Le Orme Leggere Del Cuore 6o3q45

Titolo| Le orme leggere del cuore Autore | Daysi Raisi ISBN | 9788891132895 Prima edizione digitale: 2014 © Tutti i diritti riservati all’Autore Youcanprint Self-Publishing Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE) [email protected] www.youcanprint.it Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

DAISY RAISI LE ORME LEGGERE DEL CUORE

Prefazione

Questa silloge di racconti vuole essere un omaggio al genere femminile, alla sua forza silenziosa. Contiene cinque storie, cinque ritratti di donna, che hanno un unico comune denominatore: l’amore, sotto qualunque aspetto e forma esso si presenti. Non a caso, la raccolta affronta anche temi scomodi e, purtroppo, attuali: handicap e emarginazione, tossicodipendenza e malasanità. Filo conduttore rimane il sentimento, vissuto tutto “al femminile”, immune da qualsiasi componente egoistica e forte di una dedizione rara: che sia rivolto a un uomo, a un bambino, a un ideale di giustizia poco importa, purché veramente puro. L’augurio che mi faccio è che, leggendo queste pagine, vi affezioniate almeno un po’ alle protagoniste, diverse fra di loro per età, professione, estrazione sociale: Caterina, Sara, Eva, Alice e Angelita. Sparsi qua e là, nella silloge, troverete elementi autobiografici, come, spesso, è inevitabile che accada. I racconti sono stati scritti in epoche differenti, sulla scia di emozioni diverse ma, comunque, sempre forti e sentite. Alcuni sono totalmente frutto di fantasia, altri sono il risultato di una commistione di realtà e immaginazione. Non è importante sapere quali. Sappiate solo che in ciascuno dei personaggi femminili ho lasciato un po’ di me, come è facile che avvenga scrivendo. Ve li dono con il cuore, sperando che con il cuore li leggiate…

Daisy

CATERINA (Detesto le storie banalmente scontate come chi le vive).

L’aria, quel giorno, era fresca, sebbene fosse ancora estate, complice l’ora, il tepore del sole che si era appena levato. Caterina aveva assistito all’albeggiare da dietro la finestra del suo miniappartamento, nel quale viveva ormai da sola, da un paio di anni. Una tazza di tè e cereali in mano. I capelli scompigliati dal riposo notturno, raccolti in una crocchia color grano, le scendevano lateralmente in morbide volute sul collo esile. Lo spettacolo dei raggi sorgenti la incantava da sempre. Le infondeva un’energia eccezionale: quella che le permetteva di rimanere in piedi quando chiunque al suo posto sarebbe crollato. Quella che le consentiva di nutrire pensieri positivi, in qualsiasi frangente. Al di là delle sue delicate sembianze, Caterina era forte. La gente, fuorviata dal suo aspetto etereo, rimaneva spesso stupita dalla capacità che aveva di risollevarsi dopo qualsiasi rovescio, lottando senza mai demordere. Era una combattente. Del resto, aveva dovuto combattere anche per venire al mondo e poi sempre e comunque lottare per ogni minima cosa. Apparteneva a quella categoria di persone cui nulla viene mai regalato. In virtù della sua innegabile sensibilità, viveva molto dentro di sé, in un posto incantato e segreto cui solo un paio di persone, fino ad allora, avevano avuto accesso. Una di queste se ne era appunto andata due anni prima, senza alcun preavviso, gettandola in uno sconforto abissale. Una lettera priva di senso nella cassetta della posta. Andandosene, aveva portato via con sé i suoi segreti più intimi. Andandosene aveva portato via con sé una parte di lei.

Dopo la distesa di asfalto, la cedevolezza del terreno, il fresco sulle braccia nude e sulle gambe tornite: una pedalata dietro l’altra, lo sguardo concentrato e fisso sulla via, il percorso stretto, in bilico fra l’asse della strada e gli avvallamenti che, alla benché minima distrazione, le avrebbero fatto abbracciare l’abisso e il Nulla.

Il pericolo, insito in quel percorso accidentato e angusto, le trasmetteva un brivido intenso: un brivido di cui aveva bisogno per vivere. In quegli attimi, lei e la sua bici erano una cosa sola: legate nella lotta per la sopravvivenza, assolutamente amiche, innegabilmente complici, solitarie e indipendenti, irraggiungibili, lontane dal mondo. In quella dimensione tutta sua, Caterina si sentiva finalmente padrona della sua vita e di se stessa: del suo corpo e della sua anima… completamente, fino in fondo. Non la toccavano più il tempo, le preoccupazioni, gli stupidi impegni, le grane di sempre e quelle ogni giorno nuove, il denaro che, sebbene lei continuasse a lavorare a ritmi serrati, a causa della crisi, scarseggiava sempre di più. Caterina amava il silenzio di quelle eggiate in mountain-bike e, per quanto le pie osservare la gente, preferiva di gran lunga la solitudine, nella quale ritrovava la sua essenza più profonda: quella semplice e vera, priva di filtri, maschere, coperture. Si riscopriva, magicamente, se stessa … Ancora qualche pedalata e sarebbe arrivata al suo luogo preferito. Vi si era imbattuta nel corso di una delle sue escursioni solitarie e ne era rimasta folgorata: si trattava di una piccola radura che ospitava una panchina in pietra, sulla quale spesso sedeva a osservare la distesa del fiume che costeggiava il percorso. Ancora silenzio, ancora natura. Ancora il linguaggio sensibile e puro delle piante, dei minuscoli insetti che abitavano quell’incantevole zona boschiva, il mormorio tenue del corso d’acqua, l’ospitalità immediata e scevra di convenzioni di quella zona che si offriva generosa ai suoi visitatori, assetati di pace, viandanti di sé. Quel giorno, Caterina tolse dal marsupio color acquamarina, che portava strettamente allacciato alla vita, un piccolo block-notes e iniziò a scrivere come guidata da una mano invisibile. Dopo tanti anni che non lo faceva più, se non in maniera discontinua. A scrivere, consapevole del fatto che, senza quasi crederci, da quel preciso momento non avrebbe più smesso di farlo.

Dopo una decina di minuti, trascorsi nell’esercizio della scrittura, sollevò lo sguardo dal foglio quadrettato per posarlo sul biondo Tevere che le scorreva dinnanzi, pigramente tranquillo. Fu così, in un lampo d’intuizione, che scelse, senza indugi, il titolo del suo racconto. Lo scelse, pensando alla canzone di un noto cantautore italiano. Lo scelse, facendo riferimento al suo nome di battesimo. Con mano decisa e un sorriso sereno dipinto sul volto, riscaldato dal robusto sole agostano, tracciò otto lettere in successione, marcando forte il tratto sul foglio, in stampatello, con convinzione cieca, assoluta, totale: CATERINA…

Scrivere non è semplice: chi si è trovato alle prese con lo schermo bianco di un computer o con un foglio privo di tracce d’inchiostro lo sa bene. Dare forma a sogni, desideri, personaggi, storie, scenari ogni volta nuovi. Entrare in mondi sconosciuti che respirino infinito, che annullino la percezione spazio-temporale, dissolvendo confini, stravolgendo realtà. Vivere la vita di ogni personaggio, innamorandosene fino all’ultima particella della propria anima, con ogni singolo neurone del proprio cervello: essere un giorno una donna alle prese con il suo grande amore, un esploratore alla ricerca di terre lontane, il fachiro di un circo, una stella cadente, la risacca del mare… Avere l’eterea purezza di un volo di gabbiani, la solida possenza delle radici di una quercia, la capacità di mutare direzione del vento, l’umiltà della terra e la sua innata inclinazione a dare nutrimento. Imbrattare fogli per Caterina equivaleva ad amare… da sempre. Da quando, all’età di otto anni, aveva composto la sua prima poesiola. Qualche verso in rapida e ritmata successione, dedicato alla pioggia: il suo bel viso premuto contro il vetro di una finestra ad osservare lo spettacolo del cielo che dall’alto regalava lacrime. Caterina sognava di farne perle per il diadema di una principessa o di lastricarne le strade dove viveva la povera gente per renderla ricca e strappare un sorriso a chi non sa più sognare. Caterina era buona o, forse, il termine più adatto a lei sarebbe stato “pura”. All’età del suo primo incontro con la scrittura non poteva saperlo ma lo sarebbe rimasta per tutta la vita, nonostante gli attacchi furiosi del mondo, le cattiverie della gente, i rovesci della sorte. Caterina aveva una peculiarità tutta sua: in ogni situazione critica, sull’orlo del baratro, era capace di arretrare, spiccando il volo verso dimensioni sconosciute, per tornarne poi carica di energia e cimentarsi in affascinanti sfide, nello sforzo di dar corpo a sogni sempre nuovi.

Le 8 del mattino: il tempo di avviare il pc e di sorbire una tazza fumante di caffè, con quel suo aroma caldo, pungente, invitante. Ciò che ci voleva, dopo una nottata trascorsa a correggere le bozze di un racconto: uno dei lavori che faceva per mantenersi, oltre che per la sua innata, sempiterna ione per la scrittura. Caterina stropicciandosi gli occhi ripeté, in una successione di gesti automatici, le solite funzione quotidiane: avvio internet, apertura cartella documenti, lettura mail. A quest’ultima operazione, il cuore cominciò a batterle in gola:“Non è possibile”- si disse, spalancando gli occhi. Guardò nuovamente lo schermo, incredula. Eppure nome e cognome erano proprio quelli: “Samuel Patch ti ha inviato un messaggio”- recitava la mail. “Un caso di omonimia…”- continuò a ripetersi, mentre avvertiva un tremito irrefrenabile scuoterla dalla radice dei capelli alla punta dei piedi. Con un semplice click del mouse, aprì la missiva e lesse quell’unica riga, in inglese, mentre i battiti del suo cuore non accennavano a decelerare: “Come stai? Come ti va la vita?” Accanto a queste pochissime, inaspettate parole la foto del profilo mail di Samuel che contribuì a fugare tutti i suoi dubbi: era proprio lui… Mentre cercava di riordinare i pensieri, rispolverando emozioni, in un tuffo indietro nel tempo, lo squillo del suo cellulare, collocato sul piano da lavoro, la ricondusse alla realtà. “Ti ricordo il nostro obbiettivo mensile”- esordì, stentorea, una voce all’altro capo del telefono- Tutto bene?”-proseguì, perplessa, notando che la sua interlocutrice tardava a rispondere. “Tutto bene”- le fece eco Caterina, affrettandosi a chiudere la comunicazione, per mettersi, di buona lena, al lavoro.

26 giugno 2005

“Non ho niente da mettermi!!!”- si disse Caterina, guardandosi allo specchio, con una smorfia di disperazione dipinta sul viso solare, mentre lo sguardo seguiva impietosamente critico la curva dei suoi fianchi. Quel vestito non le rendeva giustizia, facendola sembrare più in carne del dovuto. Se lo tolse, furiosa, appallottolandolo e lanciandolo sopra il letto, il suo letto coperto da un solo lenzuolo di lino, color cremisi: troppo caldo per poter pensare di dormire coperta da altro. Spalancò, irritata, l’anta dell’armadio ma niente le sembrava all’altezza della situazione: ne trasse una gonna color blu elettrico, svasata, che le arrivava appena sopra il ginocchio e una t-shirt nera, aderente, provvista di un accenno di scollatura. “Può andare”- si disse- scompigliandosi i capelli per conferire alla sua chioma un aspetto un po’ selvaggio, mentre si accucciava per recuperare, da sotto il letto, il suo unico paio di sandali dotati di tacco. Se li infilò al volo e, dirigendosi verso l’ingresso, spiccò dall’attaccapanni la borsa nera in pelle, a forma di gondola, per poi precipitarsi fuori dal suo bilocale, imboccando le scale e scendendole tutte d’un fiato. Come al solito, era in ritardo … La piazzetta del paesino era battuta dal sole cocente di fine giugno. In quella via interna, sulla quale le villette unifamiliari erano disposte a cerchio, cercò il numero civico che lui le aveva comunicato per telefono. Samuel era sprovvisto di macchina, quel pomeriggio: l’aveva prestata a un amico, per cui era stata costretta a muoversi lei, mentre perlustrava, con aria dubbiosa, il circondario, alla ricerca dell’abitazione del ragazzo. Finalmente la intravide: in fondo sulla sinistra. Il citofono era sprovvisto di targhetta con il nome; suonò il camlo. Le persiane era tutte rigorosamente chiuse per non far filtrare la luce solare e assicurare un po’ di fresco a quanti soggiornavano all’interno della casa. arono un paio di minuti, poi la porta si aprì e Samuel le venne incontro, a torso nudo, indossando un paio di calzoncini neri. Si scusò per l’abbigliamento insolito: era appena reduce dall’ennesima doccia.

“E’ già la quarta- precisò - E’ troppo caldo, oggi”. Caterina annuì, mentre una

ridda di pensieri contrastanti le attraversava la mente. Si sentiva in imbarazzo: era la terza volta che lo vedeva, per un totale di una ventina di minuti forse? Adesso, si trovava lì, davanti a uno sconosciuto con il quale, nell’ultimo mese, si era scambiata una sequela di sms e un paio di telefonate. Ricordava con simpatia il loro primo incontro, quando lei, in un inglese un po’ stentato, aveva cercato di comunicare, dopo che li avevano presentati in un locale. In quell’occasione, Samuel le aveva lasciato il suo numero perché uscissero in comitiva dato che, essendo appena arrivato in Italia, lì non conosceva nessuno.

Di quella sera ricordava che un’amica della sua amica Sara aveva cominciato a parlare fitto fitto con lui e che quel particolare l’aveva inspiegabilmente indispettita, fino a farle decidere di non chiamarlo più. “Mi sa che c’è quasi del tenero fra Giovanna e lui. O, per meglio dire, Giovanna è un po’ alticcia e fa la scema”- aveva commentato Sara. Dopo quella sera, Caterina aveva archiviato l’accaduto: magari quei due si piacevano e lei non gradiva mettersi in mezzo. Comunque, quel tipo lo aveva conosciuto per caso e non era certo obbligata a rivederlo: non lo erano né lui né lei. Così almeno si era detta, uscendo dal locale, alle prime luci dell’alba e riflettendo su un particolare che le era parso insolito: quella sera era voluta inspiegabilmente uscire a tutti i costi, accettando l’invito last minute di Sara, quando sarebbe dovuta, andare da tutt’altra parte con Anna, che all’ultimo le aveva dato, inaspettatamente, forfait.

Aprile 2005 Sara stava riordinando il modernissimo e colorato cucinino dell’appartamento nel quale abitava da qualche mese. Lo condivideva con un musicista, suo coinquilino che, alloggiando più che altro dalla sua ragazza, non c’era quasi mai, il che le assicurava una certa libertà di movimento e la quanto mai provvidenziale divisione di spese e affitto. Dalla finestra del salone, il panorama era mozzafiato: si scopriva lo stadio e poi il centro della città medievale nella quale Caterina viveva da sempre, che appariva pittorescamente illuminata, in quella serata insolitamente calda. “Ti ricordi Federico, il tipo che ho conosciuto un paio di settimane fa?”- domandò Sara, mentre si allungava verso lo scolapiatti, nel quale stava collocando le stoviglie appena lavate. “Il musicista, se non sbaglio”- rispose, pronta, Caterina- Certo, me ne hai parlato! Ha affittato un casale qui in zona, con la sua band: stanno incidendo un nuovo disco”. “No, non sbagli- ribatté Sara con un sorriso- Ha un amico”. “Beh, ne avrà anche più di uno”- replicò Caterina, sorniona. Aveva già capito dove voleva andare a parare la sua interlocutrice. Sara non raccolse la provocazione, continuando a rovistare nella lavapiatti, alla ricerca dei cucchiaini da dessert:“Questo amico si è lasciato con la sua ragazza e Federico vorrebbe organizzare una cena a quattro: noi quattro, ovviamente”. “Umh!”-replicò Caterina, giocherellando con il tovagliolo di carta steso sul tavolo della cucina. Lo ridusse in tante piccole strisce, come era solita fare quando era sovrappensiero. ”Fra l’altro lo conosci già”-soggiunse Sara, distrattamente. “Conosco già l’amico di Federico?”- le fece eco Caterina, incuriosita- E chi sarebbe?”. “Samuel, il tipo che abbiamo incontrato qualche mese fa, in discoteca. Ricordi?”. Caterina spalancò i suoi occhi color acquamarina per lo stupore. In qualche modo, quella persona che era entrata e uscita alla velocità della luce nella sua vita, si stava ripresentando, per vie assolutamente impreviste e casuali.

“Lì per lì- proseguì Sara- avendolo solo intravisto, non lo avevo riconosciuto ma, quando ho incontrato casualmente Federico, c’era anche lui. Lo attendeva in macchina, all’uscita del centro commerciale”. Caterina si schiarì la voce e, senza una motivazione valida, lei che viveva di parole, non riuscì né a commentare né ad aggiungere nulla.

26 Giugno 2005 (parte seconda).

“Anything to drink?”- le aveva domandato Samuel, dopo essersi diretto, a piedi scalzi, verso il frigo, aprendone l’anta per mostrarne il contenuto a Caterina: tanti alimenti sani, frutta, verdura, bevande ipocaloriche, succhi di agrumi… “An orange juice”- rispose la ragazza, senza tentennamenti, afferrando la confezione di cartone che lui le porse, affrettandosi a procurarle un bicchiere. Ne bevve il contenuto tutto d’un fiato, seguendo con lo sguardo la sagoma longilinea del giovane, suo coetaneo, che, senza proferire parola, si dirigeva verso la sala. “Puoi sederti qui, se vuoi”-aggiunse il ragazzo, in un italiano un po’ incerto, indicandole la sedia collocata dinnanzi al tavolo da pranzo, per poi sedersi al suo fianco. Caterina sorrise, fissandolo, in maniera del tutto naturale e spontanea, negli occhi chiari. Si sorprese a pensare che non ne aveva mai visti di così grandi e espressivi, in vita sua. Nel corso di quell’incontro, avrebbe scoperto molto sul conto di Samuel, non tanto per ciò che lui le avrebbe raccontato di sé quanto per ciò che lei avrebbe letto nel suo sguardo, nel quale le emozioni si mostravano senza maschere, filtri, infingimenti. Lui le si sarebbe rivelato per quello che era, come se l’avesse conosciuta da sempre, come se dinnanzi a lei non avesse avuto alcun motivo di nascondersi, di recitare un ruolo, di fingere. Caterina non poteva ancora sapere che quell’incontro sarebbe rimasto scolpito nella sua memoria per tutti gli anni a venire …

Samuel Patch… Quel nome continuava a risuonarle nella mente senza darle tregua. Erano trascorsi otto anni, otto lunghissimi anni nei quali non era ato nemmeno un giorno nel quale non lo avesse pensato. Continuava a leggere e rileggere quelle poche parole che lui le aveva scritto, come se si fossero lasciati

il giorno prima … Caterina cercò di mantenere il controllo, nel tentativo di non farsi sopraffare dall’emotività: compito non facile, in quel frangente. Aveva sempre sperato che, un giorno, il destino, che più di una volta si era divertito a far incrociare le loro strade, in maniera imprevista e originale, li avrebbe aiutati di nuovo a ricongiungersi. Lo aveva sperato ma più di una persona amica l’aveva messa in guardia dal rischio di subire un’atroce delusione: probabilmente la sua era solo una speranza, un sogno, destinato a non avverarsi mai. Meglio dimenticare così come, sicuramente, lui aveva già fatto da tempo. “Non può essere finita qui- aveva detto una volta a una sua amica che cercava di ‘ricondurla alla ragione’- Quel giorno c’ero io, non tu né nessun altro. Io ero presente. So quello che ho provato”. Anna aveva scosso la testa, contraendo le labbra in una smorfia di dolore: “Lo dico per il tuo bene. E’ da un mese che non parli d’altro. Devi andare avanti. Fartene una ragione. Non lo rivedrai più …”. “Questo non accadrà mai e poi mai. Lui non ha voluto cancellarmi: ha dovuto. Ne sono sicura!”-aveva ribattuto Caterina, sapendo di risultare comunque poco credibile agli occhi degli altri e alla loro impietosa, protettiva razionalità. Ne era sicura, già … e quel messaggio, a distanza di tanti anni, sembrava rappresentarne la conferma. Non si era dimenticato di lei: non era accaduto. Doveva assolutamente rispondergli e lo fece d’impulso, scrivendo semplicemente ciò che provava: “Sono felicissima, veramente felice di poterti parlare/scrivere. Ti ho cercato così tanto”. Niente di più vero: in quegli otto anni, Caterina non si era persa un suo disco, un suo video, un articolo che lo riguardasse, un commento che parlasse di lui, nel bene o nel male, come la prima, la più affezionata delle sue fan.

Sì perché Patch era un cantante famoso in tutta Europa nonché leader carismatico di una nota pop band, che aveva cominciato a entrare in crisi creativa un anno prima che lei lo conoscesse nella cittadina in cui Caterina viveva da sempre. Quelli erano stati anni difficilissimi per Samuel e lei, seppure da lontano, aveva sofferto con e per lui. Non avendo altre maniere per mantenerglisi legata, aveva sempre seguito le sue alterne vicende, lasciando di tanto in tanto dei commenti su vari siti per dimostrargli solidarietà, incoraggiamento e appoggio, a dispetto di ciò che i detrattori affermavano sul suo conto. Lei sapeva istintivamente quale era la verità, quali erano le cause del suo periodo difficile e, cosa ancora più importante, lei lo conosceva meglio di chiunque altro, nel profondo, in quella parte dell’anima cui a pochi è concesso di arrivare. Sapeva perfettamente che, visto dall’esterno, di razionale, in quella vicenda, c’era ben poco ma a Caterina non importava: non era la razionalità che andava cercando ma la possibilità di esprimere amore. Che fosse ricambiato o meno, vivibile o meno, strano a dirsi, non le interessava affatto… Nei giorni che seguirono, Samuel sottopose la ragazza a una serie di domande, chiedendole foto relative al periodo nel quale si erano conosciuti, che lei non gli fece avere perché semplicemente non le possedeva. “Ci siamo visti solo tre volte in tutto. Ho continuato a scriverti anche quando hai lasciato la mia città, prima per trasferirti in Belgio e poi per far ritorno in Inghilterra- aggiunse lei, in una delle loro conversazioni- E’ ato tanto di quel tempo! Tante situazioni nella mia e nella tua vita. Alcune poco piacevoli. Perché la vita è così: a volte riserva amare sorprese Ci sono porte che si è obbligati a chiudere, a sbattersi in faccia Le circostanze, a volte, decidono per noi. Questo dovrebbe temprarci, rendendoci più forti. Così, almeno, dicono…”.

Samuel ebbe un sussulto, a quelle parole. Era vero: si erano visti solo tre volte, in tutto. Era vero: lei aveva continuato, con affetto, a scrivergli, sebbene li separassero distanze geografiche sempre più consistenti, sebbene non si fossero più visti. Sebbene lui avesse cercato per tre volte di incontrarla, durante un suo soggiorno-lampo in Italia e fosse stato materialmente impossibile. Così come lo era stato, per lei, raggiungerlo in Inghilterra. Le cose non erano mai andate come avrebbero desiderato: tanti eventi avevano concorso a dividerli. Per primo, la crisi nella quale lui era sprofondato, durante il suo trasferimento in Inghilterra, sulla quale la stampa internazionale e i giornali di gossip avevano largamente ricamato. “Perché proprio in Inghilterra?- le aveva chiesto lei, nel corso di una delle sue sempre più rare telefonate- Perché non sei rimasto qui in Italia? Perché?”. “E’ il mio lavoro: io decido solo fino a un certo punto dove andare”aveva obbiettato Samuel con voce monocorde. Quelle parole avevano avuto il potere di richiamarla alla realtà, facendola sentire profondamente impotente. Prima di tutto venivano la carriera, i soldi, le offerte più vantaggiose: lei in fondo che ruolo aveva nella sua vita? Nessuno. Un solo incontro nel quale Caterina aveva provato qualcosa di forte, di sincero, come non le sarebbe forse più capitato in vita sua ma questo era solo un inutile particolare che non poteva interessare a nessuno, se non a lei. Trascorsero un paio di giorni dal messaggio di risposta di Caterina senza che Samuel si fe vivo. Si stava interrogando sul da farsi. Per quanto potesse risultare incredibile, nessuno dei due sembrava aver dimenticato. “Mi ricordo di te e mi ricordo che c’è stato qualcosa fra di noi e vorrei rivederti”- aveva detto, alla fine, Samuel, lasciandole il suo numero e facendosi lasciare quello di lei. Ma cosa c’era esattamente fra loro due? Amicizia, semplice attrazione? Cosa? Forse tutto questo, forse anche qualcosa in più? Sicuramente, per lei, non era stato un incontro come altri.

Questo Caterina avrebbe voluto dirgli, se ne avesse avuto l’occasione e il coraggio. Tante volte, in quei lunghi, interminabili anni, si era chiesta quali parole avrebbe usato, se le si fosse presentata ancora l’opportunità di parlargli o come se si sarebbe comportata, se avesse avuto modo di rivederlo, ma ogni risposta le era sempre parsa troppo limitativa, banale, scontata. Seguirono molti messaggi fra di loro, dopo quel primo in cui Samuel, spuntando fuori dal nulla, le aveva domandato notizie sulla sua vita. I loro, però, in assenza di incontri, erano sms sempre più formali, privi d’anima. La situazione precipitò quando l’uomo vide sfumare l’opportunità di trasferirsi nella città di Caterina, come aveva ipotizzato di poter fare, per lavoro. Inutile sperare in incontri sporadici, dettati da interessi saltuari di lui in Italia. Nocivo incontrarsi senza la prospettiva di dare vita a qualcosa di più continuativo. Caterina gli annunciò che sarebbe forse andata a trovarlo ad agosto ma poi, facendosi meglio i conti in tasca, si rese conto che non ce l’avrebbe mai fatta e rinunciò. Sfiduciata al massimo, decise di sospendere ogni comunicazione. Trascorse circa un mese, nel corso del quale, nessuno dei due si fece più vivo finché giunse il giorno del compleanno di Samuel. Lei gli fece gli auguri per poi continuare a interessarsi ai suoi progressi lavorativi, scrivendogli di tanto in tanto e ricevendo risposta. Lui l’informò che si sarebbe sicuramente trasferito in Italia per lavorare all’uscita di un

nuovo cd. Lei gli promise che sarebbe andata a vedere uno dei suoi concerti, nel caso in cui lui avesse scelto il suo Paese come tappa per i suoi tour. I giorni avano e Caterina non sapeva più che inventarsi per tenere in vita quella pseudo amicizia che non soddisfaceva più nessuno. C’erano momenti nei quali avrebbe voluto resettare il cervello e ricominciare da zero. Allora, saliva sulla mountain-bike, prendeva la via della campagna e si perdeva fra la fatica dello sforzo fisico e i colori della natura: il blu del cielo, il verde della vegetazione intorno, il marrone dello sterrato, per non pensare. Oppure, quando era troppo stanca per uscire o si era fatto troppo tardi, pedalava con la sua cyclette grigionera, ascoltando in cuffia compilations di chill-out music. Lo faceva per prendersi una vacanza da tutti i suoi pensieri, a volte veramente troppo pesanti, in contrasto con il sempre crescente desiderio di leggerezza, di pace, di serenità, d’amore che avvertiva. Sensazioni delle quali il mondo nel quale viveva sembrava essere sempre più avaro. Entrambi, ormai, si limitavano a sognare che lui avrebbe trovato lavoro in Italia. Un bel sogno certo ma quando si sarebbe realizzato?Intanto il tempo ava non senza pesantezza, appunto. In occasione di certe sue conquiste lavorative, lei gli inviò dei messaggi per congratularsi. Lui rispose in maniera formale. Era da tempo che avvertiva questa nota stonata nelle sue risposte. Del resto, anche Caterina manteneva un profilo basso, date le circostanze. Pensava che fosse la cosa migliore da fare. Oltretutto, non vedendosi mai, gli argomenti di conversazione iniziavano visibilmente a scarseggiare. A volte, si arrabbiava con se stessa, dicendosi che avrebbe dovuto essere più razionale, cinica e interrompere drasticamente ogni comunicazione, cancellandolo come se non fosse mai esistito. Avrebbe dovuto eliminarlo dalla sua vita, certo ma, poi, non ne era capace. Le mancava per mille motivi o forse per uno solo che preferiva ignorare. Di una cosa era certa, senza ombra di dubbio.

Non riusciva a dimenticarlo. Ci aveva provato in tutte le maniere. Otto anni sono lunghi e lei, nel mezzo, ci aveva schiaffato una lunga relazione con convivenza e un flirt ma senza riuscire mai a liberarsi del suo ricordo. Anzi, a riprova di quanto i suoi tentativi in quel senso fossero stati vani, il suo ex convivente prima di prendere la porta di casa, dopo anni di relazione, aveva commentato: “Salutami tanto Samuel, eh?”. Lì per lì, a quell’affermazione, Caterina era rimasta allibita. Come gli era venuto in mente di parlare di Samuel? E come avrebbe mai potuto risentirlo o rivederlo? Pura follia… Avevano perso qualsiasi contatto da anni e lui, a quanto affermava la stampa, si era sposato per la seconda volta.. Così, almeno, pensava, allora. In verità, Samuel non si era risposato. Un paio di mesi dopo che lui e Caterina si erano risentiti, lo aveva ribadito in una video-intervista: l’articolista, evidentemente, aveva frainteso. Nonostante ciò, se le condizioni non fossero cambiate, nemmeno questa volta i due sarebbero riusciti a realizzare il loro obbiettivo. Sì perché in quegli anni, anche se avevano vissuto ciascuno le proprie storie, all’insaputa l’uno dell’altra, avevano sempre condiviso lo stesso, identico folle sogno.

Maggio 2008

“Ma dai! Smettila!- obbiettò Caterina- Come ti viene in mente una cosa del genere??? Sei impazzita!!!”. “Insomma, le conosci o no queste carte?”- replicò, stizzita, Alessandra, alzandosi, irritata, dalla sedia e dirigendosi verso la caraffa color arancio vivo, contenente tè freddo al limone. Si era in prossimità dell’estate, l’estate di cinque anni prima, e l’arsura iniziava a farsi sentire. “Sì le conosco: te le ho fatte più di una volta, per scherzo”. “E mi ci hai anche azzeccato, cara- aggiunse Alessandra- Ricordi?”. “Vagamente”- rispose, perplessa, Caterina. “Te l’ho descritto nei minimi particolari e non lo conosco né tu me ne avevi mai parlato prima. Bene, allora, saranno pure ati tre anni e tu, da due, farai anche coppia fissa con un altro ma questo tipo non ha dimenticato, cara mia”. “Non per offenderti, né per sottovalutare le tue capacità divinatorieribatté Caterina, piuttosto scettica, da vera razionale qual era- ma mi sembra assurdo che mi pensi ancora.. Se mi ha visto tre sole volte in vita sua! E’ inconcepibile!!!”. “Basta anche solo un minuto per innamorarsi, mia cara, fidati e credimi!- concluse, perentoria, Alessandra, che non amava essere contraddetta, soprattutto quando si trattava delle sue divinazioni che prendeva estremamente sul serio: altro che scienza!!! - Pensa a te almeno quanto tu pensi a lui- aggiunsePerché tu lo pensi ancora, vero Caterina?”- le domandò, fissandola negli occhi. La giovane donna, per sottrarsi a quello sguardo indagatore, si voltò verso la finestra, ammutolita. Samuel aveva sempre sortito l’effetto di lasciarla senza parole. Non era mai riuscita a capire che tipo di legame li unisse. La verità, che non aveva il coraggio di confessare a nessuno, era che si sentiva spiazzata davanti a un sentimento in grado di sopravvivere a tempo, distanza, silenzi interminabili e nuove storie, come se fosse al di sopra di tutto e di tutti, come se si muovesse in un’altra dimensione rispetto a quella concreta, reale.

Prima di perdere le sue tracce, qualche anno prima, Caterina lo aveva sognato. Erano sullo stesso aereo: lui, seduto al fianco di una giovane donna, ad un tratto, si era alzato, percorrendo metà corridoio per venirla a salutare. “Puoi aiutarmi nel mio lavoro?”- le aveva chiesto, così, senza nesso alcuno, a bruciapelo. “Nel tuo lavoro?- aveva balbettato lei, in sogno- Sai che non ha nulla a che vedere con il mio…”. A quelle parole, Samuel aveva assunto un’espressione triste, poi indicando la sua compagna, le aveva detto: “Lei sì- e, senza aggiungere altro, aveva pronunciato una frase che somigliava tanto a un addio- Sei una splendida persona, Caterina. Voglio che tu lo sappia”. La ragazza si era svegliata di soprassalto, nel suo letto, con il viso rigato dalle lacrime.

Pochi giorni dopo, di lui avrebbe perso ogni traccia per anni. I media avrebbero divulgato notizie sempre più allarmanti sul suo conto, la sua carriera avrebbe imboccato una curva discendente senza precedenti e lei avrebbe continuato a seguire le sue vicende, difendendolo da tutto e da tutti. ”Non capisco proprio questo attaccamento a una persona che è poco più che un estraneo per te. Vi siete visti una sola volta da soli, se non sbaglio”- aveva commentato il suo compagno di allora, che era al corrente della situazione perché prima di essere il suo uomo era stato un suo amico. “Non sbagli-aveva replicato Caterina- E’ così e basta. Non saprei dire con esattezza nemmeno io il perché. I ricordi ano, sbiadiscono. Questo no- aveva ammesso, con dolorosa sincerità- Ma lui ora avrà sicuramente la sua vita come io ho la mia”. Caterina voleva sinceramente bene a Simon, anche se sapeva che la loro storia non sarebbe durata per sempre. Per una serie di motivi, riguardanti strettamente il suo ex amico, il loro rapporto non avrebbe mai potuto avere sviluppi tali da consentire alla coppia di rimanere unita a vita, progredendo insieme. Ne erano ormai consapevoli entrambi ma avevano scelto comunque di amarsi per tutto il tempo che il destino avrebbe deciso di regalare loro.

Maggio 2013

Caterina si alzò come un automa dal letto. Si era alla fine di maggio e, dalla finestra della sua stanza, la donna scorgeva le verdi colline baciate dal turchese del cielo, uno spettacolo che aveva quasi sempre il potere di donarle il sorriso, appena alzata. Quella mattina, però, Caterina era stranamente inquieta. Nemmeno quel panorama mozzafiato riusciva a tranquillizzarla.

Una mezz’ora dopo, davanti al suo frullato di fragole e alla consueta tazza di tè, generosamente corredata di cornflakes, aveva iniziato a fare mente locale su quel sogno del quale non capiva il significato. Erano trascorsi quasi otto anni da quando, nella scena dell’aereo, Samuel aveva oniricamente preso congedo da lei per poi sparire nel nulla. Ora a distanza di tanto tempo, la notte precedente, era tornato a farle visita, in sogno: questa volta, ricordava solo la sua immagine, come una foto dai colori vividi … sua ma non esclusivamente. L’uomo teneva in braccio due bambini piccoli, di qualche mese di vita. Chissà- congetturò Caterina- forse si trattava dei suoi figli! Magari si era risposato. Era da alcuni mesi che la donna non cercava nel web notizie relative a Samuel, ma quel sogno, così vivido e inatteso, la spinse a farlo di nuovo. Scelse google come motore di ricerca, digitando il nome e cognome del cantante, venne immediatamente indirizzata alla prima pagina dei numerosi risultati che lo riguardavano. Fu subito spiazzata da una notizia inattesa: Samuel aveva aperto un blog. Cliccando sul link, Caterina prese visione delle sue foto, lesse i commenti entusiastici dei fan che ne salutavano il ritorno, stupita dell’accaduto. Era lui. Innegabilmente. Foto troppo private per appartenere a qualcun altro. Foto che lo ritraevano nel suo appartamento, nei locali che frequentava e in compagnia di amici. Nessuna moglie e nessun bambino. Forse non era sposato o forse, semplicemente, non aveva ritenuto opportuno rendere pubblici particolari della sua vita privata. Caterina avvertì il suo cuore accelerare i battiti. Dalle foto si desumeva che stava bene. Era tornato alla sua vecchia ione per la musica. Era di nuovo circondato dall’affetto dei suoi fan. Lei era sempre stata convinta del fatto che un giorno ce l’avrebbe fatta a uscire dal vicolo cieco nel quale si trovava come bloccato: non si era sbagliata. Le faceva il solito effetto vederlo, anche se semplicemente in foto: sempre quella sensazione di familiarità e di calore che non era mai riuscita a spiegarsi né a spiegare a nessuno.

Novembre 2013

Si era ormai in autunno. Il suo libro era ultimato. Caterina ne teneva fra le mani i fogli dopo avere provveduto a stamparli. Non sapeva davvero come concluderlo quel racconto che portava il suo stesso nome, quando, tutto d’un tratto, stralci di riflessioni le vennero in aiuto dalla sezione “raccolta documenti” del suo portatile. Scelse quelle che riteneva più adatte e si limitò a riportarle in successione, in calce al racconto, senza un ordine preciso, senza metri né regole. Dalla sezione “raccolta documenti”: “C'è un tempo per tutte le cose ma io ti rincontro in quello perduto. In tutti i momenti che insieme sognammo senza condividerli mai". "Bisognerebbe non vedere troppo oltre, a volte, e non sapere. Bisognerebbe vivere nell'ignoranza e fingere di non sentire o anestetizzarsi per sopravvivere, perlomeno. Ci sono veli che non andrebbero squarciati e porte che non andrebbero aperte. Coincidenze che non dovrebbero mai accadere e strade che non dovrebbero mai incrociarsi. Ci siamo noi". "In un tempo remoto, quando ancora i loro corpi non avevano preso forma su questa Terra, si erano fatti un giuramento. Lei non era tipo da non ottemperare a una promessa solenne: si sarebbe sentita vigliacca, fuori posto, se solo avesse osato farlo. Per lei l'amore era uno solo: nessun altro incontro, per quanto avesse cercato di scendere a patti con se stessa, aveva retto alla prova del ricordo di quel giuramento e lei, da tempo immemore ormai, non era più in grado di accettare compromessi". "Si unirono, loro malgrado, perché il sentimento conosce geometrie strane, superando le frontiere del tempo, della noia, delle abitudini. Si amarono di un amore folle e spaiato, come folli sono tutti gli amori, senza metri né regole, orari né preavvisi. Conobbero l'uno dell'altro le cose non dette, le mete mancate, gli addii sconosciuti della mente e nel cuore. Naufragarono in quel pezzo di irreale infinito, chiamato amore, colorato di fantasia, in cui tutto diventa possibile sempre, niente è prevedibile mai”.

“Si sta come me e te, o fuori luogo o fuori tempo, o troppo presto o troppo tardi o illusoriamente vicini o dolorosamente lontani. Si sta come me e te: nell'attesa che un giorno qualcosa vada finalmente per il verso giusto e io mi fermi al tuo fianco, davvero e tu ti fermi al mio fianco, sul serio. Si sta come te e me, a immaginarci ciò che potrebbe essere e non è, con quel ladro del destino che rimescola le carte: non ci è amico né alleato mai. Si sta come me e te: a fissare questo vuoto e a domandarsi se fu una fortuna o una sventura essersi incontrati, con gli anni rubati a un insieme che non fu mai... fra me e te”.

Caterina

SARA (Trasforma il tuo più grande dolore in forza e niente potrà più annientarti).

I

Un refolo di vento sollevò il lembo della sottana di Sara, mentre la sua città era pigramente avvolta nel sonno. Dal balcone di casa si intravedeva il mare, silenzioso custode di imperscrutabili misteri, distante e lontano, astratto e indecifrabile. Le cicale, con il loro frinire, sembravano intrattenere la luna che, quella notte, era somigliante al profilo di un dio pagano, forse, incaricato di vegliare sulle sorti degli uomini. Chiunque fosse la divinità posta a protezione degli umani, doveva essere incredibilmente distratta, di una distrazione crudele- continuava a ripetersi Sara, come in una litania - se aveva permesso che accadesse ciò che si era verificato quel giorno di due mesi prima. Forse, col tempo, sarebbe riuscita a farsene una ragione e l'avrebbe, finalmente, abbandonata quell'angoscia che non le dava tregua, scavandole dentro, come una maledizione. Intanto, non le rimaneva che sopportare e pregare, nel tentativo disperato di allontanare il rancore e non sprofondare in quel black-out di corpo e anima che minacciava, istante dopo istante, di trascinarla via. In balia di questi pensieri, Sara, come un automa, abbandonò il balcone, richiudendosi la portafinestra dietro le spalle, per attraversare la camera da letto degli ospiti e dirigersi verso la stanzetta di Sauro. La casa era immersa nel silenzio più totale. Sulla soglia della cameretta del neonato, la donna sostò, trattenendo il fiato e aspirandone l'odore di nuovo, di vernice e mobilio. Non si udiva il minimo rumore.

Pensò che il bimbo doveva dormire molto profondamente. Non aveva pianto nemmeno per reclamare la consueta poppata. Per non svegliarlo, non accese la luce, procedendo a tentoni verso la sua culla. Giunta a destinazione, si accovacciò a terra, indifesa nel suo esile corpo, i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle. Appoggiò una mano all'interno della culla, accarezzandone il lenzuolo, finemente ricamato. Rimase così, per dieci minuti buoni, sospesa fra realtà e fantasia, in un mondo inaccessibile ai più, cantando un'impercettibile ninna nanna, stranamente simile a un mormorio implorante. Fu in quella posizione che la ritrovò Aldo. quella notte come tutte le altre, persa in un mondo tutto suo: l'unico per lei possibile. Le si accovacciò accanto, abbracciandola teneramente, come avrebbe fatto con una bambina smarrita e indifesa, e mormorandole all'orecchio, con dolcezza:“Vieni, Sara, che è tardi! Vieni a dormire con me che senza di te non mi riesce di prendere sonno!”. Anche quella sera, come sempre, da due mesi a quella parte, la giovane donna non avrebbe obbiettato nulla: lo avrebbe seguito, nel breve tratto compreso fra la stanza di Sauro e la loro e si sarebbe infilata a letto, raggomitolandosi su se stessa, in posizione fetale, come a cercare un rifugio dalle asprezze del mondo. Suo marito le avrebbe accarezzato la fronte per farla rilassare, massaggiandole le tempie, come faceva sua madre per agevolargli il sonno, quando era bambino. Ad un certo punto, Sara, vinta dalla stanchezza e dal dolore, avrebbe chiuso gli occhi, stringendosi a lui e Aldo sarebbe scivolato in un sonno profondo, fino al mattino successivo.

Era stato proprio suo marito, qualche mese prima, ad allestire la cameretta del bambino e l'aveva voluta di un bel turchese, con l'aggiunta di stelline luminose al

soffitto che, a luce spenta, riproducevano l'incanto della volta celeste. Con lui Anna aveva scelto la culla old style, in ciliegio, rifinita nei minimi particolari, acquistandola in un negozio nei pressi del centro storico. Sulla culla aveva fatto applicare dei piccoli angeli, a mani giunte, provvisti di ali dorate e di una sottile tunica argentata. Per completare l'opera, sulla porta della cameretta, aveva affisso un grande cuore adesivo, recante la scritta, a caratteri cubitali: “Benvenuto al mondo, Sauro!” Quella scritta, ripensandoci a posteriori, le sembrava, ora, superflua e ridicola, oltre che di pessimo gusto. Sauro non sarebbe stato in grado, comunque, di leggerla né di afferrarne il senso e, se avesse potuto farlo, avrebbe sicuramente concordato con lei su di un punto: il mondo non è assolutamente un bel posto in cui venire alla luce, proprio per niente e anche lei, da due mesi a quella parte, ne era fermamente convinta.

II

“Il bimbo è perfettamente sano- aveva sentenziato il ginecologo, durante l'ultima visita di controllo pre-parto- La consideri una foto”- aveva concluso, soddisfatto, porgendole l'ecografia. Il dottor Romoli la seguiva dall'inizio della gestazione e sapeva quanto Sara desiderasse quel bambino. Aveva dovuto sottoporsi a una terapia, basata su farmaci stimolatori dell'ovulazione e a rapporti sessuali programmati, perché stentava a rimanere in stato interessante ma alla fine c'era riuscita, forte della tenacia che la caratterizzava da sempre. La prima persona alla quale aveva comunicato la lieta notizia era stata Manu, sua amica dai tempi della scuola, che nella vita faceva la commerciante: per l’esattezza era titolare di un negozio d’abbigliamento nel centro storico della

città. Con lei aveva festeggiato l’evento, prendendosi una giornata libera dal lavoro. Era estate e si erano dirette al mare, facendo a gara a chi si sarebbe tuffata per prima in acqua, a bucare le onde, impregnandosi di salsedine, per poi rimanere accovacciate sul bagnasciuga, a guardare la gente immergersi e i bimbi giocare fra i flutti. Sara, la mora, e Manu, la bionda, erano sempre state inseparabili e, se la prima aveva, sin da bambina, coltivato il sogno di crearsi una famiglia tutta sua, allietata da un congruo numero di pargoli, la seconda non voleva saperne di mettere radici. Su di un punto, però, erano d'accordo: pensavano che la loro amicizia non sarebbe stata mai turbata da alcuna ombra e che il tempo, per loro, sarebbe trascorso così, senza grossi scossoni, come quando, da bambine, si rifugiavano in soffitta a sentire la pioggia battere contro i vetri e i tuoni squarciare il cielo e traevano coraggio dal solo sentirsi vicine l'una all'altra. Eppure, qualcosa sembrava aver avuto la forza di dividerle, colpendole a tradimento, in maniera inaspettata e crudele, quella sera di due mesi prima. Doveva essere un giorno di festa quel mercoledì e dei giorni speciali conservare l'incanto. Si era nel mese di maggio e Manu, appena alzata, spalancando la finestra della sua stanza, aveva respirato il forte profumo d'acacia, proveniente dal viale alberato sottostante. Il travaglio di Sara era cominciato all'alba e i medici avevano ritenuto indispensabile ricorrere al cesareo: il bimbo si presentava di testa e di spalla e il ginecologo aveva cercato di agevolarne l'uscita con delle manovre rudimentali, senza, peraltro, ottenere alcun risultato. Con il cesareo Sauro era stato estratto dal suo utero, ora orfano e attraversato da un dolore lancinante: Sara aveva intravisto il suo bimbo solo per qualche attimo.

Non lo aveva sentito vagire. Aveva chiesto alle infermiere, con quel po' di voce che le era rimasta in gola, di appoggiarlo sul suo seno ma nessuno le aveva dato retta. Il clima intorno a lei si era fatto, all'improvviso, nervoso e concitato: “Sta perdendo troppo sangue!”. “Tamponate, tamponate!”. “Bisogna intervenire immediatamente!”: commenti e esortazioni si erano susseguiti senza che lei riuscisse ad afferrarne il senso, né, tanto meno, a replicare. Poi la sensazione di scivolare gradualmente fuori dal corpo e quel vortice nero, nel qual era caduta come in un abbraccio, senza opporre resistenza. Quando si era risvegliata, nel piccolo letto della clinica, aveva tanta sete e si sentiva incredibilmente debole. Il suo sguardo aveva incrociato quello di Manu e si era sentita stringere il cuore perché lo aveva trovato profondamente triste, carico di una comione strana, mista a tenerezza. “Manu. . . - aveva sussurrato - Da quanto sei qui?”. “Da un po'. . . ”- aveva risposto, laconica, l'amica, sforzandosi di far apparire naturale il sorriso rivolto a Sara ma le sue labbra erano come incollate e il tentativo si era risolto in una smorfia. “Aldo dov'è?”- aveva chiesto un po' stupita del fatto che suo marito non fosse lì con lei. “Ecco- aveva balbettato Manu, con fare poco convincente- E' stato qui fino a due minuti fa, poi ha ricevuto una telefonata e è uscito per evitare di svegliarti”. Sara l'aveva guardata, sospettosa. “Il mio bambino? Come sta il mio bambino?”- aveva domandato, in preda a un'agitazione improvvisa e, razionalmente, inspiegabile.

In quel mentre, la porta si era aperta di scatto e sulla soglia era comparso Aldo, pallidissimo, gli occhi cerchiati da profonde occhiaie. “Amore. . . - le aveva sussurrato, avvicinandosi al lettino nel quale riposava e sfiorandole la fronte con le labbra- Amore. . . ”- aveva ripetuto, prendendola per mano. “Hai visto il nostro Sauro? Come sta, ora?”- aveva indagato Sara, guardandolo dritto negli occhi, come a carpirgli una verità troppo crudele. Aldo, a quella domanda, aveva distolto lo sguardo da quello della moglie, facendolo vagare fuori dalla finestra dove si stagliava una magnolia, svettante contro il tramonto, superba nel suo rigoglio. Le parole gli erano uscite, a stento, di bocca. Sembravano rincorrersi affannose. “Ecco. . . - aveva risposto, dopo un attimo che era parso eterno a entrambi- C'è stata qualche piccola complicazione ma niente di grave”- aveva aggiunto, colpevole, abbassando lo sguardo. A quelle parole, Sara aveva perso la pazienza e, con tutto il fiato di cui disponeva, aveva cominciato a strillare. “Né tu né Manu sapete mentire! Perché avete queste facce? Perché mi sono risvegliata solo ora? Come sta il mio bambino? Ho il diritto di saperlo!”. In quel mentre, era entrato il ginecologo che l'aveva assistita durante il parto e aveva fatto cenno a Manu e Aldo di uscire dalla stanza. Aveva avvicinato una sedia al letto, sotto lo sguardo attento e diffidente di Sara. “Il bimbo presentava delle gravi anomalie respiratorie e non ce l'ha fatta a sopravvivere. Lei e suo marito potrete decidere se richiedere o meno l'esame autoptico”. “Esame autoptico. . . - balbettò la donna- Non ce l'ha fatta. . . Lei mi sta dicendo che il mio bambino è morto! Di quale anomalia parla?- urlò, ormai fuori di séEra perfettamente sano, quando sono entrata in questa clinica. Lo è stato per tutti

i nove mesi che l'ho portato in grembo. Ricordo di aver perso tanto sangue, durante il parto e devo essere svenuta. . . Cosa ci avete fatto?”- gridò la donna, in preda al panico, tormentando lenzuola bianche come il suo viso, spossato e smunto. “Lei è molto provata, signora, e confusa- replicò il medico, mentre il suo labbro superiore iniziava a imperlarsi di sudore- E' normale, dato l'accaduto- aggiunse, con un tono di voce monocorde, falsamente comionevole- Cerchi di riposare, ora. Per qualsiasi necessità, si rivolga all'infermiera di turno”- concluse, congedandosi, per poi varcare frettolosamente la porta della stanza. Sara, affondò la testa nel cuscino, in preda alla disperazione più totale. Non riusciva nemmeno a piangere: le si era formato un nodo in gola che non voleva sciogliersi. Tremava, la fronte madida di sudore, un dolore persistente al basso ventre. Si portò istintivamente una mano al seno. Era dolente e gonfio di latte ma Sauro non si sarebbe mai attaccato al suo petto. Per un crudele quanto incomprensibile disegno del destino, non avrebbe potuto stringerlo a sé. Quella vita che aveva atteso con tanto amore, portandola in grembo per nove mesi, spiandone ogni minimo cambiamento, quel cuore che aveva avvertito battere all'unisono con il suo, quella piccola creatura fantastica e indifesa non c'era più. Uccisa con leggerezza e per leggerezza: il suo assassinio mascherato da una diagnosi bugiarda, fasulla e colpevole. Scoppiò in un riso forsennato e gutturale, simile a un urlo di disperazione, seguito da singhiozzi laceranti che spezzarono l'apatia malata di quella mattina, in cui tutti, nessuno escluso, sembravano, ai suoi occhi, essere immersi. Poi, suo malgrado, si addormentò, esausta.

III

L'auto di Manu occupò l'unico posto libero, lungo la strada sottostante la casa di Sara. Era esposto al sole ma non ce n'era un altro disponibile, nei paraggi. La donna scese, accaldata, dal suo veicolo: il vestitino a pois bianchi le aderiva al corpo, a causa della grande calura. Si ravvivò i capelli, con fare quasi automatico. Da due mesi a quella parte, non aveva più visto Sara, anche se si era mantenuta in costante contatto con Aldo per chiedere informazioni sullo stato di salute dell'amica. La donna, infatti, trascorreva le sue giornate in casa, lontana mille miglia dal mondo esterno, con il quale non aveva più nessun contatto ormai, né desiderava averne. Manu si stupì nel constatare che il cancello e la porta di casa erano aperti. Trovò Sara intenta a spolverare dei piccoli soprammobili in cristallo, con una calma serafica, apparentemente non turbata da alcuna ombra. L'amica sollevò lo sguardo, al rumore dei tacchi di Manu, salutandola senza mostrare nessuna emozione particolare, come se si fossero viste il giorno prima. Indossava un abitino di lino, spiegazzato e era visibilmente dimagrita, quasi evanescente. “Accomodati pure!- esclamò, premurosa- Fa un caldo pazzesco, vero? Vuoi un tè freddo? Ne ho un po' alla pesca”. L'amica annuì, sedendosi al tavolo della sala.

Subito dopo, Sara, era di ritorno dalla cucina, con un vassoio, contenente una caraffa e due bicchieri. ”Cosa mi racconti?”- le domandò Manu, guardandola dritto negli occhi, mentre lei disponeva i sottobicchieri e il resto sulla tavola. “Che ho tantissimo da fare! Sai, la casa, Aldo e ora il bambino. . Considerato che da quando c'è Sauro non si dorme più . . . e poi le poppate: un vero tour de force!”-concluse la ragazza, con un largo e naturale sorriso. Manu si schiarì la voce, tentando di mascherare lo sconcerto che le parole di Sara stavano suscitando in lei. Si limitò a invitarla, a sua volta, a sedersi e, quando Sara le si fu accomodata vicino, le disse, con tutto l'autocontrollo di cui disponeva: ”Sara cara, tu e io sappiamo bene che Sauro non è fisicamente fra noi, vero?” La donna tacque: il suo viso non tradiva nessuna emozione ma le lacrime, a quell’affermazione, cominciarono, silenziosamente, a rigarle le guance smagrite. Fu allora che l'amica la prese fra le braccia: “Non piangere, Sara cara. Non piangere!- le disse, cercando a sua volta di non cedere al dolore - La maternità è un patto che non si estingue mai. Tu continuerai per sempre a essere la mamma di Sauro ma con la tua bontà e il tuo amore potrai fare ancora di più, diventando la mamma di tutti quei bimbi che furono vittime di errori madornali o di carenze delle strutture ospedaliere”. “Cosa vuoi dire?”- domandò Sara, incredula e tremante, risvegliandosi, di colpo, come per incanto, dal lungo sonno che l'aveva, negli ultimi mesi, allontanata dal mondo. “Aiuta le madri come te a farsi giustizia e a evitare che ad altri piccoli sia impedito di vivere!”- le rispose Manu, porgendole un opuscolo e dei ritagli di giornale- Appena te la sentirai, leggi questo materiale e vai sul sito che è segnalato nella brochure! Promettimi che lo farai. . . ”-concluse con un soffio di voce. “Lo farò -si sorprese a risponderle Sara- Lo farò”.

IV

Quella sera, Aldo, rincasando, trovò sua moglie indaffarata a riempire uno scatolone con tutti i pupazzi e i vestitini di Sauro. Quando le chiese spiegazioni di questo suo gesto, Sara rispose, serafica, che non c'era ragione di mantenere quella stanza arredata, dato che “Sauro non era fisicamente lì con loro”. Più tardi, mentre il marito dormiva, la ragazza si diresse nel suo studio. Dalla libreria di Aldo, trasse un libro di architettura, nel quale aveva inserito gli articoli e l'opuscolo che Manu le aveva consegnato. Si raggomitolò sul divano color cremisi e iniziò a leggere ando dall'indignazione alla rabbia, al dolore, alle lacrime. Scoprì che quello di Sauro non era un caso isolato, anzi. . . Da quei ritagli di giornale saltarono fuori, animandosi, tanti piccoli corpicini privi di vita e la storia di ognuno di loro fu per Sara una pugnalata al cuore. Da Nord a Sud, reclamavano giustizia bimbi deceduti per scarsa igiene, carenze dei reparti di terapia intensiva, leggerezze del personale medico. Bimbi nati morti oppure immediatamente strappati alla vita, tutti accomunati dallo stesso triste destino. Sara, ultimata la lettura degli articoli, prese in mano l'opuscolo dell'Associazione Mamme dei Neonati Vittime di Malasanità e si sentì percorrere da un brivido. La fondatrice era una madre che aveva vissuto un'esperienza analoga alla sua. Non era riuscita a tenere il suo piccolo fra le braccia nemmeno per un istante: era

nato già cadavere. La donna, tramite quella brochure, invitava le mamme, vittime di malasanità, ad unire le proprie forze perché non si verificassero più casi come il loro, perché la morte non vincesse la sua battaglia contro la vita. “Solo con l'informazione e collaborando fra di noi, potremo spezzare la cortina di un silenzio complice che rischia di dare origine allo spargimento di altro sangue innocente - così recitava l'opuscolo- Per questo, il 15 settembre, a partire dalle ore 9, abbiamo organizzato una manifestazione davanti alla Procura e contiamo sulla vostra presenza massiccia”. Sara deglutì, emozionata, pensando che, quel giorno, lei avrebbe avuto l'occasione di fare qualcosa per il suo Sauro e per tutti gli altri bambini scomparsi, a causa della negligenza e degli errori altrui. Digitò l'indirizzo del sito dell'associazione e ebbe un tuffo al cuore nel verificare come contasse già tantissimi iscritti, fra membri e simpatizzanti. Di colpo non si sentì più sola e capì che poteva dare un senso al suo dolore. Mentre leggeva le storie di familiari e amici dei bimbi strappati alla vita, si rese conto di quale inestinguibile sete di giustizia trasparisse dalle loro parole e ne rimase profondamente colpita. Erano ormai due ore che si trovava dentro lo studio e era così assorta nella lettura da non essersi nemmeno accorta che Aldo la osservava, in silenzio, non visto, dalla soglia di quella stanza e sorrideva, riflettendo fra sé e sé.

I giorni trascorsero veloci e Sara, nel mese e mezzo che la separava dalla manifestazione, in maniera autonoma e silenziosa, fece dei progressi notevoli. Divenne membro attivo dell'associazione: ne conobbe la fondatrice e molti iscritti, con i quali collaborò, preoccupandosi di mettere a punto gli ultimi dettagli, in vista della fatidica data. Il suo sguardo aveva riacquistato l'antica ione di un tempo e grande era stata la gioia di Manu nel verificare come fosse tornata padrona della sua vita, ancora

più forte e battagliera di prima. La mattina del 15 settembre uscì presto di casa, vestita con un abitino rosso, a balze, i biondi capelli sciolti sulle spalle e un sorriso radioso dipinto sul viso. Prese al volo un taxi e arrivò in centro, dove si imbatté in una scolaresca festosa. Vedendo tutti quei bimbi, vocianti, scherzare, giocando fra di loro, si sorprese a pensare a Sauro, per la prima volta, da mesi, non più con tristezza bensì con sconfinato amore. “Ecco sto facendo qualcosa per te, tesoro”- disse fra sé e sé- mentre il taxi varcava l'arco medievale, immettendosi nella via che conduceva alla piazza della manifestazione. La folla, che si era radunata a poche decine di metri di distanza da lì, era oceanica: una vera e propria catena di gente proveniente da tutta Italia vi si accalcava, recando striscioni, contenenti slogan e cartelli di denuncia. Gli organizzatori stavano distribuendo volantini ai partecipanti e su tutti gli altri spiccava per dimensioni e colore un cartello con la scritta:”Quanto sangue innocente ancora prima che giustizia sia fatta?”.

Sara, dall’interno dell’autovettura, riusciva, comunque, già ad avvertire tutta la forza di quella folla che non voleva saperne di arrendersi all'indifferenza e al torpore, che lottava, in nome del diritto a un parto sereno, che non si trasformasse in una macchina di morte o infermità. “Io devo fermarmi qui- l'informò il tassista, voltandosi e accennando un sorriso alla bella e radiosa eggera, vestita di rosso- La zona è transennata: non posso procedere oltre. Penso sia per via della manifestazione della quale hanno parlato tanto, ieri, in tv”. Sara annuì: era stata lei stessa a contattare le redazioni televisive per segnalare l’iniziativa, illustrandone motivazioni e contenuti. “Lo so- rispose Sara, trionfante- Anch'io vi partecipo. Casi del genere non dovranno verificarsi mai più e, tantomeno, essere insabbiati, in un Paese che pretende ancora, nonostante tutto, di definirsi ”civile” - replicò, ferma e serena-

Sono la mamma di Sauro, anche se a lui è stato impedito di vivere- aggiunse, prima di scendere dalla vettura, congedandosi con un sorriso- Chi è madre, lo rimane per sempre”.

EVA (Siamo tutti uguali: figli dello stesso identico cielo).

I

Il caldo era insopportabile, in quella giornata d’agosto: lo era sino a togliere il fiato. Eva trasse un sospiro di sollievo, dopo aver deposto le buste della spesa sulla soglia di casa: l’ascensore, come al solito, era fuori uso. Fortunatamente, abitava al primo piano di quello stabile sito in pieno centro storico, tanto bello esteriormente quanto mal costruito. A conferma, le infiltrazioni d’acqua nei garage e le innumerevoli e profonde crepe sui muri, eredità di scosse sismiche più o meno recenti. Un rivolo di sudore le solcò la fronte mentre appoggiava le sporte all’ingresso: infilò la chiave dentata nella serratura e si trascinò dietro i suoi pesi. Entrando, venne investita da un odore forte di cucina, sebbene la finestra fosse rimasta aperta per ore. Si sedette, esausta, depositando, sul piano del tavolo, la cartelletta color carta-zucchero, ricolma di appunti scolastici e circolari. Eva insegnava in una scuola primaria: era insegnante di sostegno. Magra, sottile, esile, i mobilissimi occhi chiari perennemente scrutatori, dei quali era difficile sostenere lo sguardo, a meno che non si fosse dotati della sua stessa purezza. “Hanno il colore del mare”- aveva commentato al loro primo incontro, Annie, abbracciandola. Si era all’inizio dell’anno scolastico e, quando la direttrice aveva presentato alla piccola la sua insegnante, questa l’aveva presa immediatamente in simpatia. Uno sguardo, un guizzo birichino nei suoi occhi nocciola e un abbraccio, forte, inaspettato … Eva si era sentita sommergere da un’ondata oceanica di affetto senza precedenti. Era nata così la sua amicizia con quella bimba tanto speciale, capace di comunicare emozioni in maniera intensa e istintiva, sempre. Nel tempo, Eva si era sorpresa a soffrire, in maniera crescente, del dolore di Annie e a gioire delle sue gioie, come se si fossero conosciute da tempo immemore. Il loro rapporto aveva superato, da subito, i confini previsti dal suo ruolo professionale, senza che Eva potesse e volesse fare qualcosa anche solo per evitarlo.

Erano ate diverse stagioni da quel loro primo incontro: Annie era ormai un’adolescente gioiosa e innamorata. Eva conservava una sua foto in bella vista sulla credenza del salotto, per quanto non le rendesse giustizia. Il suo volto, in quell’immagine, risultava appesantito e non se ne poteva apprezzare la dolcezza. Sì perché quella ragazzina era innegabilmente dolce. “Una creatura speciale, un cuore grande”: così l’aveva descritta ai suoi genitori, una volta, in sede di colloquio. Ma non tutti i compagni di Annie erano dello stesso avviso dell’insegnante: per alcuni lei era solo cromosoma 21”.

II

Gelida mattina di un pomeriggio autunnale: le foglie volteggiavano sul piazzale antistante la scuola e la quarta B ascoltava svogliatamente la lezione di storia. Annie non vedeva l’ora che arrivasse l’intervallo per consumare finalmente la sua merenda: un goloso tiramisù preparato da sua sorella Gilda. Doveva avere le mani fatate perché tutti i dolci che faceva le riuscivano da leccarsi i baffi! Semplicemente deliziosi! Quando uno scamlio annunciò l’arrivo dell’intervallo, la bambina tirò fuori la vaschetta contenente la merenda, aprì il tovagliolo giallo nel quale era avvolto il cucchiaio, dal manico blu, e lo affondò con entusiasmo tutto infantile nel dolce. Al suono della camla, segnalante l’inizio della pausa, l’aula si era immediatamente svuotata e, ora, da fuori si udiva solo il vociare dei compagni. “Non ti unisci a noi?”- le chiese la sua bionda vicina di banco, Sophie. Annie scosse il capo, a quella domanda, mostrando, con aria trionfante, il suo tiramisù. Di rimando, l’altra sorrise, alzando la mano in segno di saluto: “Ci vediamo fra un po’!”- aggiunse, allontanandosi. In quel mentre, entrarono nell’aula Claude e Sébastien. Il primo castano, minuto, con un’aria di perenne sufficienza stampata su un viso vispo e irriverente; il secondo più corpulento, biondo, con l’espressione, sempre, eternamente corrucciata.

Claude, con fare minaccioso, cominciò subito a prendere a calci le gambe della sedia, collocata accanto al posto di Annie, per poi tempestarne il banco di pugni, in rapida successione, mentre l’altro cercava di portarlo via, strattonandolo per un braccio. Ma questi continuava a strillare come un invasato: “Cromosoma 21! Cromosoma 21!” - recitando una nenia sfiancante e ossessiva. Di fronte a quel comportamento, Annie si era limitata a tapparsi le orecchie, rimanendo immobile, con lo sguardo fisso a terra. “Sei impazzito?-aveva domandato Sébastien a Claude- Che fai? Che dici?”. “Come? Non lo sai? Mio padre è medico e mi ha detto che questa è scema e lo rimarrà a vita perché ha un cromosoma in più: il cromosoma 21”. Sèbastien l’aveva guardato, prima perplesso, poi spazientito: “Smettila! Lasciala in pace! Che te ne frega di ciò che ha? Non vedi che la stai facendo piangere?”. Lacrime silenziosamente copiose stavano sgorgando dagli occhi a mandorla e dolcissimi di Annie. “Cromosoma 21, cromosoma 21!”- riprese, di nuovo, a urlare Claude, come se niente gli fosse stato detto e la vaschetta contenente il tiramisù volteggiò impietosamente nell’aria, spazzata via dalla sua rabbia cieca. Annie, singhiozzando ormai senza ritegno, si chinò, quasi automaticamente, per raccoglierla. Dalla soglia della classe, Eva aveva assistito, come impietrita, all’ultima scena. Con un balzo felino, raggiunse Claude, trascinandolo per un braccio fuori dalla stanza. “Adesso te lo do io il cromosoma 21! Fila in direzione!!!”. “Signora maestra, stavo solo scherzando!- replicò il bambino- Giocavamo!!!”. “Impara a giocare in maniera diversa!”- urlò Eva, rossa in volto per la rabbia. Sentiva le lacrime salirle agli occhi ma non avrebbe dato a Claude la soddisfazione di vederla piangere. Mai! “Non credere di arla liscia! Convocheremo i tuoi genitori per informarli del tuo comportamento!”- la rabbia continuava a crescere in Eva. Si sentiva come un animale ferito a morte: come se fosse stata lei stessa il bersaglio di quell’aggressione crudele. “Devo calmarmi!- ripeté fra sé e sé- Devo calmarmi- si disse, salendo l’ultima rampa di scale che conduceva alla presidenza- Non posso entrare nell’ufficio del dirigente scolastico, in questo stato. Non sarei credibile e non farei il bene di Annie”.

III Il giorno dopo, vennero convocati, di gran carriera, i genitori di Claude. L’atmosfera era tesa e imbarazzante. La signora Cassel, avvolta nella sua

pelliccia di visone, aveva un’espressione indecifrabile mentre il marito sembrava visibilmente indignato e seccato. “Chiamarci qui per un’inezia del genere!protestò, senza ombra di vergogna- Cosa sarà successo mai? L’ha forse picchiata? Si sa, sono bambini e fra di loro scherzano” – si giustificò. “Le posso assicurare che si è trattato di tutto fuorché di uno scherzo!”- replicò energicamente Eva, il tailleur blu, le braccia conserte e un’espressione dolorosa dipinta sul suo bel viso- L’ho udito con le mie stesse orecchie. Suo figlio ha usato queste precise parole, riferendosi ad Annie: Come non lo sai, Sébastien? Mio padre è medico e mi ha detto che questa è scema e lo rimarrà a vita perché ha un cromosoma in più, il cromosoma 21” - aggiunse, fissandolo negli occhi, con un’espressione di sfida. L’uomo cominciò a balbettare, visibilmente imbarazzato: “Escludo categoricamente di aver detto questo di Annie. Chiedetelo pure a mio figlio!-ribatté, rivolgendo lo sguardo a Claude. Coraggio!lo esortò- Dì a questi signori che non è affatto vero quanto riportato dall’insegnante. Deve aver udito male”. Per tutta risposta, il bambino abbassò lo sguardo, scegliendo di rimanere in silenzio. A quella reazione, inaspettata, sul volto di Eva si dipinse un sorriso trionfante. La giovane fissò il suo sguardo profondo come il mare in quello di Messier Cassel. “Non possiamo pretendere che i nostri figli diano prova di sensibilità, se siamo noi i primi a dare loro il cattivo esempio”. Messier Cassel stava per ribattere qualcosa ma si fermò. Fu lo sguardo di suo figlio a trattenerlo dal replicare.

IV La domenica successiva, Eva ottenne dai genitori di Annie il permesso di accompagnarla alla festa di compleanno di Claude. Non era stata un’impresa facile riuscirvi. Si era dovuta recare personalmente a casa di Sylvie, madre della bambina, per ottenerne personalmente il consenso. In una fredda giornata autunnale, aveva suonato al camlo di casa Delfaut, pulendosi sullo zerbino le scarpe inzaccherate. In effetti, era piovuto fino a poco prima e, a guardarlo, il cielo non prometteva nulla di buono nemmeno per il prosieguo della giornata. La signora Defaut le rispose subito, facendola entrare con sollecitudine. “Prego, prego. Non stia fuori a prendere freddo!- l’esortò- Il tempo oggi è orribile”. Eva sorrise, un po’ imbarazzata, ma non si fece pregare oltre. Era oggettivamente freddo. Consegnò il suo cappotto grigio perla, la sciarpa di lana in tinta e il suo morbido cappello a Sylvie e, seguendo un cenno della donna, si accomodò sul sofà color cremisi, in salotto. Nella stanza c’erano foto di Annie sparse un po’ovunque. Annie al mare, Annie in compagnia di un gatto tigrato e paffuto, Annie davanti alla scuola, Annie al parco con i nonni. “E’ la nostra unica figliaprecisò Sylvie- e noi l’amiamo molto. Sapevamo della sua malattia prima che nascesse, sin dai primi mesi di gestazione ma abbiamo deciso insieme, io e mio marito Cornelius, che avrei portato a termine la gravidanza. Non abbiamo mai pensato che il suo e il nostro percorso sarebbe stato facile: del resto, per chi lo è? Annie aveva il diritto di venire al mondo, come e più di chiunque altro. Fino all’altro giorno, a scuola, l’avevamo sempre e solo vista sorridere. La sua felicità è tutto per noi”. Eva a quelle parole, abbassò il capo, assorta, poi, sollevando di nuovo il suo sguardo limpido e chiaro, l’aveva fissato in quello della signora Defaut, schiarendosi la voce, roca per l’emozione: “E’ proprio per la felicità di Annie che sono qui- spiegò, con voce ferma- Deve affrontare i suoi nemici, affrontare il dolore che questi le hanno provocato. Stare il più possibile in mezzo agli altri, senza precludersi nulla.

Per questo, voglio che partecipi alla festa di Claude Cassel, a costo di accompagnarcela io stessa. Del resto, per me non sarebbe che un piacere“aggiunse, dischiudendo le sue labbra carnose in un radioso sorriso. La madre di Sylvie non ebbe nulla da obbiettare. Era bastato fissare negli occhi la sua interlocutrice e ascoltare quelle poche e sincere parole per convincersi della loro bontà: “Ne parlerò con mio marito, questa sera stessa- precisò- ma sono convintissima che anche lui sarà d’accordo con noi. Posso offrirle qualcosa, Eva?”- domandò, con estrema gentilezza. “No, grazie. Sono qui di aggio, purtroppo, e ho i minuti contati. Mi attendono a scuola”. “Bene, allora non li faremo attendere- concluse la signora Defaut, alzandosi dalla sua comoda poltrona color avana- Avremo altre occasioni per incontrarci con calma, magari per un tè”. “Non mancherò!- si era sentita rispondere dalla donna, che prendendo cappotto, sciarpa e cappello e infilandoseli con fulminea velocità, si stava apprestando ad uscire. Poi, l’aveva come inghiottita la strada.

V Qualche giorno dopo l’incontro fra Eva e Sylvie, Annie si presentò con un regalo sulla soglia di casa Cassel e Claude, non senza un po’ di imbarazzo, la ringraziò, invitandola a entrare. “Sei dei nostri!”- le disse, introducendola nella sala giochi, addobbata con festoni variopinti. Annie sorrise, serena. Eva fu felice di vederla giocare, spensierata, con le sue compagne di classe, ballando e chiacchierando per tutta la durata della festa. “E’ stato il compleanno più bello cui io abbia mai partecipato!”- rivelò la bambina a Eva, stringendosi affettuosamente a lei, sulla strada del ritorno. “Ce ne saranno molte altre, Annie, vedrai!- le promise l’insegnante, guardandola con dolcezza, con i suoi occhi del colore del mare e abbracciandola forte. Le parole di quella giovane donna si sarebbero rivelate profetiche, nei giorni e negli anni a venire. Grazie a lei, anche Annie, ora poteva volare.

ALICE (Eri come un fiore, attraente e delicato, con la consapevolezza che non è sufficiente essere un fiore per sopravvivere alle difficoltà della vita).

Febbraio 1997

Carissimo Tom, la primavera sembra imminente, in questo scorcio di febbraio. Anche se il freddo, è, a tratti, pungente si avverte, comunque, già nell’aria. Se tu fossi qui, con tono di divertito rimprovero, mi diresti che questa è solo una delle mie innumerevoli trasfigurazioni della realtà: avvertire la buona stagione in un clima del genere! Sentirmi pianta, arcobaleno, uccello. Forse proprio questa è la mia qualità migliore: trovare in ogni cosa il lato positivo, come ho fatto con te. Ricordi? L’ho letto l’altro giorno nei tuoi occhi, quando dopo tanto tempo, il mio sguardo ha incrociato il tuo. L’emozione è stata forte come sempre: tu sei, sei stato e resterai travolgente per me. Nessuna mezza misura, niente di tiepido. Non credevo che sarei riuscita a scriverti questa lettera, una volta a casa. Invece, le parole si sono susseguite come un fiume in piena: è l’unico modo che ho per spiegarmi con te, pienamente, fino in fondo, senza riserve, imbarazzi, pudori. Se, nelle tue giornate, a volte svogliate, spesso confuse, troverai un po’ di tempo per leggere questa mia missiva, te ne sarò grata. Siamo molto diversi, è vero, ma su un punto ci troviamo d’accordo. Posso asserirlo senza tema di smentita: è una vera tortura per entrambi alzarsi presto, di mattina. Eppure, come per incanto, ogni giorno, il viavai di persone, auto, il traffico nelle strade, mi rapisce nel suo vortice, mentre la luce dardeggia palpebre ancora solo semi sollevate. Quel vortice si chiama vita. Probabilmente, a quest’ora sarai ancora a letto, dopo i bagordi della sera ata e di quella precedente e di quelle prima ancora. Da tempo ormai (troppo, per i miei gusti) non ho più notizie di te, della tua vita, di come trascorri le tue giornate e del tuo lavoro.

Eccetto qualche comunicazione frammentaria di amici, forieri di informazioni poco rassicuranti sul tuo conto. Ti ho visto anch’io, quindi, qualche giorno fa, dietro la vetrina di un negozio che frequenti spesso. Mi fissavi, come al solito, in silenzio. Ho abbassato lo sguardo, stringendo più forte il braccio del mio ragazzo. “Così è la vita!”- avresti commentato tu, se ci fosse stata concessa possibilità d’appello e questo pensiero avrebbe reso ancora più scettica e intensa l’espressione dei tuoi occhi buoni, capaci di leggermi nell’anima. A prescindere dall’evoluzione degli eventi e dall’inspiegabilità del nostro incontro, rimane qualcosa di più forte della ragione che mi spinge a scriverti in questa fredda mattina invernale. Per questo, se sei già sveglio, ti prego, ascoltami! Tu lo sai che, come molti, non amo dipendere dai mezzi pubblici: con i loro orari discutibili e le lunghe attese alle fermate, gli imprevisti e gli scioperi…ma non posso fare diversamente, in questo periodo. Detesto quando la ressa mi costringe a viaggiare a distanza ravvicinata dai miei compagni di trasbordo, pressata come una sardina in scatola. Nella migliore delle ipotesi, comunque, se il fato non ti ha concesso un autista privo di ambizioni da Rally di Montecarlo, puoi star certo che ti ritroverai a scivolare lungo il corridoio della vettura, mentre tenti disperatamente di aggrapparti a qualche sostegno che non sia umano. Senza, poi, parlare della solerzia dei controllori che si appostano una fermata sì e una no, veri e propri spauracchi per la sempre più nutrita schiera dei senza biglietto che, alla loro vista, cercano, non sempre con successo, di lanciarsi in fughe precipitose. A questo punto del discorso-conoscendo la tua natura irrequieta- ti starai domandando, un po’ innervosito, cosa c’entri questo discorso con te. Viaggiare a bordo di un autobus almeno un vantaggio ce l’ha: ti consente di distrarti a tuo piacimento. Un lusso questo che chi è al volante non può certo concedersi. Ed è stato proprio qualche mattina fa, nel corso di una delle mie divagazioni da eggera che includono, negozi, manifesti, anti, cani e gatti circolanti per strada, che mi sono imbattuta in una locandina listata di rosso davanti all’edicola. Ti avverto: prima di arrivare al nocciolo della questione, ne avrò ancora per parecchio. Quindi, mettiti comodo, magari nella stessa cucina, dove invitasti a sedere me e una mia amica, in una sera afosa d’agosto, parlando della tua vita senza metri né regole. Io ti amavo per quello che eri: follie incluse, debolezze incluse. Come accade quando si vuole veramente bene a qualcuno. Le tue stranezze non mi facevano paura. Tu, con me, eri troppo limpido, leale e aperto per farmene. Potevamo are ore intere a parlare, ridere e scherzare di tutto e di niente, incuranti del tempo, dei nostri impegni, del mondo che, ignaro di noi, ci girava intorno, con il suo linguaggio indecifrabile per due menti libere

e due cuori ribelli come i nostri. Adoravo la tua ironia, vestita di candore. Era uno dei motivi che ti rendevano prezioso ai miei occhi. Brandivi spesso l’indice, con l’aria fra il serio e il faceto, fingendoti arrabbiato, per sentenziare qualcosa che sapevi bene non avere né capo né coda, di cui ridere entrambi. Senso dell’umorismo, gusto per il paradosso o pura e infantile follia? Come al solito, che io parli con te o di te, mi ritrovo a divagare … Ma torniamo alla nostra locandina, a quella intravista durante uno dei miei recenti trasbordi. Parla di un bar: uno dei tanti di questa piccola città di provincia che tanto tranquilla poi non è. Poco tempo fa, in un esercizio nei pressi della stazione, c’è stata una sparatoria: hanno freddato un uomo. Un regolamento di conti. In realtà, la microcriminalità non conosce più quartiere: anche il centro storico è ormai invivibile, di giorno come di notte. Chiuso al traffico per molte ore, sempre più disertato e culla ormai di sbandati di ogni genere e tipo. “Sbandato” è il sostantivo che utilizzasti tu per autodefinirti in quella sera d’estate: ricordi? Avrai avuto le tue ragioni ma che senso poteva avere quella parola per me che ero all’oscuro di tutto? E perché ora avverto un brivido gelido, fastidioso lungo la schiena, i pensieri si perdono e non ho più voglia di scrivere?

Il giornale nel quale si raccontava del regolamento di conti nel bar non l’ho comprato e sappi che non lo leggerò mai: chissà che età aveva la vittima e se c’era un sogno, un tempo, in cui aveva cercato di credere… Se aveva una famiglia, se questa famiglia lo amava e se il bar nel quale l’hanno ritrovato senza vita era lo stesso che eri solito frequentare anche tu. Quelle verità crudeli che, non più tardi di sei mesi fa, mi sono piombate addosso come una valanga, travolgendomi, hanno rischiato di stroncarmi, di annientarmi, questa volta, definitivamente, per sempre. Ma tu questo non lo sai e non lo saprai mai. Ho gestito in silenzio il mio dolore per le tue scelte ma ne soffro, tuttora. Profondamente. Non si accetta, non si può accettare che un’anima, in particolar modo se appartiene a qualcuno che si ama, sia divisa fra bene e male, Luce e Buio, gioia e autodistruzione…

A che serve comprare un giornale, se le notizie in esso contenute ti torturano l’anima? Per me sei immortale: lo sei nel pensiero. Vorrei raccontarti una marea di piccoli fattori, elementi per altri forse trascurabili che mi legano inconfutabilmente a te: ho qui davanti una vecchia copia del settimanale che mi avevi consigliato, nel corso di uno dei nostri incontri. Parla dell’Ira, dei disordini nel Chapas, rievoca la caduta del muro di Berlino. Eri sempre informato su tutto, con la tua intelligenza sveglia, vivace, che ti implorai di mettere a frutto, in quel pomeriggio caldo di prima primavera, in cui ci rivedemmo, dopo mesi interi di silenzio, per parlare ancora. Aprile è un mese strano: infonde un piacevole languore nel corpo e nell’anima. Se ve ne fosse il tempo, sarebbe bello sdraiarsi al sole, come lucertole o gatti pigri, senza pensare a niente, semplicemente lasciandosi vivere. Liberi da ogni vincolo, così come piace a te, abbandonandosi al fluire degli eventi. “Tu programmi tutto ma ti accorgerai, col tempo, che la vita non è affatto nelle nostre mani. Non ce la costruiamo noi, capisci?”continuasti, guardandomi dritto negli occhi, con quella spietata franchezza che tanto amavo in te. Esiste veramente il destino, come asserisci tu? Oppure è solo un alibi per non assumersi la responsabilità della propria vita? Intanto, quel giornale non l’ho comprato e non lo comprerò.

Non tutti i luminosi giorni di primavera, per quanto si sia meteoropatici, possono

essere felici. Non lo fu sicuramente quello in cui mi ritrovai in lacrime fra le braccia di una mia amica, nel piazzale antistante il nostro ufficio. “Ho pensato che fosse giusto dirtelo. Non devi versare una lacrima per lui- aggiunse, riferendosi a te- Chi si comporta in questa maniera non merita nessuna comione!”. Le parole di Giada torturarono ricordi e il tiepido, gradevole sole primaverile fece a pugni con il buio profondo che invase, in maniera crudele e improvvisa, la mia anima. Vorrei riavvolgere il nastro degli eventi e, se solo fosse possibile, cancellarla quella maledetta giornata nella quale la verità sollevò le mie palpebre chiuse, come saracinesche abbassate caparbiamente e ingenuamente dal bene che ti volevo. Fu atroce ricollegare frammenti sparsi indicatori di un’unica, desolante verità: i tuoi amici, il disordine in cui vivevi i tuoi “non so cosa voglio, sono uno sbandato. Non voglio che paghi tu per i miei errori!”. Il netto contrasto con la tua ostentata sicurezza, con il tuo aspetto sano, con la tua aria da gigante buono. Da allora la primavera mi avvolge di una malinconia inspiegabile e mi appare crudele con le sue promesse di semplici gioie serene: crudele come quella domenica mattina di sole nella quale ti incontrai per poterti parlare. La rammento in ogni istante, nei minimi particolari, come ricordo che ne uscii sconfitta, con un senso di scoramento profondo. Lo capì subito il mio amico migliore, dal tono della mia voce, per telefono. Non accettasti il biglietto per Londra che avrei voluto regalarti per il tuo compleanno, per invogliarti a raggiungere tuo fratello che viveva lì, togliendoti dall’ambiente marcio nel quale stavi sprofondando, ogni giorno di più. “Le cattive compagnie si possono trovare ovunque-ribattesti, mentre il tuo sguardo si accendeva di tenerezza- Non preoccuparti per me! Tu, come ogni donna, sei un po’ mamma. Sembriamo così diversi ma il nostro cuore è lo stesso”. Anche quel giorno, inaspettatamente, trovammo il modo di giocare con le parole, con la gioia infantile, con la quale amavamo stravolgere i momenti insieme. Le ragioni della mia preoccupazione le ascoltasti, comunque, attento, senza battere ciglio, con una serietà che mi colpì per la sua greve intensità.

Il tuo sguardo a un certo punto si ammantò di profonda tristezza:”Apparteniamo a mondi diversi. Non è lontano il giorno in cui mi eviterai, incrociandomi per strada. Diventerai come gli altri”- questa fu la tua ultima, debole difesa. Incolparmi di un culto delle apparenze che non mi appartiene, di un perbenismo che non conosco, di un’ipocrisia che detesto. Sono ati quasi due anni da allora. Avevi ragione tu: ora, se ti incontro per strada, evito di salutarti ma non per perbenismo e non è vero che non siamo più amici. Io ti sono legata più di quanto tu pensi. Nel mio cuore, occupi un posto tutto speciale, riservato solo a te, a te solo. E’ che non riesco ad accettare che tu ti faccia del male: un impulso che non capisco, crudele e ingiusto contro un’anima bella, la tua, che non lo merita affatto. Forse solo un evento tragico, la scomparsa di qualche persona cara, che si fa ingiustamente del male come capita a te, ti farà desistere, un giorno. Ma non potrà essere che una tua scelta: sei stato spietatamente chiaro riguardo a questo punto. Ho ato notti intere, non vista, a piangerne ma nessuno lo sa: me ne sono fatta una malattia. Ho ritenuto profondamente ingiusto e crudele che tu flirtassi così spudoratamente con la morte per il falso, illusorio, benessere di qualche istante, rubato a una realtà che non riesci ad affrontare. Poi, con tutte le mie forze, mi sono imposta di cancellarti ed è stato come strappare, a viva forza, un pezzo di me. Privarmi di te, sapendoti in pericolo è stata una violenza indescrivibile che mi hai costretta a subire, rifiutando il mio aiuto, per proteggermi. Ma io, da allora, per mesi e mesi, non sono stata più la stessa: mi sono limitata a sopravvivere, come un automa. “In questo dare/avere che non torna mai non tornano le porte sbattute in faccia per dividerci e ci volevamo bene”.

Solo un paio di mesi fa, inaspettatamente, una mattina, aperti gli occhi sul mondo, mi sono di nuovo sentita viva. Ho dato il tuo nome a un piccolo abete. Sul davanzale della finestra di casa cresce rigoglioso. So che potrà sembrare un’assurdità ma, quando lo accarezzo, distende i suoi rametti, come se avvertisse il mio affetto e ricambiasse, a suo modo. Mi è di conforto che cresca bene. Lo stesso spero per te e per la tua vita.

Alice

ANGELITA (I sentimenti non conoscono né tempo né età. Loro sanno guardare lontano, molto più lontano di noi).

Angelita, i capelli raccolti in una crocchia, l’abito blu disegnato a piccoli boccioli bianchi, nel pigro pomeriggio di una domenica autunnale, riordinava il suo cucinino, asettico e funzionale, forse l’unico pezzo moderno in un appartamento che aveva deciso di arredare come una sorta di casa delle bambole, romanticamente retrò. Persino le tendine delle finestre, a scacchi bianchi e rossi, con la parte terminale in pizzo bianco merlettato, davano l’impressione di un’atmosfera appartenente ad altri tempi. Nonostante i suoi 62 anni, Angelita era ancora una bella donna: il fisico asciutto, i lineamenti fini, l’incarnato chiaro, nel quale spiccavano due gemme di occhi, lucenti come stelle. Nel circondario la chiamavano “la signora” per il suo portamento elegante e i suoi modi gentili. Di lei si sapeva ben poco, in realtà: si era trasferita in quella città, da qualche anno, da sola. Aveva un unico figlio, residente all’estero, in Inghilterra; amava la musica classica e ava lunghe giornate in casa, quella casa che aveva arredato con ogni cura. Suo marito era morto una decina di anni prima e lei, pur avendo avuto dei corteggiatori, fra i quali qualcuno anche valido, aveva deciso che non si sarebbe più legata sentimentalmente a nessuno. Il perché era sconosciuto ai più. Forse era ancora innamorata del marito scomparso, un ufficiale di marina, forse pensava che vi fosse un tempo per tutte le cose e che il suo fosse semplicemente ato, forse nessuno dei suoi corteggiatori l’aveva particolarmente colpita. Forse, forse. Quel pomeriggio, dopo le faccende domestiche, decise di rilassarsi un po’, ascoltando brani di musica classica ma poi sullo “Svanì per sempre il sogno mio d'amore. . . l'ora è fuggita, ” cantato da Pavarotti, una lacrima inaspettatamente le rigò il viso. “Jean Paul…- si era sorpresa a mormorare come fra sé e sé- Si vede che mi sto rimbambendo! Ricordi di una vita fa… Stupida sentimentale che non sono altro! Fossi una ragazzina …”- aveva rincarato la dose, indispettita.

Qualche mese prima, in Francia

L’atmosfera in casa Manet, quel pomeriggio di mezza estate, non era delle migliori. Vivien si aggirava come un leone in gabbia, lanciando occhiate di fuoco al fratello che, a suo avviso, appoggiando la decisione del padre, dava prova di non avere un briciolo di senno. “Come ti viene in mente di andarti a sconfinare laggiù? Che razza di posto è? Esiste sulla cartina geografica?-aveva tuonato la giovane donna all’indirizzo di suo padre- Ci farai morire d’apprensione!”. Alain, il fratello, aveva sorriso, divertito:”Sempre più sagace, davvero, sorellina, eh? Il fatto che tu non lo conosca quel posto non significa che non esista, però. Se papà vuole arrivare fin laggiù e comprarsi una casa, avrà i suoi buoni motivi. L’importante è che stia bene e che ci ospiti, di tanto in tanto. Sembra che quelli siano posti favolosi, pieni di verde e di natura, magari anche fonte di ispirazione!”. “Sei il solito romantico sognatore, Alain!”- lo aveva apostrofato la sorella, stizzita, recandosi in cucina a recuperare il vassoio per collocarvi i bicchieri nei quali avrebbe versato il tè freddo alla pesca, ottimo corollario per una chiacchierata familiare che, come al solito, non avrebbe di certo condotto a nulla. Quando suo padre si metteva in testa qualcosa cercare di dissuaderlo era un’impresa inutile. Così, di lì a poco, Messier Manet, incurante del parere di sua figlia, tramite contatti presi, via internet, a distanza, aveva selezionato alcune case da visitare: quella attuale era stata un vero e proprio colpo di fulmine. Luminosa, spaziosa, ben arredata. Aveva deciso di non cambiare nessun arredo, facendo solo sostituire le tende con altre di un colore più caldo. Quel pomeriggio, dopo il trasloco, scelse di rilassarsi un po’, sprofondando letteralmente nella sua poltrona, in salotto. Un bel sorriso si impresse sul suo volto: ce l’aveva fatta. Il primo o di quel piano che aveva elaborato da tempo, congegnandolo nei minimi particolari, era compiuto. “Sono un vecchio pazzo- disse fra sé e séPazzo ma felice”. Poi, mentre affondava la testa nello schienale color cremisi, i ricordi avevano iniziato a riaffiorare, in una girandola multicolore di emozioni. “Che Sophie mi perdoni!- pensò con un velo di malinconia- Le sono sempre stato fedele … ma lei, lei non l’ho dimenticata!”.

7 ottobre 1975 Le finestre dello studio erano aperte. Faceva un caldo quasi irreale, quel sabato mattina d’ottobre. Il suo maestro di piano lo stava fissando da sotto gli occhiali, con aria apprensiva e interrogativa. “Parti! E’ l’unica strada da intraprendere per permettere alla tua carriera di prosperare. E’ un’occasione che non capita a tutti, che difficilmente si ripeterà”. Lui si lasciò sfuggire un sospiro, profondo, penoso:“E lei?”. Il maestro inarcò un sopracciglio, a quell’osservazione, spazientendosi visibilmente. ”Lei, se ti ama, ti aspetterà”-ribatté, gelido. “Non si tratta di giorni, bensì di anni!-osservò il giovane, di rimando- Pensi che la sua famiglia le permetterà di rimanere legata al mio ricordo? Qui si parla di trasferirsi dall’altra parte del mondo”. “Decidi e fallo in fretta!-gli consigliò l’altro- Sei sicuro che rifiutando questa occasione, un giorno, non te ne pentirai, addossandole la colpa di questa tua rinuncia?”. Jean Paul abbassò lo sguardo: non sapeva cosa rispondere. Avvertiva solo un dolore molto forte, al petto. Come avrebbe potuto comunicare una decisione del genere alla sua fidanzata? Ma la musica? La sua carriera? La possibilità di suonare per le migliori orchestre, nei teatri più rinomati, davanti a un pubblico d’eccezione? Ambizioso lo era stato da sempre e lei l’aveva amato, sin dal primo momento, questo aspetto del suo carattere ma, ora, per ironia della sorte, sarebbe stato proprio quell’ ambizione a separarli.

Decoupage: Angelita aveva seguito un corso ad hoc e da quanto appresovi aveva attinto per ricoprire il baule che teneva nella sua camera da letto. Un baule pieno zeppo di ricordi. Qualche pupazzo di suo figlio, molti album di famiglia e, infine, quella busta contenente delle foto sparse. Si inginocchiò a terra per frugare meglio all’interno del mobile con l’intento di recuperarle tutte: le stese sulla moquette della stanza, traendo un profondo respiro. Poi ne individuò una: vi indossava un abitino stile “figlia dei fiori”, dalle fantasie multicolori, come dettava la moda dell’epoca e aveva un’espressione malinconica.

Quella foto se l’era fatta scattare qualche mese dopo il loro ultimo incontro, del quale ricordava ogni singolo particolare: era seduta al tavolo di un bar. Di fronte a lei un ragazzo moro, sorrideva con scarsa convinzione, sforzandosi di trovare le parole più adatte, profondamente convinto del fatto che non ci sarebbe mai riuscito. Ottobre 1975 Angelita era in piedi, al freddo, davanti a un locale dall’insegna consumata dalle intemperie e dal tempo: un caffè senza tante pretese, sito nel centro storico della città. Nel giro di qualche giorno, la temperatura si era bruscamente abbassata e, nonostante il suo caldo cappotto, lei continuava a tremare. Del suo ragazzo nemmeno l’ombra: dieci minuti di ritardo… e pensare che era solito spaccare il secondo! Al telefono, la sua voce, stranamente incerta, tremante, l’aveva gettata in uno stato di disorientamento e di sconforto. Quando aveva riattaccato il ricevitore, non aveva potuto fare a meno di domandarsi di che cosa volesse parlarle con tanta urgenza. Ora era lì, in attesa di qualcosa che le suonava già come una condanna. A un certo punto, lo vide finalmente arrivare: il fisico esile, la camminata dinoccolata, quelle dita affusolate da artista che tante volte le avevano scompigliato affettuosamente i capelli, le sue labbra carnose a forma di cuore, il naso aquilino e una fossetta irriverente sul mento. Angelita si sorprese a elencarli tutti quei particolari, come se avesse voluto imprimerli a viva forza nella memoria. Non lo sapeva ancora ma, con intuito tipicamente femminile, avvertiva già che quella forse sarebbe stata l’ultima volta che lo avrebbe visto…. Non appena l’ebbe raggiunta, il ragazzo le sfiorò una guancia con un rapido bacio, la prese sottobraccio e si infilò frettolosamente nel locale. Con tono monocorde e sguardo sfuggente, le domandò dove desiderasse sedersi di preciso. Angelita, con un gesto rapido, indicò uno dei tavoli.

“Allora?- chiese, d’un tratto, in tono secco, con malcelato fastidio, spazientita da quel silenzio innaturale - Di cosa vuoi parlarmi?”. Gli occhi del ragazzo vagarono per la stanza alla ricerca di un appiglio: il suo sguardo, al termine di quel girovagare, si posò sulla tappezzeria arabescata. “Devo partire- disse lui, senza guardarla in faccia-Trasferirmi”. “Partire?-ripeté la ragazza quasi meccanicamente- Trasferirti?”- gli fece eco e la voce le morì in gola. “Sì”rispose, laconicamente. Questa volta i suoi occhi incrociarono quelli di Angelita. Provò una fitta al cuore: erano lucidi. “Dove?”- lo incalzò la ragazza, mentre il suo tono di voce assumeva una sfumatura di studiata, auto-imposta, ostentata freddezza. “In America”-rispose, imbarazzato, schiarendosi la gola. Angelita lasciò cadere i guanti che aveva appoggiato sul piano del tavolo. Sentì il cuore batterle come impazzito in gola. Le sue guance erano color fuoco quando tornò a sollevare il capo, dopo essersi chinata per raccoglierli. “Mi trasferisco per motivi di lavoro. Gli Usa offrono maggiori opportunità per la mia carriera da concertista e la mia famiglia ha dei contatti oltreoceano. Ho ricevuto un’offerta che non posso rifiutare…”. Mentre Jean Paul continuava il suo monologo, Angelita sembrava osservare quella scena come da dietro un vetro: di colpo, la voce del suo interlocutore, gli astanti, il locale presero a girarle intorno come risucchiati da un vortice che trascinò con sé anche lei. Poco dopo era seduta sul lettino del pronto-soccorso cittadino. “Ha avuto altri episodi di questo tipo?”- indagò il medico, un cinquantenne calvo, dagli occhietti vispi e il viso paffuto. “No”- rispose la ragazza, con un filo di voce, guardandosi nervosamente intorno, incredula dell’accaduto.

“Mi sembra che sia tutto a posto. Un po’ di astenia, pressione bassa- concluse il dottore, al temine della visita- Per sicurezza, le prescrivo qualche esame”aggiunse, infine, scarabocchiando qualcosa sul foglio, in una grafia incomprensibile. Il parco cittadino era semi deserto. Il tempo di quella giornata tardo-autunnale non incoraggiava certo a trattenervisi. Angelita, aveva sempre avuto un o marziale, in contrasto con la sua riservatezza di base. Gli stivali che quel giorno indossava sotto il ginocchio, nei quali aveva infilato un paio di calzoni da cavallerizza, calpestarono con decisione la ghiaia, ricoperta di foglie gialle e

color porpora. L’autunno per lei aveva da sempre rappresentato il tempo della riflessione e un po’ anche della malinconia. Ne amava le atmosfere rarefatte, i primi freddi, le giornate che si accorciavano di colpo, rendendola più incline del solito all’introspezione e dall’introspezione ai ricordi, il o è breve, si sa.

15 novembre 1975 Sarebbe stato un autunno come tanti altri se non fosse che…era accoccolata sulla poltrona davanti al camino e in mano aveva una lettera di Jean Paul. La girava e rigirava fra le mani, trattenendo il respiro e osservandone la grafia nitida e angolosa, con qualche svolazzo qua e là, impressa sulla carta dorata. Aveva tardato un po’ ad aprirla. Poi, tutto d’un tratto, si era fatta coraggio. Al di là del “cara” iniziale, la missiva parlava di lavoro, lavoro e ancora lavoro. Ingaggi, contratti potenziali o sottoscritti, prospettive di una carriera brillante. Nemmeno una parola dedicata a un loro eventuale incontro, nemmeno un accenno ai loro progetti. Si chiese se l’avesse solo sognati quelli, nel corso delle loro lunghe chiacchierate abbracciati, quando il tempo sembrava fermarsi e il mondo appariva carico di promesse pronte a convertirsi in realtà. Possibile che lui le avesse sempre mentito? Che fosse un attore così consumato? Eppure non le

erano mai sembrati falsi i suoi slanci, le sue attenzioni, le tenerezze. Si prese la testa fra le mani, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Sentì il salato delle lacrime raggiungere le sue labbra sottili. Tutto d’un tratto, avvertì improvvisamente un brivido e si fece freddo nel suo cuore. A quella lettera non rispose mai e non ce ne furono altre da parte di Jean-Paul, come se, poco dopo il suo arrivo in terra straniera, avesse scelto la via più agevole: cancellarla dalla sua vita. Poi, una sera, a sorpresa, arrivò una sua chiamata: la madre di Angelita bussò alla porta della sua stanza e, con voce sommessa, si limitò a dirle: “Ti cercano”. Angelita lasciò i suoi schizzi (amava fare piccoli ritratti fantasiosi), si alzò di scatto, con il cuore che le batteva all’impazzata nel petto, come scossa da un presentimento. Si diresse, con la meccanicità di un automa, verso l’ingresso, afferrando la cornetta che la madre aveva deposto sul tavolino dove era collocato un imponente telefono color perla. ”Angelita…-si sentì chiamare da una voce vagamente imbarazzata- Non l’hai ricevuta la mia lettera?”. Ci sono momenti nei quali si vorrebbe essere altrove, non rispondere, non sentire, non capire, non dover scegliere, guardando in faccia la realtà. Momenti nei quali si vorrebbe ancora credere nelle favole, nel lieto fine, a dispetto di tutto e di tutti. Ma la vita a volte è crudele nei confronti dei sentimenti o forse siamo noi stessi a esserlo, con le nostre ambizioni, le nostre pretese, i nostri piccoli o grandi egoismi. L’amore come dal nulla nasce, per un nonnulla può morire. Angelita quella sera capì che niente sarebbe tornato più come prima. Non per lei. Nel parco cittadino, la vasca dei pesci era vuota. Una lastra di ghiaccio aveva preso il posto della superficie dell’acqua. Angelita si sedette sulla panchina di fronte, sollevando il bavero del suo cappotto color cammello, scossa da un brivido di freddo. Tutto intorno gli alberi erano spogli e circondati da un multicolore tappeto di foglie.

La donna trasse un block-notes dalla tasca del soprabito, insieme a una matita, poi iniziò a tracciare degli schizzi fantasiosi sulla carta: ne risultò l’immagine di un paesaggio innevato, avvolto da un’atmosfera fiabesca, quasi surreale. In fondo, disegnò la sua casa, su di una nuvola color cartazzucchero, sospesa nel vuoto e sorretta da una mano che, a disegno ultimato, le parve incredibilmente familiare. Quelle dita affusolate, sottili, da artista… Gli occhi le si velarono improvvisamente di lacrime. Qualche centinaia di metri più in là, in un esercizio commerciale, un affascinante e maturo signore stava acquistando una coroncina di boccioli di rosa multicolori o almeno avrebbe voluto farlo. Il giovane commesso riccioluto lo guardava come si osserverebbe un marziano appena arrivato sulla terra a bordo della sua navicella spaziale. “Non disponiamo di coroncine di boccioli già confezionate. Di che grandezza la vorrebbe e i fiori di quale colore li preferisce?”- domandò piuttosto spazientito da quella richiesta che giudicava decisamente eccentrica. L’uomo non rispose e, dopo aver gettato un’occhiata alla vasta scelta floreale, selezionò quelli che sarebbero andati a comporre la sua coroncina, ad uno ad uno, con un’attenzione e una delicatezza che il commesso non aveva mai riscontrato prima d’allora in nessun cliente. Pensò, fra sé e sé, che doveva tenerci molto alla destinataria di quel pensiero e si sorprese a fare fantasiose congetture al riguardo. Chissà a chi quel signore aveva intenzione di regalare quella composizione? A una figlia, a una nipote, a sua moglie o, magari, a un amore proibito? A quell’ultima supposizione assunse un’espressione malandrina che fece seguire da un commento allusorio: “Fortunata la destinataria di questo omaggio floreale! Deve tenerci molto…”. Il brizzolato signore si schiarì la voce, mentre le sue guance si coprivano di un candido rossore. Poi, senza staccare gli occhi dal pacchetto contenente il suo acquisto, afferrò lo scontrino che il giovane commesso gli porse e scivolò, inosservato, nelle strade semi deserte: quel pensiero floreale valeva più di mille parole.

Aprile 1974 “Dimmi se mi ami e, se mi ami, dimmelo col cuore”. Quella mattina, Jean Paul fischiettava questo motivetto, sciocco e melenso, a ripetizione, mentre era intento a farsi la barba, davanti allo specchio, a casa dei suoi genitori. Si sentiva

insolitamente euforico, carico di un’energia inesauribile. Ultimato il rito della rasatura, si recò in cucina fischiettando. Il padre, seduto a tavola, lo osservò con aria divertita, senza proferire parola. La madre, un’avvenente signora dai capelli color mogano, invece, mentre toglieva i croissant dal forno non seppe trattenersi: “Siamo di splendido umore, oggi, Jean Paul!”. “Sì, mamma e…dimenticavoaggiunse il ragazzo, sedendosi- Non mi aspettate per pranzo!”. “Non dobbiamo aspettarti?”- gli domandò, sorpresa, la madre. In tanti anni, non era mai capitato che il ragazzo pranzasse fuori. “No. Ho un impegno”-rispose sibillinamente lui. L’umore al top e il sottile odore di colonia che suo figlio emanava non lasciavano spazio ad alcun dubbio: si trattava sicuramente di un incontro galante. La donna sorrise, lanciando uno sguardo d’intesa al marito che, sporgendosi da dietro il giornale, ricambiò, sornione. “Salutaci la tua amica o forse sarebbe meglio dire la tua fidanzata?”- insinuò, una decina di minuti dopo, salutando Jean Paul che si avviava verso l’uscita. “Mamma…”- ribatté il ragazzo, indispettito e d’un balzo fu sulle scale. Quella mattina, al conservatorio, il tempo sembrò volare e, giunto al termine delle lezioni, Jean Paul rifiutò l’invito del suo compagno Mathieu a trattenersi un po’ al bar a chiacchierare, liquidandolo con un misterioso: “Vado di fretta!”. Salì sulla sua bicicletta, pedalando energicamente verso il fiorista, sito a due isolati di distanza, per poi dirigersi, di gran carriera, al luogo convenuto. Lo sguardo gli si illuminò quando la vide muoversi fra la folla di quel mercatino rionale. Pensò che era una creatura straordinariamente bella, con quella massa voluminosa di capelli color bronzo e il viso fatto di lineamenti perfetti, da madonna. Parcheggiò la bicicletta, dopo averla assicurata con il lucchetto.

Angelita lo intravide mentre si faceva largo fra la gente per raggiungerla. Dì lì a poco, si abbracciarono calorosamente, mentre Jean Paul continuava a tenere fra le mani un misterioso pacchetto che non sfuggi all’attenzione della ragazza. “E’ per te”- esordì, mostrandoglielo senza aprirlo- Non qui, però”- aggiunse, serio, prendendola per mano per condurla ai margini della piazza, dopo averla nuovamente stretta in un affettuoso abbraccio. Poco dopo, lontano da occhiate curiose, Jean Paul le porse il pacchetto, osservando l’espressione indagatrice di Angelita che prima di aprirlo lo guardò in controluce, sperando, invano, di indovinarne il contenuto… Poco dopo, una coroncina di boccioli multicolori adornava il capo della ragazza: una sorta di diadema floreale. “Sei l’immagine stessa della bellezza e la mia regina!”- esclamò Jean Paul, guardandola ammirato, mentre un sorriso radioso si dipingeva sul volto di Angelita. “Sei l’immagine stessa della bellezza e la mia regina!”- queste parole, riaffiorarono, con forza, inaspettatamente, nella mente di Angelita, intenta a conferire gli ultimi ritocchi al suo disegno, seduta sulla panchina di fronte alla vasca dei pesci, nel parco cittadino. La matita le cadde di mano e si sentì scuotere da un brivido. Di nuovo il ato… questa volta, una scena che, inaspettatamente, era tornata a farle visita spesso negli anni. Pensò che non poteva permetterseli quegli assurdi sentimentalismi e fu, tutto d’un tratto, furente con se stessa. Doveva smetterla con i flash-back! Il ato era per l'appunto ato e, come tale, morto e sepolto. Dopo aver raccolto la matita da terra, si alzò frettolosamente in piedi e imboccò la strada di casa, nella speranza che i ricordi le dessero un po’ di tregua. Mentre camminava avvolta nel suo paltò, riparandosi il viso dietro la calda sciarpa di cachemire del colore del cappotto, cercò di rimettere insieme i pezzi spaiati della sua vita. In fondo, era stata un’esistenza serena la sua: se non felice, sicuramente serena…

Novembre 1976

La pista di pattinaggio era quasi sgombra, in quella domenica novembrina. La gente si attardava fra le coperte, in cerca di riposo e di un rimedio al freddo ormai invernale. Valeria e Angelita, noncuranti della temperatura, schettinavano allegramente, prendendosi reciprocamente in giro. “Che evoluzioni da ginnasta! Sembri una libellula!”-urlò, a un certo punto Valeria all’indirizzo dell’amica che, in effetti, sul ghiaccio se la cavava egregiamente. Angelita avrebbe voluto ribattere con una battuta salace ma venne bloccata dall’arrivo di un ragazzo biondo, visibilmente infreddolito che, dopo aver sfoderato un sorriso disarmante, gridò: “Siamo solo noi tre qui a quest’ora! E non penso che nessuno ci raggiungerà per un po’”. Angelita si sorprese a domandarsi se l’osservazione del nuovo arrivato assomigliasse più a una minaccia o a una semplice constatazione e optò, quasi subito, per la seconda eventualità. Il ragazzo sembrava simpatico e tutto ciò che le interessava era che non risultasse d’ostacolo sulla pista. “Non male il nordico!- sentenziò, sorniona, Valeria, mentre il tipo, a bordo pista, si stava infilando i pattini, lottando, a tratti, contro un ciuffo ribelle di capelli biondissimi che non ne voleva sapere di non ricadergli sugli occhi- “Visto che quello sciocco di Jean Paul ti ha preferito la Statua della Libertà, un pensierino su ce lo farei!”-aggiunse, con un guizzo birichino negli occhi. Angelita sospirò, seccata, e sembrò rabbuiarsi. Di colpo, si spinse lontana dall’amica, scivolando silenziosa lungo la superficie ghiacciata. Il nuovo arrivato le si affiancò, sorridendo. “Oggi è più freddo del solito- commentò, disegnando con il fiato una sorta di fumetto che rimase sospeso nell’aria- Il mio nome è Mattia e il tuo?”. “Angelita- rispose timidamente la ragazza, porgendogli la mano guantata- E quella è la mia amica Alice- soggiunse, lanciandole subito un’occhiata in tralice, in risposta al sorriso furbo che la sua compagna stava sfoggiando, in maniera del tutto innocente e innocentemente visibile. “Ci facciamo ancora qualche giro e poi ripariamo nella cioccolateria all’angolo, tutti tre insieme? Che ne dici?”.

“Che hai una verace e spiccata propensione all’abbordaggio-avrebbe voluto rispondergli ma si trattenne- Sentiamo cosa ne pensa Alice!”- ribatté, pattinando in direzione di quest’ultima. “Umh, siamo già agli inviti- commentò l’amica, non appena Angelita le ebbe riferito l’accaduto-Non perde tempo il ragazzo!”osservò, sghignazzando senza ritegno. Angelita la fulminò con lo sguardo: “Prova, almeno, a trattenerti! Si sta avvicinando. Potrebbe sentirti”. “Poco male!”-ribatté Valeria, divertita. La ragazza scosse il capo, rassegnata. Un quarto d’ora dopo, erano seduti tutti e tre a un tavolino della vicina cioccolateria, per sorbire una bevanda calda, ciarlando allegramente come se si fossero conosciuti da sempre, mentre Valeria, dentro di sé, si domandava, compiaciuta, quanto tempo ci avrebbe impiegato Mattia a invitare la sua amica ad un romantico tetea-tete. A giudicare dal suo interesse, ben poco… Di ritorno dalla eggiata al parco, Angelita si domandava che razza di significato potesse avere lo schizzo che aveva partorito, quel giorno, davanti alla vasca dei pesci: quella mano così familiare a sorreggere la sua casa… Le stava dando forse di volta il cervello? Senza contare le lacrime versate, ascoltando il brano di Puccini e infine quel flash-back che l’aveva riportata indietro di più di trent’anni, a quando era una ragazza molto innamorata e forse -si disse- anche un po’ “stupida” come lo sono tutti gli innamorati. Giunta all’imbocco del viottolo che conduceva alla sua abitazione, notò immediatamente, forte del suo spirito d’osservazione, che la cassetta delle lettere, collocata all’interno del cancello, era semiaperta e sembrava contenere qualcosa. Incuriosita e come animata da uno strano presentimento, affrettò il o per vedere di cosa si trattasse. Una volta entrata in casa, accese con un gesto automatico il riscaldamento, appese cappotto e sciarpa all’attaccapanni, collocato nell’ingresso, e si diresse frettolosamente verso il salotto. Azionò il lettore cd e, mentre, in sottofondo, risuonavano le prime note di “Lucevan le stelle”, enorme fu la sua sorpresa quando, scartato il pacchetto, si ritrovò fra le mani una coroncina fatta di boccioli di rose multicolori, accompagnata da pochissime parole che ebbero il potere di lasciarla senza fiato: “Con lo stesso identico amore di allora. Jean Paul”.

Postfazione Il cuore ci precede sempre, precede le nostre azioni. Noi possiamo solo limitarci a seguirne le orme. Ora che le vicende di Caterina, Sara, Eva, Alice, Angelita si sono concluse, mi piace immaginarle sedute allo stesso tavolo, in una giornata primaverile, mentre si raccontano le loro vite; ciascuna ricca del proprio bagaglio di sogni, esperienze, speranze, desideri, ciascuna ansiosa di proseguire il proprio personale cammino, seguendo le orme leggere del cuore.

INDICE

Prefazione CATERINA SARA EVA ALICE ANGELITA Postfazione