo proprietario. Annusò la camicia da notte della madre, c’era ancora il suo odore, la indossò sui

vestiti che aveva addosso e continuò quel triste inventario. Aprì i cassetti dell’armadio, ne guardò il contenuto, le sembrava quasi di violare la privacy della madre. In fondo all’ultimo cassetto, vide una busta, la prese, la girò ed ebbe un tuffo al cuore. “Per Tess ed Eleonore dalla vostra mamma”.

31

Parigi Il detective Fontaine, chiamò Eleonore per dirle che aveva notizie sulla sua famiglia. Non era il caso di parlarne al telefono ma lui non avrebbe potuto raggiungerla a Roma prima di una settimana. Eleonore non ce l’avrebbe fatta ad aspettare quello che le sembrava un tempo lunghissimo, quindi chiamò un’agenzia di viaggi e organizzò il volo per Parigi. Impiegò più tempo del necessario perché non era avvezza ad occuparsi di queste cose, ma pensò che non era il caso di chiamare Peter rischiando di farsi fare il terzo grado. Maria colse la palla al balzo e partì con lei.

Eleonore soffriva d’insonnia da anni, forse da sempre e dormire nel suo letto, ormai non faceva più molta differenza. Nonostante la sua dose di tranquillanti che aumentava sempre di più, non riusciva a dormire più di quattro ore a notte e per una persona che fa quel mestiere, è un dramma. Fortunatamente, sul suo fisico non c’erano segni evidenti di quel malessere, grazie anche alla sua attenzione per il cibo e all’attività fisica a cui non rinunciava mai. Con le sigarette era ancora una battaglia aperta. All’insonnia, si sommavano quegli incubi che non la lasciavano in pace neanche quando dormiva. Quella notte sognò Yvonne e Daniel.

Durante quella splendida giornata in cui l’avevano premiata facendola uscire, Eleonore fece un o falso che le costò un altro anno e mezzo di prigionia. Li convinse a farla scendere dall’auto, voleva sentire la sabbia sotto i piedi. I due si guardarono, era inverno, non c’era anima viva intorno e così acconsentirono. Nel momento in cui Eleonore fece quella richiesta, non aveva programmato nessun colpo di testa. Respirò profondamente, si tolse le scarpe e le calze e mise i piedi nell’acqua gelida. Quel contatto con il mare, infinito e libero, fece scattare

in lei la voglia di provarci. “Perché no? Potrei farcela!” Non aveva valutato che in quei mesi, le sue gambe non erano più abituate neanche a camminare, figurarsi correre, così dopo poche decine di metri la sua corsa fu bloccata, prima da un crampo ad un polpaccio e poi quasi con calma da Daniel, che sembrava pregustare già la punizione. L’idea quasi maniacale di correre tutti i giorni, era nata in occasione di quell’episodio e cominciò a farlo nei pochi metri quadrati della sua camera. Il momento in cui si liberò definitivamente da quell’incubo, era uno dei suoi sogni più ricorrenti. Nel sogno però, non riusciva mai a varcare la porta di quella prigione e puntualmente, si svegliava in preda al panico. Per fortuna la realtà, come raramente accade, era stata più bella del sogno.

Yvonne da un po’ di tempo era cambiata, era più silenziosa, aveva occhiaie evidenti, sembrava più trascurata. Eleonore aveva notato piccoli dettagli che le avevano fatto capire che stava succedendo qualcosa. Yvonne, che sembrava sempre pronta a posare per un servizio fotografico dedicato al look della donna perfetta, cominciava a perdere colpi. Capelli sporchi, smalto sulle unghie visibilmente scrostato, un giorno si era presentata addirittura senza trucco e con un livido sotto l’occhio. Tutte queste cose prima erano inconcepibili per Yvonne, Eleonore si ricordava benissimo le lezioni delle prime settimane sull’importanza di apparire perfette! Quando le vide l’occhio nero, le chiese cosa fosse successo. «È stato Daniel?» Yvonne si portò la mano sotto l’occhio ed Eleonore notò che aveva dei lividi anche sulla mano e sull’avambraccio. «No! E comunque non sono affari tuoi!» Un altro paio di volte, in situazioni simili, Eleonore cercò di saperne di più ma Yvonne non voleva parlarne. Aveva l’impressione che fosse arrabbiata, o triste? Era imperscrutabile. Una mattina stranamente, si presentò Daniel con la colazione e quando Eleonore gli chiese notizie di Yvonne lui disse che aveva la febbre e quindi era meglio evitare un eventuale contagio. Eleonore non se la bevve. Dopo un paio di giorni Yvonne riprese il suo ruolo con due evidenti fasciature sui polsi. Questi episodi andarono avanti per un po’ ed Eleonore formulava ipotesi di ogni genere. Si era

ammalata? Il sodalizio con Daniel era giunto al termine? Lui aveva un’altra? Lei lo aveva tradito? Eleonore era convinta che tra i due ci fosse una relazione, pur senza dubbio malata che andava al di là degli “affari”. Non riuscì a scoprire cosa stesse succedendo ma egoisticamente, sperava di trarne qualche vantaggio.

Quel giorno Yvonne entrò nella camera come una furia, era visibilmente provata, forse aveva pianto o non aveva dormito. Eleonore non ebbe il tempo di fare ulteriori congetture, che Yvonne le disse: «Puoi andartene subito! Hai cinque minuti per mettere qualcosa in una borsa.» Tirò fuori un biglietto, una busta chiusa e glieli porse. «Chiama questa persona, è mio... è un prete, di lui puoi fidarti! A un chilometro da qui c’è una stazione di servizio con bar e telefono pubblico, chiamalo e verrà a prenderti.» Eleonore era tra l’incredulo e il frastornato ma capì che non era il momento di fare domande, aveva l’impressione che da un momento all’altro, avrebbe sentito un gong per ricordarle che il tempo era scaduto! Prima di uscire Yvonne le chiese una cosa che in quel momento ad Eleonore parve strana. «Devi farmi un favore!» Lo disse come fosse un ordine. «Non metterti a chiamare la polizia adesso, mi creeresti un sacco di problemi e ne avresti anche tu, ma stai tranquilla lo farà lui…» indicò il biglietto e la busta, «… ma saprà quando farlo, intesi?» In quel momento le avrebbe promesso qualunque cosa pur di uscire da lì. «Va bene, farò come dici.» Un attimo prima di uscire, Eleonore ebbe l’impressione che Yvonne stesse per abbracciarla. O era lei che avrebbe voluto farlo? Per quale motivo? Riconoscenza, pietà per quella donna, sindrome di Stoccolma? Tutte cose che le avrebbe spiegato, parecchi anni dopo il suo analista.

Eleonore si svegliò in un bagno di sudore e ringraziò il cielo per essere nel suo letto, a casa sua. Guardò l’orologio, le cinque, sapeva che sarebbe stato inutile provare a riaddormentarsi. Si alzò e si avviò verso la cucina. Aveva parlato diverse volte con Claude di quel sogno che finiva sempre male. O arrivava Daniel o Yvonne si metteva a ridere sguaiatamente dicendole che l’avevano presa in giro o lei cominciava a correre, per ritrovarsi senza fiato di nuovo davanti alla porta di quella casa. Claude cercava di rassicurarla dandole risposte

plausibili, insomma, faceva il medico. Cercò di non fare rumore e mise su il caffè. «Perché non usi la moka?» Eleonore saltò in aria. «Maria, ma tu non dormi mai?» La donna si avvicinò ai fornelli. «Siamo in due mi pare, e comunque scusa se ti ho spaventato!» Eleonore le lasciò libero il campo e si sedette su uno degli sgabelli accanto all’isola della cucina. «Non sei tu che mi spaventi!» Maria capì che era stata un’altra brutta notte piena di fantasmi ma non fece domande. «Mi piace il caffè fatto con la moka, sai? Nondimeno non lo prenderò su quel trespolo!» Eleonore scese dallo sgabello e si sedette al tavolo della cucina. «Maria da quanto non senti Don Sebastian?» Alle cinque del mattino non era una domanda casuale. «Da parecchi mesi, perché lo hai sognato?» «No, non lui, Yvonne. Non hai mai saputo perché non è più tornato nella sua parrocchia?» «Allora si era fatto trasferire per restare accanto alla nipote, la figlia di sua sorella. Anche secondo te, Yvonne stava male all’epoca, no?» Eleonore assentì con un cenno del capo. «Ely perché non lasci perdere questa vecchia storia? Don Sebastian, ha fatto quello che gli ha chiesto la nipote, Daniel è stato arrestato e le altre ragazze sono state liberate. Sono ati quasi trent’anni, cerca di trovare un po’ di pace!» Eleonore si accese una sigaretta, non lo faceva mai prima di colazione. «Sono le vecchie storie che non lasciano in pace me!»

Nonostante le precauzioni prese nell’incontrare Fontaine, una settimana dopo le riviste di gossip avrebbero scritto di un’ ipotetica liaison tra “la star e il detective”. Il virgolettato era stato usato da più di un giornale, come se fosse il titolo di un film. Peter che aveva saputo in anticipo di queste pubblicazioni, prima era andato su tutte le furie, poi aveva chiesto spiegazioni e in ultimo era stato messo all’angolo da Eleonore.

«Non devo darti conto anche della mia vita privata!» Peter era paonazzo. «E da quando una star ha una vita privata?» «Ti prego Peter, non ricominciamo con questa storia! Sono andata a bere un tè con un amico, qual é il problema? Sei tu che stai esagerando!» Peter cercò di calmarsi ma era preoccupato. «Qualche giornale ha insinuato che non si tratta di una storia d’amore o di sesso ma di segreti che avrebbero a che fare con il tuo ato! Ora, ti rendi conto che se saremo costretti a difenderci, dobbiamo fare fronte comune? Ho il diritto di sapere che cosa sta succedendo!» Eleonore cercò di non far vedere che effettivamente, quest’ultima allusione, l’aveva messa un po’ in allarme. Poteva essere semplicemente un’idea di qualche cronista con più fantasia degli altri che non si limitava a scrivere la solita storiella piccante o qualcuno, sapeva davvero qualcosa sul suo ato? Lo avrebbe capito leggendo i giornali. «Peter, ti propongo un patto... io devo ripartire per Roma, quando usciranno queste schifezze, mi prepari una bella rassegna stampa, dopo di che ti dirò tutto quello che c’è da sapere, d’accordo?» Ovviamente lui non lo era affatto, dal momento che all’orizzonte si prospettavano giornate molto pesanti e per di più con Eleonore distante migliaia di chilometri. Lei, invece, aveva bisogno di restare sola, di pensare, soprattutto non aveva tempo da sprecare con le solite menate dei giornali, anche se questa volta era diverso.

L’incontro con Fontaine era stato colmo di emozioni. Il detective aveva iniziato con le brutte notizie, per scelta di Eleonore. «Madame, a Brest non c’è più nessuno della sua famiglia!» Eleonore, quasi saltò dalla sedia e Fontaine, istintivamente, le strinse un braccio rassicurante. Entrambi ignari della presenza di un paio di fotografi appostati a pochi metri, come corvi su un cadavere. «No, mi perdoni, non volevo dire che sono tutti morti! Suo padre è andato via e non è più tornato a casa da quando… sua sorella è rimasta incinta. A quanto pare, il bambino è nato morto e anche se sono ati tanti anni, in paese qualcuno ricorda ancora che per Tess, quello fu un brutto periodo. L’altra cattiva notizia è che sua madre, Corinne, é morta ed è al cimitero di Brest.» Eleonore aveva scelto d’incontrare Fontaine in pubblico, in un bar sugli Champs

Elysées, proprio per non destare sospetti. Adesso invece, avrebbe desiderato stare in un luogo più discreto per mettersi a piangere, urlare e inveire contro il mondo intero, piuttosto che mettere su la maschera della diva che sorseggiava beatamente un tè, in compagnia di un vecchio amico. «Di mia sorella ha notizie?» Il detective le sorrise. «Siamo alle buone notizie! Tess dopo la morte di vostra madre si è sposata, a quanto pare con un bravo ragazzo, dal quale ha avuto due gemelli, due maschi, che adesso dovrebbero avere sedici anni.» A Eleonore quasi mancò il fiato, aveva due nipoti! Tess forse, aveva conquistato la sua meritata dose di felicità! «E dov’é adesso?» Fontaine era un po’ imbarazzato. «Ecco questa è una cosa che sono riuscito a scoprire in parte, nel senso che sua sorella da Brest è venuta a vivere qui.» «Mia sorella è a Parigi?» «Non lo so madame, perché a un certo punto ne perdo le tracce ma non dispero, il mio lavoro non è ancora finito, sempre che lei desideri che io vada avanti!» Eleonore non era mai stata così felice di spendere i propri soldi. «Ma certamente! Voglio che continui le sue ricerche. E la ringrazio, non solo per l’ottimo lavoro ma soprattutto per la sua discrezione!»

Ultimo Capitolo

Carole viveva in Italia già da un po’ di tempo. Le prime settimane, era stata ospite di Franco e Paolo ma poi aveva preso un minuscolo appartamento in affitto, non lontano da loro. Da qualche giorno si stava godendo la sua privacy tanto agognata, quando Franco le trovò un convivente, un cane! Se ne stava rannicchiato davanti al portone di casa, sporco, affamato e infreddolito. Franco lo avrebbe tenuto volentieri ma Paolo aveva un’allergia ai peli degli animali, così aveva pregato la sua amica di tenerlo per qualche giorno, fino a che non gli avesse trovato una famiglia che lo accogliesse in casa propria. Carole accettò di ospitare quella povera bestia che tra le altre cose, come le disse il veterinario, aveva circa dieci anni ed era pure un po’ sordo, per cui non sarebbe stato facile darlo in adozione. Dopo una settimana di convivenza, Carole decise di tenerlo, anche se non aveva tanto tempo da dedicargli. Si era iscritta ad un corso triennale di architettura d’interni poiché finalmente, aveva deciso di coltivare quella sua ione per il disegno. L’idea di diventare un’arredatrice le piaceva sempre di più e in una città come Roma, c’era da sbizzarrirsi! Poi, quando grazie a Franco, iniziò a lavorare da Gigì, la sua vita sembrava aver preso una buona piega. Quel posto le piaceva, le metteva allegria e poter parlare in se con il proprietario del ristorante, la faceva sentire un po’ a casa. Con Anne e Paul i rapporti erano notevolmente migliorati, secondo lei, grazie anche alla distanza, in ogni caso non aveva assolutamente abbandonato l’idea di trovare i suoi veri genitori o perlomeno la madre che l’aveva partorita. Andrea Moretti, per fortuna, sembrava essere sparito dalla sua vita, Carole non sapeva che era stato principalmente, merito del padre. Poco dopo l’arrivo di quella cartolina di cui Carole non sapeva nulla, Andrea aveva chiamato per parlare con lei e Paul era stato durissimo, lo aveva persino minacciato promettendogli che se avesse fatto del male alla figlia, lo avrebbe cercato anche in capo al mondo e lo avrebbe strozzato con le sue stesse mani. Aveva affrontato quella telefonata con una tale determinazione che evidentemente aveva sortito

l’effetto sperato. Non ancora soddisfatto, Paul ne parlò con un suo amico poliziotto, il quale gli spiegò che non poteva fare nulla dei confronti di quel tizio. Carole era maggiorenne e viveva in un altro stato, solo lei avrebbe potuto fare un esposto, nella speranza che questo lo dissuadesse dall’avvicinarsi nuovamente a lei. Comunque, il suo amico lo rassicurò dicendogli che spesso, questi individui, fanno i prepotenti con le persone deboli o impaurite, ma sono in grado di capire immediatamente quando è il caso di mollare. Quindi probabilmente, dopo quel contatto telefonico, non avrebbe più creato problemi. Così era stato fino a quel giorno! Poi quella telefonata, aveva nuovamente scaraventato Carole in quello stato di paura, di ansia e d’impotenza che sperava di non provare mai più nella vita. Franco cercò di rassicurarla ma fu anche molto deciso. «Ascolta Carole, questa volta non aspettare che ricominci a torturarti con i suoi giochetti e le sue minacce, domani ti accompagno in questura e fai una bella denuncia!» Per fortuna non fu necessaria nessun opera di persuasione, poiché lei, memore delle sofferenze che aveva sopportato a causa di quell’uomo, seguì il consiglio di Franco. Non le restava che sperare che Andrea Moretti, sparisse per sempre dalla sua vita.

Il ristorante “da Gigì”, era frequentato da politici, calciatori, gente di spettacolo, insomma, da quella categoria che siamo abituati a chiamare VIP, anche se spesso e volentieri, il Very Important é riferito solo al conto in banca e non alla qualità dell’ individuo. Alcuni personaggi Carole li conosceva, ma la maggior parte degli avventori famosi erano italiani e quindi la lasciavano indifferente. Franco, un giorno, le aveva preannunciato l’arrivo di un personaggio importante che le sarebbe piaciuto vedere “dal vivo”, ma lei non immaginava minimamente, di vedere la sua beniamina, Eleonore Legrand, varcare la soglia del ristorante! Era bellissima ed elegante, anche se indossava solo un paio di jeans e una camicia con sopra una giacca sportiva. Era in compagnia del suo architetto, il quale si stava beando degli sguardi pieni d’invidia, di uomini e donne presenti

nel ristorante. Gigì, aveva riservato loro, la saletta privée dedicata agli ospiti più importanti. Naturalmente Carole non avrebbe mai servito a quel tavolo, era ancora alle prime armi, a malapena le era concesso di portare il pane, il cestello per il vino, accendere la candela sul tavolo… insomma tutte quelle cose che non richiedevano una grande esperienza. Lei però aveva il vantaggio di essere se come la Legrand e al primo “bonjour madame”, Eleonore capì che Carole, non stava scimmiottando la sua lingua per farle piacere. Con stupore di Gigì e del maitre, Eleonore cominciò a chiacchierare in se con Carole, la quale era al settimo cielo per quelle attenzioni inaspettate. Alla fine del pranzo, Eleonore chiese di lei, quella ragazza l’aveva incuriosita, aveva qualcosa di particolare che non riusciva a capire. Era il suo modo di parlare? L’aspetto fisico? Gli atteggiamenti? Il fatto che fosse se? Era una ragazza giovane, lontana dalla famiglia, forse in questo trovava una qualche similitudine con la sua vita? Carole si avvicinò timidamente al tavolo ma Eleonore la incoraggiò a sedersi. Le chiese di dov’era, come mai viveva a Roma, studiava? Quali erano le sue ioni? «Ah, ma se vuoi diventare un’arredatrice Mauro sicuramente potrà aiutarti!» Lo disse rivolgendosi al suo architetto, che pur non avendo nessuna intenzione di assecondare quella cameriera, fece buon viso a cattivo gioco. «Beh, magari potresti farmi vedere qualcosa.» Eleonore non sembrò soddisfatta di quella frase di circostanza e lui capì l’antifona. Tirò fuori il suo biglietto da visita e malvolentieri lo porse a Carole. «Chiamami, questo è il numero del mio studio!»

«Secondo me la Legrand è lesbica!» Carole scherzosamente, diede un colpo di tovagliolo sul braccio di Franco col quale stava apparecchiando i tavoli per la cena. «Non dire sciocchezze, sprizza sensualità da tutti i pori!» Franco fece l’offeso. «La sensualità non è una prerogativa degli eterosessuali! E comunque concorderai con me, che non è così usuale che una diva si metta a chiacchierare con una cameriera, come se fossero vecchie amiche!»

«Cosa vuoi che ti dica, forse aveva bevuto un po’ troppo e la prossima volta, non si ricorderà neanche il mio nome!»

Come previsto, l’uscita dei giornali scandalistici sui quali si ipotizzavano storie d’amore e di sesso con il detective e segreti inconfessabili della star, avevano scatenato la morbosità del pubblico e dei media anche in Italia. Ormai tutti erano convinti, che l’attrice avesse addirittura, acquistato un attico nella capitale, per godersi quella relazione lontana da Parigi. Fortunatamente, Eleonore e persino Peter, capirono che i giornalisti non avevano nulla in mano, erano solo illazioni di qualche cronista di cronaca rosa, che doveva pur guadagnarsi la “baguette”. Eleonore concesse un paio d’interviste telefoniche per smentire quei pettegolezzi di cui era certa che dopo qualche giorno, nessuno ne avrebbe più parlato. Adesso poteva concentrarsi sulle cose importanti!

Dopo aver saputo che Tess, non solo stava bene ma l’aveva anche resa zia, voleva sapere se c’erano novità, doveva chiamare Fontaine, era impaziente di incontrare la sorella. O almeno, una parte di lei lo era, l’altra parte era terrorizzata. “Cosa le dico? Ciao Tess, sono tua sorella, quella che ti ha lasciato in balìa di quel porco di nostro padre e che ti ha pure messa incinta! Guardami, adesso sono ricca e famosa, quindi fai in modo che questa storia non si sappia in giro, ne va della mia carriera!” Continuava a camminare su e giù per il salotto con il cellulare in mano. “E se non volesse vedermi? E se non fosse più la mia Tess? Se fosse diventata un’opportunista pronta a cogliere la palla al balzo? Potrebbe ricattarmi, certo, magari su consiglio del marito o di qualche rampante azzeccagarbugli in cerca di notorietà!” In tutto questo rimuginare, si rese conto che non aveva versato una lacrima per la morte della madre. Dopo tanto tempo, non l’aveva ancora perdonata? Non era più una ragazzina arrabbiata, era perfettamente consapevole che la mancanza di personalità da parte della madre, non poteva essere condannabile. In ogni caso Corinne, era rea di essere stata una donna innamorata, che si era ostinata a negare l’evidenza. Sì, sicuramente era anche spaventata! Chi non lo sarebbe stato vivendo con un uomo che si ubriaca e ti picchia quasi quotidianamente?

Eleonore si rendeva conto che negli anni ‘60 in un piccolo paese, poche donne sposate con due figlie, avrebbero agito in maniera diversa dalla madre. Stava provando a giustificarla?

Fontaine era di buon umore e le disse che c’erano buone possibilità di trovare la sorella. Probabilmente era ancora in Francia, forse addirittura a Parigi, le accennò a un doppio cognome… di chi del marito? Eleonore si era distratta, era troppo eccitata all’idea di rivedere la sorella e i suoi due nipoti. «Madame mi deve dire lei, cosa vuole fare?» L’investigatore le stava domandando qualcosa che lei, evidentemente, non aveva sentito. «Mi scusi, non ho capito?» Fontaine le chiese se voleva un incontro diretto con Tess o se fosse il caso di avvicinarla lui per primo, giusto per farsi un’idea, insomma tastare il terreno. Fontaine era un professionista e sapeva perfettamente che in situazioni come quella, bisognava essere molto cauti. Eleonore voleva prima parlarne con le due persone di cui si fidava di più in assoluto. «Rimandiamo la decisione al momento opportuno! Continui pure il suo lavoro, per il momento la ringrazio!»

Da quando aveva avuto notizie di Tess, Eleonore credeva di vedere la sorella in ogni dove. Non aveva idea di come potesse essere diventata a distanza di tanti anni, tra l’altro era sicura che non vivesse a Roma, eppure in molte donne che incontrava, le sembrava di vedere qualcosa che le ricordava Tess. Claude aveva capito che Eleonore aveva bisogno di lui e così si era inventato un convegno a Milano ed era sbarcato a Roma per trascorrere il fine settimana insieme a lei. Maria aveva proprio ragione quando diceva che le coppie di solito, inventano scuse per stare lontani, loro invece da una vita inventavano scuse per stare vicini, l’importante era non ammetterlo!

Era una bellissima giornata illuminata da un sole tiepido, una di quelle giornate che mettono proprio di buon umore ed Eleonore sembrava addirittura felice! Da

qualche mese rifiutava lavori e ospitate di vario genere, servizi fotografici e interviste anche su testate giornalistiche di un certo rilievo, continuando ovviamente, a discutere con Peter. Era concentrata su cose apparentemente futili, come affittare un attico in piazza di Spagna, ma anche su cose molto personali, come la ricerca di quel che restava della sua famiglia. Entrambe le cose le davano un piacere e un’energia quasi del tutto sconosciuti. Stava facendo qualcosa per soddisfare se stessa, niente produttori, nessun agente, niente pubblico, nessuna recensione... che meraviglia! D’altronde, era quasi una signora di mezza età ricca e famosa, lavorava da una vita e cominciava a pensare che forse, era arrivato il momento di godersi il frutto di tanti sacrifici, come spesso l’ ammoniva Maria. Quando ne fece partecipe Claude, mentre cenavano da Gigì, ci mancò poco che lui si strozzasse con un grissino. «Chi sei? Vai via, esci dal corpo di Eleonore!» Lei sorrise. «Dai piantala di prendermi in giro e parliamo di cose serie!» «Queste sono cose serissime che non avrei mai pensato di sentir pronunciare dalla tua bocca! Ci vuole un brindisi per festeggiare!» Fece un cenno al cameriere. Claude, tornando serio, le consigliò di lasciar fare a Fontaine, prima di uscire allo scoperto con la sorella. «Le persone cambiano e se questa storia venisse fuori nel modo sbagliato... sai perfettamente quali sarebbero le conseguenze!» Carole si avvicinò timidamente al tavolo e con sollievo sentì pronunciare il suo nome da Eleonore che la stava salutando allegramente. «Sono contenta che si ricordi il mio nome, madame Legrand!» Lei, non solo ricordava benissimo il nome di Carole, ma in quei giorni si era ritrovata più volte a pensare a lei. Alla fine si era convinta che anche quella ragazza, come altre decine di donne in quel periodo, le ricordava Tess. Ne aveva parlato a Claude di questa specie di fissazione, lui con parole semplici l’aveva rassicurata dicendole che nel momento in cui avesse incontrato la sorella, avrebbe smesso di avere questa sorta di abbagli. Quel giorno però, dopo avergli presentato Carole, Claude sembrava turbato, tanto che quando la ragazza si allontanò, Eleonore cominciò a punzecchiarlo. «Carina eh? Un po’ troppo giovane per te, non credi?» Lui non si mise sulle difensive come si aspettava lei. «Come hai detto che si chiama?» Eleonore si

mise a ridere pensando che lui la stesse prendendo in giro. «Credo che abbia poco più di vent’anni e tu potresti essere suo nonno!» Claude le accese la sigaretta. «Sai, mi sa tanto che sto invecchiando davvero!.. Mi sono lasciato suggestionare dai tuoi discorsi e quando ho visto quella ragazza mi ha ricordato te, vent’anni fa! Non fisicamente, tu eri molto diversa, ma non so... il modo di muoversi, di guardare. Mah, forse è il caso che io vada in pensione, non posso più fare questo mestiere se mi lascio influenzare così facilmente e per di più, da una mia paziente. Rischio di farmi cancellare dall’albo!» Eleonore elargì uno dei più bei sorrisi del suo repertorio, probabilmente sollevata dal fatto che non avrebbe dovuto competere con una donna molto più giovane di lei, che tra l’altro le stava anche simpatica. «Sei sempre il mio psicanalista preferito, sei sempre un bell’uomo, e se deciderai di andare in pensione su un’isola deserta, senza telefoni, giornali e televisioni beh, fammelo sapere, non si sa mai!» Claude la guardò con gli stessi occhi innamorati di vent’anni prima. «Non prenderti gioco di me! Lo hai appena detto, ho una certa età e il mio cuore potrebbe non farcela questa volta!» Quella frase buttata lì, come fosse una battuta, arrivò dritta al cuore di Eleonore, che ancora una volta si chiese se non avesse sbagliato la scelta più importante della sua vita. Alla fine della cena, il ristorante era quasi vuoto ed Eleonore invitò Gigì a bere una flute di champagne insieme a loro. Il proprietario del ristorante non si stupì di questo invito, spesso personaggi importanti a fine pasto lo ospitavano al tavolo, chi invece rimase sorpreso per quell’invito fu Claude. A dire il vero, soltanto per i primi cinque minuti, perché presto si rese conto che Eleonore, con il suo impeccabile savoir faire, stava continuando a fare domande su Carole. Quella sera, vuoi per la cena squisita a base di frutti di mare e crostacei - che qualcuno dice essere afrodisiaci - vuoi per lo champagne, Eleonore e Claude fecero l’amore. Entrambi appagati, pensarono che era stato piacevole, esattamente, come tanto tempo prima.

Quando Fontaine ricevette la telefonata di Claude, immaginò che il suo amico volesse chiedergli notizie di Tess. Si stupì non poco, quando invece Claude gli chiese di investigare su una ragazza che Eleonore voleva assumere come

segretaria, preferì restare sul vago. Gli disse tutto quello che sapeva su Carole e si raccomandò di non parlarne assolutamente con madame Legrand!

Tess viveva in una villetta appena fuori Parigi. Lei e Armand, quando i gemelli avevano raggiunto l’età scolastica, avevano deciso di comune accordo, di andare a vivere in un posto tranquillo, più a dimensione d’uomo, lontani da quella metropoli troppo caotica e piena d’insidie. Zio Charlie, ormai avanti con l’età, aveva accettato l’invito ed era andato a vivere con loro, con grande gioia dei nipotini. Armand aveva aperto una piccola clinica veterinaria e Tess lo aiutava, nel poco tempo libero che riusciva a ritagliarsi dagli impegni familiari. La visita di Fontaine, dopo una telefonata misteriosa, sconvolse non poco quel tranquillo menage familiare. Tess non credeva alle sue orecchie mentre Armand era preoccupatissimo per la moglie. Quel tizio asseriva non solo di conoscere Eleonore, dalla quale aveva ricevuto l’incarico di rintracciare la sorella, ma addirittura aveva detto loro che Eleonore era diventata un personaggio molto noto. Per questa ragione, bisognava essere molto discreti, quindi voleva essere sicuro che il loro ato, non proprio limpido, non diventasse di pubblico dominio. Tess era imbarazzatissima, non aveva dimenticato i suoi trascorsi a Brest, nonostante fossero ati tanti anni ma con l’amore della sua famiglia, quantomeno aveva cercato di conviverci senza che questo influenzasse la sua vita. Armand, invece, era furioso. Un perfetto estraneo, che diceva di essere un detective, si era presentato a casa sua manifestando preoccupazione, solo per il buon nome della sua cliente. «La sorella di mia moglie in tutti questi anni non si è neanche presa la briga di sapere se Tess fosse viva o morta e adesso lei mi viene a dire che vuole incontrarla, solo se promettiamo di essere discreti?» Fontaine non si lasciò scoraggiare. «Monsieur, mi creda, sua cognata sarebbe felice di rivedere la sorella ma anche a costo di sembrarle cinico, io sono abituato a fare bene il mio lavoro, nella massima discrezione, e non posso farmi coinvolgere dai rapporti personali dei miei clienti.» Nella testa e nel cuore di Tess c’era un tumulto tale da farle quasi mancare il respiro. Mentre Armand e Fontaine continuavano a battibeccare, lei stava

pensando che il momento che aspettava da una vita, forse era arrivato! Se questo comportava accettare qualche compromesso o patto di qualsiasi genere cui sottostare, come diceva quel tizio, beh, era disposta a seguire queste regole. Armand stava ancora cercando di mettere in difficoltà il detective. «Monsieur Fontaine, se mia cognata è un personaggio così noto, come mai non la conosciamo?» «Io non ho detto che non la conoscete!» Armand, preso alla sprovvista da quella risposta, non seppe più che dire. Tess interruppe quella diatriba e con un filo di voce disse: «Voglio incontrarla! Può dire a questa persona, che lei dice essere mia sorella, che non sarò certo io a sbandierare ai quattro venti la storia della nostra famiglia, come ha fatto lei con un perfetto estraneo. Ho solo una condizione da porre.» «Quale?» Chiese Fontaine. «Che sia lei a venire a casa mia.» Il detective con un mezzo sorriso sulle labbra, fece un segno di diniego con la testa e stava per ribadire qualcosa ma Tess lo fermò decisa. «Me lo deve dopo tanti anni di attesa!»

Eleonore, nonostante Fontaine non fosse d’accordo, accettò la condizione che aveva posto Tess, la sorella aveva ragione, glielo doveva. Per l’ennesima volta, chiese a Claude di accompagnarla, mai come questa volta, avrebbe avuto bisogno di tutto il suo sostegno. Quei sette giorni, in attesa di incontrare la sorella, furono interminabili. Era agitatissima, nessuna “prima” di un film, l’aveva mai resa così nervosa, insicura e preoccupata. Anche Maria, alla fine, si lasciò contagiare da questa ansia che regnava in casa e tra tisane rilassanti e fiori di Bach, sperò che arrivasse presto il fatidico giorno.

Armand era stato irremovibile, i ragazzi non sarebbero stati presenti a quel primo incontro e Tess era d’accordo con lui, li avrebbero “preparati” con calma, al momento opportuno. Lui era preoccupato per quell’appuntamento colmo di mistero, si comportava come un guerriero armato fino ai denti, disposto a tutto pur di difendere la propria famiglia. Con questo stato d’animo, in quei giorni,

non fu di grande aiuto per Tess che era sull’orlo di una crisi di nervi. In quella settimana d’attesa, zio Charlie invece, si comportò come un padre per lei. Cercava di calmarla, di rassicurarla, di farla concentrare sul lato piacevole di quello che stava per accadere nella sua vita.

Durante le ricerche sulla vita di Carole, Fontaine scoprì che la ragazza era stata adottata da una famiglia che viveva a Nantes, anche se non risultava essere nata né in un ospedale, né in casa con l’assistenza di un’ostetrica. Era quasi certo ormai, che quella ragazza fosse stata adottata illegalmente. Anna e Paul, terrorizzati dalla visita di Fontaine, confermarono quella sua teoria dopo che il detective disse loro che non aveva nessuna intenzione di denunciarli ma nel loro interesse, era meglio se avessero collaborato. Insomma, era né più né meno che una garbata minaccia. I Durand, a parte l’identità del loro medico di famiglia, effettivamente non sapevano nient’altro. Quel nome per Fontaine fu molto utile, perché compariva in una lista d’indagati per adozioni illegali, scoperta parecchi anni prima. Il medico in questione, era già morto all’epoca dello scandalo scoppiato in un ospedale di Brest. “Una strana coincidenza”, pensò Fontaine. Quando Claude fermò l’auto davanti alla casa di Tess, Eleonore sentì le sue gambe irrigidirsi. «Claude sto per avere un attacco di panico!» «Respira lentamente, cerca di concentrarti sulla mia voce. Ci sono io con te, non ti succederà niente di brutto.» Tess e Armand, quando la videro scendere dall’auto, rimasero a bocca aperta. Fu lui a parlare per primo. «Cos’è uno scherzo?» Tess non credeva ai suoi occhi. «La Legrand? Non può essere mia sorella!» Eleonore, più si avvicinava all’ingresso della villetta, più si aggrappava a Claude nella speranza di attingere la forza necessaria per non crollare. Tess aprì la porta come un automa. Erano sempre più vicine e nessuna delle due staccava gli occhi dall’altra. Tess, basita e incredula, non sapendo cosa fare, allungò il braccio per salutarla. Eleonore, pur avendo di fronte una donna matura, ben diversa dalla piccola Tess, vide nell’espressione di quegli occhi, la sorellina che aveva abbandonato trent’anni prima. Senza esitare l’abbracciò con

forza, non riuscendo a trattenere le lacrime. Rimasero strette nella stessa posizione, senza fiatare, per almeno un minuto mentre Armand e Claude, guardavano statici quella scena. Quando le due sorelle si staccarono da quell’abbraccio, erano entrambe consapevoli che non si sarebbero mai più lasciate.

Claude, dopo l’incontro con Tess, aveva visto Eleonore rifiorire. Da due settimane non faceva altro che parlare della sorella, la chiamava tutti i giorni, era come se volesse recuperare ad ogni costo, il tempo perduto. Aveva conosciuto i suoi nipoti, Charlie junior e Philip ed era felice che fossero due ragazzi a modo, educati e soprattutto sereni. Sicuramente era merito di Tess, pensò, ma anche di Armand che sembrava un padre amorevole e un marito innamorato.

Fontaine era molto soddisfatto del suo lavoro ed era pronto a rivelare al suo amico ciò che aveva scoperto. Claude, dopo aver parlato con lui, era a dir poco sconvolto, adesso aveva il difficile compito di comunicare ad Eleonore, quello che il detective aveva scoperto su Carole. Durante la cena, a casa di Eleonore, era stato particolarmente silenzioso ma lei era così impegnata a parlare della sorella e dei suoi nipoti, che non vi badò. Maria invece, intuì che c’era qualcosa che lo turbava, tanto che a un certo punto decise che era arrivato il momento di scoprirlo. «Ely, siamo un po’ gelosi, sai? Da quando hai ritrovato tua sorella, è come se noi non esistessimo più, dico bene Claude?» Maria non aveva mai nascosto la simpatia che da sempre provava nei confronti di quell’uomo e poi c’era una tale confidenza con entrambi, che sapeva di potersi permettere di parlare in quel modo. Eleonore fece un tentativo di giustificarsi. «Lo so, sono diventata logorroica ma questo non vuol dire che abbia smesso di volervi bene! È che… la famiglia si è allargata, non siete felici anche voi?» Claude decise che era arrivato il momento di dirle quello che aveva saputo a proposito di Carole. «Certo che siamo felici.» Eleonore lo guardò con sospetto. «Dalla tua faccia non si direbbe!» Claude prese fiato. «C’è qualcosa che devo dirti.» “Lo sapevo”, pensò Maria. Quel tono allarmò Eleonore. «Si tratta di

Tess?» Claude non sapeva da dove cominciare. «Ascolta, non è facile per me, quindi per favore cerca di non interrompermi.» Fece un sorriso forzato. «Almeno, non troppo.» Si ravviò i capelli. «Ti ricordi quando mi hai presentato Carole, da Gigì?» «Sì!» «Il giorno dopo ho chiamato Fontaine e gli ho chiesto di… insomma… d’indagare su quella ragazza.» «Cosa? Per quale motivo?» Claude fece un gesto con la mano, come per dire: “aspetta, fammi parlare”. «Fontaine ha scoperto che Carole è stata adottata illegalmente da una famiglia che vive a Nantes. Durante le sue ricerche, ha appurato che la bambina in realtà era nata a Brest, in un ospedale dove tanti anni prima, era venuto fuori uno scandalo per adozioni illegali. È andato a Brest e, non senza difficoltà, è riuscito a parlare con un’ostetrica, una certa Lucille Fournier, che allora lavorava nello stesso ospedale dove lavorava tua madre e dove è nata Carole. L’ostetrica fu indagata insieme a un dottore, un certo Dubois, che era il principale responsabile di queste adozioni illegali e che dopo qualche anno è morto in carcere. La Fournier dopo la prigione, non avendo parenti, è andata a vivere in una casa di cura per anziani, anche perché era molto malata. Nonostante non sia più tanto lucida, ancora oggi ricorda benissimo quell’adozione, per lo strazio di quella madre/bambina e ha detto a Fontaine che quella bimba… è la figlia di Tess!» Eleonore saltò dalla sedia. «È una bugiarda! Mia sorella mi ha raccontato questa storia terribile e mi ha detto che era un bambino!» Claude si aspettava una reazione di quel genere. «Io non so come siano andate le cose, però mi fido di Fontaine.» «E io non so cosa gli hai raccontato di Carole, magari è davvero nata a Brest e lui si è lasciato suggestionare!» «Lo conosco dai tempi dell’università e non è il tipo che si lascia influenzare facilmente.» Eleonore cominciò ad andare su e giù per la cucina. Maria non fiatava. Claude continuò. «Ricordi che ti dissi che Carole mi ricordava te, quando ti ho conosciuta?» Nella testa di Eleonore, cominciava ad insinuarsi il dubbio. «Certo che mi ricordo! Mi hai anche detto però, che ti eri fatto condizionare da me! Ti

rendi conto che non posso dire a mia sorella una cosa del genere, se non abbiamo la certezza matematica di quello che stai dicendo?» «Sì che me ne rendo conto ma qual è l’alternativa, non dirle niente per non rischiare?» «Certo che no!»

Carole non stava nella pelle, Eleonore Legrand l’aveva invitata a trascorrere un week end a Parigi! Franco la guardò con un sorrisetto ironico. «Te l’avevo detto che la diva, ha altre mire su di te!» «Sei solo invidioso, caro il mio fratellino! Piuttosto spero che Gigì mi dica di sì.» Gigì non fece obiezioni e lei gli fu immensamente riconoscente, non sapendo che Eleonore lo aveva chiamato pregandolo di concedere a Carole permesso di partire. Quando atterrò all’aeroporto Charles De Gaulle, si avviò verso l’uscita, tra le persone in attesa vide il suo nome su un cartello, era l’autista di Eleonore. Che emozione! Arrivata al Four Season Hotel, Carole si convinse che quello fosse l’albergo più bello e più lussuoso del mondo, pur non avendone frequentati così tanti da poter fare paragoni. Fontaine nel frattempo, aveva fatto ulteriori ricerche ed era più che mai sicuro che Carole fosse proprio la nipote di madame Legrand, il puzzle si stava componendo. La data di nascita, non era esattamente la stessa, c’era la differenza di una settimana ma questo era comprensibile. La conferma più convincente, fu il confronto delle foto della ragazza da piccola che Fontaine si era fatto dare dai Durand, con quelle di Tess. Claude gli aveva riferito che si faceva fatica a distinguerle l’una dall’altra. Eleonore, ancora titubante, si fece raccontare dalla sorella, ancora una volta e nei minimi particolari, quella triste storia. «Tesoro, tu stavi quasi per morire e non hai potuto vedere il bambino, ma possibile che neanche la mamma lo abbia

visto?» Armand, che aveva captato qualcosa mentre le sorelle parlavano, non capiva questa specie di accanimento di Eleonore, nel voler parlare di quella storia che era stato motivo di grande sofferenza per la moglie. Tess a un tratto si ricordò della lettera della madre e andò a prenderla. «Questa l’ho trovata a casa di mamma, dopo che è morta. Sulla busta c’è anche il tuo nome, l’ho aperta dopo tanto tempo perché speravo di leggerla insieme a te, come avrebbe voluto lei. Qui spiega perché non ha voluto vedere il mio bambino.» Eleonore lesse sulla busta il suo nome, la aprì e tirò fuori un foglio ingiallito dal tempo.

“Care bambine mie, spero in cuor mio che quando leggerete questa lettera, sarete di nuovo insieme. So che sarebbe troppo facile, chiedervi di capire perché non sono stata una buona madre per voi e siccome non merito il vostro perdono, non lo farò. Vorrei solo che sapeste che a modo mio, vi ho amato con tutto il cuore. Eleonore, figlia mia, ho pregato tutti i giorni della mia miserabile vita, che tu stessi bene e spero che Dio, nella sua infinita bontà, abbia esaudito le preghiere di una peccatrice. Tess, amore mio, meritavi senza dubbio una vita migliore e non mi perdonerò mai di essere stata la causa principale dei tuoi patimenti. Tra le tante cose che ti hanno fatto male, ce n’é una, per cui mi hai odiato a lungo e vorrei spiegarti il motivo del mio comportamento. Quando è nato il tuo bambino, la tua vita era appesa a un filo e io ero talmente arrabbiata e terrorizzata all’idea di perderti, che stupidamente mi sono convinta che fosse colpa di quella creatura se tu stavi in quello stato. Ero sconvolta! Persino Lucille, che ti è stata accanto amorevolmente, era così addolorata e confusa che all’inizio mi aveva detto che avevi partorito una bambina. Figlie mie, vi abbraccio e spero che la vita vi riservi un po’ di meritata felicità. Vi stringo forte al mio cuore. Con amore. La vostra mamma”.

Eleonore ripiegò il foglio e finalmente sentì scendere le lacrime trattenute da tanto tempo. Provava pietà per quella donna che per la maggior parte della sua vita, non aveva fatto altro che soffrire e sentirsi in colpa. “Riposa in pace, mamma!” Rimasero in silenzio per un po’. Eleonore, leggendo quella lettera, rifletté su quel particolare riferito a una bambina. Un altro punto a favore della tesi di Fontaine. Disse alla sorella che durante le ricerche per rintracciarla, il detective aveva scoperto un traffico illegale di bambini nell’ospedale di Brest. Tess rimase sconvolta. «Davvero?» «Sì e a quanto pare questa Lucille, il dottor Dubois, un altro medico e un’ infermiera, sono finiti in galera.» Tess era incredula. «Il dottor Dubois è quello che mia ha visitata la prima volta! Sarà successo dopo che sono andata via da Brest, altrimenti l’avrei saputo!» «Per quanto riguarda lo scandalo sì, ma il traffico illegale di bambini avveniva anche nel periodo in cui tu hai perso… la bambina.» Guardò la sorella per capire se la sua precisazione sortisse qualche effetto. Non sbagliò, Tess sembrò turbata. Nella lettera della madre, non aveva mai dato peso a quella frase riferita al sesso del neonato e adesso Eleonore stava insistendo nel parlare di quell’episodio della sua vita così tanto doloroso. Si chiese quale fosse il motivo. «Non starai pensando che la mamma abbia fatto adottare il mio bambino?» «No! Non l’ho pensato neanche per un secondo! Nostra madre si può accusare di tutto, ma non era certo un’opportunista che avrebbe venduto la tua bambina per denaro.» Aveva ancora una volta ripetuto volutamente, bambina e non bambino. «Eleonore, non so cosa ti stia frullando per la testa ma questa non è la sceneggiatura di un film!» «Tesoro a volte la vita è così imprevedibile, che neanche un bravo sceneggiatore sarebbe capace di fare meglio!» Tess accennò a un sorriso amaro. «Me ne sono accorta, mio malgrado.» Di comune accordo, Eleonore e Claude, avevano deciso che Carole sarebbe stata più a suo agio in un albergo piuttosto che a casa di una star internazionale che conosceva a malapena. «Non creiamole inutili tensioni. Le persone, quando non

si sentono a proprio agio, tendono a comportarsi in maniera diversa e noi non vogliamo questo, giusto?» Così le aveva detto Claude ed Eleonore non fece obiezioni. Ormai anche lei, era sempre più convinta che Carole fosse davvero la figlia di Tess ma avendo ancora qualche remora, voleva rivedere quella ragazza per guardarla con occhi diversi. E poi voleva farla conoscere a Maria, si sarebbe fidata più del suo intuito che di Fontaine. Quando vide Carole, Maria ebbe la stessa reazione di Claude. Aveva conosciuto Eleonore, quando aveva appena diciotto anni e quella ragazza gliela ricordava tantissimo, non aveva nessun dubbio.

Quel week end fu bellissimo per Carole, che tra l’altro, non era mai stata a Parigi. Eleonore era stata gentilissima con lei, a volte le era sembrata addirittura affettuosa e aveva insistito affinché la chiamasse per nome. «Non chiamarmi madame ti prego, mi fai sentire vecchia!» Carole, si sentiva talmente a proprio agio che le parlò di lei, dei suoi genitori, di come aveva scoperto che era stata adottata, di Berlino e persino di Andrea. Non poteva immaginare cosa stava scatenando quel racconto, quali fantasmi stava rievocando nella testa della sua interlocutrice. Eleonore cercò di cambiare discorso. «Come pensi che la prenderebbero Anne e Paul se tu trovassi i tuoi veri genitori?» Un velo di tristezza calò sul viso di Carole. «Non credo che succederà mai! Quando l’ho saputo ho giurato che li avrei cercati, a costo di impiegare tutta la vita, se non altro per guardarli in faccia e chiedergli perché mi hanno dato via come se fossi qualcosa di ingombrante di cui doversi liberare! E comunque non ho abbastanza soldi per ingaggiare un James Bond che si metta a cercare i miei genitori.» Eleonore in quei giorni l’aveva osservata tanto, con l’intento di scorgere delle similitudini con Tess e ora si chiedeva come aveva fatto a non accorgersi che non c’erano dubbi, Carole era sua nipote. Sentirle dire quelle cose le faceva male, avrebbe voluto trascinarla da Tess e dirle: “Questa è tua madre e non ti ha abbandonata come pensi, ma come te, anche lei è stata ingannata!” Non poteva farlo, aveva deciso con Claude di parlare prima con Armand, che senza dubbio sarebbe stata la persona più giusta per preparare Tess a questa notizia. Riguardo a Carole, non sarebbe stato giusto farle affrontare uno shock simile, circondata da perfetti estranei, avrebbe avuto bisogno di avere accanto le due persone che

l’avevano amata come una figlia.

Anne e Paul, da quando Fontaine era andato a parlare con loro la prima volta, erano caduti in uno stato di prostrazione totale. Quando poi, li informò che sarebbe tornato a casa loro con delle novità, i Durand capirono che non erano in arrivo buone notizie. Il detective, cercò di essere il più garbato possibile nel raccontare loro tutto ciò che aveva scoperto, ma fu sufficiente a buttarli nello sconforto totale. «Guardate il lato positivo della cosa, vostra figlia non si darebbe pace per il resto della sua vita, sapendo che non siete i suoi genitori.» Paul dovette fare uno sforzo enorme, per non prendere a calci quel tizio che pretendeva di elargire opinioni non richieste. Anne tra un mancamento, vero in questa circostanza, e una crisi isterica, non riusciva a darsi pace. Persino Paul aveva perso il suo aplomb, la sua più grande paura era perdere la sua amata bambina. Carole si chiedeva come mai in quei giorni, la chiamavano in continuazione chiedendole se andasse tutto bene. Si stupì ancora di più, quando Eleonore le chiese, dopo appena due settimane, di tornare a Parigi insieme ad Anne e Paul. «Devo parlarti di una cosa molto importante e vorrei che venissi qui insieme ai… ai tuoi genitori.» Persino Franco non riuscì a capire il senso di quell’invito ma provò lo stesso a scherzarci sopra. «Se fosse un uomo, penserei che abbia intenzione di chiedere la tua mano!»

Anche se Armand con l’aiuto di zio Charlie, era stato bravissimo a preparare Tess alla notizia bomba, lei sbiancò. Il suo cuore voleva credere a quello che le aveva appena detto il marito, ma era anche terrorizzata da un’eventuale delusione, non avrebbe avuto la forza di sopportarlo, non di nuovo. Gli fece mille domande, perché il suo cervello, contrariamente al suo cuore, voleva certezze, fatti, date, prove. Armand poteva riferirle solo quello che gli aveva raccontato Eleonore. «Tua sorella ne è certa Tess! Mi ha detto che anche lei all’inizio non ci credeva, per questo motivo ha voluto verificare e adesso non ha più dubbi!» Lei tremava, non riusciva a fermarsi, tanto che zio Charlie le diede

alcune gocce del suo sedativo, nella speranza che si calmasse.

Quando Paul, davanti a una cena rimasta intonsa, le raccontò tutto quello che era successo, Carole rimase di stucco, non riuscì ad emettere un suono. Restò ancora più sconvolta quando il padre le disse che la donna che l’aveva partorita, evitò di pronunciare la parola “madre”, davanti alla moglie, era la sorella di Eleonore. Carole sentiva il suo cuore battere ad una velocità folle. Dentro di sé un turbinio di stati d’animo le facevano girare la testa. Felicità, rabbia, rancore, si sentiva ingannata anche da Eleonore, da quanto lo sapeva? Senso di colpa per gli unici genitori che conosceva da sempre e che adesso sembravano annientati dalla disperazione. Cominciò a singhiozzare come una bambina senza curarsi delle persone che affollavano il ristorante. Paul l’abbracciò e la tenne stretta a sé. «Ti voglio bene, piccola mia!» Continuando a piangere Carole si strinse ancora più forte a lui. «Anch’io ti voglio bene papà e ti prometto che non ti lascerò mai!» Quelle parole che Paul bramava sentire, suscitarono in lui un emozione che non aveva mai provato in tutta la sua vita.

Il giorno tanto atteso e altrettanto temuto, era arrivato. Eleonore si aggirava da una stanza all’altra come un leone in gabbia, guardando l’orologio ogni cinque minuti. Maria e Claude, alla fine, si erano lasciati contagiare dall’agitazione che regnava in casa. Il fischio del bollitore sul fuoco o il trillo di un telefono erano sufficienti a farli saltare in aria. I primi ad arrivare furono Tess e Armand. I ragazzi, soprattutto Philippe, il più combattivo dei gemelli, dopo mille proteste si rassegnarono a restare a casa con zio Charlie. Quando Eleonore abbracciò Tess per salutarla, sentì che tremava, era pallida, le occhiaie evidenti, segno di una notte ata in bianco. «Dai sorellina, vedrai che andrà tutto bene!» La famiglia Durand non proferì parola durante il tragitto in taxi che li portò a casa di Eleonore. Carole non lasciò mai la mano del padre, neanche quando si

ritrovò faccia a faccia con Tess, sua madre! L’emozione e la tensione, erano palpabili. Tess guardò quella splendida ragazza e si rivide poco più che bambina, davanti allo specchio del bagno con la maglietta tirata su ad accarezzarsi la pancia che cresceva di settimana in settimana. Carole era impietrita, non sapeva che fare, fu Paul a lasciarle la mano e a salutare Tess, Anne a malincuore fece la stessa cosa. Carole, timidamente allungò il braccio per salutarla e Tess sentì il calore di quella mano che strinse forte. Quanto aveva sofferto per non essere riuscita a toccare neanche una volta, quel bambino che pensava morto. Non voleva lasciare quel contatto, che bella sensazione! «Posso abbracciarti?» Anche Carole aveva voglia di abbracciare quella donna che l’aveva tenuta in grembo e dalla quale era stata strappata appena nata. Guardò prima Anne e poi Paul che le sorrise. La tensione di tutti si allentò con quel timido abbraccio. Tess avrebbe dovuto spiegare tante cose a sua figlia, ma non aveva voglia di pensarci adesso, c’era tempo. Il cellulare di Eleonore squillò, guardò il display, vide il nome del suo agente e interruppe la chiamata. Tra qualche giorno, tutti i giornali avrebbero dato la notizia che Eleonore Legrand, aveva annunciato il ritiro dalle scene. “Ho cose più importanti da fare!” Pensò. Sorrise a Claude. «Sono qui!» Lui ricambiò il sorriso e le cinse la vita con un braccio. «Io ci sarò sempre!»

FINE

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