sca Boari
LE ORME DELL’ORSO
Elison Publishing
Proprietà letteraria riservata © 2015 Elison Publishing
Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico. Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:
Elison Publishing Via Milano 44 73051 Novoli (LE) ISBN 9788869630347
Rivedo le tue lettere d’amore illuminata adesso da un distacco, senza quasi rancore.
L’illusione era forte a sostenerci, ci reggevamo entrambi negli abbracci, pregando che durassero gli intenti. Ci promettemmo il sempre degli amanti, certi nei nostri spiriti divini.
E hai potuto lasciarmi, e hai potuto intuire un’altra luce che seguitasse dopo le mie spalle.
Mi hai resuscitato dalle scarse origini con richiami di musica divina, mi hai resa divergenza di dolore, spazio, per la tua vita di ricerca per abitarmi il tempo di un errore.
E mi hai lasciato solo le tue lettere, onde io le ribevessi nella tua assenza.
(Lettere di Alda Merini)
CAPITOLO I
Sono nata a Mendoza in un giorno di autunno su cui si appoggiavano foglie tra il giallo e il rosso in una altalena di vento che accompagnava generoso il mio ingresso. A mia totale insaputa. Tu mi guardavi incredula e confusa, tu bella, giovane e assetata di vita, non conoscevi allora quanto quell’istante avrebbe sconvolto i nostri i sulla terra, fino agli inciampi, alle svolte e all’abbraccio finale e sudato di lacrime che ci avrebbe, infine, ricongiunte. È così, adesso lo sai, finalmente in pace e ricomposta con quell’universo che hai abitato sempre a disagio e in fuga. Incomincia qui la mia storia, proprio dalla tua bellezza e fatica, abiti che mi hai lasciato sempre addosso, quasi a volermi ricordare solo in questo modo di te, anche quando, per tanti anni non ci sei stata. Abiti impegnativi, non credere, che piano piano, senza la fretta dell’assurdo, ho saputo trasformare in seta e profumo. Leggeri proprio come quelle foglie d’autunno, cornice di amore e morte insieme. Solo tre anni e un giocattolo tra le mani mi hai dato e poi sei sfumata via come una leggenda dentro al rumore sordo dello schiaffo di papà. Sei uscita da quella stanza abbandonando tua figlia alla solitudine di un carillon e tuo marito, l’uomo che ti aveva raccolta e amata, dentro la miseria di una maledetta guerra, alla disperazione di un abbandono non spiegato. Non ricordo niente di quei tre anni, quello che ho potuto sapere di te l’ho raccolto, come nutrimento indispensabile alla crescita, dalle labbra della nonna Celestina. Erano sue le mani che mi accompagnavano nei primi i e nelle prime scoperte importanti, era sua la voce che rispondeva alle domande di una bambina che cercava la mamma e all’improvviso non la vedeva più. Era suo, della nonna Celestina, il calore che ha tradotto il gelo di un abbandono in un senso possibile. “La mamma è dovuta andare via per qualche tempo, mi diceva e ripeteva ogni giorno, ma vedrai che tornerà. Noi intanto la cercheremo e, prima o poi, lei tornerà”. Le lacrime le segnavano il viso e nei suoi occhi avrei potuto sprofondare se non mi fossi tenuta stretta alla sua forza ogni singolo istante in
cui tu non ci sei stata. E non c’eri davvero. Ti avevo fatto qualcosa di brutto? Mi ero comportata male? Avevo riposto un abito nel luogo sbagliato, non ti avevo abbracciata abbastanza, non ti piacevo, ti davano fastidio i miei capricci bambini? Perché? Durante tutta la mia infanzia ho continuato a chiedermi, prima di chiudere gli occhi, se c’era qualcosa in particolare che avessi potuto fare per provocare questo tuo improvviso distacco e abbandono. Non trovare risposte mi faceva precipitare in una disperazione senza via d’uscita. Allora arrivava la nonna e raccoglieva il mio pianto in quelle mani grandi e generose per ricomporlo nella pace della notte. Aveva il dono straordinario delle parole e dell’ascolto. Aveva un cuore immenso e generoso, gli altri, le persone che amava, venivano prima di lei ad ogni costo. Non aveva paura della fatica e del sacrificio. Era partita con il nonno dall’Italia subito dopo la fine della guerra per raggiungere te, ragazza, che in cerca di avventura e fortuna, forte soprattutto della tua bellezza, avevi affidato la tua felicità ad un matrimonio frettoloso e all’America. Argentina. Ecco la parola magica con cui avevi convinto anche i nonni a spostarsi da Ferrara e a raggiungerti. È vero, ben presto ti eri accorta che non eri felice con questo uomo che ti aveva rapito l’innocenza e promesso la ricchezza, ma avevi capito che in Argentina in quel momento della storia si poteva ricominciare a vivere bene. La nonna non aveva esitato nemmeno un istante e sentendo che eri comunque in pericolo si era imbarcata per raggiungerti e starti vicina, trascinando con sé anche il nonno. Non era stato facile all’inizio, per niente. Una terra lontana, sconosciuta e questo uomo, che era il tuo primo marito che non ti lasciava andare. Poi arrivò l’incrocio fortunato, o almeno così sembrava perfino a te, con Victor, quello che poi sarebbe il mio papà. Victor, uomo elegante, generoso, intelligente, buono, con diversi anni in più di te, ma folle d’amore, pronto a tutto per averti. E soprattutto tanto, tanto ricco. Ti rincorreva ovunque, cinepresa a spalla e non ti lasciava mai sola, Tu bella e così fuggente ti lasciavi immobilizzare davanti a quel mare generoso che tanto amavi dentro l’immagine di una camera forse perché sapevi che quella vita con noi non l’avresti scelta. Lo sapevi, mamma, che qualcosa ti continuava a stare stretto? Eppure davanti al film di quegli anni oramai così lontani io continuo a guardare e a cercare il perché. Sembravi felice nelle immagini mosse e nei tuoi i leggeri che volgevano sempre verso l’alto. Sembrava che tu potessi contenere
quell’assurdo desiderio di fuga e riposare nella felicità che tanto amore ti avrebbe potuto regalare. E invece non ti bastava niente, non le braccia forti e spalancate a te della nonna Celestina, non i sacrifici del nonno che vagava da un paese all’altro per guadagnare la vostra vita e metterla al riparo dai venti e dalle bufere del ato che si appoggiava pesantemente sulle vostre spalle, non l’amore di Victor, papà, che poteva anche morire per te e l’avrebbe fatto se tu solo glielo avessi chiesto, non la figlia che hai avuto e che ti ha sempre amata come se tu ci fossi sempre stata. Niente. Tutto questo lo hai dato per scontato e sei fuggita ancora. “Nonna, perché la mamma non torna mai?”, quante volte con la voce che supplicava la risposta ho guardato gli occhi tristi della nonna nella speranza di cogliere un senso. Non ce la faceva nemmeno lei. Non ne ha mai parlato del tuo abbandono. La vergogna ha superato anche la sua forza. Forse non voleva rassegnarsi all’idea che sua figlia era stata capace di tanto orrore, forse continuava anche dentro quel suo cuore grande a cercare un motivo valido per giustificare, prima a se stessa, e poi anche agli altri la tua scelta. Fu davvero una scelta la tua? E, se sì, in nome di cosa e soprattutto perché un prezzo così alto per chi ti desiderava e ti ha sempre tanto cercata? Mi mancano dei frammenti per ricomporre il tutto. Forse potevi amare un altro uomo senza abbandonare me. Forse potevi lasciare are meno tempo prima di fare la tua nuova comparsa. Forse hai agito d’impulso e mi hai lasciata lontana perché sapevi che non potevi, non avevi la forza di spezzarti in due. Forse anche tu hai sofferto di quel brutale e assurdo gesto. Oppure l’incoscienza giustifica tanto coraggio. A volte mi chiedo se stavi male, se eri disperata, se la mia nascita ti aveva gettata nel disegno di un dovere che non volevi in quel momento. Mi chiedo ancora se ci sia qualcosa che non sei riuscita a dirmi prima di chiudere gli occhi. Mamma ti vorrei adesso, nell’abbraccio del perdono che mi è costato tanto, perché tu potessi sentire la mia forza e potessi nutrirtene fino a tornare a quel maledetto giorno in cui ti girasti per non vedermi crescere. Vorrei che anche avessi dovuto, come bambina, adolescente, donna, vedere la disperazione della nonna, ogni volta che il tuo nome, Luciana, era anche solo accennato. Vorrei che tu avessi almeno potuto immaginare gli occhi lucidi di papà mentre guardava e riguardava quelle immagini fissate, come se avesse sempre saputo, nella pellicola. Occhi che cercavano a volte anche di sfondare quelle immagini sbiadite e d’illusoria felicità. Quelle immagini con cui anche il mio bambino, adolescente, uomo ha dovuto imparare l’assenza di una nonna che era riuscita anche ad essere madre. Ti ha conosciuta, invece, solo come la nonna Luciana,
cogliendo nei miei occhi sempre un abisso di tristezza. Sogni spezzati, infranti, annegati nel tuo silenzio e nella tua scomparsa. Non sei mai scomparsa dentro di me che ti ho tenuta stretta nella morsa della vita che mi hai donato. Avevo solo tre anni. Non capii per molto tempo il senso di questo distacco brutale, nonostante le consolazioni di nonna e le parole a volte, non sempre, affettuose di papà. Nessuno ti ha nominata per molto tempo. E io sono rimasta a guardare quella porta da cui uscisti con tanta fretta e nel silenzio più fragoroso, sapendo che prima o poi saresti rientrata. Non importa da dove, ma ti ho sempre aspettata, sapendo che mi avresti per qualsiasi motivo cercata. E tu? Cosa ti sei chiesta tu su Adriana? La tua bambina vestita da principessa che non hai voluto? E soprattutto se ti sei domandata di me, di come fossi diventata, se avessi sofferto, le tue risposte, se c’erano, riguardavano me? O ancora hai potuto mettere davanti alla mia vita la tua? Ti sei mai chiesta cosa avrebbe risposto tua figlia alla domanda e tua mamma? Io ti ho solo annusata e respirata e guardata in quelle pellicole sbiadite di papà. Ti ho conosciuta nel vuoto che hai lasciato nel cuore della nonna, del nonno e di papà. Di te non si poteva parlare. Spalancava troppo al dolore la pronuncia del tuo nome. E il mio? Monco di madre si doveva affermare. Tutto quello che sono, oggi te lo posso dire senza rimpianti e con il dolore accarezzato da te, lo devo a quelle spalle che si voltano davanti ad una vita che supplica di affermarsi nel mondo. E così ho imparato i i direttamente sulle strade con la mano forte della nonna che non mi ha mai lasciata e ha riempito quel vuoto di baci e abbracci, gli stessi di cui sono riuscita a riempire la vita di tante persone che mi sono ate accanto e mi sono rimaste addosso. E adesso mi sento forte, mamma, e così ritorno leggera, su quel ato ombroso e doloroso che credevi di potermi imprimere addosso. Vesto abiti leggeri come i tuoi, ho la tua bellezza e il tuo coraggio ma ho saputo volgerlo nell’amore e nella comprensione. Fino ad arrivare al perdono di oggi. Scrivo di te, parlo di te e ti lascio uscire libera e leggera, come ti è sempre piaciuto, da un cuore rotto di lacrime strozzate.
CAPITOLO II
In un periodo che non riesco a collocare ho creduto di non farcela. Ho seguito i nonni sempre. Alla fine abbiamo deciso di lasciare papà, imbrigliato di vita, ricordi, rimpianti e arte, e siamo tornati in Italia, a Ferrara. Tutto ricomincia, in fondo, da dove te ne andasti, credendo nelle luci fioche dell’illusione d’amore, di avere trovato la felicità. Avevo tredici anni. Davanti a me si spalancava la vita, ma a metà. Tu sai perché parlo così. Avevo un nodo che mi strozzava la gola. Per un poco ho studiato. Poi ho deciso che volevo pettinare e lavorare. Dovevo rendere ai nonni quella fatica sudata d’amore di cui mi avevano, nonostante te e nonostante papà, sempre nutrita. Sentivo il cuore che mi scoppiava dentro e vedevo le altre ragazze della mia età godersi l’innocenza dell’adolescenza senza pensieri e senza grandi voli. Io quel desiderio di volare lo avevo addosso e dovevo subito, immediatamente, affermarlo. Quei capelli che ti volano al vento dei filmati di papà dovevo fermarli, aggiustarli, metterli in ordine. Solo così avrei potuto diventare Adriana Valles. Stai ridendo? Dì la verità? Non mi interessa, perché tu non sai ancora niente della mia storia e meno ancora della mia vita. Arrivati a Ferrara non avevamo niente. La nostra forza e la nostra voglia di vivere, quella sì. Sempre. All’inizio la sorella della nonna ci ospitò nella sua casa. E qui, tu sai bene che niente succede per caso, l’incontro con Sergio, l’uomo che dovrà cambiare la mia vita. Sergio aveva allora ventitré anni e io lo guardavo come se fosse un principe, lo seguivo ovunque, nei piccoli gesti ordinati dettati da una vita di tranquillità che a me fino a quel giorno era stata negata. Era un uomo, con sogni, progetti, ione e anche quella sana concretezza che poco avevo conosciuto guardando la vita di mio padre a distanza e asciugando la vergogna dei nonni. In quel nido che ci accolse allora, anche solo per pochi giorni, giusto il tempo che trovassimo tutti una sistemazione, avevo sentito per la prima volta calore. Sergio, mio secondo cugino. L’uomo che volevo con me per sempre. Erano i sogni di una bambina che si sentiva già addosso la vita intera di una donna.
Sogni cui le mie prime notti a Ferrara si aggrappavano. Il risveglio era sempre accompagnato da sorrisi e comprensione. La bufera l’avevo ancora dentro, inconsapevole allora, ma fuori c’era sempre una sola stagione. La pace. E soprattutto tra i confini della normalità che, a causa tua avevamo fuggito tutti, ritornavano le forze per ricominciare da capo. Certo non avevamo più niente. Gli ultimi risparmi del nonno erano finiti in quella terra lontana dove l’amore per la figlia lo aveva costretto. La nonna sapeva cucire e incominciò subito a mettersi all’opera con quella Singer che i suoi piedi e le sue mani generose e grandi sapevano muovere come le dita di un musicista si muovono su un pianoforte. La guardavo di spalle e mi dicevo che dovevo finire presto la terza media per aiutare, andare a lavorare e iniziare la mia affermazione in questa città che sembrava voler sciogliere d’incanto un dolore immenso. La nonna amava andare dal parrucchiere e lo faceva quando voleva sentirsi bella, per me e per il nonno. Io ero felice quando la vedevo ricomposta, anche se per me non è mai esistita una donna della sua luce e della sua bellezza. Sergio, l’uomo che mi stava davanti, insieme alle sue fidanzatine, che si succedevano senza importanza. Ovvero io decidevo che comunque non sarebbero state loro. Sentivo nel profondo di me che qualcosa di più forte ci univa, nonostante la differenza d’età e la parentela. Vedevo in lui una forma di protezione che forse avevo sempre cercato senza sapere. Vedevo nella sua forma la mia sostanza e sapevo che anche lui un giorno avrebbe visto Adriana con occhi di luce. Non più la bambina abbandonata da proteggere e difendere. A quindici anni, lavoravo già presso una cartoleria, dove ci si occupava specialmente di cornici, all’uscita lo trovai, come ogni giorno, ad aspettarmi per accompagnarmi a casa. Intanto, grazie al lavoro senza sosta della nonna e del nonno, eravamo riusciti a trovare una casa in affitto in centro. Quel pomeriggio presi coraggio. Sergio doveva sapere del mio amore per lui. Lo guardai dentro gli occhi senza paura e gli chiesi di accompagnarmi a ballare. Sergio era imbarazzato. Non si era ancora accorto dei miei sentimenti e forse nemmeno io sapevo di amarlo così profondamente, ancora. Mi chiese se potevamo andare tutti insieme, io, lui e la fidanzata del momento. Io risposi di no. Il ballo doveva essere tutto nostro. Volevo giocare le mie carte e dichiararmi definitivamente a lui. Sarei stata la sua donna per sempre. E quel ballo fu effettivamente la prima cornice della nostra vita insieme. “Immagine” di Lennon e abbraccio di caldo e profumo. Impazzimento dei sensi,
concerto di emozioni pulite, occhi intrecciati ai suoi in quel lento che suona ancora nella nostra camera, naso appoggiato alle sue spalle forti e robuste dentro l’odore di una pelle buona, orecchie invase di una melodia che miscelava il cuore, la vita e la speranza di un domani che doveva arrivare, i corpi stretti senza più lo spazio del respiro, la bocca appesa alle sue labbra tenere e rosa per imprimere un sigillo d’amore che mi avrebbe nutrito per sempre. E così ho voluto che fosse, abbiamo voluto insieme che fosse.
CAPITOLO III
Poco tempo dopo il nostro fidanzamento, mi ritrovavo a lavorare in un negozio di parrucchiera nel centro della città. Ero sempre affamata di conoscenze, facevo di tutto per recuperare quel tempo di cui dovevo ad ogni costo essere regina. Mi sentivo sempre orfana dei tuoi abbracci e di quelli di papà, ma a tenermi la mano c’era sempre la nonna Celestina e adesso avevo anche la forza di Sergio. Dovevo nutrire il mio coraggio, tenere sotto controllo la mia esuberanza, e guardare avanti sempre avanti. Dimenticavo e seppellivo il dolore dell’abbandono di ieri nel fare dell’oggi. Non mi fermavo mai. Guardavo gli altri e assetata di tutto imparavo e creavo, pezzo dopo pezzo, la mia vita. Gli applausi ingenui della nonna davanti alla sua bambina che voleva a tutti i costi essere presto quella donna che l’aveva abbandonata e insegnarle, anche a distanza, la forza e il coraggio che lei aveva dimostrato di non avere. I suoi sorrisi nelle sere stanche ad avvolgere le nebbie e le incertezza che deglutivo in silenzio per non spaventarla. Io volevo e dovevo proteggere la nonna. E nello stesso tempo dovevo dimostrare a Sergio che aveva affidato il suo cuore ad una donna che sarebbe rimasta di fianco a lui sempre. Mi piaceva mettere le mani tra i capelli delle donne, mi sembrava che ogni volta mi affidassero un piccolo o verso una trasformazione, verso uno dei tanti volti che abitano in quella parte remota di noi che sveliamo piano piano, specie se riusciamo a incrociare sulle nostre strade un tramite che ci dia accesso alla nostra intimità. Le guardavo entrare nel negozio e mi piaceva ascoltare tutto quello che dicevano e anche i loro silenzi. Al lavatesta appoggiavo delicatamente le mie mani tra i loro capelli e sognavo di essere io quel tramite che le avrebbe rese anche solo per un istante felici di specchiarsi. In principio la titolare non mi faceva fare molto, e così mi dilungavo in massaggi e pensavo a quale taglio o quale messa in piega avrebbero reso giustizia ad un volto. Giuliana tagliava ed io restavo dietro di lei e mi incantavo davanti a quella forbice veloce e sicura, tuttavia a volte troppo meccanica. Trasformare quella forbice in una bacchetta magica, tagliare con leggerezza, scivolare in un’immagine che diviene realtà. E mi tornava sempre in mente la nonna quando ritornava dal parrucchiere, la mia regina. Sentivo quell’odore buono di lacca e quel viso rilassato che poche volte si lasciava andare alla gioia del niente. Adesso, che mi sentivo una parrucchiera, anche se ancora non sapevo quanto lungo e difficile sarebbe stato il mio
cammino, potevo pettinare la nonna, anche per gioco, come mi piaceva fare da bambina con le bambole. Massaggiavo, allora, la cute e immaginavo te danzare davanti a noi con quel sorriso impossibile da rimuovere, quello che avevo visto nei filmini di papà. È vero. Qualcuno rabbrividisce al momento dello sciampo. Io cercavo sempre la temperatura migliore e di appoggiare lievemente l’acqua sui capelli, non smettendo mai di domandare se la temperatura era giusta o se era troppo fredda. Dovevo rilassare i miei clienti, farli sentire amati, coccolati, abbracciati dalla mia urgenza di dare. Ho imparato in quegli anni ad arricciare, sfoltire, pettinare. A vent’anni dovevo avere il mio atelier, il salone della più bella e più brava fra le parrucchiere, solo perché, quando lavora, ama. E così con grande sacrificio, tutto sulle mie spalle che continuavano a caricarsi di peso, tutti si impegnarono perché potessi avere un negozio solo mio. Era piccolo e nemmeno troppo in centro. Per me era un castello. Entrai per la prima volta in questi trentacinque metri quadri di negozio, aprii la porta e subito sentii dentro di me accendersi una luce di bellezza. C’era sporco ovunque, tutto da ricomporre, spazi piccoli. Io sapevo che presto chi fosse entrato nel salone di Adriana avrebbe visto la stessa luce che si era accesa nel mio cuore al mio ingresso in quella piccola bottega anonima che ora diventava mia. Il salone di Adriana Valles. In pochi mesi tutto era pronto per la nuova partenza, l’arredo, i prodotti sugli scaffali e due dipendenti. Nessuna cliente. Mi sentivo come ebbra, tra quegli odori che miscelavano realtà e fantasia, tra lacca, lozioni, acqua di rose e balsami. Senza dubbio, in quei primi momenti, l’odore più straordinario dovette essere il mio. Sudavo sempre, anche quando il gelo bloccava la porta d’ingresso. E le clienti che a poco a poco si avvicinavano erano più inebriate dal mio coraggio e dal mio azzardo che da una professionalità che non c’era. Era evidente che in quegli anni più che mai sapevo indossare un corpo capace di stordire. Profumavo d’amore e ione. Tutti, uomini e donne, anche bambini, uscendo dal mio negozio dovevano portarsi a casa insieme alla piega quell’odore magico e respirarlo la sera nelle loro case. Dovevano sentirsi invasi di amore e ione, essere capaci di vedere le stesse meraviglie a cui il mio cuore lentamente si preparava. Un sorriso mi rallegrava la giornata intera, un colore riuscito bene mi accendeva le luci dell’anima, un taglio per lo più, in principio immaginato grazie alla scuola di Giuliana, mi caricava di energia che volevo trasmettere attraverso le dita a tutti i miei clienti. Riempire la terra d’amore, quello stesso a me sconosciuto da parte di madre e padre, che aveva lasciato una ferita profonda. Dovevo ricucire, ricomporre e riordinare dando
tutto quello che non avevo conosciuto. La bellezza, l’incanto, la magia, le luci che tornano finalmente ad accendersi intorno a me e poi le avrei viste accendersi anche dentro me. Non sapevo bene quando sarebbe successo. Sapevo, però, che se avessi dato a chi mi aveva accolta con tanta generosità, un giorno, anche questo miracolo mi avrebbe abbracciata. “Ci sposiamo, che dici Adriana? Saremo felici, lo sai vero?”, tremavo davanti a queste parole di un amore pulito e sincero. Tremavo forse come te davanti alla ione di papà. Mai una volta mi sono pentita di quel sì urlato al vento perché tu potessi sentirlo in tutta la sua fermezza. Non aspettavo altro e sapevo che Sergio mi avrebbe tenuto con sé sempre e che io sarei stata sempre sua. “Ti sposo Sergio, sono già tua, forse da sempre senza nemmeno saperlo”, anche questa era sicuramente un’affermazione azzardata ma sapevo, dentro di me, che non me ne sarei mai pentita. Alla vigilia del matrimonio, arrivò un telegramma mescolato alle congratulazioni e ai regali. Lo presi tra le dita e lo aprii immaginando le solite frasi. Invece no. “Papà è morto”. Non era possibile, che una volta ancora, sentendomi in cielo, dovessi cadere fragorosamente sulla terra. Vi eravate messi d’accordo? Ogni volta che mi sembrava di ricomporre un pezzo della mia vita in senso, qualche evento straordinario sembrava volere arrestare qualsiasi cenno di speranza. Piansi a lungo su quel pezzo di carta. E altro su cui piangere non avevo. Non mi lasciavi niente, se non i ricordi sbiaditi di una vita che scorre solo sulle tue pellicole consumate dal tempo e dal dolore. E quel telegramma a incidere ancora una volta sul momento più bello della mia vita giovane. Questo è stato il tuo regalo, papà. Sposo un uomo e perdo mio padre, consapevole forse di non averlo mai avuto davvero. Da quando eravamo tornati in Italia mi avevi scritto puntualmente e io ti rispondevo inviandoti fotografie di me e cercando, allora senza saperlo, sempre un cenno del tuo consenso. Mi era restata sullo stomaco quella lettera in cui mi scrivesti che mi trovavi ingrassata. Altre parole non le ricordo se non che, alla fine, ti firmavi Victor, non papà. Orfana da sempre, continuavo a cercare una vostra affermazione, magari scritta, per dimostrare agli altri e quindi a me, che anche io avevo una mamma e un papà. Di te, mamma, invece nessuna notizia, se non riportata vagamente da amici carissimi che ben conoscevano le lacerazioni della nonna e forse anche le mie.
Subito dopo il matrimonio, consumato con le lacrime strozzate in gola, Sergio ed io, venimmo da te. Aeroporto di Buenos Aires. Eccoli, chi sono? Avanzano ovunque questi militari impazziti. Mi tengo stretta a te, Sergio, che stupefatto, in Italia, allora, se ne sentiva parlare poco, ti guardi intorno e forse capisci, per la prima volta, cosa significa essere entrato nella mia vita e in un grande film. I militari si avvicinano e mi chiedono di seguirli. Io ero nata in Argentina, all’età di tredici anni ero tornata in Italia e adesso cosa volevo? Sospetta, senza rinnovo dei documenti, risultavo una dissidente. Mi sequestrano davanti allo sguardo pieno di terrore di Sergio. Mi portano in una stanza buia, una specie di cantina. Di fianco doveva esserci una camera di tortura. Mi lasciano lì, in quel luogo sporco, insieme ad altri volti disperati, e mi dicono che bisogna aspettare. Aspettare cosa, chi? Io sono una parrucchiera italiana, Adriana Valles, la moglie di Sergio, venuta al mondo per caso in Argentina. Cosa vogliono da me questi uomini sudici, esecutori di morte, vestiti senz’anima e corpo, disabitati d’amore, cosa vogliono? Ho tanta paura, mi verrebbe da invocare te, mamma, ma non so dove sei. Penso a Sergio, so che ce la farà, in qualche modo mi proteggerà. Anche questa volta. Devo piangere mio padre. Lasciatemi uscire. Un amico di famiglia, giornalista con le giuste conoscenze, in quel periodo assurdo della storia, mi aspettava in aeroporto. Lo stesso che mi aveva inviato il telegramma annunciandomi la tua definitiva dipartita. Dopo tre giorni di digiuno e spavento, uscii da quel luogo sudicio e potei stringere Sergio e quella persona che avrà poi un ruolo importante anche con te. Avevo rivisto l’abbandono e annusato la morte così da vicino che pensavo che non avrei mai potuto ritornare a sorridere. Dovevo stare in piedi per continuare il mio cammino di rinascita. Non sapevo, allora, che ero appena all’inizio.
CAPITOLO IV
Grazie alla vita che mi ha dato tanto mi diede due stelle che quando le apro perfettamente distinguo il nero dal bianco E nell’alto del cielo Il suo fondo stellato E tra le moltitudini L’uomo che io amo Grazie alla vita che mi ha dato tanto Mi ha dato il suono e l’abecedario Con lui le parole che penso e dichiaro Madre, amico, fratello E la luce illuminando la rotta dell’anima Di chi sto amando Grazie alla vita che mi ha dato tanto Mi ha dato il cammino dei miei piedi stanchi Con loro andai per città e pozzanghere,
per spiagge e deserti, montagne e pianure. E per la tua casa, la tua strada, il tuo cortile. Grazie alla vita che mi ha dato tanto Mi ha dato il cuore che agita la propria cornice Quando guardo il frutto del cervello umano Quando guardo il bene tanto distante dal male Quando guardo il fondo dei tuoi occhi chiari Grazie alla vita che mi ha dato tanto Mi ha dato la risata e mi ha dato il pianto Così io distinguo la gioia dal dolore I due materiali che formano il mio canto Grazie alla vita!
(Violeta Parra, Gracias a la vida)
Avevo venticinque anni, ero in salita continua, appoggiata a Sergio, alla nonna e al mio negozio che lentamente prendeva la forma che desideravo. Avevo venticinque anni quando tu, mamma, per la prima volta sentisti il bisogno di sapere dov’ero e sentire il suono della mia voce. Mi scrivesti una lettera strana agli occhi bambini che avevano fermato il tempo dentro di me nel momento del tuo distacco incomprensibile. Una lettera in cui dicevi di sapere tutto di me, inclusa la mia felicità, e che ti dispiaceva di non esserti fatta viva prima. Ti aveva parlato di me quel caro amico che era intervenuto durante il mio arresto inspiegabile, in occasione della morte di papà.
Ti dispiaceva? Davvero? Questo ti sembra sufficiente a giustificare un silenzio eterno nel mio cuore? Avevo gli occhi di pietra mentre leggevo le tue parole e non sapevo se ridere, piangere. Tenevo quel foglio tra le mani e lo fissavo. Ti firmasti Luciana, naturalmente e non prima di avermi chiesto il silenzio con i tuoi figli, quelli che avevi avuto la forza di crescere, i miei fratelli. Loro non dovevano sapere niente di me e ancor meno che mi stavi cercando. Mi chiedevi anche un appuntamento telefonico in modo da potermi sentire. Stava male tuo figlio, era in coma. Avevi sentito il bisogno di cercarmi e mi avevi trovata. Ti sei chiesta come avrei potuto reagire? Ti sei domandata se mi stavi gettando l’ennesima pietra? Hai cercato di immaginare quanto dolore la tua ricomparsa improvvisa avrebbe potuto scoperchiare? Tutte domande retoriche, perché, di certo, tu non conosci le risposte e io, invece, le ho sempre taciute per proteggere la nonna e avere la forza necessaria ad asciugare le sue lacrime. Le mie? Avevo imparato a nasconderle nel trucco quotidiano, a tirare la pelle e a ridere sempre con la tristezza nel cuore. Sentivo la vita in maniera sempre più intensa e nello stesso tempo avvertivo il dovere di trasformare questo sentimento in forza e coraggio. Non avrei mai voluto che questo dono straordinario, che solo molto più tardi avrei realizzato essere tale, dovesse diventare una condanna piuttosto che un privilegio. Perché questo era quello che ti era accaduto, vero mamma? Anche tu avevi questo cuore grande che un giorno ti spaventò al punto di girarti e sparire da noi. Ti amavamo tutti troppo e la tua mente vulnerabile, per non farsi schiacciare, ha scelto la fuga. Avevo uno smisurato slancio verso tutto quello che odorava di vita e, come papà, fotografavo ogni singolo istante, nel tentativo ostinato di cogliere la bellezza del fiore e il dolore delle spine. Quella lettera pungeva, mamma, ma poteva essere una nuova possibilità che la vita, generosa, mi stava offrendo per capire, raccogliere e perdonare. Allora non feci tutti questi ragionamenti e come sempre agii di impulso. Risposi al telefono e nell’incanto raccolsi le tue parole come gocce d’acqua per un uomo che ha camminato a lungo nel deserto. Quelle poche cose, dette nella fretta dell’imbarazzo, mi sono rimaste dentro e mi hanno consentito la forza di un sì. “Vengo in Italia, Adriana, vediamoci a Roma”, con questa frase che apre una nuova parentesi nelle mie salite e discese, ti congedasti. Sergio ed io, sempre insieme, nuovo volo verso di te per contenerti e contenere il mio sasso nello stomaco.
Aeroporto di Roma. Come sarai? Non so se potrò riconoscerti, non so se avrò il coraggio del pianto, almeno questa volta, non so ancora se ti amo o ti odio. Ti immagino bella, alta, magra, bionda, viso di porcellana, labbra rosa e con quella dolcezza che mi hai rubato ad ingombrarti il o. E tu? Come mi immagini, mamma? Saprai distinguermi tra gli altri? I nostri sguardi si incrociano e si incrostano. Restiamo gelate di troppa assenza in un abbraccio lunghissimo in cui cerchiamo entrambe tutto il calore fuggito e negato negli anni trascorsi dentro l’assenza. Non impariamo mai niente nella vita, per quanti sforzi possiamo fare, ma almeno io so che tanto amore mi consentirà di guardare la morte senza paura. E per adesso ti cammino a fianco, felice di averti, di sentire l’odore della tua pelle delicata e bianca. Sergio ci accompagna in silenzio. Sa che questo è un momento magico per entrambe e che non si possono distogliere i i da una strada segnata. Bisogna solo imparare ad ascoltare e avere la forza per sostenere gli inciampi. Abbiamo pranzato in un bel ristorantino, caldo, accogliente, una amatriciana che mi ha segnato la gola di profumo di basilico e mi ha bruciato il freddo del tempo rapito. Ci siamo accesi tutti e tre in un brindisi al cielo e al nostro nuovo incontro sussurrando a dio parole di comione e perdono. Fu proprio in quel calice che sentii che non potevo condannarti perché in un istante i ruoli si erano confusi. Io diventavo la madre e tu la figlia che non aveva saputo sostenere l’amore. Mi regalavo l’illusione di un recupero, mi donavo gli occhi di una madre e il vestito pesante che tu non avevi saputo portare con me. Ti sentivo in tutta la tua fragilità umana e di donna, incominciavo lentamente a comprendere il tuo spavento anche se, io madre non lo ero ancora, e avrei dovuto attraversare ponti lunghissimi per esserlo davvero con te e con mio figlio Giacomo.
Mia cara Adriana, sono ati molti anni da quella prima volta che lei mise mani e competenza nei miei capelli. Ancora oggi, dopo tanto tempo, provo la stessa soddisfazione di allora, in perfetta sintonia con il mio essere. Cara Adriana, il suo ottimismo, il suo amore per la vita, sia essa sacra o profana, sempre più coerente con i suoi principi, fa sì che io provi una sana invidia per
ciò che vorrei ma non sono. A noi donne, brutte o belle, giovani o vecchie, casalinghe o in carriera, senza distinzione, regala a tutte l’illusione della bellezza. Grazie per tutto ciò che è!
Carla Ughi
Il negozio andava alla grande negli anni che seguirono il nostro incontro. Adriana stava diventando tutt’uno con Valles. Aprii tanti negozi ma per fare questa salita avevo avuto bisogno di un angelo. Da sola non ce l’avrei fatta e del resto abbiamo incondizionatamente bisogno di essere l’uno per l’altro. Ci sono incontri, nella vita di ognuno di noi, che in principio confondiamo per casuali e solo in seguito si rivelano in tutta la loro potenza. È come se ci fosse nel cielo un grande disegno per ogni singola vita sulla terra, un puntino alla volta si congiunge fino a quando il disegno non è completamente definito. Mi ricordo ancora quando Claudio, allora ispettore della Wella, entrò nel mio negozio e mi disse di eliminare tutti i miei prodotti e togliere le tende. Non fu cosa semplice da digerire. Avevo accumulato già una certa esperienza, almeno così credevo, e sentirmi giudicata non mi piaceva. In più io, quel Claudio, non sapevo davvero chi fosse. “Mettiti in mostra, Adriana, tu puoi e devi farlo. Togli queste tende e apriti al mondo se vuoi davvero diventare qualcuno. A Parigi. Ti porto a Parigi. Così mi crederai”. Con queste parole iniziava un rapporto destinato a diventare una tappa di vita e una svolta per la mia attività. Claudio era un uomo di successo già allora, sarebbe presto diventato anche direttore commerciale. Esperto di mondo, curioso, capace di distinguere chi poteva effettivamente diventare qualcuno e metterlo sotto le sue ali per insegnargli il volo che lo distinguesse. Evidentemente qualcuno gli aveva segnalato la mia esistenza oppure un semplice caso. Sta di fatto che io lessi un segno ben preciso in quell’ingresso nella mia vita. Come tutti gli uomini che da sempre avevano segnato il mio cammino, era più vecchio di me e scelsi d’istinto di affidarmi. Adriana naturalmente disse sì, quando si prospettò un viaggio a Parigi per vedere
come lavoravano in quella città magica. Eravamo trecento parrucchieri selezionati in Italia. Io ero tra loro. Mi aggrappai a Claudio e mi lasciai trascinare con la leggerezza che solo lui era in grado di infondere per strade e negozi di ogni tipo. Mi sembrava tutto bellissimo. Notai subito questa tendenza dei si a mettersi allo scoperto. Non usavano tende così come nei ristoranti in cui mangiammo, ubriachi di risate e progetti, la cucina era sempre a vista. Il cliente deve poterti vedere anche quando è fuori dal negozio, tutto va rappresentato, anche il mestiere. A parte la bellezza della città e l’entusiasmo che mi travolgeva il giorno e la notte, capii una cosa fondamentale dopo quel viaggio. Osare, essere folli, credere di più in quello che si può, dare, e questo lo avevo sempre fatto, anche scegliendo una direzione precisa di senso che, certo, non ti garantisce il ritorno, ma ti riempie il presente di sangue. Appena ritornata a Ferrara, strappai quelle tende e decisi di cambiare tutto l’arredo del negozio. Sentivo una grande energia dentro e intorno. Mi gettai a capofitto in corsi di specializzazione per imparare la geometria del taglio. Investii tempo e denaro per essere quello che volevo, sempre sorretta e appoggiata dall’amore incondizionato di Sergio e sollecitata e seguita, come una figlia modello, da Claudio. La sera, quando stanca rientravo da giornate di affogo inebriate di luce, Sergio mi abbracciava forte e mi diceva che, se fossimo rimasti sempre insieme, niente sarebbe stato irraggiungibile. Davvero la mia vita stava diventando una favola? Con il negozio trasformato continuavo ad avere riscontri e complimenti da tutti. Nel frattempo si può dire, a tutti gli effetti, ero diventata la parrucchiera. Claudio chiamava e diceva la direzione e io, valigia sempre pronta, partivo. Miss Italia per tre volte e Adriana pettinava e componeva quelle teste, sempre con il desiderio di vedere dentro. Scivolare dentro l’anima e coglierne le infinite onde per poi tradurle nel taglio, nella pettinatura, nel colore del momento, nel particolare. Tradurle in bellezza. Sfilate di moda importanti. E Adriana lavorava con Micol Fontana, entrando sottovoce ma con le urla del cuore gonfio di orgoglio, imparava che dopo il lavoro bisogna mettersi a lato e osservare il pubblico. Solo sui loro visi potrai trovare davvero quella conferma che da sola
non potresti mai definitivamente avere. “Vieni, Adriana, adesso guarda il pubblico”, erano state poche parole ad accendere l’ennesima luce e anche da questa indimenticabile esperienza avevo colto tanto. Dovevo chiedermi di più. Era come se non fossi mai abbastanza grata alla vita, dovevo, dimostrare quanto Claudio mi avesse trasformata. Dovevo investire a Ferrara in una serata da favola e questa volta Cenerentola si sarebbe presentata con il vestito bello senza paura di perdere tutto. Questo perché pensavo che la vita mi stava restituendo tutto quello che sapevo mi aveva tolto da bambina, o a o, dall’inciampo e dal dolore in cui per tanti anni l’immobilità mi aveva imbrigliata, incominciava a trasparire lo spazio della gioia dell’attimo e della speranza del dopo. Decisi, sempre con l’appoggio di Claudio e Sergio, che avrei organizzato la festa più bella dal dopoguerra in un noto palazzo della città. Anche in questo caso mi affidai a un altro angelo, Isabella, che costruì con coraggio e ione la cornice del mio trionfo. Ottenni lo spazio che volevo, ottenni la partecipazione della più conosciuta gioielleria di Ferrara che avrebbe reso luccicante di diamanti la mia notte da regina. Vestii le mie ancelle come se anche loro dovessero entrare nel mio film a pieno titolo, le vestii e le pettinai con la stessa cura e amore con cui avevo pettinato, una sera molto lontana nel tempo, avevo solo sette anni, la nonna Celestina. Volevo inebriare tutti con la mia gioia e la mia felicità. Ci sono riuscita. Oggi, come te, papà, guardo le foto raccolte e custodite in un grande album, e mi incanto di me, della forza che mi ha portata ad essere comunque, a parte voi, quella che sono. Maria Giovanna Elmi mi presentò davanti al pubblico difficile e diffidente di questa piccola città di provincia. Eppure, come mi aveva insegnato Micol Fontana, io lo vidi lo sguardo di quel pubblico e riuscii a rendere unica ed indimenticabile anche la loro notte. Nei mesi che seguirono quell’evento strepitoso, il negozio si riempì di nuove clienti. Adriana vogliamo essere pettinate da te. Il regalo più grande, il ritorno di tanti sforzi, fatiche e coraggio, quelle parole più volte ripetute ogni singolo giorno. Anche quando suonava il telefono, e suonava davvero tanto, le clienti, prima di prendere un appuntamento, chiedevano se c’era Adriana. Non ero stata mai così felice.
CAPITOLO V
Adriana era arrivata dove si era prefissata eppure non era mai soddisfatta. Forse per questo a ogni traguardo raggiunto a caro prezzo, sulla mia pelle e quella di chi mi amava, doveva seguire un richiamo, un segno che mi riconducesse ai valori autentici della vita. Per essere una donna completa dovevo,quello che tu non avevi saputo essere per me. Adriana madre. Adesso potevo concedermi di guardare all’eternità vera, dovevo fare il o più difficile, raggiungere il traguardo di ogni donna, dimostrare a me che potevo farcela. Sergio aveva espresso il desiderio di un figlio, ma io ero troppo concentrata nel mestiere, nel volo e nel ritorno. Adesso dovevo fermarmi ed essere soprattutto una donna. “ Signora, mi dispiace davvero, fibroma. Dobbiamo togliere tutto. Diventare madre, non se ne parla”, così tuonarono dentro il mio stomaco che continuava a bruciare, quelle parole atroci. Eccoti di nuovo qui, vicino a me, a ricordarmi che se anche potevo dirigere la mia vita a prescindere dal tuo abbandono, alcune cose mi sarebbero sfuggite. Mi sentii crollare, penso di essere svenuta davanti a quella sentenza. Adriana non poteva procreare. Adriana sarebbe stata privata della sua parte più importante di donna. Adriana dove ricordare il suo dolore, di nuovo le tue catene appese al collo, di nuovo quell’odore di morte di fianco a me a sussurrare la mia impotenza, a ricordarmi i limiti, a sottolineare l’impossibile. Scheggiata e afflitta, venni accolta da un abbraccio d’amore che non dimenticherò mai. Sergio, sempre lui. “Adriana, non demordere adesso, per asciugarmi le lacrime, non è da te. Andremo dal più bravo degli specialisti, ti accompagnerò e ti seguirò ovunque. Tu sei la mia luce e la mia donna”. Non mi sembrava possibile che ogni volta che credevo di toccare il cielo con la punta delle dita, lampi e tuoni mi ricacciassero sulla terra, dove nonostante tutti i riscontri, non avevo imparato ancora a camminare da sola. Forse non si impara mai perché a camminare da soli non c’è nessun merito.
E quando si cammina da sole? Dopo quali e quanti crepacci? Mi torturai a lungo nei mesi che seguirono fino a quando un medico mi aprì di nuovo la porta della speranza. All’inizio non riuscivo a vedere nessuna luce. Era stato un colpo durissimo da digerire per me e lo avevo letto come una punizione per non avere posto le situazioni della mia vita nella giusta priorità. Come se poi davvero potessimo organizzare i momenti su una agenda e rispettarli come scadenze. Era tutto assurdo, folle, quello che avevo in mente. Non avevo mai pensato veramente a Dio, ma ero sicura che se esisteva non si curava di me se non per punirmi. Eppure la porta si era aperta di nuovo. Il buio lentamente lasciava spazio alla luce della guarigione. Incominciai lentamente a ritornare al lavoro, nei mesi che seguirono la sentenza, mi ero chiusa al mondo evitando tutti, eccetto i nonni e Sergio. Incominciai a sentire di nuovo una forza primitiva accendersi per la vita. “Adriana, lei è guarita”, non furono molte le parole ma non mi sembrarono nemmeno umane. Una musica celestiale mi accompagnò da Sergio. Non ci fu bisogno di dirsi niente, tra lacrime e sorrisi, fu tutto subito chiarissimo. Quella notte abbiamo fatto l’amore, abbiamo stretto il sogno nei nostri abbracci e nei nostri umori perché non fuggisse mai più. C’era un caldo magnifico miscelato al tuo odore di buono, bruciavo di te e di quello che stavamo per diventare. Dopo l’amplesso siamo rimasti abbracciati per alcuni minuti, non ricordo quanto, senza parlare perché in quel momento ogni parola sarebbe stata inutile, in più. Andai a fare un bagno caldo e toccai dolcemente il mio ventre. Sapevo che era abitato da vita nuova e che saresti nato tu, Giacomo. Non sapevo, non potevo sapere davvero che cosa avrebbe significato crescerti e amarti completamente. In quel momento mi sentivo la forza di un leone e la gioia del bambino che gioca. Non c’era traccia della debolezza e della fragilità che avevano invaso le mie giornate d’infanzia. Almeno così credevo. Troppo piena di vita. Qualche settimana dopo feci il test di gravidanza. Mese di giugno. Sono incinta, amore mio immenso, non ci credo, è impossibile. Ricordo al terzo mese, la prima ecografia, eccoti, ti ho ancora davanti agli occhi con quelle gambe piccole, piccole già in movimento continuo. Quanto sarai mio e quanto di tuo padre? Riuscirò a darti la felicità che vorrei? Saprò baciarti fin che è ora e lasciarti andare per la tua strada?
CAPITOLO VI
I vostri figli non sono figli vostri. Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di sé stessa. Essi non provengono da voi, ma attraverso di voi. E sebbene stiano con voi, non vi appartengono. Potete dar loro tutto il vostro amore, ma non i vostri pensieri. Perché essi hanno i propri pensieri. Potete offrire dimora ai loro corpi, ma non alle loro anime. Perché le loro anime abitano la casa del domani, che voi non potete visitare, neppure nei vostri sogni. Potete sforzarvi di essere simili a loro, ma non cercare di renderli simili a voi. Perché la vita non torna indietro e non si ferma a ieri. Voi siete gli archi dai quali i vostri figli, come frecce viventi, sono scoccati. L’Arciere vede il bersaglio sul percorso dell’infinito, e con la Sua forza vi piega affinché le Sue frecce vadano veloci e lontane. Lasciatevi piegare con gioia dalla mano dell’Arciere. Poiché così come ama la freccia che scocca, così Egli ama anche l’arco che sta saldo.
(Parlaci dei figli, Khelil Gibran)
Dovevo incominciare a pensare a una vita a tre. Dovevo sapere che da quel momento tutto sarebbe stato migliore. Avevo una voglia straordinaria di annunciare a te il mio stato di donna. Tu c’eri solo al telefono. Allora ancora nessuno doveva sapere che tu avevi anche una figlia. Una figlia lasciata a se stessa. Senza parole, nel silenzio più duro, quello che ti urla dentro lo stomaco la vita. Piangevo sempre di gioia in quei mesi di attesa trepidante di te, Giacomo, e tu calciavi per l’urgenza di nascere e appoggiarti alla vita. Credevo di vivere in
un sogno. Stavo attenta a tutto. Non mangiavo, non esageravo con il lavoro, potevo permettermi di lasciare ai miei quindici dipendenti il lavoro maturato nei lunghi anni che avevano preceduto il tuo arrivo. Sergio mi accompagnava a ogni visita e tu eri sempre più vivo e più impaziente. Ti immaginavo di certo bello, la sintesi di un amore senza confini, sempre che possa avere rappresentazioni che sappiano di umano. Adoravo già quelle gambine senza quiete. Saresti stato un tuono. E non potevo non pensarti ogni singolo istante, mamma. Ogni mio traguardo, in qualche modo, era per te. Per dimostrarti che ti amavo nonostante l’abbandono e la tua debolezza. Adriana era forte e felice. Forse avresti potuto scrivermi di più quando hai saputo che stavo aspettando un bambino. Forse avresti potuto scrivermi di te, di come stavi tu quando abitavo nel tuo grembo. Cosa sentivi mamma? Sentivi tutto questo immenso che abita in me? E se è così come hai potuto trovare il coraggio di lasciarla sola quella bambina che voleva solo amarti? Eri troppo giovane? Ti eri illusa che con la mia nascita qualcosa avrebbe frenato una volta per tutto quel tuo insaziabile desiderio di fuga? Eppure adesso che stavo per diventare madre mi sembrava che niente potesse eguagliare questa ennesima salita. Sapevo dentro di me, nel profondo della mia intimità, che non sarebbe stato facile, che il tuo arrivo avrebbe sconvolto la mia vita di donna, che di certo avresti sconvolto il mio corpo, i miei orari, le nostre abitudini, il mio lavoro, il rapporto tra me e tuo padre. Sapevo anche che guardando la tua vita nascere dalla nostra, avrei accettato tutto e cercato di riempire le tue inevitabili paure di coraggio, le tue debolezze di forza, le tue incertezze di direzioni, il tuo pianto di sorrisi. Ti avrei preso per mano sempre per accompagnare il tuo ingresso in questo mondo fino a quando tu non avessi deciso che le gambe ti bastavano per andare da solo. E non potevo non pensare a quel giorno maledetto in cui tu ti girasti, mamma, per non tornare mai più, lasciando una vita bambina allo sbaraglio e il gelo nel cuore di chi ti amava tanto. La sera, quando Giacomo, tempesta nel mio ventre, protestando l’ingresso, mi riempiva la testa di paure. Probabilmente le stesse tue. Sarei stata una brava madre? Avrei saputo sacrificarmi abbastanza? Era sufficiente una carezza di Sergio e tutto spariva. Chiudevo gli occhi e mi abbandonavo ai sogni, disegnavo la nostra vita a tre e la riempivo di colori festosi e luminosi. Così potevo donarmi al sonno senza incubi che non dovevano più essere i miei. Lasciavo a te, distante, almeno questa di fatica. Avresti dovuto essere tu, un giorno, a spiegarmi tutto e sapevo che quel nodo, che tante volte si era ripresentato, certo ad intermittenze, per non strozzarmi il respiro, prima o poi lo avremmo sciolto insieme, mano nella mano. Quando da bambina affogavo in
pianti inconsolabili, la nonna Celestina apriva semplicemente le braccia e io nel caldo, nel profumo di buono e nella forza del suo abbraccio trovavo tutto quello che mi calmava e bastava ad asciugare la tua assenza e i tuoi inevitabili e prolungati silenzi. Non ti cerco più. Mi urlavo nello stomaco, non voglio mai più sapere niente di te. Resta dove sei e con chi sei. Io mi sono presa la tua di mamma. Sapevo che mentivo a me stessa, ma quelle parole gridate all’indifferenza dello stesso vento che amavi tanto, allora mi facevano rialzare il viso e andare avanti. Quanto mi sei stata dentro con i tuoi capelli bagnati dal mare, asciugati dal sole e pettinati dal vento? Ho gridato il tuo nome al cielo mille volte in un giorno, spinto tra l’odio e l’amore, negli umori altalenanti degli anni che avano senza di te. “Come stai, Adriana? Tutto bene? Sai che puoi chiamare quando vuoi. Basta che ci accordiamo e io ci sono. Adesso, ci sono”. E poi restavo sola con la cornetta tra le dita che tremavano e il niente della tua assenza. Il suono dolce della voce di Sergio mi riappacificava insieme agli occhi di mare della nonna. La nonna sapeva che ci eravamo incontrate a Roma e che ci sentivamo. Le avevo raccontato che tu stavi bene, avevi una famiglia numerosa ed eri riuscita ad amare gli altri figli. Celestina ci aveva messo del tempo ad accettare la tua improvvisa comparsa. Non le sembrava possibile che tu avessi avuto il coraggio di cercarmi e di vedermi dopo tutto quel male mai spiegato. Come madre tua ti aveva, con i suoi tempi, perdonata. Per il male a me e forse anche a papà non credo ci sia mai riuscita completamente. Comprensibile, non credi? Non ti ha mai giudicata, compresa fino in fondo nemmeno. Direi che ti è andata bene comunque. E io, ogni volta che potevo sentire la tua voce al telefono, avrei voluto che il tempo si fermasse su quel suono magico, così sperato e atteso. Intanto non facevo che immaginarti, piccolo mio, ti vedevo scuro di capelli, con occhi grandi e neri, curiosi e pronti al volo, con la curiosità sempre a vestire le tue giornate e la tua vita. Giravo per le strade della città in cerca di vestiti colorati, cappelli, giocattoli, carillon. Lo ricordo come fosse ieri il giorno in cui siamo andati a comperare la tua cameretta, l’emozione in bocca insieme ad un sorriso rubato alla stupidità. Sergio, apparentemente più sobrio, era più sicuro di quello che sceglieva. Lo guardavo con l’incanto e la paura insieme che durasse troppo poco, muoversi tra
i mobili, con quella tenerezza di cui aveva sempre riempito i miei vuoti d’animo, gli scoramenti improvvisi, il male cronico allo stomaco. Spolverava con l’ingenuità dei piccoli gesti tutta la fatica e l’angoscia, accendendo luci sempre nuove in quel buio in cui continuavi a respirare tu. Quando entravo in negozio, percepivo un’ illogica allegria, una gentilezza e delle premure che mi sfilavano le incertezze e le inadeguatezze. Le clienti, anche le più silenziose, avevano capito che era Adriana adesso ad avere bisogno e non chiedevano niente di più della mia presenza una volta ogni tanto. A loro bastava vedermi, e siccome in quei mesi sprigionavo luce, che non si poteva comprendere da dove venisse, tanto sapeva di divino, mi tenevano stretta la mano e si limitavano al sorriso del conforto. Fu soprattutto in quel periodo che capii che avevo costruito molto di più di un semplice negozio di parrucchiera. Avevo costruito una casa su fondamenta così robuste da non temere nessuna tempesta, o anche solo un vento contrario. Sapevo che ci sarebbero stati altri momenti di sofferenza e dolore, in quei momenti non potevo certo sapere quanto avrebbero pesato sulle nostre tre vite, ma il cammello che era in me si era trasformato nella forza e nel coraggio del leone. Una sera, era ormai vicino il giorno previsto della tua venuta al mondo, mi addormentai sul divano. Correvo lontano, non so dire esattamente dove e verso cosa, vedevo soltanto due lunghe braccia tese senza volto né corpo, dovevo arrivare a stringerle forte. Sudavo e sentivo un dolore indicibile alle gambe, tanto da faticare a muovere. Spingevo con tutte le forze ma poi mi mancava il fiato proprio quando quelle lunghe braccia mi sembravano accorciare le distanze. Poi gli occhi si spalancarono nel dolore forte del tuo annuncio. Ero completamente bagnata, ma il liquido era caldo, bollente, tra le mie gambe che continuavano a farmi male. Mi sembrava di non riuscire ad alzarmi. Chiamai Sergio e subito eravamo in macchina, di fianco lui, dentro te. Mi scendevano le lacrime per il male e intanto ridevo, vedendo chiaramente la preoccupazione di tuo padre, ridevo perché ero felice, come forse non ero mai stata e non sarei mai più stata. Mi venisti di nuovo tra i pensieri tu e mi misi a cantare a squarciagola. I’m sailing, I’am sailing, home again ‘cross the sea. I’m sailing, stormy water, to be near you, to be free… Allora anche Sergio si mise a cantare insieme a me, e le lacrime e il dolore scivolavano via come per miracolo. Mi sentivo in paradiso e tu eri già tra le mie braccia calde e sudate d’amore, braccia che ti avevano tanto voluto e da subito
adorato come fossi venuto al mondo per salvare tu me, creatura divina. I nostri sguardi si incrociarono subito complici, con quel tuo sorriso brigante prima del grido alla vita che si esprime nel pianto. Tuo padre davanti a me, stupefatto da tanta meraviglia a sollevarmi il capo perché sfinita potessi comunque vederti in tutta la tua bellezza. Le infermiere ti portarono via, per lavarti ed asciugarti, piccolo e tutto rosso di quel sangue e di quel desiderio di muovere le tue gambine fragili sul duro della terra. Ubriaca di gioia, incredula del miracolo di cui ero stata artefice. Ecco la scena che mancava, sapevo che la nostra vita di adulti, seppure pienamente gratificata sul piano professionale, non sarebbe mai stata completa e autentica senza te. Ci sono persone che possono vivere bene anche senza figli, ma io no. Questo lo avevo sempre saputo. Per essere Adriana avrei dovuto essere la madre che non ho mai conosciuto. Dopo qualche giorno iniziava la nostra nuova avventura nel mondo, in pace con tutti e speravo anche con te, mamma. “Come stai Adriana? Il parto? Quanto pesa Giacomo? Quanto misura?” Sempre appesa a quel maledetto telefono e tu non saprai mai quanto avrei voluto il tuo fiato sulla mia pelle in quei momenti di grave spavento. Mi chiamavi più spesso, questo sì. Tuttavia le tue parole sembravano sempre incorniciate da un gelo che bruciava ancora troppo tra di noi, mamma. Ancora una volta la nonna mi aiutò a superare i primi giorni che, per quanto avessi frequentato il corso con assiduità e costanza, non c’entrava niente o quasi con te, Giacomo, con i tuoi bisogni affogati in pianti incontrollabili e imprevedibili. Le sue carezze generose nutrivano e sospendevano le mie insicurezze. Ringraziavo la vita ogni giorno che ava e non temevo più l’abbandono perché c’eri sempre tu a ricordarmi la forza del leone. Mi domandavo perché nonostante le provassi tutte non riuscivo mai a farti ridere. Non sappiamo ridere, impariamo a ridere, quello che è invece innato è il pianto, primo linguaggio con cui ci presentiamo al mondo. I primi mesi mi spaventavo e innervosivo quando ti sentivo piangere. Mi sentivo sempre messa alla prova. Volevo allattarti e volevo riprendere a lavorare nello stesso tempo. Così mi allontanavo da casa e puntuale, come l’orologio di Kant, ogni tre ore ero da te. Lentamente capii che potevo lasciarti piangere, che non per questo mi avresti voluto meno bene. Ti lasciai dormire nella tua culla di pizzi e fronzoli e mi sdraiai vicino a Sergio. Da quella notte forse imparasti anche tu a
chiedere meno. Crescevi e diventavi ogni giorno di più il nostro trofeo di vetro soffiato. Di te riempivo ogni conversazione, tutto il mio quotidiano. Incantavo le mie clienti come sempre, semplicemente perché sudavo amore e le parole su di te uscivano leggere e profumate di giacinto. Mi sentivo più forte e capace nel lavoro. Nel frattempo avevo saggiamente deciso di concentrare le mie energie solo sul mio primo negozio, quello che non avrei mai lasciato. Ero riuscita ad aprirne diversi negli anni che avevano preceduto la tua nascita. Adesso la priorità era concentrare sul primo o, la prima impronta, tutta la forza che la tua nascita e la tua crescita mi stavano donando.
CAPITOLO VII
Estate sei calda come baci che ho perduto Sei piena di un amore che è ato Che il cuore mio vorrebbe cancellar Odio l’estate Il sole che ogni giorno ci donava Gli splendidi tramonti che creava Adesso brucia solo con furor Tornerà un’altra estate Cadranno mille petali di rose La neve coprirà tutte le cose E il cuore un po’ di pace troverà Estate che ha dato il suo profumo ad ogni fiore L’estate che ha creato il nostro cuore Per farmi poi morire di dolore
(Bruno Martino, Estate, 1960)
Avevi tre mesi e io trentadue anni quando la nonna Luciana con suo marito arrivarono in Italia per conoscerti. Luciana venne con noi a Riccione per
trascorrere l’estate con te, soprattutto, io venivo sempre dopo. In Italia era la tua nonna, in Argentina, per i suoi figli, veniva a trovare in Italia la sua mamma e basta. Di me ancora nemmeno una parola ai miei fratelli e nemmeno di te, questo mi faceva soffrire terribilmente, Giacomo. Eppure allora non mi importava, era troppo importante che lei venisse, che io potessi osservarla, viverla e annusarla. E poi se non era riuscita ad essere mia madre adesso stava provando ad essere una nonna. Ritenni così giusto mettermi da parte ancora una volta, continuare a chiamarla Luciana, strozzandomi in gola la mamma che avrei da sempre voluto annunciare al silenzio complice del cielo. Era così bello per me vederti raccolto da quelle braccia per me avare di una vita intera, e raccogliere dopo tanto soffrire lo sguardo riconciliato della nonna Celestina. Mi capitava di fermarmi ad osservarvi tutti e tre a distanza per non rompere l’incanto di quel quadro ineguagliabile, giocavo a nascondino per ritrovarvi sempre con gli occhi che ridevano di una vita nuova, la tua e la nostra. Quanto avrei voluto averli anche io quegli abbracci e quei sorrisi, sotto il sole dell’estate e nel freddo degli inverni eterni trascorsi intorno alla mia infanzia, senza mai poterci entrare davvero dentro, sulla mia adolescenza più consapevole ma sempre sola. Ferite che continuavano, nonostante tutto e tanto, a fare male nella mia vita adulta. Annusavo ogni sapore, odore, cercavo di non perdermi nemmeno un istante in malinconie irrisolte, il cuore doveva battere sempre di bene e i rimpianti tentavo di lasciarli lentamente indietro. Per non turbare te, soprattutto, Giacomo. Restavo ancorata alla speranza che un giorno anche le nostre mani si sarebbero ricongiunte nel perdono. Mi sentivo protetta dal bene immenso di Sergio, e anche dal tuo, mia dolce creatura. Niente doveva più disturbare o interrompere questa armonia. Non sarei scappata se non per ritornare esattamente dov’ero. E continuavo a chiedermi perché tu te ne eri andata sul suono acido di quello schiaffo di papà e sul mio viso che ti supplicava. Avessimo la certezza di un’altra vita, forse nemmeno quella basterebbe a raccogliere tanto male. Tu non sembravi accorgerti di tutte quelle macerie che abitavano il mio cuore di figlia, sembravi sempre in pace con te stessa e avevi la forza incomprensibile di lasciare agli altri le lacrime e il dovere di asciugarle ad
ognuno di noi. Quello che non ci eravamo donate, che non avevi voluto che vivessimo insieme, non sarebbe più stato. Il tempo non perdona. Il serpente va morso quando tenta di soffocarti la gola. Certo, ci vuole coraggio ad essere uomini. La vita è meravigliosa quanto difficile in ogni suo aggio. Io il serpente non avevo ancora smesso di morderlo da quel maledetto giorno. Denti e stomaco affaticati dall’impresa resistevano ancora. Tu, invece, continuavi a vivere perché avevi l’assurda convinzione che, un giorno o l’altro, l’avresti potuto recuperare quel tempo mancato, avresti potuto piegare un foglio dopo averci scritto dentro le tue parole per spiegare ogni cosa. E cosa ci sarebbe stato poi da spiegare, mamma? Tante volte, specie da madre anche io, ho creduto che il tuo fosse stato semplicemente egoismo. In fondo, anche ora che ci sentivamo e ci incontravamo, madre e figlia, di nascosto da chi decidevi sempre tu, e io complice pur di non perdere almeno le tue briciole, quello che avevi deciso di darmi di te, invidiavo a volte la tua apparente serenità, con una colpa così grande a batterti addosso. Quella colpa, allora senza saperlo, me la prendevo io, senza conoscerne i motivi, insieme alla rabbia mai sciolta fino in fondo, nonostante tutto l’amore, arrivato da altre direzioni a colmare il difetto e compensare il tuo tragico sbaglio. Mi ero smarrita negli abissi dell’incomprensibile e, nonostante Sergio avesse raccolto ed innaffiato con costanza e ione questa piccola orfana e l’avesse davvero trasformata in una principessa, i sassi c’erano sempre e non riuscivo ancora a lanciarli lontani da me, da noi. Avevo aspettato te, mamma, ogni singolo giorno della mia vita, sapendo che saresti tornata. Il resto del cammino sarebbe stato riservato solo a noi due.
CAPITOLO VIII
C’era una volta due gocce d’acqua che cadevano dal cielo in una giornata di temporale Non volevano lasciarsi, non volevano perdersi! Fortunatamente sono cadute in un fiore, una a destra, l’altra a sinistra. “Cara amica dove sei?” “Sono vicina a te” “Ma non potremo più stare assieme?” “Ma certo avvicinati” E si sentivano molto lontane. ando un cagnolino muove un fiore e Finiscono nuovamente insieme in una grande goccia
(Le due gocce d’acqua di Giacomo a cinque anni e mamma)
Giacomo cresceva e io continuavo ad essere Adriana Valles, cognome che nessuno a Ferrara ha mai pronunciato bene, una donna, una moglie e una madre. Chiamavo dio da sempre ma non ero mai riuscita a riconoscerlo. Mi affascina l’idea che qualcosa superi o entri nel visibile e che, nonostante i nostri sforzi a determinare il quotidiano, alla fine ci conduca esattamente dove dobbiamo
andare, nonostante le rotte contrarie. Non conoscevo la preghiera, non conoscevo la fede, di Gesù avevo soltanto sentito parlare tanto da confonderlo con Dio e farne un tutt’uno. Ero troppo affaticata ad aggrapparmi ai sogni per potere comprendere la potenza e la forza del silenzio, cornice indispensabile alla meditazione, autentica. Dentro di me sapevo che dovevo ringraziare sempre, non esattamente chi. Avevi, sull’altalena delle mie fatiche e dei miei successi, sempre accompagnati dalla complicità silenziosa di Sergio, compiuto sei anni. Avevo sentito più volte nominare un bravo sacerdote diventato da poco parroco della nostra chiesa. Don Alessandro. Si diceva che era una brava persona, capace di coinvolgere in modo straordinario bambini, adolescenti e adulti e di farli stare in armonia. Mi decisi e ti accompagnai a catechismo. Lo facevano anche le altre mamme. Eri stato battezzato e io e tuo padre, per sposarci in chiesa, senza piena coscienza di cosa significhi, avevamo dovuto chiedere la dispensa papale, dato il grado di parentela che ci univa già. Insomma, tutto questo per dire che si procedeva come si doveva, come se Dio ci fosse, ma senza avere avuto ancora la forza e il coraggio di guardarlo da vicino. Le risposte c’erano state, non conoscevo la storia di Giobbe consumato dal silenzio di Dio, il nostro dolore era sempre stato ricompensato, le salite lentamente erano diventate sempre meno ripide, le lacrime asciugate dalla comprensione e dalla dolcezza, la fatica appagata dal successo. Mi ero concessa ingenuamente, per pigrizia, per moda, a fedi diverse, affidata alla filosofia indiana. Ne sentivo parlare a cena dalle amiche e da alcune clienti in negozio. Specie in certi momenti di grande sconforto, di debolezza e di stanchezza rispetto a quelle domande che non riuscivano a trovare pace nelle risposte che forse non c’erano o semplicemente non vedevo, ancora accecata di odio e rancore, mi rifugiavo in questi strani meeting. Mi ritrovavo circondata da strane persone, uomini e donne, che, guidate da un maestro, si impegnavano in esercizi di respirazione e meditazione con una serietà tale da risultare talvolta eccessiva. Sapevo che non poteva farmi male e nello stesso tempo il giovamento di quelle riunioni durava così poco da farmi capire, seppure ancora molto obnubilata e confusa nel disordine interiore, che non era certo quella la mia
strada. Mi rassegnavo così a tenere dentro lo stomaco l’indigesto degli umori amari. Ricordo come se fosse oggi la domenica, una fra le tante, in cui mi alzai e ti svegliai per accompagnarti alla tua lezione di catechismo. “Giacomo, alzati! È domenica. Don Alessandro ti aspetta” Don Alessandro, questo uomo umile nell’aspetto e immenso nella capacità di sguardo verso il mondo e gli altri. Don Alessandro che mi aveva camminato a fianco per anni, certo percependo la mia assoluta indifferenza, eppure non aveva mai smesso di benedire la mia casa esattamente come tutte le altre poste sotto la sua luce. Don Alessandro che parlava sottovoce per non rompere, tutto in una volta, quel gelo terribile che aveva percepito dentro la mia pancia. Don Alessandro che sapeva illuminarsi davanti agli occhi increduli dei bambini quando ascoltavano la vita di Gesù come solo lui sa raccontarla. Don Alessandro piccolo grande uomo che aveva saputo attendere, con la pazienza dei santi, che il mio cuore si svelasse nella sua interezza solo a lui. “ Sì mamma, lo so che è domenica e non vedo l’ora di incontrare Giulio e Matteo”. Ti alzasti e facesti una buona colazione, con pane caldo che profumava ogni mattina le nostre giornate e marmellata di albicocca fatta dalla nonna Celestina. Di solito ti accompagnavo in gran fretta e ti venivo a prendere dopo la messa. Ti aspettavo davanti alla chiesa e quando capitava che arrivassi in anticipo entravo e mi mettevo in fondo alla chiesa. Non mi ero mai fermata ad ascoltare la funzione e, naturalmente la scusa per me stessa era che mi mancava il tempo. Giacomo era fuori e io dovevo sbrigare le faccende domestiche e preparare il pranzo per tutti noi. Non sapevo che mi rubavo un tempo che per fortuna, almeno questa volta, ha saputo attendere ed aprirmi quella possibilità che andavo cercando ovunque da anni senza accorgermi che la direzione l’avevo proprio di fianco a me. Succede spesso, cerchiamo ovunque, perdendo fiato, secondi, minuti e ore, e davanti a noi qualcuno ci osserva, ci lascia fare e ci aspetta.
Quella domenica decisi di venire a messa e ascoltare. Inutile chiedersi il perché proprio quella domenica e non altre, perché resto convinta che tutto quello che ci riguarda sia già scritto nel grande libro del cielo. “ Poi, a tutti, diceva:” Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde e rovina se stesso? Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell’uomo, quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi” (dal Vangelo secondo Luca, Lc. 9,23-26) Durante l’omelia, che si trasformava in un grande e gioioso momento di dialogo e condivisione tra tutti gli astanti, partendo dalle parole dei bambini, don Alessandro chiese ai bambini se conoscevano il significato della parola “orma”. “Avete mai visto delle orme? Volete raccontare se sì quali e se vi è mai venuta la curiosità di seguirle?” Per i bambini era una grande emozione parlare davanti a quel pubblico così numeroso di adulti, tra cui probabilmente i genitori. Non so se, quel giorno, Giacomo si era accorto della mia presenza. Solitamente non gli sfuggivo mai, anche quando sembrava distratto, sapeva sempre in che stanza ero e cosa stavo facendo e dicendo. All’uscita da scuola mi vedeva subito e mi correva tra le braccia, primo tra tutti. Quel giorno ti guardavo come incantata e aspettavo con ansia le tue “orme”. Mi trovavo come sempre in fondo alla chiesa, vicino al confessionale. Riuscivo tuttavia a vederti perfettamente. Seguire le orme. Le orme di Gesù. Lasciare tutto e seguire le sue orme. Mi sembrava una impresa pazza, di quelle che mi avevano sempre incantato. Non capivo esattamente cosa significasse lasciare tutto, le parole del vangelo vanno intese nella loro profondità, ma io questo ancora non lo sapevo. E non sapevo nemmeno a quale terremoto emotivo stavo per sottomettermi dopo tante inutili
corse. “ Ho visto le orme di un uccellino e ho provato a seguirle. Poi mi sono perso e ho chiamato la mamma”, aveva sussurrato con una voce delicata Matteo. “Io, invece, ho visto le orme di un coniglio ma erano così tante che non ho nemmeno incominciato”, aveva detto Luca. “ Io ho visto le orme dell’orso”, disse Giacomo senza esitazione e senza aggiungere altro. Seguì un brusio di voci e qualche risata buona dietro tanta fantasia. Io, invece, nascosi le lacrime e dovetti piegare il viso per non mostrare l’emozione che quelle parole avevano provocato in me. Le orme dell’orso erano le orme di un animale enorme e immaginato ma erano soprattutto il suo desiderio di seguire le orme più grandi per non deludermi mai. Ero riuscita fino a quel momento ad ascoltare e capire mio figlio? Lo avevo osservato e curato come un gioiello prezioso quale era? Oppure mi ero fatta forza semplicemente della mia vittoria di madre, in conflitto sempre con te, Luciana, a pensare che dovevo dimostrarti che i figli non si abbandonano e basta? Nelle parole dell’infanzia ci sono tracce importanti di quello che segnerà le tappe della vita adulta. Giacomo era sempre stato un bambino solare, affettuoso, attaccato alla sua mamma e al suo papà, innamorato della nonna Celestina e di tutte le tate che si prendevano cura di lui quando io non potevo esserci. Amava anche te, mamma, e aspettava l’estate per viverti e abbracciarti. Amava leggere, inventare, giocare con gli altri bambini e anche da solo. Era sempre stato un bambino sano e anche questo lo avevo dato troppo per scontato. Era un grande osservatore, come tanti bambini, e sapeva quando io ero triste oppure troppo allegra. Le orme dell’orso….Avevo mai ascoltato davvero mio figlio? Finita la messa, decisi di parlare con don Alessandro. Dissi a Giacomo di aspettarmi al parchetto, presi coraggio e mi avvicinai a lui intimorita.
Fui accolta da un sorriso che non dimenticherò mai. Abbiamo incominciato a parlare, anzi io alternavo pianti a singhiozzi, davanti lo sguardo buono e complice di un uomo che in fondo non sapeva niente di me, eppure sapeva già anche troppo. Entrai nella sua vita semplice e generosa e lo feci entrare nella mia bufera per tentare di sciogliere il ghiaccio, consapevole questa volta che il cammino che stavo incominciando mi avrebbe stravolta. “Adriana vienimi a trovare un pomeriggio, così parliamo, e non vergognarti delle tue lacrime gettate finalmente su quelle orme. Io ci sono sempre”, così ci congedammo quella domenica mattina, sapendo entrambi che una vita nuova si stava spalancando. La mia vita. Lasciate tutto e seguitemi. Le orme di Gesù, l’impresa più difficile e più sensata, diventano da oggi la mia prima sfida autentica. Non sapevo in quell’istante che mi stavo chiedendo quanto per tutto il corso del mio cammino non avevo avuto il coraggio e la forza di affrontare. Dovevo incominciare ad entrare in me stessa e decretare lentamente una trasformazione che mi avrebbe sicuramente portato davanti al dolore più grande ma anche alla restituzione definitiva del mio senso sulla terra. Avevo trovato un padre, lo avevo sempre avuto a fianco senza vederlo, senza il coraggio dello sguardo che accetta il confronto senza maschere di ipocrisia. Lasciate tutto e seguitemi… Non si trattava di lasciare quanto di materiale fino a quel momento sulle orme dell’orso avevo conquistato, piuttosto di lasciare indietro quella bambina di tre anni che era rimasta ad aspettare una risposta cercandola dove non poteva certo essere. Si trattava di prenderla tra le braccia e spiegarle una volta per tutte che la ricerca dell’altro parte necessariamente dalla ricerca di sé. Si trattava di mettere tra parentesi Sergio, la parrucchiera e anche Giacomo per vedere davvero chi eravamo io e te. Vidi don Alessandro tante volte. Incominciai a sciogliere le lacrime in parole, accolte dal suo sorriso buono e a volte anche da parole di durezza. Avevo sempre seguito le tue orme senza consapevolezza e trascinato in questa impresa gigantesca chi mi amava.
Tutto quello che avevo fatto, lo avevo fatto per dimostrare a te quello che non eri riuscita ad essere, perdendomi dentro le tue di orme. Avevo colmato quell’abbandono assurdo con la corsa senza fiato del folle chiedendomi sempre troppo e ricevendo sempre poco perché quello che tornava non era quello che cercavo. Dio onnipotente non rispondi a questa anima che si perde nei profumi immaginati di una infanzia negata? Non rispondi per indifferenza o perché vuoi ancora prove del mio amore smisurato per la vita? Più parlavo con don Alessandro e più sentivo che questa volta sarei arrivata esattamente dove era giusto che fossi diretta. La forza la prendevo da quelle parole, le orme dell’orso, uscite ed entrate come fuoco nel mio sangue e dai tuoi occhi innocenti, Giacomo, perché dovevo comprendere e trasformare in amore quell’odio che marciva dentro una parte remota di me e fino ad oggi, nonostante tutto, nonostante voi, non ero ancora riuscita a sciogliere. “Adriana, tutti ti vedono come la donna perfetta, carriera alle stelle, marito che ti ama e ti segue e un figlio bello e sano da crescere. Bene. E tu? Quando pensi di arrivare dentro te stessa e concederti quella pace autentica che meriti? Sai che dovrai incontrare davvero questa madre e guardarla in faccia e dirle tutto senza pietà per restituirti quello che ti ha tolto? Sai che il perdono non è facile. Sai che il perdono non è una parola. Sai che il perdono ti libera da ogni male. Sai che devi a te stessa un’ultima fatica? E che sarà la più dolorosa? Lo sai? Sei pronta?” Con queste parole semplici e vere don Alessandro muoveva, ad ogni incontro, un terremoto nell’anima stanca che mi abitava il corpo. “Fate un viaggio insieme, un viaggio lungo, solo voi due” Avevo deciso consapevolmente di affidarmi a quel piccolo grande uomo che non avevo saputo riconoscere prima. Adesso dovevo seguire le sue di orme, consapevole del prezzo. Sentivo nascere dentro di me forze prima di questo momento sconosciute e dovevo seguire alla lettera i suoi consigli. Come per l’amore mi ero affidata a Sergio e non avevo sbagliato, per la professione a Claudio ed ero arrivata dove volevo, adesso per me stessa c’era lui, don Alessandro, mandato da Dio onnipotente e silenzioso, che mi fiatava dentro e mi dava nuovi orizzonti di senso. Era il cammino più difficile ma sapevo che dovevo affrontarlo e non
volevo, adesso che appariva chiara la via, ignorarlo.
CAPITOLO IX
E cielo e terra si mostrò qual’era La terra ansante, livida in sussulto; il cielo ingombro, tragico, disfatto Bianca, bianca nel tacito tumulto Una casa apparì sparì d’un tratto Come un occhio, che, largo, esterrefatto, s’aprì si chiuse nella notte scura”
(Il lampo di Giovanni Pascoli)
“Adriana, mi sembra una follia, siamo avanti tutte e due con gli anni. A piedi non riesco a venire con te. L’idea del viaggio mi piace. Insieme potremmo recuperare tempo e parlare di noi. Io propongo la bicicletta. Non si può fare questo cammino con la bicicletta?” Avevi esordito con queste parole al mio invito entusiasta di camminare insieme per 900 km verso Santiago de Compostela. Era stato don Alessandro a suggerirmi questo tipo di viaggio. Sapeva che dovevamo stare insieme e che la fatica forse avrebbe aiutato a sciogliere quei nodi duri, sigillati dal tempo che non avevamo saputo usare per noi. Mi aveva convinto. Te ne avevo parlato sicura che in qualche modo ti avrei entusiasmata. Naturalmente dovetti cedere al compromesso della bicicletta e dire a me stessa che in fondo l’importante sarebbe stato essere insieme per tanti giorni Sole, io e te. Mi faceva sudare di gioia l’idea che la meta fosse quella che gli antichi chiamavano la fine del mondo, Finistere. Immaginavo le nostre gambe
stanche e i nostri visi trasformati che camminavano insieme verso la stessa meta. Io più consapevole, tu meno, non importava. “Luciana, sei testarda come sempre, ci sarà un motivo se tutti quelli che decidono di partire vanno a piedi. Faremo come vuoi tu. Noi andremo con le biciclette. Organizzo?” “Adriana sono sempre pronta, lo sai, quando si parla di viaggi. Incomincio a cercare uno zaino” Certo, mamma, che lo sapevo quanto fossi pronta all’avventura, quello che non sapevo e forse non saprò mai e se avevi capito, in quel momento, in cui con la voce tremula sussurravo nell’attesa e nella paura, la mia idea fino in fondo. Non ti avevo se non accennato del mio incontro con la fede. Volevo essere sicura che Dio mi stava accompagnando da te per davvero, questa volta, avevo paura, ancora ne avevo tanta, che fosse l’ennesimo tentativo di ricomporre una realtà di vita che non avrebbe mai potuto trovare giustificazione e soprattutto quel perdono di cui mi parlava quasi quotidianamente il don. Mi ero informata su tutto, più di duecentomila persone da tutto il mondo lasciavano le loro impronte e il loro sudore su quella lunga strada. Ognuno aveva motivazioni diverse, qualcuno cercava di consolidare la fede, qualcuno cercava la bellezza della natura e il suo abbraccio consolatorio, qualcuno cercava se stesso, altri ancora amicizie e nuovi orizzonti di vita. Avremmo certamente conosciuto una parte di questo immenso mondo, ma primo fra tutto, dovevamo conoscere noi due e trovare risposte. Ci saremmo alla fine riuscite? O almeno sarebbe stata una tappa per iniziare un percorso da te interrotto bruscamente? Avremmo avuto entrambe la forza di affrontare una verità di dolore e inciampi e cadute e rovine? Avremmo avuto l’onestà di spogliarci entrambe di vestiti ingombranti? Questi e tanti altri interrogativi mi riempivano la testa e il cuore alla vigilia della nostra nuova partenza. Fino alla fine del mondo. Il nostro viaggio incominciò un lunedì quando insieme, a mano stretta e cuore ingordo, ci guardammo dentro gli occhi assetati di verità, in quel paesino basco, St Jean Pied de Port, che non dimenticherò mai. Abbiamo ritirato i nostri aporti del pellegrino, documento essenziale per potere alloggiare negli alberghi disseminati lungo tutto il percorso. Davanti a noi un uomo calvo e sorridente, camicia a scacchi rossa e bianca, timbra e sigilla la nostra avventura.
“Buen camino, bonne route!” Così allegramente ci saluta con le gote arrossate di gioia contagiosa. Ci ricorda anche di fare timbrare il aporto ad ogni sosta, così, una volta arrivate a Santiago, alla fine del mondo, quel pezzetto di carta proverà che abbiamo percorso, in bicicletta, come tu avevi deciso, una volta ancora, l’intero cammino. Felici del nostro coraggio non ci rendevamo conto esattamente di quello che ci aspettava. Tutte due pronte ed entusiaste della avventura che si prospettava davanti e dietro di noi. Nei sorrisi azzardati contavamo quante mutande avevamo nello zaino e, abbassando lo sguardo verso le gambe, ci chiedevamo se ce l’avremmo fatta. “Mal che vada, dicevi tu con il fiato sospeso, ci fermiamo prima, Adriana. Magari incontriamo sul cammino un paesino accogliente e caldo e possiamo definire noi un nuovo punto d’arrivo”, e ridevi, ridevi tanto ed io raccoglievo quelle risate come doni negati nel tempo ato a me e mi sembrava, solo per vederti così, un ritorno di costi incomprensibili, pagati a rate per tutta la vita da quando mi avevi lasciata. Incrociammo persone di ogni nazionalità, ci mescolammo alle loro lingue straniere e incomprensibili, per lo più. Odori, colori, sapori, tutto sembrava incorniciare la nostra impresa per poterla appendere, quadro terminato, nel salone del perdono che io mi preparavo ad allestire. Al calare della sera, dovevamo avere raggiunto la nostra meta giornaliera, Roncesvalles. “Mamma, se dovesse calare la nebbia?” La nebbia, proprio io, ho vissuto quasi tutta la mia vita dentro la nebbia della mia città e l’ho sempre trovata affascinante, forse perché conoscevo bene i confini, gli argini dentro i quali misteriosamente si calava. E una nebbia di cui non si conoscono i limiti? Una nebbia che confonde tutto, anche il tuo corpo, il tuo essere qui piuttosto che là, una nebbia che ti disperde nel tutto che vai cercando da sempre, più o meno consapevole, sgomenta. “Cosa sarà mai, Adriana, troveremo rifugio, chiederemo a qualcuno”, rispondevi con quella sicurezza dettata dall’imprudenza piuttosto che dal coraggio, come se
la nebbia ti concedesse di vedere oltre la tua mano. Si capiva certo che tu non l’avevi vissuta, non la conoscevi e non la potevi immaginare. “Escono incontro ai pellegrini armati di randelli per estorcere tributi con l’uso improprio della forza e se un viandante rifiuta di dar loro i soldi lo percuotono e lo derubano, infierendolo e rovistandolo dappertutto”. Lo avevo letto e riletto mille volte questo aggio nelle parole di terrore di un monaco medioevale che si era incamminato in questo viaggio lungo e, in quei tempi lontani, così pericoloso. Il aggio di tutte queste anime lo sentivo a mano a mano che si procedeva, sempre più dentro di me. Sentivo la loro fatica di esistere e la univo alla mia, sentivo i l’odore della loro pelle e accarezzavo la mia, avvertivo le loro angosce e le trasformavo in scrigni per il mio tormento e la soddisfazione quando si avvertiva che la prima tappa era vicina e ci si poteva concedere un meritato riposo. Ricordo la nostra prima sosta, eravamo a tre ore da Rocesvalles. In un piccolo ed accogliente rifugio abbiamo appoggiato i nostri zaini a terra e ci siamo sedute, sfinite e contente, su una lunga panca di legno. Abbiamo ordinato due birre fresche e un panino al formaggio. “Che bella idea, Adriana, sono fiera della donna che sei” Quelle parole ti uscirono probabilmente senza nessuna consapevolezza del ritorno su di me. Io rimasi in silenzio. Non sapevo se ero una bella donna e forse non sapevo nemmeno se avrei mai potuto chiamarmi semplicemente donna. Avevo affermato me stessa sempre, senza guardare indietro mai, come la corsa di una atleta, mi ero concentrata sempre solo sulla meta e sul desiderio di arrivare prima. E gli allenamenti? Mi chiedevo, mentre l’incanto di te davanti a me a sorseggiare una birra fresca, mi ostacolava le parole che avrei voluto incominciare a dirti. Quando e come sarebbe finita la corsa più importante con la meta più dura da raggiungere, te, mamma? Ce l’avrebbe fatta Adriana questa volta come le altre? Incominciavo a vedere bene dentro me, la nebbia, se c’era rimaneva fuori e incorniciava te, ma la zona più distante, remota del mio dolore si stava aprendo piano piano. Capii in quel momento che potevo piangere. Risposi così alle tue parole con le lacrime e il silenzio. Forse in quel momento ho rotto qualche tua certezza, il tuo viso disteso improvvisamente è mutato. Sei arrossita, sembravi a disagio e quasi arrabbiata.
Allora mi sono alzata e leggermente allontanata e, senza che ti accorgessi del mio sguardo, ti ho visto con le mani tra i capelli lunghi e biondi che non avevo mai potuto pettinare. Avevo pettinato Mercedes Sosa, modelle, le sorelle Fontana, miss di tutta Italia, le donne belle e brutte della mia città, la nonna Celestina, persino il nonno Renato, Sergio, mio figlio. Tra i tuo capelli d’oro non avevo mai avuto il coraggio di muovere le dita. Ci riposammo per circa un’ora, di più non si poteva, era un segno di debolezza che tu non avresti tollerato e in questo ti assomiglio molto, mamma. Avevamo scelto la strada più faticosa perché altri pellegrini ci avevano detto che il paesaggio avrebbe ripagato la fatica. Arrivammo nel punto più alto dei Pirenei, a 1450 metri di altezza, di fianco a noi una statua, una madonna con bambino portata da Lourdes. Ci fermammo incantate dal paesaggio tu e dall’immagine di quella grande madre pietrificata nei secoli, io. “È solo una statua, Adriana, nemmeno tanto bella, secondo me. Che avrai mai da guardare? Alza gli occhi al cielo, sembra che si avvicini un temporale” C’erano nuvole dense e nere sopra e dentro me, in quell’istante. Avrei voluto gridare, nel silenzio e nell’incanto di quel luogo, in quel punto del mondo che ci stava accogliendo, tutta la mia rabbia, lasciarla lì, sospesa nel vuoto, appoggiata a quella terra generosa e bella, miscelarla al vapore delle nubi scure. Doveva uscire da me e lasciarmi andare. Le catene che avevo portato dentro per tanti anni dovevano dileguarsi, sciogliersi in un temporale emotivo salvifico. Urlai e fui così determinata in quel grido lanciato al cielo che ti sentii per la prima volta una cosa sola insieme a me. Stavi vivendo nel mio dolore. Solo un “basta”, ma con un tono talmente grave e urgente da spaccare le rocce della montagne. Tu lasciasti cadere a terra la bicicletta e ti avvicinasti a me, stringendomi nel primo abbraccio vero da quando ci eravamo riviste. Non che gli altri che ci eravamo comunque concesse fossero finti, ma in questo sentii are il tuo sangue nel mio e il mio nel tuo. Mi sembrò di rientrare in quel ventre di prima vita e di sentirne tutta la protezione di cui certamente, almeno per nove mesi, eri stata capace. Eravamo esattamente nel punto della terra che divide la Francia dalla Spagna e
avevo letto che, proprio qui, molti pellegrini dicevano addio alla loro terra perché non sapevano se l’avrebbero mai più rivista. Io in quello stesso punto iniziavo una nuova vita perché dopo quell’abbraccio, dono di Dio, tramite mio e tuo in questa strada assurda e incomprensibile, mi sarei sentita più leggera. Forse tu no, avresti raccolto come una brava madre, un po’ di quel dolore che avevo lasciato finalmente uscire. Ero sicura che ti avrebbe fatto bene. Non esiste niente di facile, mamma, in quello che è vero. La finzione può solo distrarre momentaneamente e consolare. Noi da adesso dovevamo incominciare daccapo. Ed eravamo pronte alla prova finale. L’ultima grande corsa prima della fine. Amarti avrebbe voluto dire una volta ancora lasciare che la mia anima si aprisse completamente, libera dal rancore e dall’incomprensione, avrebbe voluto dire non aspettarsi da te mai un grazie o una restituzione, che comunque, anche volendo non avresti potuto, avrebbe voluto dire donarmi tutta, completamente a te, madre, e non conservare più niente di quello che fino ad oggi mi aveva difeso da tanto amore. Solo la fede aveva potuto spalancarmi questi nuovi e sconosciuti orizzonti. Da quel momento capii che dovevo dimenticare me stessa per averti con me e accettare con serenità il tramonto di quello che non era stato senza più giudizio e lacrime. Testa e cuore stavano incominciando a fare pace, una pace in cui tu, ingombrante, avresti trovato il tuo posto e noi ci saremmo finalmente ritrovate per davvero. Come una goccia che cade piano, piano da una nuvola scura, come quel cielo minaccioso che mi invitavi a guardare e temere, in quell’abbraccio morivano le mie esitazioni e i dubbi di una vita intera. Eravamo noi due la goccia adesso e insieme dovevamo cadere dentro il nostro senso, accettando l’assurdo e l’inspiegabile. Il nostro viaggio avrebbe sigillato un nuovo inizio una volta arrivate a Cabo Finisterre, un promontorio situato nella cosiddetta costa della morte, sull’Oceano Atlantico. Non a caso avevamo scelto quella meta, Finisterre separa le Rias Altas dalle Rias
Baixas e rappresenta un punto d’arrivo, un campo di stelle o un terreno di sepoltura, qualunque fosse alla fine l’origine del nome di Compostela, noi avremmo avuto finalmente il cielo stellato sopra di noi e un cuore nuovo per ricominciare a vivere dentro di noi. Adriana era nata di nuovo, dopo quel lungo percorso e si preparava un nuovo ingresso in quelle solide cornici costruite ad arte nel ato.
CAPITOLO X
Io amo colui che ama la sua virtù: perché la virtù è una volontà di tramonto e una freccia del desiderio. Io amo colui che non trattiene per sé nemmeno una goccia del suo spirito, bensì vuol essere tutto lo spirito della sua virtù; così attraversa il ponte quale spirito. Io amo colui che l’anima si dissipa, che vuol non essere ringraziato e non restituisce, poiché sempre dona e non vuole conservarsi. Io amo colui la cui anima straripa sicché dimentica se stesso e tutte le cose sono in lui: e tutte le cose saranno il suo tramonto. Io amo colui che è libero di spirito e libero di cuore: così la sua testa non è che un viscere del suo cuore, ma il suo cuore lo spinge al tramonto. Io amo tutti coloro che sono come gocce pesanti che cadono ad una ad una dalla nuvola scura che pende al di sopra degli uomini: essi annunciano l’arrivo della folgore e come annunciatori periscono. (…)
(F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, ed. Adelphi)
Tornata a casa, avevo sentito subito il bisogno di parlare con don Alessandro. Mi sentivo la pelle giovane, il viso fresco e pulito di un’adolescente, leggera anche se, nonostante la fatica del viaggio, non ero riuscita a calare nemmeno un etto. Eppure dovevo condividere subito con lui quella leggerezza estranea che mi abitava il corpo e che non avevo mai conosciuta prima di questo momento. Sentivo che dovevo incominciare ad abbracciare il mondo da un punto di vista diverso, perché avevo capito finalmente il prezzo sconosciuto ai più dell’amore. Come potevo spiegargli che da oggi avrei sempre detto solo grazie e non avrei
chiesto niente in cambio? Claudio, che continuavo a considerare il mio mentore per la professionalità che mi aveva donata, mi aveva sempre insegnato che sul mercato quando vuoi qualcosa devi dare qualcosa in cambio. Avevo assunto quel principio nella mia vita professionale come un dogma e aveva funzionato perfettamente. Più davo in termini di fatica, coraggio e sacrificio e più tornava indietro. Adesso avevo scoperto qualcosa di straordinariamente nuovo. Negli affetti autentici questo principio funzionava al contrario. Dare e basta. Senza l’esigenza di un ritorno. In fondo Sergio mi aveva amata così, fin da subito. Non sapeva chi ero e in quali abissi lo avrei trascinato. E mi aveva stretto alla sua vita e seguita senza chiedermi niente sempre. Adesso toccava a me. Ricominciare con te come se il ato si fosse sciolto, non dimenticato, bensì rimosso e volto verso il bene. Come avrei potuto amarti senza questa nuova conoscenza che mi rovesciava addosso la vita precedente? La conoscenza di Dio e della sua imperturbabilità, talvolta tale da essere confusa con l’indifferenza. “Il bene non chiede ritorno Adriana”, con queste semplici parole avevi accolto la nuova donna che ero diventata dopo quel cammino superbo intorno al cielo e dentro la terra.
Ne parlai a lungo con don Alessandro e non cercavo più risposte o direzioni. Le conferme le avevo trovate tutte nel tuo abbraccio vero. Adesso dovevo camminare dentro te senza farmi male e sapevo che Dio mi avrebbe dato le scarpe giuste. Incominciai ad esercitarmi in questa nuova dimensione con le mie clienti, quelle che oltre ai capelli in ordine avevano sempre riconosciuto in me la donna capace di ascoltare anche il silenzio. Avevo sempre amato osservare scrupolosamente chi entrava nel mio negozio, mi era necessario per poter rendere attraverso il taglio o l’acconciatura quel pezzo di verità che appartiene ad ogni singola espressione del nostro corpo. Avevo sempre saputo che avere la testa in ordine andava ben oltre la vanità, così come ero sempre stata convinta che dietro il desiderio di apparire in un certo modo si nascondessero mostri indicibili dell’anima di ciascuno. Avevo fatto i conti fino in fondo con i miei e adesso
avevo la forza di vedere anche solo le ombre di quelli altrui, non la presunzione di coglierne l’essenza più profonda, bensì la sensibilità di accarezzare i capelli per restituire la forza di un sorriso orfano. Dovevo accompagnare le loro vite con la stessa dolcezza e delicatezza con cui era stata accompagnata fino a quel punto la mia. Dovevo imparare il grazie e il rispetto di tutta la persona, non solo delle teste. Sapevo che nel mio negozio abitavano tante vite diverse ogni giorno e, in punta di piedi, senza arroganza, dovevo scegliere come aiutare pur non venendo meno alla mia professionalità. Donare. Le ragazze della Valles. Eccole lì davanti a me le mie donne, che avevo cresciuto ed aiutato a credere prima di tutto in se stesse. Laura, Stefania, Cinzia, Federica, Irina. Una alla volta stavano entrando nella mia vita e io spalancavo le porte perché si accorgessero che quello che stavano per intraprendere non doveva essere un mestiere qualunque. Ognuno di noi diventa alla fine, capriole e salti a parte, esattamente quello che è. Se accompagnato e umile, diventerà il meglio per sé e per chi gli vivrà accanto. Avevo saccheggiato la sapienza di don Alessandro e l’avevo resa il mio pane quotidiano. Volevo dare e non chiedere indietro. Volevo amare ed essere compresa senza resi. Così le ho prese per mano ad una ad una e le ho accompagnate in questo piccolo regno che mi era costato il sacrificio di una vita e ho ascoltato e osservato il loro vissuto per poterlo condividere fino in fondo. Sempre Claudio mi aveva detto e ripetuto mille volte che è di fondamentale importanza per il cliente avvertire sintonia e armonia intorno a sé. E nei primi anni, in cui ancora mi mancavano pezzi fondamentali di me, avevo fatto di tutto per creare ad arte tale armonia. Mi ero affidata principalmente ad orpelli e fronzoli. I fiori erano sempre freschi e profumati davanti alla cliente, le candele, i quadri rinnovati periodicamente, gli arredi a seguire i tempi e le mode. Non ero mai abbastanza soddisfatta e, un bisbiglio interiore, mi diceva che quello che stavo facendo era giusto ma non sufficiente. Armonia ed equilibrio. Non è stato facile raccogliere le lacrime, le gioie e le tempeste emotive di tante dipendenti che periodicamente mi lasciavano sperando di essere già arrivate dove si erano prefissate. Con Laura, Stefania, Cinzia e Federica, le ultime arrivate doveva essere diverso. Dovevamo stringere, costasse qualunque prezzo specie a me, un legame da sorelle, donne e persone autentiche. Non è stato facile. Entrare nella vita delle persone che ti respirano di fianco ogni giorno significa rinunciare un po’ a te, toglierti forza, energia, umore senza garanzia di ritorno. Io, d’altronde avevo deciso che comunque ne valesse la pena e volevo continuare su questa strada inusuale e difficile. In questo modo ho
accompagnato i loro visi verso l’accoglienza dell’altro e le loro giornate dentro una direzione di senso che superasse la busta paga del semplice dipendente. Insieme riuscivamo a dare, giorno dopo giorno, quella cornice di sintonia, che a volte sfiorava la simbiosi, al negozio e alle clienti che aumentavano sempre più. Mi sono ate davanti generazioni intere, madri, padri, figli, nipoti e con alcune di loro si era creato un rapporto di intensità rara. All’inizio entravano con quella diffidenza tipica del cittadino di provincia, avevano sentito parlare di Adriana Valles e venivano a sottopormi all’ennesima prova. Non le temevo più alla fine. Mi avvicinavo con grazia ed eleganza e volevo che si sentissero sempre in una casa piuttosto che in un negozio. Mi spiegavano delle loro intenzioni e a quel punto stava a me leggere tra le righe, entrare nella dimensione sconosciuta ed invisibile dell’anima. Una cliente, tra tante altre, era venuta da me, subito dopo il viaggio con te, e mi aveva detto che si sarebbe sposata e voleva una acconciatura semplice ma regale. Mi era piaciuta subito. Era una donna alta, bionda, magra e dai lineamenti delicati. Non sapevo niente di lei. L’avevo pettinata e truccata come se lo stessi preparando per me quel giorno che le illuminava gli occhi di una luce straordinaria. Adele, si chiamava così. Da quell’anno lontano vicino, sono ate nella sua vita tante sofferenze e lei diceva, ogni volta, che preferiva venire da me due volte alla settimana piuttosto che andare dallo psichiatra. Sentiva che le facevo bene, che quei minuti che si concedeva togliendoli allo stress della vita che la stava lentamente disfacendo, le restituivano forza, energia. Mi raccontava, quasi come se non appartenesse a lei, del suo dolore immenso a gocce, parole sussurrate, e io le entravo dentro ogni volta, cercando insieme alla piega di raccogliere un frammento di quel fardello che la stringeva. Tra noi è nata una amicizia grande, immensa. Ritengo Adele il risultato più alto di questa mia nuova vita. La prova che davvero stavo vivendo come echeggiavano dentro di me quelle parole del vangelo “Lasciate tutto e seguitemi”. Anche io mi sono aperta a lei, ho capito che potevamo insieme condividere tanto e abbracciare le
nostre sofferenze per tradurle nella luce della comprensione reciproca. Adele amava scrivere, organizzava eventi culturali, mi consigliava un romanzo, un film da vedere e intanto io, senza che me le mostrasse, le asciugavo quelle lacrime che strozzava nei sorrisi e negli occhi di luce ogni volta. Ammiravo la sua forza, il suo coraggio di ricominciare sempre e di lasciare nelle pagine dei suoi libri tratti di sofferenza da condividere con chi avesse avuto cuore e coraggio. Aveva detto sì, quel sì del vangelo, alla vita, non distingueva più il bene dal male, riusciva a mordere il suo tempo sempre, anche se oramai era rimasta senza denti e senza la forza della stretta. Continuava a sorridere dentro quegli occhi di pianto e di luce e, nonostante tutto, amava. Lo capivo semplicemente guardandola, gli abbracci sono arrivati molto dopo, che amava ancora e tanto nonostante lentamente le fossero stati tolti affetti e gioie in cui aveva creduto di potere investire la vita. Non chiedeva mai. Lasciava trasparire ciò che gli altri potevano solo se volevano fare per lei. Intanto lei continuava a darsi, senza riserve e rancore. Parlavamo spesso, tra le righe, del significato del perdono. Quel perdono che stava per arrivare anche per te, mamma. E insieme ad Adele, c’erano Teresa, Licia, Rita, Donata e tante altre persone con cui la nuova Adriana amava stare al di la del lavoro e del tornaconto professionale. Alida, che dire di Alida? Una sorella, una creatura che mi era entrata nella vita quando ancora Giacomo non era stato nemmeno pensato. A vent’anni le avevo pettinato per la prima volta i capelli. Siamo amiche da trenta e più. Abbiamo condiviso tutto, dentro il dolore abbiamo vissuto abbracciate di entusiasmo per il domani che avrebbe di certo dovuto essere migliore. Nella condivisione di tutto, gioie, speranze, tra luci ed ombre abbiamo attraversato la vita. Ti ricordi Alida il nostro meraviglioso viaggio a Montecarlo? Te lo chiesi io di accompagnarmi. Si trattava di un corso, in realtà un pretesto, per andare sempre, mamma, proprio come te, ma con un ancora meravigliosa ad aspettare il mio rientro nel rispetto e nell’amore della persona che sono sempre stata. Perché amarsi non è semplice, si capisce che si è entrati in una relazione di autenticità solo quando reciprocamente si è in grado di lasciarsi vivere e non si domandano sacrifici inutili. Eravamo due principesse bellissime, contornate di violini e lusso e soprattutto tante risate sopra la vita che sudavamo e avremmo ancora sudato. Con quella giusta incoscienza e inconsapevolezza abbiamo alzato i calici alla nostra bella amicizia. Abbiamo anche ballato “Like a vergin”, ricordi? Erano gli
anni ’80 e si credeva ancora in un mondo che potesse diventare migliore nella solidarietà dell’abbraccio. Con Elisabetta, invece abbiamo diviso la gioia della crescita delle nostre creature, abbiamo condiviso lacrime, sudore e sussulti nel vedere diventare piccoli uomini, sempre insieme, i nostri figli. Ci siamo confuse talmente bene da sentirci sorelle dentro lo specchio del mio negozio e della vita. Ti ho portato dentro la mia angoscia e tu l’hai con la pazienza dell’affetto sincero alleggerita. Hai conosciuto la mia mamma e l’hai amata forse prima di me. Hai curato e amato la nonna Celestina come se fosse la tua di nonna. L’ultimo giorno che Luciana restò con noi a Ferrara, eravamo nel mio giardino, in una cornice di candele bianche e gelsomini. Lei doveva partire per Buenos Aires l’indomani. Tu l’ abbracciasti non consapevole, come sempre accade, che era l’ultima istante della carezza, e dopo pochi minuti le hai scritto un messaggio:” Ti sto già aspettando! Ci manchi”. Altro angelo, altro regalo del cielo, altra orma che ha guidato il mio cammino all’amore per l’altro senza il quale non ha senso esistere. Sì Elisabetta, siamo sorelle. Con Loretta è stato ancora diverso ma non meno importante. Tu estetista dietro l’angolo del mio negozio e io parrucchiera. Vieni da me e ti pettino. Ti vedo elegante e sofisticata. Non so chi sei. Voglio come sempre darti il massimo. Ti sento. Mi entri nella pelle. Dopo pochi mesi dal nostro incontro professionale, scopro che abiti nella via parallela alla nostra. Tuo figlio diventa il catechista di Giacomo e lo introduce nel cammino della fede molto meglio di quanto avrei potuto fare io ancora così incerta e dubbiosa. Da questo momento incomincia la nostra storia di amiche, le nostre fughe, i viaggi insieme, i caffè rubati al tempo tiranno degli impegni quotidiani. Ti scopro ancora più bella in quella cornice di biondo angelo che riesco a regalare al tuo viso disteso e amorevole che ti appartiene da sempre. Anche in questo caso, senza saperlo entrambe, il tramite è stato don Alessandro. E tu Ornella, la prima donna a prendere tra le braccia Giacomo, a stringergli il corpo bambino, a respirargli addosso la tua semplicità e bontà. Ti avevo pettinato in quello che tu gridasti al cielo e a me come il giorno più bello della vita.
“Sposo Riccardo” e le parole ti uscirono in una melodia di dolcezza e amore che non dimenticherò mai. Ho capito cosa abitava la tua anima dentro quel suono così spontaneo e non prevedibile. Allora ero solo la tua parrucchiera. Avresti potuto trattenere la gioia dentro la forma come spesso si usa fare e invece ti apristi a me per non chiudere mai più quella porta magica. Oggi continuo a pettinare te, le tue figlie, Riccardo con quella musica indimenticabile a fare da colonna sonora ad un’altra amicizia importante. Hai salutato tu il nonno Renato prima che ci lasciasse e viverti ancora è straordinario ogni giorno come il primo. E potrei continuare all’infinito a raccontare quali magie ha prodotto questo mio negozio, quali incroci insostituibili, quali e quanti angeli hanno spiccato il volo in questo piccolo miracolato spazio toccato anche solo con le punta delle dita da Dio.
CAPITOLO XI
E il cuore quando d’un ultimo battito avrà fatto cadere il muro d’ombra come una volta mi darai la mano Per condurmi Madre Sino al Signore In ginocchio, decisa, sarai una statua davanti all’Eterno come già ti vedeva quando eri ancora in vita Alzerai tremante le vecchie braccia Come quando spirasti Dicendo: mio Dio, eccomi E solo quando m’avrà perdonato, ti verrà desiderio di guardarmi Ricorderai d’avermi atteso tanto, e avrai negli occhi un rapido sospiro
(La madre, G. Ungaretti)
Continuavo ad essere soprattutto la madre di quella creatura meravigliosa che mi fioriva accanto ogni giorno innaffiata dall’amore incondizionato, specie mio. La manager sulle orme di quell’altro grande orso che era stato e continuava ad essere Claudio, la professionista, la moglie, l’organizzatrice di viaggi e cerimonie ed eventi sempre speciali. Adesso però sapevo che ero anche Adriana. Avevo ripreso la mia identità completamente, volevo ritrovare te cambiata esattamente come io ero cambiata e sapevo che un appuntamento importante sarebbe arrivato per entrambe. Lo aspettavo ogni mattina al risveglio proprio come all’inizio del nostro riavvicinamento. Attendevo le tue telefonate, con la stessa ansia e la stessa immutata speranza. Ci eravamo sentite più volte dopo la nostra avventura e avevo avvertito nella tua voce qualcosa di strano, insolito. Sembravi più incerta e fragile. Avevi deciso di dire tutto ai miei fratelli ed io ero pronta a incontrarli. Del resto adesso sarei stata pronta anche ad amarli. Il giorno in cui ti ritrovai forse non lo sarei stata. Vedi, mamma, come tutto alla fine ritorna a ricomporsi in senso, anche quanto poteva sembrare assurdo ed inconcepibile ieri? Ero curiosa e affamata di loro da sempre. Come erano? Ti assomigliavano, assomigliavano in qualche modo a me? Eri stata capace almeno con loro di darti come una madre, solo una madre può e deve fare? Oppure li avevi semplicemente accompagnati rimanendo concentrata sul tuo folle egoismo, prigione di una vita mancata e lacerata che aveva, a tua insaputa, generato tanta sofferenza in chi cercava solo il tuo amore? Almeno loro erano e potevano sentirsi da sempre figli oltre che uomini e donne? Ci eravamo conosciuti alla fine, avevi avuto dopo il nostro cammino, il coraggio di rivelare loro tutta la verità. Avevo due fratelli e una sorella. Ci siamo parlati e compresi da subito. Mi hanno accolto nella loro vita come se ci fossi sempre stata perché, in effetti, così erano andate le cose anche dentro al tuo incomprensibile silenzio. Io mi sentivo già appagata dal solo fatto che tu avessi trovato la forza dell’annuncio di questa figlia bella, tenuta lontana e nascosta per tanto tempo. Certo sono occorse giornate e nottate intere a parlare di noi, a cercare di riempire il tempo perduto, di tutto quello che ci era accaduto e che avevamo vissuto, seppur lontani in tanti sensi.
Il tuo ultimo compleanno eravamo insieme, io e te, davanti alla madonna e alle tue parole impresse nel mio cuore per il resto della vita “Finalmente sono arrivata da te Maria!”, esclamasti nella sorpresa della rinascita, davanti a quella immagine sacra di Maria che tiene tra le braccia il figlio morto. “Mamma, siamo sempre state insieme”, ti avevo risposto per calmare il tuo pianto felice e liberatorio. Per me era davvero così. Io non ti avevo mai persa. Quell’estate sembravi più dimessa del solito, forse ti ricordo più pallida, meno briosa, meno aperta alla vita, ma pensavo fosse un momento, ripensamenti, rimorsi, dispiaceri, che sarebbero ati con il tocco di una carezza o il suono dolce di un bacio. Ti accompagnai all’aeroporto, sicura che ci saremmo riviste presto, contenta delle tue lacrime e delle tue parole che, attraversando il cielo, avrei raccolto a braccia aperte e custodito nella mia vita. Novembre. Una telefonata da Buenos Aires. “La mamma è caduta”, è la voce tenue e leggera di mia sorella Carla. “Credi che ci sia da preoccuparsi?”, mentre sentivo salire dentro lo spavento dell’annuncio che non adesso, ti prego Dio, non adesso. Non si è mai pronti per questo annuncio, mai abbastanza, nonostante te, nonostante la fede, nonostante la vita che continuerà per chi resta. Io orfana per tanti anni, avevo finalmente ricongiunto i pezzi a costo di fatiche e cammini lunghissimi e tortuosi. Da sola e con te. Adesso aveva chiuso un capitolo di dolore per entrare mano nella mano nello spazio generoso e salvifico del perdono. Eppure non siamo noi a decidere quando. Lascia tutto e seguimi, vuol dire anche e soprattutto conciliare la nostra volontà con la tua. Mi restava il dubbio, l’incertezza a volte, sempre raccolta dalla pazienza del don, di non essere arrivata al perdono completo nei tuoi confronti. “Lascia che questo ultimo o del vostro cammino lo compia Dio, Adriana” Mi affidavo così a quelle parole e vi trovavo una verità inspiegabile ma estremamente profonda. “Non lo so Adriana, pensavo di farla ricoverare subito e fare accertamenti. Sono
giorni che si comporta in modo strano. Fa la pipì sul tappeto, si dimentica di mangiare, beve poco, non si cambia d’abito. Tu la conosci, non è normale”. “Ti prego Carla, tienimi costantemente aggiornata. Io ci sono” Una lacrima mi bagnò il viso, non appena la conversazione si chiuse. Ero in negozio, come sempre, tornai dalle clienti e tentai la forza di un sorriso. Quel giorno c’era Adele. “Qualcosa non va Adriana?’”, mi chiese con estrema delicatezza, senza l’invadenza della morbosità che proprio non conosceva perché non le apparteneva. Si era accorta tra le righe del mio viso che sforzavo l’immagine della Adriana imperturbabile ma lei conosceva già e da sempre le mie fragilità, di donna, di madre e di figlia, pur sapendo ben poco di me. “La mia mamma”, le dissi trattenendo un pianto che in quel momento avrei dovuto versare addosso al mio corpo assetato di lei. Non abbiamo aggiunto altro. A fine novembre era un mercoledì arrivò una telefonata nel mezzo della notte. Ci eravamo sentite quasi ogni giorno, io e Carla, ma senza riuscire a capire che cosa realmente stesse accadendo. Risposi nel sudore di una attesa che si stava prolungando oramai da troppi giorni ed ebbi la sentenza tanto temuta. “La mamma ha un tumore al cervello. La operano” Non ricordo esattamente come riuscii a rispondere a quelle parole atroci che svelavano il previsto, preannunciavano una fine che ancora non conoscevo come nuovo inizio. So che mi distesi sul letto e abbracciai forte Sergio. Giacomo era a Milano, a studiare, viveva là in quel periodo. “Adriana cosa è successo? Tua madre?”, forse Sergio pensava che se ne fosse già andata. “Parto, Sergio, vado da lei. Sta male, ha un tumore al cervello. La operano”. Riuscii nei giorni a seguire a farmi prenotare il viaggio da Giacomo cui promisi,
che comunque fossero andate le cose, sarei tornata per il Natale. Giacomo sapeva che dovevo andare e allo stesso tempo voleva che mi ricordassi sempre che i suoi grandi amori avevano bisogno di lei, un Natale lontani non era nemmeno pensabile per lui. E nemmeno per me, nonostante in quel momento pensassi solo a te, Luciana. Si avvicinava il mese di dicembre, il mese in cui il negozio deve essere pronto ad affrontare gli impegni quotidiani più che in qualsiasi altro periodo dell’anno. Si sa che per Natale, nessuno rinuncia al colore nuovo, al taglio, alla piega. Che tutti devono sentirsi in ordine con il proprio corpo per una festa che ricorda da duemila anni la nascita di un bambino nella più estrema miseria, già perseguitato prima ancora che nascesse. Quell’anno avevo preso tutti i regali in anticipo. Non lo avevo mai fatto con tanta urgenza. Riflettevo sui segnali che la vita da senza che siamo in grado di porre attenzione, troppo indaffarati a correre e scivolare su noi stessi. Il primo scalo: Madrid. Sola. Devo rilassarmi, devo arrivare da te in ordine, devo essere bella, devo essere forte, devo resistere. Vedo un negozio. Estetista. Entro e mi concedo il lusso dello smalto e di un massaggio alla schiena. Quella ragazza la ricordo dolce, buona, calorosa. Un piccolo angelo pronto ad accogliere la mia tristezza e ad abbracciarmi. Sono rimasta con lei fino al momento dell’imbarco per Buenos Aires. Arrivo in ospedale. Tu sei davanti a me, rasata, con gli occhi che si perdono nell’angoscia dell’annuncio della morte, spaventata forse. Sei sveglia ma ti sento lontanissima, come se fossi già altrove. Carla, Renzo ed Ivano, i miei fratelli, sono di fianco a me. “Adriana bisogna essere pronti al peggio, non possiamo lasciarla sola. Ha qualche momento di lucidità. Poi si perde. Sicuramente è spaventata e non capisce fino in fondo cosa stia succedendo” “Cosa hanno detto i medici?”, resto appesa alla risposta già sapendo che si tratta di ore, forse giorni, nella ultima speranza, settimane. “Hanno tolto il tumore. Probabilmente era troppo tardi” “Andate a casa. Resto io. Fino a quando starò qui, voi cercate di riposare. Io
andrò a dormire nella casa della mamma” Non ero mai entrata in casa sua. E non avrei mai pensato di entrarci per la prima volta da sola. Oggi so che così doveva andare. Appena entro vengo rapita da un senso di sgomento, di meraviglia, un sublime incrocio di sentimenti che mi piegano in due. Mi inginocchio davanti alla conchiglia di Santiago che trovo appesa allo zaino del nostro viaggio. Tutto sa di me, di noi, vengo travolta da una vita insieme che mi appare generosa davanti agli occhi e mi entra nell’anima fino a farla soffocare. La sua camera, dove cerco il riposo, è interamente ricoperta di fotografie mie, di Giacomo, di noi insieme, le nostre estati, le nostre eggiate, le feste nel mio giardino, i brindisi al cielo azzurro, sempre azzurro. E intanto il vento e il caldo di questo paese urtano violentemente sulle porte e sulle finestre, mentre mi perdo nell’incanto di un amore che avevo sentito sempre ma tu, ostinata, non mi avevi mai dichiarato. Ho paura. Cosa vuoi dirmi? Cosa manca, mamma? Perché questo vento invadente e violento? Ci siamo dette tutto. Lo so che cammini ancora in questa casa e che continuerai a camminare di fianco a noi per l’eternità. Ho paura. Paura di averti odiata per troppo tempo, di non averti compresa, di averti perdonata nella forma ma mai per davvero. Ho paura di non riuscire a sopportare la tua partenza per quel mondo che prego e in cui credo sempre di più. Ho paura di lasciare indietro delle ombre, di non avere dato abbastanza corpo e sangue al nostro tempo. Paura di me, dei mostri che abitano l’anima e si svelano quando meno te lo aspetti. Esco. Mattina. Caldo e vento. Tremo. Hai intorno a te medici ed infermiere che ti lavano, ti asciugano, ti profumano e ti rispettano. Ti sorridono. Ti accarezzano la pelle stanca e stropicciata. Incominciamo a parlare. Hai capito che sono con te. La paura della notte trascorsa nella tua casa si scioglie nella dolcezza dei nostri dialoghi e delle
nostre mani che si incrociano. iamo giorni e giorni insieme e io mi sento sempre meglio mentre tu ti stai preparando ad uscire dignitosamente da questa scena apparente che è il mondo. “Adriana, te lo devo. Sei nata da amore. Io amavo tuo padre follemente e ti abbiamo voluta entrambi. Non pensare mai, mai più, se come sempre le mie parole arrivano in ritardo, che la tua nascita non sia stata nutrita da sogni, speranze e amore tutto riposto in quei mesi solo su di te” Piango in silenzio. Le lacrime si confondono al sudore e all’emozione. Sono felice. “Sono andata via perché ad un certo momento non sentivo più niente per tuo padre, mi mancava il calore, la ione, il desiderio. Anche lui ha avuto delle responsabilità. Io mi prendo tutte le mie e ti chiedo di perdonarmi. Anche se oggi so che io e te siamo sempre state insieme. E di questo ringrazio il tuo cuore immenso che mi accolto sempre come se non ti avessi fatto niente” Mamma, le tue parole di quei giorni hanno sciolto i nodi nel pianto e nel riso leggeri entrambi, finalmente. Anche se la tua espressione mi sfuggiva minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, riuscivo sempre a rientrare nella tua casa e a sentirla nostra. Il dolore della malattia ti stava asciugando la leggerezza in cui avevi cercato di vivere da sempre. Io ti truccavo, ti profumavo e ti baciavo. La vanità era sempre di fianco a te. Volevi presentarti bella anche sull’ultima scena. Era il ventidue di dicembre quando ci siamo guardate e incrociate il saluto per l’ultima volta. “Io mi impegnerò a fare di tutto per stare meglio, Adriana, ma tu sai e me lo hai insegnato soprattutto tu, che tutto dipende dal disegno che Dio mi ha riservato. Se questa deve essere l’ora, così sia. E tu sii sempre la donna che sei. Promesso?” Queste le tue ultime parole Va bene, va bene così Luciana, mamma, sarò sempre la donna che sono. Promesso.
Le lacrime continuavano a scendere e a bagnare il mio viso distrutto da uno sconvolgimento non previsto. La morte ti riconduce sempre esattamente dove è giusto che tu stia. Dentro i tuoi confini di essere umano. Ricordavo le parole di Adele, ci ostiniamo a governare e progettare il tempo come se ci appartenesse. Questa la più pericolosa acrobazia su cui ogni giorno cerchiamo di muoverci. Senza la quale non ha senso esistere. Eppure assurda. Sono nella mia poltrona, sull’aereo, sto rientrando, come promesso. Mi addormento sfinita. C’è una luce lontana. Io sono immobile e vorrei tanto avvicinarmi a quella luce per capire da dove viene. Lo sforzo del o è inutile. Sembra che il mio corpo si sia inchiodato all’istante, all’attimo. La luce si fa sempre più chiara e mi permette di distinguere alcune immagini sbiadite. Ci siamo io, te e Giacomo. Stiamo correndo verso il mare spettinati dal vento. Non abbiamo direzione, finalmente, siamo liberi di correre e basta. Tento di nuovo il o ma, nonostante la fatica e lo sforzo, non mi muovo. Resto spettatrice incantata di tanta gioia e libertà. Non abbiamo sostanza, siamo leggeri e sorridenti, conciliati con quella stessa luce che diventa sempre più forte fino ad impedirmi la vista. Ti prego, Dio, lasciami ancora per qualche istante guardare questa immagine, fai che mi si imprima nel cuore e, soprattutto, che sia la verità che ho sempre inseguito. Mi sveglio. Sudata e stravolta. Sono a Milano. Davanti a me il sorriso dolce e buono di Giacomo e Sergio. Dentro di me per sempre tu. Ho capito tutto finalmente, ti ho accolta per sempre dentro di me e ti porterò ovunque, fiera di quello che sei stata e non hai avuto la forza di essere. Le orme dell’orso sono diventate più umane, non troppo. Orme dentro le quali so che insieme ai miei amori potrò abitare. Grazie Luciana, grazie mamma, grazie Dio, grazie alla vita e ai miracoli che ci concedi pur ciechi e zoppi e sordi e mutili.
Grazie.
Indice
Diritti