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DAGGER

La Luce alla Fine del Mondo

di Walt Popester

PUBBLICATO DA: Walt Popester [email protected]

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‘Dagger – La Luce alla Fine del Mondo’ Copyright © 2013 di Walt Popester

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Questo è un lavoro di finzione. Nomi, personaggi e luoghi sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o usati in maniera fittizia.

Illustrazioni interne e immagine di copertina opera di Silvio “Simbio” Costa. facebook.com/SilvioCostaSimbio

Ai miei genitori. Per l’inesauribile pazienza e tolleranza, da Nassau a Trieste.

Sommario

1. Dagger

2. Dissacrata trinità

3. Il vecchio

4. Non dire mai addio

5. Redenzione

6. Ombre di una notte senza luna

7. Arcipelago

8. Paura del buio

9. Il pericolo amico

10. Divino

Nota da parte dell’autore e noiosi ringraziamenti.

L’autore promette che in questo romanzo non troverete il nano simpatico, l’elfo elegante, il paladino, i maghi, i maghetti e i vampiri che brillano, né l’ennesima terra delle cinque terre terrorizzata dalle guerre intestine. Il seguente romanzo contiene volgarità, inevitabili elementi di satanismo e scene di violenza grafica. La discrezione del lettore è avvisata. È consigliato a un pubblico adulto, ma per il suo contenuto non dovrebbe essere letto da nessuno. In ogni modo è solo un libro. La vita vera è là fuori. Enjoy.

1. Dagger

Dagger si portò una mano alla cintola per accertarsi, ancora una volta, della presenza di quell’unico oggetto dal quale non si sarebbe mai separato: il suo coltello a serramanico. Acquattato in un vicolo buio, immerso sino alle caviglie nude nel canale di scolo che correva parallelo al muro, si sporse a guardare la strada. L’insegna sgangherata dello Zingaro dondolava avanti e indietro nella pioggia battente, prendendosi gioco di lui col suo freddo risolino arrugginito. La luce all’interno della taverna era ancora accesa, eppure nessuno attraversava quella maledetta porta da almeno un’ora. Per Ktisis! imprecò tra sé e sé, appiattendosi ancora una volta contro la parete. Per Ktisis cane!

Sentiva le dita dei piedi pizzicare come se punte da mille aghi. Il principio di un congelamento, pensò. Aveva visto molti Ragni perdere le dita in quel modo e venire degradati da ladri a semplici accattoni, costretti a trascinare i loro patetici moncherini in giro per commuovere la gente ed elemosinare qualche spicciolo. Lui non voleva finire così. Tirò fuori dall’acqua gelida un piede, poi l’altro. Cercò di muovere le dita, ma ormai non le sentiva più. Doveva sbrigarsi a portare a termine il lavoro o tornare alla gilda con le mani vuote. E con tutte le conseguenze del caso. Si sporse di nuovo a guardare, tenendo sotto controllo ogni singolo movimento delle ombre che lo circondavano. Si voltò a destra e il suo cuore mancò un battito; una figura oscura avanzava verso di lui, lenta nella pioggia. Dagger strinse le dita intorno all’impugnatura del coltello, poi capì che si trattava di una guardia cittadina e la voglia di usare la lama gli ò di colpo. C’erano dei patti da rispettare e i patti erano importanti, diceva sempre il vecchio Mamma. Su quello c’era da dargli ragione. La guardia si fermò poco distante, senza alcuna intenzione di intrufolarsi nei vicoli insicuri come quello dove stava nascosto lui. Sembrava solo voler portare a termine la sua ronda e tornare a un qualsiasi posto che avesse un tetto, o perlomeno un pavimento. “Guarda i miei stivali!” si lamentò, con poco più che la voce di un ragazzo. Alzò

il volto al cielo. “Ktisis, falla finita con questa pioggia!” Il cielo gli rispose con l’ennesimo scroscio d’acqua. Scoraggiato, il ragazzo che era stato vestito dalla società come un adulto cacciò fuori un sacchetto di cuoio dalla tasca, e si versò un po’ di polvere magica sul dorso della mano. Tirò una lunga sniffata e rimase lì, immobile, a guardare il nulla per un tempo interminabile. Per un momento sembrò osservare proprio il vicolo dove stava nascosto, ma i suoi occhi erano fissi, spenti, e non cercavano niente e nessuno. Presto si riempirono di lacrime. Dagger provò una profonda vergogna ad aver spiato l’intimo dolore di quel ragazzo. Si sentì un ladro, più di quando derubava i clienti fuori da una taverna per sopravvivere. Già, pensò. Ktisis deve essere davvero troppo occupato per noi, stanotte.

La giovane guardia riprese il proprio solitario cammino nel buio e lui osservò la sua sagoma ombrosa allontanarsi e infine sparire, rivelando una statua di legno posta in fondo alla strada, rinchiusa in un’edicola sacra e circondata da lumi rossi: Ktisis, il dio sciacallo della violenza e del peccato, creatore del mondo e delle creature condannate a calpestarlo. Ktisis non avrebbe ascoltato alcuna supplica che non fosse accompagnata da un bagno di sangue degno del suo nome. A pensarci bene, ora che si stava avvicinando la sua festività annuale, la sacra mattanza dell’origine dell’universo, le guardie del Prefetto Mawson non aspettavano altro che poter catturare un ladruncolo come lui per rivenderlo agli organizzatori dei sacrifici tenuti per l’occasione. Quel genere tutto particolare di organizzatori di eventi pagava bene, non essendo mai il clero cittadino a corto di denaro.

Dagger aveva assistito solo una volta alla sacra mattanza, quando uno dei suoi compagni era stato catturato e condannato a espiare le proprie colpe attraverso il dolore. Il vecchio Mamma aveva detto che avrebbe fatto bene a tutti andare a guardare cosa succedeva a chi era così stupido da farsi beccare e, in effetti, quello che aveva visto era stato piuttosto convincente; alcuni dei sacrificandi dovevano essere ancora vivi quando il rito era finito e il pubblico era fluito dall’anfiteatro. Per quanto venerasse e temesse il suo dio, come tutti in quella città, Dagger non aveva più voluto assistere a una delle sacre mattanze, figurarsi esserne protagonista. Ci teneva al suo coso. Potevano strappargli tutto, ma il suo

coso proprio no.

Sbucò al centro della strada, poggiando i piedi sulla dura superficie del ciottolato. Trovò piacevole tirarsi fuori dalla melma ghiacciata per un momento. A poco a poco tornò in possesso delle dita e riuscì persino a muoverle; forse non le avrebbe perse. Alzò lo sguardo al cielo, osservando le gocce che cadevano contro il suo volto, e pregò. Pregò l’orribile dio sciacallo senza occhi, l’immondo dio del tormento e dell’orgasmo, colui che aveva generato il mondo e che poi, vedendo i troppi affanni cui aveva condannato gli uomini, aveva deciso di ricompensarli con il vino, la lussuria e tutto ciò che rendeva la vita più sopportabile. Pregò. Pregò Ktisis di smetterla di fare lo stronzo e aiutarlo almeno per quella notte, quella notte soltanto, poi in qualche modo lo avrebbe ripagato. Fu solo allora che il dio sembrò infine ascoltarlo. Una voce burbera esplose nel silenzio, strappandolo alle sue preghiere: “Quando noi chiudere, chiudere!” urlò l’oste, lo Zingaro in persona. “Non rimanere aperti per un sola persona. Fanculo a tu casa!” Dagger era già sparito nel vicolo quando un ragazzo atterrò con la schiena sul ciottolato, lacerandosi la giubba e la pelle. Dopo una breve lotta contro la gravità, e l’acqua che rendeva il terreno scivoloso sotto i suoi eleganti mocassini, riuscì a tirarsi in piedi per cercare di urlare qualcosa che la sua lingua impastata trovò difficile da articolare in sillabe. Lo Zingaro rispose sbattendo la porta e spegnendo il lume alla finestra. Il ragazzo guardò quella porta chiusa, mormorando, poi ciondolò verso il muro e riuscì a poggiarci un gomito prima di vomitarsi addosso. Cadde subito dopo in ginocchio, piagnucolando per i vari dolori della vita e per tutte le cose che non andavano. Dagger gli lasciò tutto il tempo di lamentarsi, trovando che fosse giusto così, quando però il giovane ubriaco si rialzò per strascicare le gambe sulla via di casa agì in un lampo; gli serrò un braccio intorno alla gola e lo trascinò nel vicolo, così come un ragno traina nel buco la mosca immobilizzata. Lo spinse a terra con già la lama sul collo e una mano sulla bocca. Era facile gestire gli ubriachi, per questo sceglieva sempre le taverne per il lavoro di routine. “Se fossi in te eviterei di chiamare aiuto”, disse. “È buio. Nessuno ti vede morire nel buio e nessuno ti aiuta, nel buio. Non in questa città. Non a Melekesh!”

I due occhi pieni di lacrime e paura gli risposero che, in quel momento, andava bene qualsiasi cosa. Gli tolse la mano dalla bocca e il ragazzo non urlò, limitandosi a pisciarsi addosso. Non doveva essere troppo più grande di lui a giudicare dalla corporatura. “La tua voce… sei un bambino?” biascicò. “Anche tu ti senti così sol–?” Dagger lo tramortì con il suo pugno leggendario, leggendario almeno alla gilda dei Ragni, e gli lasciò il tempo di sputare sangue e denti prima di sollevarlo per il bavero. “Fa’ il bravo! Lasciami lavorare in fretta e tra poco te ne tornerai a casa. Vivo.” Il ragazzo allargò le braccia, ricominciando a piangere, e lui lo ripulì in fretta procedendo con movimenti veloci e affinati dalla pratica. Gli trovò sei Dragoon addosso, una vera fortuna di quei tempi, segno che Ktisis si era svegliato da qualche parte a Almagard, la grande taverna dell’aldilà. Estasiato dall’inconfondibile tocco dell’oro sorrise spontaneamente, tuttavia quel momento di distrazione gli costò caro. Il suo cliente allungò una mano e gli strappò il fazzoletto dal volto, urlando come un pazzo: “Al ladro! Al fottuto cazzo di ladro!” Dagger imprecò e gli serrò di nuovo la mano sulla bocca. Venne morso, allora fece scattare il coltello sotto ai suoi occhi per ricondurlo alla calma, ma una luce venne accesa e illuminò, in pieno, tutto. Alzò lo sguardo; affacciato dalla porta con una lampada in mano c’era il maledetto Zingaro. “Il colore dei tuoi occhi”, fece il ragazzo a terra. “Oh Ktisis! Di che colore sono i tuoi occhi?” Scacco matto al re, pensò Dagger. Regola numero uno! urlò la voce del vecchio Mamma nella sua mente. Chi ti vede in volto mentre lavori, muore!

“Porco Ktisis”, mormorò. Il suo cliente si limitò ad alzare le mani tremanti a mezz’aria. “Non mi uccidere, ti-ti prego, non mi uccidere”, guaì. “Mi dispiace, mi dispiace! Non voglio morire, ti prego! Ho paura!”

“Sta’ zitto, maledizione!” “Cazzo succede là fuori?” “Merda!” “Aiuto!” “Eddai, Sta’ zitto!” “Oh, col cazzo che me venire là fuori per aiutare sconosciuto!” sentenziò lo Zingaro, prima di sbattere nuovamente la porta e spegnere la luce. Dagger abbassò lo sguardo sul suo cliente. Lo sentì tremare sotto il coltello. “E… e adesso?” Gli sorrise. “Adesso? Mi hai visto in volto, secondo te cosa succede adesso? Devi morire, non esiste alternativa. Un morto non racconta dice sempre il vecchio e su questo ha maledettamente ragione. Se non lo fi ci sarebbero delle conseguenze, lo sappiamo entrambi. Ci sono sempre delle conseguenze a questo mondo, soprattutto per quelli come me, però strappandoti la vita posso rimediare. Sarai d’accordo.” “No!” “Oh sì.” “Io ho una sorella, una piccola sorellina. Ti prego, voglio rivederla, lei ha solo me.” Dagger rimase a lungo in quella posizione, con il coltello stretto nella mano, il filo della lama che premeva sulla pelle della gola, sulla carotide e la vita che scorreva dentro. Poi il ghigno scomparve dal suo volto. Chiuse gli occhi e, imprecando sommessamente, maledì ancora una volta il giorno in cui era nato. “È la tua notte fortunata”, disse solo, rialzandosi. “Hai detto le parole magiche.” Quando gli occhi del ragazzo domandarono spiegazioni, lo tramortì con un calcio sulla tempia. Sperò che fosse abbastanza forte da fargli scordare un po’ di cose.

* * * * *

Era l’alba quando Dagger fece ritorno al cimitero delle navi, il quartiere di Melekesh dove a chiunque avesse qualcosa da farsi togliere, compresa la vita, veniva sconsigliato di avvicinarsi. Qui non esistevano strade, non esistevano vicoli. Il cimitero era interamente costituito dalle navi che nel corso dei secoli erano state spiaggiate e abbandonate a marcire al sole, alcune ridotte a scheletri di legno che non sembravano aver mai visto tempi migliori, altre erose dal vento, rosicchiate dai roditori, smantellate per trarne legna da bruciare prima che l’acqua ne intridesse la stessa anima. Le navi imputridivano ovunque e il loro scricchiolio si levava nell’aria in un interminabile lamento funebre, più debole d’estate, più forte d’inverno quando l’umidità dilatava le assi di legno facendole spaccare. In quel luogo malsano, dove tutto era sospeso tra fango, catrame e mare, la lama mieteva più vittime della fame. A stento i suoi abitanti superavano i trenta anni di età e il vecchio Mamma, con i suoi venerabili sessant’anni o giù di lì, era uno di loro. Forse era sopravvissuto tutto quel tempo perché raramente usciva dal suo vascello. A dir la verità, Dagger non ricordava di averlo mai visto uscire neanche dal suo studio. In uno stagno piccolo e affollato di pescecani, Mamma aveva capito che attirare poca attenzione era un buon modo per rimanere vivi, soprattutto quando questo significava non pestare i piedi alla più influente gilda del quartiere, situata nei tre imponenti galeoni ancorati al centro del cimitero. Lì, dove finiva chi riusciva a far carriera in quel piccolo, porco mondo popolato da usurai, stupratori e ladri, puttane, ricettatori e contrabbandieri, dove si uccideva per niente e si moriva per meno. Persino le guardie del Prefetto Mawson avevano paura ad avventurarsi nel quartiere; non c’era alcuna legge se non quella che si davano i suoi abitanti di morte in morte.

Dagger mise piede sul ponte del vecchio vascello dove Mamma aveva stabilito il suo covo, crollato in più punti e tappezzato da riparazioni che, alla lunga, ne avevano sconvolto l’originaria architettura. Quella non era più una nave, non era mai stata una casa e non sarebbe mai diventato un rifugio. Quella era solo la tana, il buco del ragno, dove rientrare alla fine della notte.

Bussò tre volte sei colpi alla porta e attese. Due occhi grandi e verdi apparvero dalla fessura dello spioncino. “Parola d’ordine.” “Al Prefetto Mawson puzzano le mani della nostra merda”, rispose Dagger. Gli occhi scomparvero e la porta venne aperta in uno sferragliare di catenacci. Tutti i Ragni erano già rientrati, ci avrebbe scommesso. Qualcuno forse non era neanche uscito; per molti in quei giorni era diventato più facile accettare l’inesorabile punizione di Mamma piuttosto che avventurarsi là fuori con il buio e la pioggia, considerata soprattutto la prossimità delle feste sacre tenute in onore del dio Ktisis e delle loro singolari celebrazioni.

La luce nebbiosa penetrava a stento attraverso le spaccature nel soffitto, cadendo su un gruppo di Ragni seduti a giocare a dadi con i coltelli piantati nel pavimento. Si domandò dove trovassero tutta quell’energia al termine della notte, poi vide alcuni di loro leccare di nascosto la polvere magica dalle dita sudicie e dai loro sorrisi estasiati capì che Mamma si sarebbe presto arrabbiato di nuovo; odiava quando i suoi ragazzi usavano quei rimedi per tenersi svegli e non sentire la fame, erano un reddito per lui, tutti, e quelli che non aveva perso per colpa delle malattie e delle guardie li aveva persi dietro a quella polvere. Alcuni Ragni tossivano, altri si grattavano con violenza le pustole sulle braccia e le gambe, altri ancora giacevano a terra svenuti, almeno sperava, per la stanchezza o l’inedia. Solo, in un angolo, uno di loro sputò un grumo di sangue a terra. Non si sorprese che gli altri lo evitassero.

Il piccolo disgraziato tese la mano verso di lui, guardandolo con gli occhi affossati nelle orbite. “Dammi una Dragoon”, sussurrò. “Ce l’hai una Dragoon, Dag?”

Ma Dagger andò oltre. Era già morto, aiutarlo avrebbe solo significato prolungare le sue sofferenze: la morte verde non risparmiava. Con la gialla forse te la cavavi, se qualcuno ti amputava le mani prima che la putrefazione si mangiasse il resto del corpo; con la verde, invece, era meglio lasciar perdere da subito. Marcivi lentamente, giorno dopo giorno, ti osservavi cadere a pezzi e

l’odore che assumevi non era più quello di un essere umano, non uno vivo almeno, ricordava piuttosto quello del pesce lasciato marcire al sole in un afoso giorno d’estate. Era una malattia con un sottile senso dell’ironia, tuttavia: quando la putrefazione si fermava, quando sembrava che le cose stessero migliorando e che dopotutto ti saresti salvato, quello era il momento peggiore; lì potevi star certo che il morbo aveva iniziato a mangiarti da dentro e all’improvviso, un bel giorno, ti svegliavi con le larve che premevano contro la pelle della pancia per aprire un buco dal quale uscire.

Si lasciò cadere a terra in fondo alla stanza e poggiò la testa nell’incavo del braccio, cadendo subito addormentato. Venne svegliato da uno schiaffo. “Quanto ho dormito?” domandò istintivamente. “La tua testa è praticamente rimbalzata sul pavimento, fratellone.” Dagger riuscì a tenere gli occhi aperti. Ricordò il suo nome, ricordò chi era e su quale mondo viveva ma, ancora una volta, gli sfuggì il perché. Incrociò gli occhi di Seeth, che lo guardava sorridendo come sempre. “Stancuccio eh?” “Be’, io ho lavorato, sorellina.”

“Quanto hai fatto?” “… ‘sciami dormire.” “Dag, quanto?” “Sei Dragoon pulite pulite”, mormorò Dagger, strofinandosi gli occhi e sbadigliando. “E tu? Tu quanto hai fatto?” “Niente.” “Oh, davvero?”

“Niente di niente!” ripeté Seeth, guardando giù con occhi persi. “Questo posto non ce la fa a mantenerci tutti. Siamo troppi. Qualsiasi disgraziato vomitato dalla città finisce nella gilda e così–” “Quanto ti serve?” Lei alzò il volto. Odiava chiedere aiuto, la conosceva, però lo faceva lo stesso. Almeno finché c’era qualcuno così stupido da aiutarla. “Tre. Te l’ho detto: non ho rimediato niente.” Dagger si guardò intorno prima di portarsi una mano in tasca. Prese tre delle sue Dragoon e le lasciò cadere nelle sue mani, una per volta. Tum, tin, tin. “Non sarò sempre così fortunato”, precisò. “Cerca di imparare a badare a te stessa. Ho ato tutta la notte sotto la pioggia per rimediare un colpo di fortuna, tu invece? Ti sei arresa alle prime difficoltà e sei tornata qui, ci scommetterei l’anima. A volte mi domando come fai a essere ancora viva in un posto del genere. Se non ci fossi tu per me sarebbe tutto più facile!” Con un istante di ritardo, capì che aveva parlato troppo. Osservò il sorriso scomparire dalle labbra di Seeth, molto lentamente. La vide chinare il volto e chiudersi in quel suo silenzio offeso e impenetrabile. Non rispose neanche dopo che le ò una mano tra i capelli. Merda, pensò. Quella volta non lo stava facendo apposta, come le riusciva sempre benissimo; c’era rimasta male per davvero. Poteva vedere attraverso le sue emozioni, a dir la verità poteva vedere letteralmente attraverso il suo corpo: Seeth aveva la pelle bianca, i capelli bianchi e le sopracciglia bianche. Magra da far paura, sembrava il fantasma di una ragazza della sua età. Eppure la trovava bella, di una bellezza fragile, rara e preziosa che non apparteneva a quel mondo, sicuramente non al cimitero delle navi. Tutti lì dentro pensavano che avesse una natura demoniaca a causa del suo aspetto, o forse semplicemente a causa del suo colore, per questo ne stavano alla larga, almeno quelli che non si avvicinavano di tanto in tanto per cercare di sacrificarla a Ktisis. Anche Dagger sapeva cosa voleva dire sentirsi additare come una creatura mostruosa. Anche con lui nessuno voleva avere niente a che fare, perché aveva una cosa in comune con quella ragazzina, una cosa soltanto: gli occhi, rossi come se al loro interno bruciassero le stesse fiamme dell’inferno.

In quel mondo di serpi, avere gli occhi dello stesso colore bastava per sentirsi vicini a qualcuno. Se non ci fosse stato lui, Seeth sarebbe finita in un postribolo già da molto tempo, o peggio, ma forse non c’era bisogno di ricordarglielo ogni volta. Per Ktisis, sono veramente uno stronzo quando mi ci metto. “Stronzetta”, accennò. “Falla finita di fare quella faccia. Lo sai che non volevo.”

Seeth alzò le spalle. “È che non ce l’ho fatta. Sul serio Dag, ci ho provato, però stanotte non riuscivo a stare sotto la pioggia. Se mi ammalo un’altra volta non sarò così sfortunata da sopravvivere.” Tossì, più volte. “Tu non ti ammali mai.” “La tua tosse a comando sta diventando sempre più commovente, sorellina.” “Ti ho già mandato a fare in culo?” “No.” “Allora vaffanculo.” Dagger si guardò intorno e vide che gli altri erano talmente presi dalla polvere da non aver notato nulla. Odiava quel posto pieno di spie, odiava quella gente, odiava essere lì. Baciò Seeth sulla fronte, sotto una ciocca disordinata di capelli bianchi come il latte, per ricordarle che teneva a lei in ogni momento, sin da quando le loro strade si erano incrociate. “Io e te siamo una cosa sola. Quello che succede a te, un po’ succede anche a me.” “Sei ubriaco?” “No. È che senza di te io… io…” Lei accennò un sorriso e lo abbracciò. “Ti voglio bene Dag. Anche se sei un disastro con le parole.” Dagger chiuse gli occhi e sperò che quel momento durasse un po’ più a lungo di

tutti quelli in cui si sentiva solo. Quello era il suo rifugio dalle brutture del mondo: quelle braccia scheletriche, quell’unica persona che aveva bisogno di lui. Seeth era la sola possibile Redenzione, l’unico elemento della sua vita che gli Oltredei non gli avrebbero rimproverato il giorno in cui, abbandonate le spoglie mortali, se li si sarebbe trovati di fronte sulla soglia di Almagard, per chiedergli come pedaggio un solo atto di puro e disinteressato bene compiuto nel mare del peccato mortale. La Redenzione. Seeth era la sua. Era stato così sin da quando i suoi compagni l’avevano portata lì dentro per la prima volta, in un sacco, chiuso da un pugno. Lui aveva osservato il suo fragile corpo premere contro la stoffa usurata per uscirne fuori, aveva sentito la sua disperazione traboccare in deboli gemiti carichi di sofferenza che lo avevano fatto star male, male come non si era mai sentito in tutta la sua breve e già lunga esistenza. ‘Indovinate cosa c’è qui!’ aveva ridacchiato il Ragno che teneva il sacco, gli occhi dilatati, il sorriso ebete, le dita sporche di bianco. ‘Un cane!’ aveva risposto uno dei Ragni più piccoli, dal volto giallo. ‘No, un gatto!’ aveva risposto un altro, dalla faccia verdastra. ‘Non importa, qualsiasi cosa è, mangiamolo!’ aveva risposto l’ultimo, il più piccolo, provocando le risate di tutti. Però non quelle di Dagger. Lui aveva capito da subito che lì dentro si trovava una bambina. ‘Dove l’avete trovata? Non è divertente, lasciatela andare!’ Gli era sembrato che, solo a sentire la sua voce, la bambina nel sacco avesse iniziato a muoversi più lentamente, fiduciosa. Sin da allora erano stati legati, senza essersi ancora visti. Aveva solo sette anni, ma non si era fatto scrupoli ad affrontare tre Ragni di dodici anni ciascuno. Già se la cavava bene con la lama, tanto da lasciarne uno dissanguato per terra, con le mani strette intorno alla gola, e gli altri due disarmati con le mani aperte verso di lui. Dagger sembrava nato con un pugnale in mano. ‘Era solo uno scherzo’, avevano detto, arretrando. ‘Calmati stronzetto, tienila tu. Puoi farne quello che vuoi.’

E Dagger se l’era tenuta. Avrebbe potuto fare di lei ciò che voleva e ne aveva fatto una sorella. Di lì in poi, lui e Seeth erano cresciuti insieme, inseparabili, e quella era la cosa più vicina al concetto di famiglia che avesse mai conosciuto; ogni volta che guardava nei suoi occhi si sentiva libero, per quanto ancora un topo in gabbia nonostante tutta la sua rabbia. Lei sorrise. “Faccia da coglione.” Lui aprì la bocca per rispondere, quando attraverso la gilda esplose una voce rude: “Dag! Porta qui le chiappe se sei rientrato! I conti di questa notte non si chiuderanno da soli.” Si voltarono entrambi verso la porta dello studio di Mamma. “Se hai fatto qualche stronzata diglielo prima che lo scopra, come fa sempre”, consigliò Seeth. “È impossibile nascondere qualcosa a quell’uomo. Non gli tengo segreti, io, non qui dentro.” “Quindi sa anche che ti do una mano?” “Ti ho già mandato a fare in culo?” “Non più del dovuto.” Seeth poggiò la testa contro il petto scarno di Dagger, chiudendo gli occhi. “Non fare cose stupide”, sussurrò. “Non farlo mai, Dag. Non lasciarmi sola.” “Temo sia troppo tardi.” “Uhm?” “Ho fatto una cazzata stanotte. Ha visto la mia faccia.” “Chi?” “Il cliente che ho rapinato.” Lei rabbrividì. “E suppongo che non l’hai ucciso, vero?”

“Sai che non uccido mai.” “Tu… tu…” sussurrò Seeth a denti stretti. “Tu e i tuoi maledetti patti con te stesso! Perché? Perché devi essere sempre così scemo? Non c’è altra morale in questa città: o muori tu, o muoiono loro.” Dagger rimase in silenzio. “Non starai per dire che tu sei diverso?” “Noi siamo diversi. Noi non siamo come questo posto. Noi possiamo essere migliori.” Chinò il volto e si aspettò che sua sorella saltasse su tutte le furie. “Dov’è successo?” domandò lei, invece. “Fuori dalla taverna dello Zingaro.” “Merda.” “Quel coglione stava ubriaco, ti giuro sembrava che… l’ho steso a terra, con il coltello sulla gola, poi lui ha allungato la mano e mi ha strappato il fazzoletto, urlando come un pazzo. Fortuna che lo Zingaro non se l’è sentita di uscire ad aiutare uno sconosciuto.” “Dovevi ammazzarlo, Dag. Mamma lo verrà a sapere. Mamma sa sempre tutto.” “Grazie, sei di molto aiuto.” “Però… magari se era davvero ubriaco non si ricorda nulla.” “Non credo. Ha detto chiaramente: Oh cazzo, di che colore sono i tuoi occhi?!” Ghignò con amarezza. “Un paio di occhi rossi. Non sono dettagli che si scordano.” “Merda.” “Lo hai già detto. Mi inventerò qualcosa, sta’ tranquilla.” Dagger le ò una mano fra i capelli un’ultima volta, prima di alzarsi per affrontare il vecchio. Avanzando verso la porta socchiusa, sentì che qualcuno stava piangendo al di sotto del pavimento. Ebbe i brividi. Mamma aspettava sempre che i conti della

notte fossero chiusi, prima di punire quelli che avevano fatto qualche stupidaggine o che si erano rifiutati di uscire in città per portargli le Dragoon. I lamenti e le urla di dolore che si levavano dal ponte inferiore erano una tortura anche per quelli che erano stati bravi. Sicuramente erano un monito: non fare incazzare quell’uomo era fondamentale per la sopravvivenza tra quelle quattro mura marce. “Le preghiere!” ammonì la voce di Mamma, gelandolo.

Dagger si voltò. Proprio accanto alla porta, circondato da candele rosse e nere, Ktisis lo osservava digrignando le zanne di legno rozzamente intagliate nel suo eterno ghigno beffardo. Si inginocchiò e pregò. Pregò Ktisis di aiutarlo ancora una volta per quella notte, una volta soltanto. Il dio non gli rispose. Continuò a fissarlo, ghignando.

Si rialzò e aprì la porta, ritrovandosi assorbito dal suo sguardo magnetico, lo sguardo soffocante dei suoi occhi bui come la notte; seduto dietro la propria scrivania, Mamma lo attendeva. La sua presenza riempiva la stanza ed era come se i quaderni dove appuntava ogni cosa, i bauli nei quali era l’unico a poter mettere le mani e le armi polverose e arrugginite che lo circondavano fossero appendici del suo corpo. Lui era quella stanza, non ci viveva semplicemente, ogni cosa lì dentro rifletteva la sua personalità. Soprattutto la botola di fronte alla scrivania. Il lamento del Ragno chiuso di sotto si levò ancor più disperato udendo i suoi i.

Dagger c’era stato lì sotto, una volta soltanto, ma non per essere punito; Mamma non lo puniva mai, neanche quando ne combinava una grossa. C’era sceso per curiosità, una delle tante volte che il vecchio era ubriaco fino alle ossa, tuttavia non aveva trovato nulla di particolare in quel grande ambiente buio e freddo, sicuramente niente di pauroso. Era solo una stiva oscura, con un materasso lercio steso a terra. Non riusciva a immaginare cosa il vecchio fe ai suoi compagni, lì sotto. Nessuno di loro ne aveva mai voluto parlare, come se ne provassero vergogna, però ogni volta che convocava uno dei suoi Ragni Mamma lo faceva stare in piedi sopra la botola, dipinta di nero con schizzi di vernice

rossa, da cui veniva la necessità di non farlo mai arrabbiare, non lì dentro.

Avanzò, prigioniero di quello sguardo, fino a che i suoi piedi scalzi si fermarono sulla ruvida superficie della vernice.

Il vecchio lo squadrò in silenzio. “Dimmi”, esordì. “Anche stanotte sei arrivato a tre Dragoon?” Dagger lasciò cadere sulla scrivania, una per una, le tre monete dorate. “Tre?” Dagger annuì. “Ammirevole.” Mamma lo fissò negli occhi. “E stai ancora aiutando tua sorella, non è vero?” Il ragazzo annuì ancora, e il vecchio sorrise amorevolmente. “Lo so”, rispose. “Posso capirlo, non sono così crudele. Anche io avevo una sorellina, una volta, una dolce sorellina dai boccoli biondi. L’ho vendicata, sai? Oh sì! Mio padre mi ha guardato in volto mentre lo uccidevo; adesso lui sa che sono stato io ad averlo ucciso, e per quale motivo. Dicono che una vendetta non è mai completa se la tua vittima non sa che sei stato tu a ucciderlo, e per quale motivo. Sì, perché mia sorella è morta. Oh, già te l’ho detto, ma quella è un’altra storia.” Guardò la superficie della scrivania con occhi persi, pronunciando sommessamente parole oscene a stento comprensibili, tra le quali, all’improvviso, emerse un: “Ora, c’è altro che devo sapere?” Dagger scosse la testa. Tralasciò il piccolo particolare di non aver ucciso il cliente che quella notte lo aveva visto in volto, sicuro che in qualche modo Mamma lo sarebbe comunque venuto a sapere; era un fatto certo come la notte che seguiva il giorno, però se lo avesse saputo quella mattina la sua vita sarebbe finita lì, quindi aveva tutto da guadagnarci. Se non altro qualche ora di sonno. “Tre Dragoon…” ripeté Mamma, giocherellando col sigaro tra le dita. “Sei

l’unico che ancora riesce a portarmele, a parte ovviamente la tua sorellina, ma quella è un’altra storia. Devi essere stato alla taverna dello Zingaro, sì, quel posto rimarrebbe aperto sino a tardi anche se l’intera città finisse sott’acqua, e devi aver atteso a lungo, vista l’ora in cui sei tornato. Mi piace, Dag. Significa che sai aspettare il momento giusto e che prima o poi ottieni sempre quello che vuoi. Faresti molta strada insieme a me, se non fossi un irrimediabile combina casini che prima o poi mi farà ritrovare di nuovo in guerra con i maledetti Tre Galeoni. È già successo, ricordi?” Dagger annuì. “E forse ti stai ancora domandando perché non ti ho ucciso dopo quello che hai fatto”, continuò Mamma, pensieroso, in uno di quei momenti in cui sembrava parlare più che altro con se stesso. “Sfigurare in volto un membro dei Tre Galeoni. Devi essere veramente pazzo, o disperato, per farlo.” “Ma quello voleva cavarmi gli occhi e bruciarmi vivo perché pensava fossi il figlio di Kti–”

“Shhh! Non interrompere. Abbiamo pagato un caro prezzo. Ho dovuto consegnare nelle loro mani tre dei nostri, ovviamente i più incapaci, ma quella è un’altra storia. Ktisis solo sa, nella sua divina crudeltà, quanto hanno sofferto quei ragazzi prima di tirare le cuoia. Se in fondo sono già morti. In quella gilda c’è gente che riuscirebbe a torturarti per il resto dei tuoi giorni, sai? Un tempo lavoravano per me, poi hanno fatto carriera. Tu non hai neanche un po’ di rimorso?” Dagger scosse la testa e il vecchio sbatté la mano sul tavolo, prima di scoppiare in una risata selvaggia. “Per Ktisis! Neanche io!” Con lui risero anche i suoi occhi gialli, che iniziarono a lacrimare come quando era veramente contento, o veramente ubriaco. “Sono contento di averti tenuto con me, perché farai molta strada”, riassunse, cercando di tornare serio. “Rimane il fatto che non mi devi mai nascondere nulla. Io so come sistemare le faccende, io so trattare, per questo siamo ancora tutti vivi, o almeno a galla, in questo mondo di cani rabbiosi. Ah… questo mondo abbrutisce, sì, però i patti sono comunque importanti; bisogna sempre scendere a compromessi con l’esistenza. Molti pensano che io sia pazzo. Mi hanno dato spesso torto o ragione, ma non sarebbero mai durati così a

lungo.” Picchiettò con l’indice sulla scrivania. “Non in questo inferno. Io ci sono impazzito in quest’inferno. Un tempo non ero così, un tempo ero una leggenda, leggenda vivente mi chiamavano, ci crederesti? Avevo una torre, oh sì, da lì si vedeva il deserto, tutto il dannato deserto, con le rovine di Adramelech e tutto. Poi sei venuto tu. Il destino infame, nella sua incosciente e imperscrutabile sapienza, ha deciso di affidarti nelle mie mani peccatrici. Già, un tempo ero una leggenda… eppure sai cosa rimane delle gesta umane una volta che il tempo le seppellisce sotto il suo carico generoso di merda?” Lo guardò dritto negli occhi e di colpo si fece silenzio. Non c’era più il mormorio degli altri Ragni oltre la porta, né il rumore delle timide onde che si abbattevano contro il legno fradicio della nave. C’era solo il lamento del ragazzo chiuso di sotto. “Dimmi”, pronunciò il grande Mamma, torvo. “Non ti punirò stamattina. C’è altro che devo sapere prima di trovarmi gli emissari dei Tre Galeoni, o gli uomini del Prefetto, o entrambi che bussano alla mia porta armati sino ai denti?” Dagger chinò il volto. Scosse la testa. “Bene. Ti credo”, rispose il vecchio. “È solo che nei vostri occhi a volte leggo cose che… be’, che non ci sono. Anche tu sai leggere nelle persone, non è vero? Sì, è la miglior qualità che sono riuscito a arti. Non sono stato un buon padre. Tutta questa responsabilità mi ha fatto impazzire, ma un tempo non ero così. Un tempo ero una leggenda. Leggenda vivente, mi chiamavano. A questa vita sarebbe stato mille volte preferibile morire e ormai anche tu lo sai. Un giorno ho ucciso mio padre, sai? Aveva ucciso il mio fratellino. Io ho ucciso lui. Ma quella è un’altra storia.” Dagger si voltò, incamminandosi verso l’uscita senza dare l’impressione di voler andar via da lì il prima possibile, implorando i suoi piedi di andare più piano, più piano ancora. “Ah. Dag?” Voltandosi, vide che Mamma era in piedi di fronte a lui. Non lo aveva sentito neanche muoversi, notò, prima di ritrovarsi piegato in due da un pugno in pancia, più leggendario del suo. Quando rialzò lo sguardo, si ritrovò un grasso indice puntato contro.

“La prossima volta che aiuti quella piccola puttana a rimediare le tre Dragoon vi butto a mare insieme. Con le caviglie legate.” Il vecchio rise. “Oh sì, Sarà proprio una bella cosa da vedere! Da adesso in poi deve cavarsela da sola, altrimenti è inutile che rimane qui con noi. È pieno di postriboli in questo quartiere e con la sua bellezza esotica non avrò difficoltà a rivenderla. E poi lo sai che non è tua sorella, allora perché la aiuti?” “Perché è la mia unica speranza di Redenzione.” Mamma si ammutolì, colpito da quella risposta. Poi scosse la testa, lentamente. “Oh, ma non esiste Redenzione a questo mondo. Non per te. Allora è questo il problema, tu lo devi ancora capire.” Sorrise. “Non ti preoccupare. Ora ti aiuterò io. Io so sempre cosa deve essere fatto per il tuo bene.” Per un momento lo osservò in silenzio, poi scoppiò a ridere. Dagger si rialzò e uscì dalla stanza, cercando ancora di non fuggire. Raggiunse Seeth, sdraiata sotto un oblò, e si accoccolò contro la sua schiena sporca. “Senza di te, io non sono nulla”, disse, convinto che lei stesse dormendo. “Quello che succede a te, succede anche a me.” Lei si girò nel sonno, appoggiando il volto scomposto sul suo braccio e russando sonoramente. Dagger sorrise e chiuse gli occhi. La stanchezza ebbe la meglio su di lui e, nella terra di confine tra sogno e realtà, sentì come sempre il vento nei capelli, quel vento carico di sabbia che lo avrebbe spinto ancora una volta nell’antimondo, il mondo dell’inconscio e dei sogni dove anche ai morti veniva concesso di parlare. Poi ascoltò la porta dello studio di Mamma aprirsi in un lento cigolio. Sentì la sua voce, appena un mormorio, rivolto ad alcuni Ragni lì vicino. Non ò molto prima che udisse i loro i in avvicinamento; erano in cinque e non del tutto lucidi a giudicare dall’andatura. Più discreti di un marinaio ubriaco che stupra una vergine, pensò portando la mano al coltello e tenendosi pronto. Quando scattò in piedi, puntandogli contro la lama, trovò esattamente quello che si era aspettato: il Trucido, Lametta, Mignolo, la Iena e Nove-vite. “Cosa volete?” domandò senza paura ma, guardando nei loro occhi, capì che quelli non si trovavano lì per parlare e stavano talmente sotto con la polvere da

non temere neanche la morte. Erano lì per obbedire a un ordine del grande Mamma e lo avrebbero fatto, a qualsiasi costo. Non aspettò che attaccassero. Nessuno lì dentro poteva competere con lui quando si arrivava alla lama; respinse i loro attacchi, sin troppo prevedibili, e arrivò persino a sfregiare Lametta in pieno volto, infilandogli il coltello nella guancia e tirando verso sé in uno spruzzo di sangue. Ascoltò compiaciuto il suo urlo di dolore, misto al panico tossico, prima di capire di essere caduto a piedi uniti nel loro tranello: Mignolo e la Iena afferrarono Seeth, ancora stesa a terra, e la trascinarono per i capelli verso lo studio di Mamma, ridendo come pazzi, le pupille dilatate. “Dag!” urlò sua sorella, svegliandosi di soprassalto e afferrandosi i capelli. “Dagger!” Mentre gli altri lo tenevano indaffarato, lasciandosi ferire con la noncuranza che poteva avere solo qualcuno sotto l’effetto della magia, lui la guardò allontanarsi sempre di più, impotente, come in un incubo a occhi aperti. Lametta, Nove-vite e il Trucido, feriti, insanguinati e ridenti, lo lasciarono andare solo una volta sicuri che non sarebbe riuscito a salvarla; Dagger raggiunse la porta dello studio giusto in tempo per farsela sbattere in faccia. Cercò di sfondarla, prendendola a calci, poi i suoi cinque compagni lo sollevarono di peso e lo spinsero via.

Sbatté la schiena contro il muro e si lasciò scivolare a terra, disarmato, raccogliendosi la testa tra le mani mentre continuavano a picchiarlo feroci, con calci e pugni in pieno volto, ridendo e ridendo. Quando smisero, ascoltò la botola che veniva aperta. “No! No!” Piagnucolò impotente, sputando fuori il sangue. Ora capiva cosa avesse voluto dire il vecchio con le sue ultime parole: non avrebbe punito lui, non lo aveva mai fatto e non intendeva iniziare ora.

Per tutto il giorno ascoltò le urla di Seeth, così come tutti i Ragni, mentre le veniva somministrata la sofferenza. A ogni urlo si ripeteva che era tutta colpa sua, delle sue illusioni, perché non c’era alcuna speranza, alcuna Redenzione in quel mondo, non per lui. Gli dèi non ascoltavano le suppliche di un Ragno di strada. Stava imparando la sua lezione.

Non era nessuno. Non era nulla. “Ti porterò via di qui”, sussurrò mentre una lacrima di sangue gli rigava il volto. “Ti porterò via di qui, lo giuro. Fosse anche l’ultima cosa che faccio.” Solo quando il sole aveva ormai iniziato la sua lenta discesa nel putrido orizzonte di Melekesh, le urla cessarono e lo stremo e il dolore ebbero la meglio su di lui. Stavolta non riuscì a opporsi al vento. Il vento carico di sabbia.

* * * * *

Tredici anni prima.

2. Dissacrata trinità

L’urlo del vento era l’unico suono udibile nel vasto silenzio che gravava sulle rovine di Adramelech, l’antica e gloriosa metropoli dei gorgor, resa un deserto dall’opera infaticabile del tempo. I titanici volti di pietra che emergevano dalla sabbia, le cupole diroccate e le mura megalitiche erano tutto ciò che rimaneva del sogno dei suoi antichi abitanti: erigere una città degna di Skyrgal, loro dio e creatore, dove questo potesse riportare il suo regno nel sangue una volta risorto. Adesso non rimaneva più nulla del ato splendore se non le desolate vestigia semisepolte dalle dune, spedite dal deserto a riappropriarsi dello spazio che gli era stato strappato. Sotto la linea ocra che tagliava in due la città doveva nascondersi l’antica via Maestra ed era questa che la donna percorreva, la testa china e il o incerto, la tunica lacerata, un cappuccio sui capelli come ultimo rifugio concessole contro la furia degli elementi. I ruderi modulavano le correnti traditrici per spingerle la polvere tra le labbra e nelle strette fessure degli occhi, accecandola, ma ostinata lei si trascinava avanti, spinta solo dalla paura del fallimento. Per un Guardiano il fallimento non è mai contemplato, recitò nella sua mente, e poi ancora: Tutti i i compiuti nella tua vita ti hanno condotto qui.

Il primo comandamento dei Guardiani. Il suo preferito; quelle parole avevano avuto per lei un significato personale sin dalla prima volta che le aveva lette, incise nell’arco di pietra che sovrastava l’ingresso della Fortezza di Golconda, quell’unico luogo che, seppur per un breve periodo della sua vita, era stato sinonimo di casa. La investì il dolore di un ricordo: ‘Non è proprio un comandamento, sembra una sorta di premessa’, aveva detto al suo istruttore quando, ancora bambina, era scesa nell’arena sotterranea per il primo giorno di addestramento. Molto, molto tempo prima di allora. Ricordava ancora come lui le avesse sorriso, poggiandole una mano sui capelli come per accarezzarla. Ricordava. Ricordava la freddezza nei suoi occhi mentre aveva cominciato a picchiarla ferocemente di fronte ai compagni, per insegnarle nel modo più efficace il significato della cieca obbedienza di un Guardiano, l’indiscussa fedeltà ai sei comandamenti di Angra. Per un momento, arrivò a chiedersi se non

fosse stata proprio la totale fiducia nelle verità rivelate ad aver condotto quel mondo alla rovina, ma fu solo un fugace dubbio, presto spazzato via dalla bufera insieme a quel poco che rimaneva delle sue forze. Adesso quel primo, insolito comandamento le sembrava solo sarcastico: davvero molti i l’avevano portata in ginocchio in quell’inferno buio e freddo.

Un lungo ululato le fece accapponare la pelle; per un momento in cima a un obelisco vide l’ombra di un tankar, un predone del deserto, spalancare le fauci al cielo e tendere gli artigli alle correnti dell’est. Stava avvisando i suoi compagni: era entrata nel loro territorio e da lì in poi ogni momento era buono per stringere la gelida mano della morte. Ghignò. No. Non mi attaccheranno. Loro avevano paura, ma non di lei, quanto di chi la inseguiva. Strinse ancor più forte il fardello legato al suo petto, lo strinse come se in questo nascondesse la cosa più importante dell’intero mondo, e proseguì. Manca poco. Così poco! Rapita dai tormentati pensieri, quasi non si accorse di aver raggiunto la luce alla fine del mondo e, con essa, l’unico rifugio che la notte le avrebbe offerto: era una lurida taverna di spaccapietre, ricavata sotto l’imponente arcata di un ponte crollato, chissà quanto tempo prima, nel letto asciutto del fiume che una volta attraversava. Il primo, o ultimo, avamposto della civiltà lì al confine invisibile con il deserto Pacifico e gli orrori che celava nel suo ventre roccioso.

Quando, dopo giorni di marcia attraverso le rovine, poggiò il piede sull’unico scalino di legno che ancora affiorava dalla sabbia, capì di essere sospesa tra le due vite che aveva vissuto. O forse tra la vita e qualcosa che non lo era mai stato. Nel vento si insinuavano i frammenti delle voci provenienti dall’interno, unite al tintinnare dei boccali; le sembrarono i suoni incantati di un mondo lontano e per sempre perduto. Aprì la porta, lasciando entrare il furore della tormenta, e alcuni degli spaccapietre che sedevano al caldo si voltarono verso di lei, il volto a stento illuminato dalle fiamme danzanti del camino.

“Quella porta non si chiuderà da sola!” urlò l’oste da qualche parte nella

penombra rossastra.

La donna si chiuse la porta alle spalle e tirò giù il cappuccio, scoprendo il volto delicato ma deturpato da una profonda cicatrice sulla guancia destra. Nonostante questa, molti degli spaccapietre guardarono con torbido interesse le protuberanze dei piccoli seni sotto le vesti logore, la pelle candida e i capelli che rilucevano come rame alla tenue luce del fuoco. Alcuni, non necessariamente i più ubriachi, avrebbero provato a conquistare i suoi favori in modo più o meno lecito, non fosse stato per il gigantesco spadone assicurato sulla sua schiena, la cinta di pugnali sul ventre e il lungo coltello legato al polpaccio.

La donna incespicò indisturbata fino al tavolo in fondo, il più discreto, crollando a sedere. In nessun momento sciolse l’abbraccio protettivo sul fagotto che portava con sé; lo sistemò in modo tale che nessuno dei presenti potesse sbirciare al suo interno, anche se veramente in pochi si domandavano cosa portasse lì dentro ora che le sue natiche sode, e perfettamente schiacciate sullo sgabello, risvegliavano in loro sensazioni che alcuni pensavano persino perdute. “Questa tempesta del cazzo ha bloccato tutto: la cava, le spedizioni, tutto”, sentì mormorare da qualche parte dietro di lei, mentre qualcun altro, alla sua destra, diceva: “Sì, davvero un bel culo”. “Tre mesi, Ktisis infame, tre mesi che nessuno lavora. Io ci ho parlato con il capo, gli ho detto: E che cazzo, così ci riducete alla fame!”

“Hai fatto bene, che Ktisis…” “Il coglione ha risposto solo E che faccio, mi metto a pregare gli dèi? Va’ verso la luce alla fine del mondo. Lì si fa sempre credito. Pensavo intendesse la morte con quell’espressione, tipo, Va’ a morire, coglione!” “Ah, la morte…” “Poi vengo a sapere che finché dura la tempesta il sindaco del deserto ha

minacciato di radere al suolo le taverne che non svuotano i loro magazzini, e ho collegato le due cose. Sì, mi piace quell’uomo e il modo in cui parla alla gente, sul serio, voterò ancora per lui, ma porca troia, ormai è rimasta quasi solo la birra!” “Già, la birra…” “Botti e botti di birra, qualche cosa di più pesante se riesci a tenerla giù, ma non un cazzo di osso da rosicchiare! Il piccoletto si è messo a cacciare i topi, sai? Gli corre dietro con un bastone, gli spacca il cranio con un colpo secco e se li mangerebbe crudi per la fame, se qualcuno non lo fermasse. Se il vento continua a soffiare così dovrò uccidere il cane, anche se dubito ci sia ancora della carne attaccata a quelle quattro zampe scheletriche. Ai miei figli questo non piacerà, si sono affezionati i piccoli stronzi, eppure almeno avranno qualcosa da mettere sotto i denti. Almeno non dovrò uccidere il più debole di loro per sfamare i fratelli, come tre anni fa, durante la tempesta del secolo. Loro non sanno da dove venisse quella carne, erano troppo affamati per domandare. Ma io sì. Non ce la faccio a disossare un altro dei miei figli, Iahn, hai idea del rumore che fa un osso così piccolo quando viene spezzato? Io lo sento ogni notte. Ogni maledetta notte.” “Già, ogni notte…” Mio Angra, come puoi permettere questa sofferenza? pensò la donna, senza dire nulla; tutto quel mondo che le moriva intorno non era affar suo. L’oste si avvicinò, piantando i pugni sul tavolo. Alzò il volto a guardarlo e non trovò alcun sorriso di benvenuto. Quelle persone non erano abituate alle buone maniere, a quanto pareva. E puzzavano. Puzzavano del sudore rancido portato in dono dalla scarsità di acqua e da lunghe ore di lavoro nelle peggiori condizioni climatiche possibili, ate a smantellare le antiche mura di Adramelech per ricavarne pietra da spedire verso il civilizzato ovest. Provò per loro un’istintiva simpatia. “Riconoscerei un Guardiano di quella stramaledetta Fortezza anche a chilometri di distanza”, esordì il vecchio oste. Si ò una mano sul grembiule lercio, in un gesto nervoso. “Probabilmente per quel tronco di spada che vi portate sempre dietro. Una spada di manegarm, vero? Quando ero piccolo mio nonno mi parlava sempre delle vostre spade, diceva che avresti potuto catturarci l’anima di un dio

con quelle, sì, quelle cazzo di spade. Già allora mi domandavo quale gente corrotta e depravata giocherebbe con l’anima di un dio. Voi Guardiani vi portate la morte dietro, e anche dentro.” La guardò, scuro in volto, prima di aggiungere: “Cosa vuoi, in questo luogo di pace?” “Birra. Tanta birra. E latte.” Il vecchio la guardò schifato e aprì la bocca per rispondere, quando la mano paffuta di un neonato spuntò fuori dal fagotto. Ora era chiaro per chi fosse la birra e per chi il latte. “Uhm”, bofonchiò. “Un Guardiano e un neonato. Pessimo abbinamento. Per l’ira di Skyrgal, un bambino così piccolo non dovrebb–” “Latte.” sentenziò ancora lei, lasciando intendere al vecchio che ben poco di quella faccenda era affar suo. Questo si ò ancora una volta la mano sul grembiule. “Latte?” fece. “Insomma, guardati intorno, donna. Qui la gente sta morendo di fame, dove pensi che–” “Lo so. Ho tenuto le orecchie aperte. Oltre alle chiacchiere ho sentito altre voci, appena percettibili, che facevano riferimento al fatto che tuo figlio non sta neanche dimagrendo mentre la morte segue la morte nelle baracche di questa povera gente, saltellando da una culla all’altra. Venivano da quel tavolo là in fondo NON ti voltare, dannazione, non ti voltare. L’uomo senza una mano e la donna più vecchia di lui, li conoscerai sicuramente. Loro stavano parlando di fartela pagare, se avessero scoperto qualcosa al riguardo, e il modo in cui pensavano di fartela pagare… be’, ti risparmierò i dettagli. Comunque niente rispetto a quello che può fare una madre discretamente armata con un bambino che non mangia da troppo tempo fra le sue braccia. Questo sì che è un pessimo abbinamento.” L’oste inorridì e la donna sorrise. Adorava leggere negli occhi delle persone. “Abbiamo solo un po’ di mokai”, sussurrò l’uomo. “E cos’è?” “Latte di Skar fermentato in botte con miele, lardo e frutta secca. È la specialità del posto. Lo diamo ai bambini piccoli per aiutarli a sopravvivere al freddo, certo… non così piccoli.”

“Be’, questo non lo ucciderà. E a me piace sempre assaggiare le specialità della gente del posto, anche quando si tratta di un mucchio di zotici appestati come voi.” Aspettò che l’oste si allontanasse, trascinandosi dietro il suo stupido sguardo scettico, prima di scostare un lembo dello straccio che avvolgeva il bambino e concedersi di guardarlo. Non ricordava quanto tempo fosse ato dall’ultima volta che lo aveva fatto. La durezza del volto, i profondi solchi della stanchezza, persino la cicatrice sulla sua guancia si sciolsero in un dolce sorriso materno. “Tra poco sarà tutto finito, dolce bambino mio”, sussurrò. “Sì, tra poco ti ucciderò e sarà tutto finito, almeno per te. Ma che io sia dannata se te ne vai da questo mondo con la pancia vuota!” In quel momento lo sentì arrivare. Forse non solo lei; anche alcuni tra gli spaccapietre alzarono gli occhi per guardarsi intorno, confusi, come se oltre il dolce muro che l’ebbrezza aveva eretto intorno ai loro sensi si fossero accorti di qualcosa che non andava. La temperatura si abbassò, così come la luce. Il suo cuore batté più forte e si ritrovò a piantare le unghie nel tavolo per mantenere la calma. Sentì il suo fetore. La porta della taverna venne spalancata e tutti si voltarono. Nel rettangolo di buio aperto sulla tormenta apparve un’ombra, vagamente umana, che la sabbia e il vento sembravano aggirare timorosi. È lui, pensò mentre un fremito elettrico le percorreva le gambe. Non ha mandato i gorgor a prendermi. Il lavoro sporco vuole svolgerlo da solo.

Ricoprì in fretta il bambino e attese. L’oste sbatté un boccale di birra sul bancone e urlò: “Quella maledetta porta!” Ma l’ombra non fece caso alle sue parole. Mosse un o, nascendo dal buio. Ricchi tessuti di seta nera avvolgevano l’intero suo corpo, compreso il volto, lasciando scoperto il solo occhio destro dove scintillava una luce gialla e maligna che non rifletteva in alcun modo quella del camino. Un’antica scimitarra, dall’impugnatura finemente lavorata, era assicurata al suo fianco e a

parte quella l’ombra non aveva altro con sé; nessuna sacca per i viveri, niente borraccia, nessun equipaggiamento per affrontare l’eterno inverno di quella terra estrema. Marciò sotto lo sguardo attonito dei presenti fino a raggiungere il tavolo della donna e dall’alto la guardò. L’oste andò a chiudersi da solo la sua maledetta porta, prima di avvicinarsi ai due con un’espressione non più ostile, ma seriamente preoccupata. “Cosa vi–” L’ombra lo interruppe alzando la sola mano. Tra le pieghe delle bende emersero due larve, rosse e grasse, che caddero sul pavimento sazie di morte. La mano era nera e scheletrica, con pochi brandelli di carne giallastra ancora attaccati alle falangi. Non apparteneva a un essere vivente, né a uno che fosse morto recentemente, dopotutto. L’oste ingoiò un groppo di saliva e si allontanò, muto. L’ombra si mise a sedere e il vocìo intorno a loro scemò in un opprimente bisbiglio. “Aniah, luce della mia vita”, esordì. “Dove stavi andando di preciso? Temo tu abbia qualcosa che mi appartiene.”

Le pieghe delle bende non si erano mosse affatto mentre parlava, come se il sibilo maligno provenisse dritto dalle profondità di quel corpo in decomposizione. A produrlo era il movimento meccanico della laringe di un morto e di quello che rimaneva del suo diaframma. Poi c’era l’eco che si sovrapponeva al sibilo. A volte Aniah aveva la terribile sensazione che quell’eco sorgesse dentro di lei, fondendosi coi suoi stessi pensieri per dar luogo a una sensazione nauseante e vertiginosa. La donna osservò quell’unico occhio scavando nel profondo dello sguardo funesto. E sorrise. “I trattamenti conservativi cui ti sottoponi non stanno dando grandi risultati, Skyrgal”, disse. “Dovresti provare coi bagni di zolfo dei tuoi fedelissimi gorgor. Hanno ammorbidito i margini della mia ferita, sai?” Si portò una mano alla cicatrice. “Quella che mi hai aperto sul volto mentre ridevi della mia stupidità.”

L’ombra piegò la testa a sinistra e a destra, facendo scrocchiare le vertebre del collo. Poi tornò a guardarla. “Zolfo”, sibilò, raggiunto poco dopo dall’eco.

“Molto divertente. L’ironia, soprattutto se tirata fuori nei momenti peggiori, è qualcosa che mi ha sempre affascinato in voi. In voi mortali, intendo. Anche a Crowley piaceva molto fare battute fuori luogo, e più erano di cattivo gusto, più trovava un torbido piacere nel farle. L’ho trovato irresistibile sin dall’inizio.” “Oh sì, Crowley aveva un gran senso del sarcasmo”, rispose Aniah. “Forse è questo che mi ha fatto innamorare di lui. Non oso pensare a quante te ne direbbe nel vedere in che stato stai riducendo il suo corpo; lo stai facendo cadere a pezzi. È molto scortese da parte tua, te ne sei servito solo per convincermi a seguirti e poi mettermi incinta del tuo…” Non riuscì a terminare la frase. Scomparve il sorriso, scomparve l’ironia, e dovette lottare contro i suoi occhi per non piangere. Dopo tutto quel tempo, ancora non riusciva a capire, né nominare, cosa avevano messo al mondo lei e quel dio. Rabbrividì quando capì che lo aveva chiamato sempre e solo dolce bambino mio. “Che ci vuoi fare…” rispose Skyrgal sorgendo dentro di lei, divertito dal suo repentino smarrimento. “Il corpo di un mortale non è fatto per ospitare a lungo l’anima di un dio e non puoi capire quale terribile noia sia. Credi sia stato piacevole grattarmi il naso e poi ritrovarmelo tra le dita? Oh no, no davvero. Sento che dentro di me si nascondono infinite cavità, colme di liquidi putridi e gas che aspettano solo di uscire per vie innaturali. Non è davvero un granché come esistenza, mettiti nei miei panni, anche se lerci e incrostati di ogni sorta di liquido appiccicoso. Per questo è importante che tu torni a casa insieme a ciò che mi appartiene.” Alzò l’indice a indicare il bambino. “Il mio sangue. Mi serve. Mi serve maledettamente.” “Dov’è finita l’altra mano?” “Deve essermi caduta da qualche parte. Dove, non saprei. Con la carenza di proteine della dieta locale, qualche bestia l’avrà già raccolta e digerita. Un po’ come fa il tempo con le vostre stupide esistenze umane.” “Che sottile metafora.” “Ti ringrazio.” “Quella mano con la quale mi accarezzavi”, ricordò Aniah, mentre il suo sguardo si perdeva nel vuoto. “Giurando che mi avresti protetta per sempre.”

Il dio rimase in silenzio. Le bende sulla spalla si mossero, lasciando fuoriuscire una nuvoletta di gas fetido. “Tu pensi di poter ancora parlare con lui, non è vero?” dedusse. “Nascosto dentro questo corpo in putrefazione pensi di poter raggiungere Crowley Nightfall, Pendracon di Golconda, vicario di Angra e tutto il resto. Pensi di potergli dire: Combatti contro di lui, amor mio. Vieni fuori, ti aspetto a gambe aperte! Oh. È stupido, donna, molto stupido, nonché tecnicamente sbagliato. L’uomo che amavi, adesso, è solo la pelle che abito. Dovresti averlo capito dopo quello che sono stato in grado di farti. Lui non ti avrebbe mai fatto cose del genere. Lui ti amava, ti amava davvero molto.”

“Ah sì?”

“Sì. Io lo so. Perché possiedo anche i suoi ricordi. I vostri stupidi ricordi.”

Lei si raggelò all’istante. “Non farlo”, sussurrò. “Me lo hai portato via. Lasciameli, almeno quelli.” “Sai qual è il mio preferito?” continuò Skyrgal. “Il profumo silvestre della Radura di Golconda. Se non sbaglio, la vostra prima volta insieme.” Adesso Aniah provò la chiara sensazione che quel sibilo infido nascesse ancora una volta dentro di lei, ma più basso: dal ventre, dall’inguine. Lo sta facendo apposta.

“Che romanticismo, piccola mia. L’invincibile guerriero che aveva già ucciso e combattuto e vinto le sue guerre era così imbarazzato a dover entrare per la prima volta nel corpo di una donna, poco più che un ragazzino tutto rosso alle prime armi col suo pisellino. Tuttavia c’eri tu, puledra navigata, che gli dicevi per bene cosa fare. Metti le mani qui, spingi così, mordimi qui… ah! Da morire dal ridere. Be’, dal momento che sei stata svezzata così giovane, non c’è da sorprendersi che fossi un tantino più esperta, tesoro. Gli hai dato sicurezza, non l’hai fatto sentire uno stupido quando ogni altra donna lo avrebbe umiliato. Lo

apprezzo, sai? Sei persino riuscita a farlo godere senza che lui ti ricambiasse il favore. Quest’uomo non saprà mai quanto ci siamo divertiti noi due, invece. Oh sì, io ti ho sentita. Di sicuro la forza vissuta attraverso l’eternità ha qualche esperienza in più, zucchero, almeno questo me lo devi concedere!” Aniah chinò il volto e strinse i pugni. Skyrgal sconquassò il suo corpo putrefatto in un’oscena e lenta imitazione del sesso. “Sì, cavalca il tuo dio preferito ancora una volta. Verso le stelle e poi giù, nella gola dell’inferno!” Smise solo quando la sentì ridere anziché piangere. “Lo trovi buffo?” Adesso la voce era stata cacciata dritta nelle profondità siderali di quell’ammasso di bende: era davvero sorpreso. “Trovavo buffa un’altra cosa.”

“Cosa?” Lei alzò la testa a guardarlo, ghignando tra le lacrime. “Anche adesso che sei riuscito a reincarnarti hai perso la mano sinistra, Skyrgal. Proprio come quella che Angra ti strappò con i denti secondo le antiche scritture. Ricordi quanto ti sei sentito debole mentre ti faceva a pezzi? Ricordi quanto fosse umiliante urlare di dolore ai suoi piedi mentre tuo fratello ti esiliava dal tuo Vero corpo?” Gli scoppiò a ridere in faccia, ostentando il coraggio che non aveva.

Il dio incarnato si rabbuiò. La luce nel suo occhio si affievolì, prima di tornare a bruciare più forte di prima. “Sì”, rispose dopo una lunga pausa. “Ci troverai davvero molto da ridere quando mi prenderò nuovamente cura della tua tortura, puttana!” “Oh. Non eri tu che odiavi il turpiloquio?” La voce le rispose dentro la gola, come chiudendola in una morsa: “Però, questa volta, per prima cosa ti amputerò le mani e i piedi, così sarò sicuro che non potrai scappare di nuovo. Diventerai una bella larva umana, Aniah, nuda in una cella fredda e umida. Sarà piacevole vederti cercare di mangiare, strisciare e bere l’acqua dal pavimento mischiata ai liquami dei miei fedeli. Certamente li lascerò

liberi di sfogare ogni loro più turpe istinto su di te, e starò lì a guardare mentre ti umilieranno nel profondo. Molto, nel profondo. Solo dopo comincerò a somministrarti il dolore a mia volta. A me piace scavare nel torbido degli umani, più o meno metaforicamente, e non esiste davvero sofferenza più grande di quella che riservo a coloro che hanno provato a scappare dalle mie mani. Né più lunga di quella che riservo a chi ci è riuscito.” “A parte questa tua puzza di uova marce, immagino. Cos’è? Hai scorreg–” Skyrgal sbatté la mano sul tavolo e Aniah trasalì, capendo con un istante di ritardo di aver esagerato. Tutti si voltarono a guardarli, però il dio rimase ancora una volta in silenzio. Quel suo silenzio assoluto e terribile nel quale lo aveva visto fare le cose peggiori. Anche dentro di lei. “Odio essere osservato in queste condizioni”, sibilò. “Se questi pezzenti non smettono di guardarmi, presto non avranno più gli occhi per farlo.” Ogni possibile ironia scomparve dalla mente della donna. No, non era più divertente, se mai lo fosse stato. Forse solo in quel momento Aniah si ricordò di chi, o cosa, aveva realmente di fronte: Kam Karkenos lo chiamavano gli antichi. La forza vissuta attraverso l’eternità.

“È brava gente”, disse. “Questo non li riguarda.” “Adoro le volgari dimostrazioni di potere. Va’ a leggerti tutti quei libri che parlano di me.” Quando lo vide portare la mano alla scimitarra Aniah capì che faceva sul serio. Una forza dopotutto faceva sempre sul serio, allora si alzò e urlò: “Be’, che Ktisis avete da fissare mio fratello?” Si guardò intorno, cercando di sembrare convincente. “Non avete mai visto un uomo divorato dalla lebbra?” Uno spaccapietre senza il naso, ubriaco, cercò di alzarsi in piedi con il coltellaccio stretto nella mano. “Q-quell’uomo vi importuna, signora?” balbettò. Lei indicò lo spadone sulle proprie spalle, come a dire che di certo non aveva bisogno del suo aiuto. Il brusio di sottofondo si levò nuovamente tra le quattro mura della taverna, eppure Aniah tirò un sospiro di sollievo solo quando vide

Skyrgal poggiare nuovamente la mano sul tavolo. “Sei troppo buona”, constatò questo, osservandola mentre si rimetteva a sedere. “Lo sei sempre stata. Ti esponi di continuo per salvare la vita agli altri, ma non mi sembra che qualcuno si sia mai dato troppo da fare per aiutarti. Non quando eri bambina e tuo padre giocava con te in maniera un po’… insolita, né quando sei cresciuta. Gli uomini ti hanno sempre calpestata, Aniah, però tu non impari mai.” Sospirò, tamburellando con le falangi scheletriche sul tavolo. “Be’, un giorno voi mortali morirete tutti. Fa parte della vostra natura, allora cos’è questa smania di sopravvivere e salvare gli altri dalla loro sorte?” “Un Guardiano vive per sempre finché vivono i Guardiani”, sentenziò la donna, guardandolo dritto nell’unico occhio. “Sesto e ultimo comandamento.” “Oh. Non sai quante volte ho ascoltato una scemenza simile nel corso dell’eternità. E dove sono tutti, ora? I popoli e le loro guerre indispensabili combattute nel nome di dèi inesistenti? Dispersi come pulviscolo nell’infinito baratro dell’universo, un pulviscolo composto da esseri che in diversi luoghi e tempi pensavano di essere al centro del creato.” “Carina questa, dove l’hai letta?” “Ma per te potrebbe andare diversamente”, continuò la forza, come se non l’avesse neanche sentita. “Sì, per te potrebbe andare meglio, come per tutti coloro che mi hanno servito degnamente. Se solo rimanessi con me scopriresti quanto è bello, dopo il morire, vivere ancora. Potrei fare di te un essere eterno.” Aniah annuì. “Conosco quel tipo di esistenza. L’esistenza dei tuoi servi più fedeli. Io ti ho visto marcire ora dopo ora e trascinare nel tuo lento declino l’unica persona per me sinonimo di vita. Da allora il tuo è stato solo un lento nuotare nelle torbide acque nere della morte. Angra ti ha veramente ucciso quel lontano giorno, lasciandoti in vita.”

Il dio non rispose stavolta. E non rise. Il solo udire quel nome doveva risvegliare nella sua mente vecchia quanto il tempo antichi dolori e ravvivare un rancore mai sopito. “Il tuo corpo. Angra ti ha buttato fuori dal tuo corpo–”

“Smettila.” “–quando persino un ratto che marcisce in una fogna possiede il proprio!” “Smettila!” Aniah non proseguì, paga di aver trovato il suo punto debole. Skyrgal chinò la testa. “Hai ragione”, ammise. Poi alzò lo sguardo sul bambino tra le braccia della donna e si fece serio, imibile. Nel suo occhio brillò un’animalesca luce di desiderio. “Ma a volte, in vista dell’obiettivo finale, la qualità morale di ogni singola azione che ci porta verso di questo perde totalmente di importanza. Noi esseri eterni non abbiamo paura di giungere a compromessi, neppure con la morte, e anche chi tra voi umani desidera divenire potente quasi quanto noi impara quest’arte tra le meno nobili. Se i miei servi non si fossero imbattuti nella sacrilega conoscenza custodita per millenni al riparo delle sabbie di questo deserto, io non sarei mai riuscito a giungere sul mondo per la seconda volta. Ora che ce l’ho fatta, non mi accontenterò di marcire in un mortale o di vagare di uomo in uomo per l’eternità. Io rivoglio il mio corpo, custodito in cima alla vostra stramaledetta montagna sacra. Mi appartiene!” Strinse la mano in un pugno, poi sembrò rilassarsi, stendendola pacifica sul tavolo. “Sì. Io dovevo solo far sì che il mio sangue tornasse a scorrere sul mondo dei mortali, non importava con quale mezzo, e ho potuto farlo grazie a te. Grazie, donna, per avermi dato un figlio.” Al di sotto delle bende sembrò sorridere. “Il suo sangue divino darà nuova vita alle colossali membra di pietra del mio vero corpo, consentendo la fine di questo tormento, la fine del mio Esilio. Il potere, frutto del tuo seno, è antico. Dove pensi di poter nascondere un essere simile?”

“Io non devo nasconderlo. Lui non deve vivere. Devo portarlo alla Fortezza affinché i miei Fratelli di Sangue possano ucciderlo.” “Ucciderlo?” “Araya potrà farlo!” “NO!” Skyrgal chinò il volto. “No”, ripeté.

Si portò la mano al petto, facendosi strada con le dita attraverso le bende che lo ricoprivano. Scoprì lo sterno nero e necrotico dove ardeva, come se composto da fiamme inestinguibili, quel simbolo rosso sangue che lei conosceva ormai sin troppo bene:

∞

La Spirale. Quello stesso simbolo che anche suo figlio aveva sul petto, nero e spento, segno di una natura blasfema e divina al tempo stesso. Distolse lo sguardo. “Mio figlio è immortale quanto me”, sibilò Skyrgal. “Può essere sepolto, il suo corpo smembrato e sparso ai quattro capi del mondo. Può essere bruciato, annegato e torturato sino alla pazzia. Può essere eroso da mille acidi e ucciso da mille veleni. Egli tornerà. Egli è immortale. Io l’ho creato così, a mia immagine e somiglianza, affinché possa un giorno servire degnamente allo scopo.” Alzò lo sguardo su di lei. “Quando i miei fedeli raderanno al suolo la vostra dannata Fortezza e metteranno piede sulla montagna sacra, attraverso il suo sangue tornerò di nuovo in vita. Chi potrà farmi fronte in quel momento? Da che parte vorrai essere in quel momento? Tu che hai saggiato il mio potere hai l’obbligo di tornare indietro prima che sia troppo tardi. Io ti concedo di vivere e vederlo crescere sino a quel giorno. In fondo non è questa l’unica cosa che vuoi, l’unica cosa che vorrebbe una madre? Crescere il proprio figlio fino a che questo non raggiunge lo scopo per cui è nato.”

La donna lo lasciò finire. Poi, lentamente ma con decisione, scosse la testa. “Tu e Crowley non riuscivate ad avere figli, vero?” disse Skyrgal, dritto nel suo ventre. “È questo il tuo problema.” “Smettila!”

“Ci avete provato a lungo. Ricordi quanto fosse doloroso essere diversa da tutte quelle donne? Perché è questo che rende una donna tale, la riproduzione.” “Smettila”, sussurrò Aniah, in lacrime. “Adesso che stringi un bambino cresciuto nel tuo grembo, non puoi rinunciare all’illusione che sia un po’ vostro. Io lo capisco. Le vostre tortuose emozioni sono fonte di grande interesse, mi affascinano persino. Tu lo hai partorito con dolore, un dolore più grande e profondo di quello che qualsiasi umana abbia mai provato per mettere al mondo la sua prole. Il dolore unisce più di ogni altra cosa e ora ti senti legata a questa creatura, per quanto dici di voler porre fine alla sua esistenza. Ma lui è mio. È il mio sangue!”

La sua voce si era fatta sempre più forte e quell’ultimo urlo le era parso umano. Scese nuovamente il silenzio e tutti i presenti tornarono a osservarli. Aniah capì che qualcosa di orribile sarebbe accaduto, e sarebbe accaduto in fretta. L’oste si avvicinò con un’espressione preoccupata sul volto. “Devo chiedervi di andarvene”, disse. “State disturbando la pace di questo luogo.” Skyrgal rimase immobile per un tempo che sembrò interminabile. Poi annuì, e lei capì che gran parte di quelle persone, forse tutte, erano già morte. “Sì, me ne stavo giusto andando, caro uomo medio”, rispose il dio. “Non voglio certo disturbare la pace di questo luogo. Nessuno vorrà farlo, da oggi in poi, ricordando quello che qui è accaduto. Tutto quel sangue. Quella gente fatta a pezzi.” Detto questo si alzò e sguainò la scimitarra. L’oste fece un’espressione sorpresa, incuriosita, quando si ritrovò a stringere le proprie viscere viola tra le mani; non lo aveva visto neanche muoversi. Lo guardò, come chiedendo spiegazioni, prima di crollare a terra invocando il nome di una donna che non era lì con lui mentre moriva. Tutti i presenti si alzarono, le sedie caddero, la birra venne rovesciata sui tavoli. I più giovani provarono a correre verso la porta, i più vecchi rimasero lì dov’erano, pietrificati dal terrore. Nessuno fece in tempo a salvarsi; Aniah si alzò e impugnò la spada quando già Skyrgal eseguiva compiaciuto il finale in crescendo della sua sinfonia di morte, decapitando una ragazza, poco più che una bambina. La giovane testa rotolò attraverso il tappeto di corpi smembrati che

ricopriva il pavimento ligneo della taverna e il sangue, fuoriuscendo dalle arterie tranciate, scorse lungo le fessure del pavimento mischiandosi al sottile strato di sabbia che lo ricopriva. In quel pantano sopravviveva solo un mezzo uomo che si trascinava ostinato col suo seguito di intestini. Si voltò e osservò le sue gambe lontane, il suo bacino, lo spunzone della colonna vertebrale che emergeva dalle budella. Oltre il muro del dolore capì e chinò la testa per concedersi all’abbraccio protettivo del grande buio. È ancora potentissimo, anche in quel corpo! Skyrgal si voltò, circondato dal sangue e dalla nuda carne. “Dunque”, disse. “Dove eravamo rimasti?” Aniah provò ad attaccarlo, ma quando il dio aprì il palmo della mano verso di lei tutte le sue armi andarono in frantumi. “AH!” Solo un pugnale sopravviveva ancora sulla cintola e lo sfoderò. Guardandolo, si accorse che le sarebbe servito a gran poco: la sua lama era grezza e porosa, di un colore verdastro. Sembrava il reperto di un antica civiltà appena tirato fuori dalle sabbie del tempo. “Uhm, guarda guarda cos’ha portato dentro il gatto”, disse Skyrgal. “Chi ti ha dato quel pugnale?” Aniah non rispose. Spostò lo sguardo più volte dal dio alla lama inutilizzabile che ancora si ostinava a puntare contro di lui. “Quell’arma è stata ricavata da un unico blocco di mayem”, spiegò la forza. “Contiene qualcosa di molto prezioso per mio figlio ed era conservata piuttosto gelosamente. Mi domando chi te l’abbia data. Mi domando chi ti abbia aiutato in tutta quest’inutile fuga, dopotutto, anche se ormai non ha più importanza.” Il suo sguardo calò inesorabile sul bambino. “Niente ha più importanza”, continuò, muovendo un o. “Sono rimasto piacevolmente sorpreso dal tuo coraggio. Se era il mio rispetto quello che cercavi, devo dire che te lo sei meritata. Però adesso basta. Non opporti ancora al mio crescente potere.” “Il potere più grande è quello della creazione”, rispose lei, mentre lo osservava avvicinarsi. “È il potere di Angra e delle donne. Un potere che tu non capirai mai.”

Skyrgal si fermò. “Molto commovente”, le disse faccia a faccia. Alzò la scimitarra e la poggiò contro i suoi capelli, servendosene per ripulirla dal sangue che la insozzava. “Sei solo una ragazzina testarda, proprio come tutti i Guardiani. A volte penso che combattiate per il solo gusto di farlo, perché non avete mai fatto altro nella vostra lunga, inutile storia, al di là dei motivi che vi spinsero a farlo in principio e delle vostre attuali probabilità di successo. Questo è stupido: combattere quando sai già che perderai. A cosa servirà, se non a prolungare la vostra agonia?” Aniah si sentì debole e impotente, mentre dall’esterno della taverna giungeva il verso di un tankar: un ululato carico di sofferenza. “I razziatori del deserto sono stati attirati qui dal sangue”, osservò il dio. “Loro sì che lotteranno sino alla morte per strappare anche l’ultimo brandello di carne dalle tue ossa, una volta che me ne sarò andato. Per loro non esiste alternativa, per te invece sì. Non fingerti più coraggiosa di quanto sei. Vieni con me e prometto che stavolta non soffrirai. In fondo, voglio davvero che tu cresca mio figlio finché non servirà allo scopo.” A quelle parole la donna gli porse il bambino, come se volesse solo liberarsene. “Portami via, ti prego. Non voglio morire sbranata da quelle belve. È stata tutta una follia, perdonami!” Skyrgal rinfoderò la scimitarra. Afferrò il bambino per una gamba e lo sollevò davanti al suo occhio, guardandolo con brama mentre questo piangeva disperato. “Sì”, sibilò. Sotto le bende le sue labbra devastate sorrisero compiaciute e il suo occhio brillò ancor più lucente. “Sì!” Il bambino urlò fino a rimanere senza respiro. Allora il dio lo strinse a sé, cullandolo dolcemente. Infranse le bottiglie e i bicchieri riversandone il contenuto alcolico sul pavimento, poi disseminò ovunque i tizzoni ardenti del camino. Quando fu sicuro che il fuoco avrebbe purificato quel luogo aprì la porta della taverna e, affiancato dalla donna penitente, uscì. Subito si fermò, alzando lo sguardo. Il vento gli rise in faccia scuotendo le bende sul suo volto. “Uhm”, mormorò. “Guarda guarda cos’ha portato dentro il gatto.” Dodici spade erano puntate contro di lui, impugnate da dodici uomini e donne

nelle loro tuniche amaranto volti a formare un’impenetrabile falange. Skyrgal riconobbe quelle spade e il metallo in cui erano forgiate: il manegarm, prigione delle anime nell’antica lingua dei gorgor. L’unico metallo in grado di estirpare e imprigionare l’anima delle forze vissute attraverso l’eternità, una peculiare caratteristica che lui conosceva bene, sin troppo bene. Stretto tra la gelida luminosità di quelle lame, e quel fuoco che non avrebbe concesso alcuno scampo al suo corpo già consunto, capì di essere in trappola. Lo capì soprattutto quando, a capo dei dodici Guardiani, vide un uomo i cui lunghi capelli bianchi erano a stento contenuti dal cappuccio. Egli aveva un solo occhio, come tutti coloro che nel corso della storia si erano succeduti alla guida della Fortezza, vicari di Angra in terra. “Hammoth”, constatò Skyrgal, sorridendo. “Quale onore: il nuovo Pendracon in persona si è scomodato per venire a prendere ciò che rimane del suo predecessore. Perdonami, se non è molto.” Abbassò lo sguardo sulla spada che impugnava e sentì il suo corpo mortale scosso da un brivido di terrore. Era quella, la spada nella quale aveva ato buona parte del suo Esilio. Aniah sfilò accanto a lui, affiancando i suoi Fratelli di Sangue nell’ora più difficile. Non c’era più ombra di paura nei suoi occhi, solo la soddisfazione nell’aver portato a termine il suo piano disperato. “Era tutta un’imboscata. Sapevi che ti avrebbero raggiunta qui”, sibilò Skyrgal maligno. “Scoprirò chi ti ha aiutata e lo metterò a bollire nel sangue dei suoi figli.” “Il sangue non bolle”, rispose la donna. “Coagula.”

“Riconosci la lucentezza di questa lama, dannato?” tuonò Hammoth. “Consegnaci quell’abominio e seguici di tua volontà, o fatti umiliare nel tentativo di fuggire!” “Voi mortali non potete macchiarvi con l’Esilio di una forza!” esplose il dio. La luce nel suo occhio divenne accecante, mentre alzava la lama contro di lui. “Voi non oserete.” “Fermi, tutti!” ordinò il Pendracon. “Non vi muovete.”

Skyrgal si guardò intorno e valutò. Stoici nel gelo, incuranti del vento, osservò i Guardiani uno per uno, fermi quanto le spade che gli tenevano puntate contro. No, non esisteva via di fuga a parte una, l’ultima che avrebbe preso in considerazione; osservò il bambino che stringeva al petto. Guardò suo figlio con rabbia e desiderio al tempo stesso. “Perdonami se ci siamo ritrovati per così poco”, disse. “Ti prometto che questo non è un addio, solo un arrivederci. Oh sì. Questo è il principio di un lungo viaggio.” Lo baciò sulla fronte e tutti sembrarono domandarsi cosa avesse in mente, finché non lo videro scaraventare il bambino in aria. Quando i Guardiani ruppero l’accerchiamento per afferrarlo al volo, il dio ne approfittò per tentare la fuga ma Hammoth non si lasciò sorprendere e si lanciò in volo con la spada tesa a mezz’aria. “Ah!” Sentì la lama che tagliava di netto la carne putrefatta mentre una gamba nera e marcia cadeva a terra. Skyrgal volteggiò più volte nel vento, scomposto, prima di cadere riverso nella sabbia. Si rialzò sul dorso e iniziò a strisciare, tuttavia il Pendracon corse a piantargli un ginocchio nel ventre, immobilizzandolo. Alzò la spada davanti a sé e la puntò contro il marchio al centro del petto. Lo sguardo nel suo unico occhio si riempì di paura. La forza ci trovò qualcosa da ridere. “Che c’è? Ti mancano i coglioni?” “Torna nella tua prigione, Esiliato!” ringhiò il Pendracon, prima di calare la spada e infilzare la Spirale immonda. Skyrgal sbarrò l’occhio e serrò ogni muscolo del suo corpo decomposto, mentre urlava le sue ultime parole da mortale: “Tornerò! Maledetto servo di un traditore, io tornerò!” Hammoth sentì l’impugnatura della spada fremere nelle sue mani mentre l’impura anima scorreva dentro la lama, abbandonando per sempre le spoglie dissacrate del suo predecessore. Presto fu tutto finito. Troppo presto. Sfilò la spada vivente dal corpo ormai vuoto di Crowley e non osò neanche guardarlo. Crowley, si concesse di pensare. Perdonami, amico mio.

La lama brillò di luce propria. Sentì il suo calore sulla pelle e vide scintille elettriche percorrerne l’intera superficie. La ripose subito nell’antico fodero, con sopra incisi simboli argentati legati gli uni agli altri come gli anelli di un’infrangibile catena. Sentì il fodero stringersi intorno alla spada, domarne il potere e costringerla al silenzio. Si narrava fosse stato Angra stesso a tracciare quei simboli con il proprio dito divino quando aveva affidato agli uomini la spada che conteneva l’anima di Skyrgal. Prima del loro tradimento, prima di tutto.

Hammoth cadde in ginocchio, affondando le dita nella sabbia. “Angra sceso in terra. Io ti ringrazio”, sussurrò, scosso dallo stremo. Rimase a lungo in quella posizione, incurante della tempesta, in attesa che la luce tornasse. Aveva restaurato il patto di fiducia con il suo dio; avrebbe riportato l’anima di Skyrgal alla Fortezza e sarebbe stato come se nulla fosse mai accaduto. Angra li avrebbe perdonati e quella spada maledetta sarebbe tornata nella cripta, lì dove i Pendracon la conservavano e proteggevano sin dall’alba dei tempi. Quello era stato solo un incidente di percorso, si disse, solo un incidente, dovuto all’inaffidabilità del genere umano e degli dèi materiali che venerava. Eppure la paura di un pericolo incombente già gravava sulla sua coscienza, come un’ombra che camminasse alle sue spalle per scomparire solo quando si voltava.

Ripercorse i suoi i, ansioso di tornare nella sicura luce del fuoco, e vide i Guardiani ancora disposti in circolo intorno al bambino disteso sulla sabbia. Nessuno osava raccoglierlo, nessuno osava neanche toccarlo. Vide la paura nei suoi uomini, poi lesse il suo stesso terrore riflesso nei loro occhi.

Quando riuscì a liberarsi dalla stretta dei due Guardiani che la trattenevano, la madre si gettò a sollevare il bambino da terra e strinse il fragile corpo contro il seno. “È finita”, mormorò piangendo. “Angra sceso in terra, è finita!” Hammoth le mise una mano sulla spalla, guardandola dall’alto. “Torniamo a Golconda. Lì, decideremo cosa fare di suo figlio.” Aniah chinò il volto e ricominciò a piangere, in silenzio, quando un urlo di

dolore sovrastò quello del vento giungendo sino a loro: “COSA SONO DIVENTATO?”

Hammoth si voltò, in tempo per vedere l’ombra di un corpo informe strisciare via nel buio. “COSA SONO DIVENTATO, HAMMOTH? COSA MI HA FATTO?” Aniah si alzò. “Crowley è ancora vivo!” Fece per correre verso di lui. Il Pendracon la trattenne per un braccio. La voltò, con violenza, e la fissò negli occhi con lo sguardo fermo. “Qualsiasi cosa sia diventato adesso, quello non è più l’uomo che amavi, né il mio Re guerriero!” disse. “Crowley è morto.” Aniah lo osservò impotente, implorando pietà con lo sguardo, schiacciata tra la voglia di scappare ancora una volta dietro il suo amore perduto e l’ineluttabilità di un fato che continuava a prendersi gioco di lei. Hammoth alzò il braccio per indicare la strada dalla quale erano venuti, e lo abbassò. I Guardiani rimontarono in sella ai loro Mogwarts, giganteschi felini dalle lunghe zanne d’avorio e il folto pelo nero, le uniche bestie in grado di affrontare la rabbia del deserto. Furono presto in marcia; due ordinate file di Guardiani, sotto lo sguardo silente delle rovine di Adramelech. “Queste mura hanno occhi per guardare”, mormorò uno dei suoi uomini. Hammoth non trovò la forza per rispondere.

* * * * *

Il Pendracon prese Aniah con sé, preoccupato dalle possibili reazioni dei suoi uomini; i Guardiani osservavano la donna con sospetto, ora, se non con aperto disprezzo. Molti la conoscevano da tempo. Alcuni erano stati persino addestrati con lei, da bambini, ma al cospetto di quello che aveva fatto e che li costringeva a fare adesso il loro atteggiamento era cambiato. Non c’era da stupirsi: i

Guardiani votavano vita e morte ad Angra, lui per primo. Era da irresponsabili chiedergli di scortare una creatura simile, il figlio del suo antico nemico, nel cuore delle loro difese. Per quanto forse tutti sapessero che quella follia era l’unica cosa sensata da fare, Hammoth già sentiva la sua autorità scricchiolare sotto il peso della corruttibilità.

“Io l’amavo”, sussurrò Aniah, a un certo punto della lunga marcia verso casa. “Gli ho giurato fedeltà eterna davanti ad Angra. Ora Crowley è solo. Là fuori.” Il Pendracon si voltò. “Non parlare. Il viaggio verso la Fortezza è ancora lungo.” Lei chinò il volto. Baciò il bambino sulla fronte e Hammoth si scoprì a provare pietà per lei, per tutti loro. Si domandò cosa avrebbe fatto una volta tornato alla Fortezza; se l’erano lasciata alle spalle sei giorni prima in cerca di speranza, adesso riportavano la rovina. Al terzo giorno di marcia vennero attaccati dai tankar, i possenti uomini-lupo del deserto. Riuscirono a respingerli ma persero due Guardiani, traati dalle lame affilate dei loro guanti artigliati per difendere Aniah e il suo fardello. Era proprio quello che i tankar cercavano di predare, attaccando con ferocia, e non era la fame portata dalla carestia che li muoveva. Nei loro occhi iniettati di sangue Hammoth aveva visto una rabbia cieca e assassina; volevano il bambino, era l’istinto primordiale a farlo apparire ai loro occhi come la minaccia più grande, più grande degli uomini, più grande delle spade che impugnavano, una blasfemia incomprensibile per il loro animo violento e puro. Adesso che avevano imparato la lezione, le bestie li seguivano a distanza osservandoli circospetti tra le alte formazioni rocciose erose dal vento. La morte dei due compagni rese madre e figlio ancor più indesiderati agli occhi dei Guardiani. Uno di loro protestò, urlando che era tutta una pazzia e piangendo isterico. Hammoth fu costretto a schiaffeggiarlo di fronte agli altri per riaffermare la sua autorità e ne provò una profonda vergogna. Da quel momento in poi, rifuggì lo sguardo di tutti. Temeva che la situazione gli sarebbe presto sfuggita di mano. Tornati alla Fortezza, sarebbero bastate solo un paio di birre ad alcuni dei suoi compagni di viaggio per lasciare la lingua senza redini e parlare di ciò che avevano visto. La parola si sarebbe sparsa in fretta e i Guardiani si sarebbero presto rivoltati contro la presenza del figlio di Skyrgal alla Fortezza.

Avrebbero complottato anche contro di lui, se non si fosse schierato subito dalla loro parte; alcuni erano abbastanza idioti da poterlo fare e loquaci quanto bastava a convincere gli altri a farlo. Non avrebbero mai accettato quella bestemmia tra di loro. Avrebbe potuto chiedere di tacere al riguardo, ma presto capì che nessun voto avrebbe mai potuto impedire a un Guardiano di parlare in tutta libertà con i suoi Fratelli di Sangue, gli stessi con i quali condivideva vita, e guerra, e morte.

Al termine del quarto giorno di marcia, al calare del vento, il Pendracon decise di accamparsi per la notte sostenendo che il peggio era ato; ora potevano procedere con più calma. Dopo l’orrore di cui erano stati testimoni, e la fatica della lunga marcia, i suoi uomini furono rinfrancati dall’idea di poter finalmente dormire al riparo delle loro tende. Sorteggiarono i turni di guardia e per dare il buon esempio anche Hammoth si mise a disposizione. Quando fu svegliato nel cuore della notte dalla mano del Guardiano che lo aveva preceduto, capì che era giunta l’ora tremenda. Aspettò che tutti dormissero. Poi sguainò la spada. Scelse di iniziare dal più fedele tra di loro: Worton, il suo vecchio istruttore, colui che gli aveva trasmesso tutte le sue conoscenze e che aveva fatto di lui l’uomo che era diventato. Lo stesso che aveva avuto l’onore di cavargli l’occhio quando il consiglio lo aveva eletto nuovo Pendracon dei Guardiani. Strinse la mano sulle sue labbra e fece scorrere la lama lungo il collo, soffocando il suo breve e muto verso di sorpresa. Così se ne andava la sua umanità, tuttavia una volta trovato il coraggio di cominciare trovò quel compito persino facile. Consegnò alla morte i suoi Guardiani, uomini e donne che avevano offerto al suo servizio gli anni migliori della loro esistenza e l’indiscussa fedeltà. Gola dopo gola, straziando giugulari e carotidi, arrivò all’ultimo, il più giovane, ma si accorse che questo non stava dormendo. Aveva osservato tutto in silenzio, aspettando il suo turno con maniacale disciplina. Non urlò, non tremò nemmeno. Annuì, e con le sue ultime parole disse: “Fatelo, mio re. È la cosa giusta. Un segreto vale più di mille spiegazioni.” Il Pendracon chinò il volto e chiuse gli occhi. Poggiò la spada contro la sua gola e si abbandonò con tutto il peso contro l’impugnatura. Il ragazzo morì dignitosamente e il suo sangue ancora caldo penetrò nella sabbia, trasformando l’accampamento in un pantano dove i cadaveri dei suoi Fratelli già dormivano il loro sonno eterno. Si voltò; Aniah era sveglia e teneva il bambino in braccio, guardandolo. Non disse nulla.

Il Pendracon si alzò con un mucchio di sabbia insanguinata nella mano e gliela gettò in faccia, poi ne prese altra e se la schiacciò contro le labbra, succhiando il sangue dei suoi Fedelissimi. “Che l’onta di questa notte e le tue colpe rimangano per sempre dentro di noi! Mangia. Mangia le conseguenze delle tue azioni, puttana!” La tempesta terminò del tutto solo al quinto giorno di marcia, mentre continuavano ad avanzare su quell’unica, antica strada che attraversava il deserto. Iniziò a pensare che le cose sarebbero andate meglio solo quando vide il terreno arido togliersi il manto di sabbia di dosso per scoprirsi alla luce del sole. Con un altro giorno di marcia la terra si rivestì di una vegetazione timida e sofferente e presto si ritrovarono ad attraversare la pianura centrale di Candehelmas, con le sue dissestate fattorie e i granai vuoti, la terra ostinatamente arida e i bassi recinti di pietra. I poveri e sporchi contadini si chinavano al suo aggio, i bambini a piedi scalzi accorrevano e salutavano con le mani ossute. Ma non le bestie; i cani ringhiavano ferendosi contro le catene arrugginite nel tentativo di raggiungerli, nel cielo gli uccelli in fermento li assordavano con i loro versi striduli e presto anche i contadini smisero di salutarli, guardandoli diffidenti. Hammoth condusse la donna oltre, il suo volto fermo, imibile.

Al settimo giorno vide una montagna sorgere contro il cielo rosso e tirò un sospiro di sollievo. Erano arrivati a casa, qualsiasi cosa si fossero lasciati alle spalle e qualsiasi rimanesse ancora da affrontare.

In cima alla montagna sacra di Golconda si ergeva sovrano il titano di Skyrgal, il corpo di Kam Karkenos pietrificato così come era quando Angra lo aveva privato dell’anima. Hammoth marciò più lentamente, osservandolo con timore reverenziale: il possente braccio destro, l’unico superstite, sembrava oggi riparare gli occhi dalla luce del sole impietoso in quello che in realtà era stato l’ultimo, disperato gesto di difesa di Skyrgal al cospetto del destino. Ogni cosa in lui era lo spettro dell’antico terrore: le quattro corna deformi che si attorcigliavano lungo il volto caprino e maligno, le fauci spalancate, le grandi orbite vuote. Le fiamme che un tempo costituivano il suo corpo adesso erano divenute sottili lame di pietra, taglienti come l’incubo che egli continuava a incarnare in coloro nati ai suoi piedi.

Hammoth strinse i pugni e distolse lo sguardo. Non mi spezzerai, pensò. Non mi avrai. Continuerò a combatterti sotto questo cielo rosso sangue!

Quel corpo colossale era rimasto in attesa per l’eternità; intorno erano state costruite mura su mura, combattute guerre dopo guerre. Ogni pagina sporca di sangue della loro storia era stata scritta al suo cospetto, ma adesso tutto era di nuovo cambiato. Abbassò lo sguardo sul tenero pargolo tra le braccia della donna e rabbrividì. Sì. Tutto era cambiato e lui aveva paura. Dolce, nauseante sofferenza. È la morte l’unica liberazione? Con il volto oscurato dal cappuccio, avanzarono oltre le mura di Agalloch, la città sorta ai piedi di Golconda. Interamente costruita nella pietra dura, granitica e ocra ottenuta dallo smantellamento delle colossali rovine di Adramelech, Agalloch era un enorme e perfetto cerchio tracciato ai piedi della montagna sacra. Ogni sua roccia sembrava ricordare il deserto dal quale proveniva; spesso, nelle facciate degli edifici, si intravedeva l’occhio o le zanne della scultura di cui avevano fatto parte. Le sue vie strette e dritte, le sue architetture improbabili, i volti smunti e foschi dei suoi abitanti non fallivano mai nel tentativo di metterlo a disagio. Quella era la città che per prima assorbiva gli urti del deserto e delle sue immonde creature, il loro primo sistema di difese, e nessuno contava più le volte in cui si era ritrovata assediata nella sua tormentata storia, invasa ma mai distrutta, il suo popolo rapito, smembrato, torturato e stuprato ma mai sconfitto. Quella pietra imbevuta di sangue e di storia non poteva morire, come gli dèi che un tempo aveva ritratto. Quella città, quel cerchio perfetto, era eterna. A metà strada fra cielo e terra, su un alto gradino naturale della montagna che si trovava al centro della città, i Guardiani avevano eretto la loro possente e inespugnabile Fortezza, con le svettanti torri affacciate sul deserto.

Essere di nuovo al cospetto delle sue difese impenetrabili gli trasmise un precario senso di sicurezza, subito spazzato via quando un cane spuntò dal nulla giallastro per assalirli; tentò di saltare contro la donna e suo figlio ma il padrone accorse per fermarlo. La bestia allora si rivoltò contro di lui, affondando le fauci nel collo e non mollando la presa fino a che questo non morì. Accorse un ante, con un martello sfondò il cranio della bestia inferocita, e cane e

padrone giacquero morti a terra. Tutti quelli che avevano assistito alla scena li guardarono sospettosi, mentre loro continuavano a risalire le sacre pendici di Golconda, apparentemente indifferenti alla morte che li circondava e seguiva.

Quando Hammoth e Aniah attraversarono il cancello della Fortezza, due bambini corsero loro incontro. “Papà! Papà!” urlarono. Il Pendracon alzò lo sguardo e si costrinse a osservare il sorriso che scompariva dai loro volti, mentre il pesante cancello in amorphis veniva chiuso alle sue spalle, senza alcun seguito. I bambini capivano in fretta le cose, soprattutto le peggiori. Non piansero e li invidiò per il loro coraggio. Colpa mia, accusò la voce dentro. Il dolore e la solitudine che vi accompagneranno per sempre, da oggi in poi, anche quando prenderete moglie e avrete dei figli. Niente riuscirà a riempire il vuoto di un’infanzia negata. Colpa mia. Tutta colpa mia! Una volta giunto tra le riservate mura delle stanze in cima alla sua torre, sicuro che lì nessuno poteva più vederlo o giudicarlo, Hammoth si lasciò andare a un lungo pianto disperato. Si ferì prendendo a pugni il muro, spaccò tutto quello che si ritrovò fra le mani ma, alla fine, della rabbia rimase solo un vuoto incolmabile e una lunga serie di decisioni da prendere. Seduto a terra, come un senzatetto nella stanza di un re, usò la sua riserva di vino per affogare le sue paure e costringere alla quiete le voci dentro. Solo a sera inoltrata trovò il coraggio di affacciarsi dalla torre, la più alta della Fortezza, posta al suo centro. La bottiglia che teneva in mano, ormai vuota, gli scivolò tra le dita volando giù lontana, fino a infrangersi contro la cupola della Sala del consiglio. Afferrò una scheggia di cristallo e se la rigirò più volte tra le dita, cercando rifugio nel lontano oriente, in quel deserto colmo di minacce dal quale era appena tornato. Schiacciato sulla linea dell’orizzonte, poteva ancora vedere l’oscuro profilo delle rovine di Adramelech. Aveva lottato contro tutto per arrivare in tempo all’appuntamento con Aniah. Aveva bruciato ogni possibile tappa ma ora che ce l’aveva fatta, ora che l’impossibile era compiuto, capiva che la lotta era solo cominciata e loro stavano già perdendo.

Nel silenzio più completo, sentì un colpo di tosse e rabbrividì. Dalle sue spalle giunse una voce profonda: “Scusate, mio Pendracon. Non volevo spaventarvi.” Si voltò. Dracon Marduk era sulla soglia della porta, chinato a terra e avvolto nel suo mantello color amaranto. Scintillavano alla tenue luce del camino i dodici pugnali dai quali non si separava mai, la spada a due mani sulla schiena, il coltello sul polpaccio. “Come sta quella puttana di tua sorella?” domandò Hammoth, prima di sputacchiare una risata. “Aniah è sconvolta. Grazie.” “Perdonami Marduk, io… sono completamente ubriaco.” “Mio signore–” “Non ho saputo difenderla da se stessa!” quasi urlò il Pendracon. Poi in un sussurro aggiunse: “Quello che è successo è colpa nostra. Mia!”

Una corrente d’aria fredda entrò nella stanza e fece danzare le fiamme nel camino, agitando le ombre riflesse sulle pareti. Il Dracone lo raggiunse sulla monumentale balconata, evitando i cocci e i mobili distrutti senza fare alcuna domanda. Guardò insieme a lui l’orizzonte, conscio che da qualche parte in quell’enorme niente il nemico si stava già riorganizzando per colpirli.

“La sua anima è tornata nella spada così come la lama di un coltello scivola nel burro caldo”, disse Hammoth. “Non è possibile. Le sacre scritture parlano di un’energia senza fine, un vuoto aperto nella trama dell’universo in grado di risucchiare tutto, persino il tempo. Io mi sarei aspettato di morire dopo averlo intrappolato nuovamente – ero pronto a farlo! Invece… invece niente. Kam Karkenos è saltato nella sua prigione come se…” Strinse nella mano il cristallo, fino a che alcune gocce di sangue caddero nel vuoto. Non terminò la frase. “Il legame tra anima e corpo era debole”, spiegò Marduk. “Un mortale non può ospitare a lungo una forza vissuta attraverso l’eternità, neanche se quello in

questione è il corpo del più grande uomo che abbia mai camminato su questa terra lorda. Quell’anima corrode, mio re. Crowley non meritava davvero questa fine.” Il Pendracon serrò gli occhi. “Non ti è permesso provare pena per lui. La pena è una forma di disprezzo!” “Scusate, mio signore. In ogni modo, adesso sappiamo qual è stato il motivo della breve reincarnazione di Skyrgal. Mettere al mondo un figlio nel quale scorresse il suo sangue maledetto.” “Un figlio… può quell’essere avere un figlio?” “Sembra uno di noi, soltanto un umano. Sembra così fragile e indifeso. Non oso pensare a quale rito sia stata sottoposta Aniah per generarlo. Lei non ne vuole parlare, si chiude nel suo pianto al solo ricordo, eppure i segni sul suo corpo sono evidenti, anche dentro. Ustioni e ferite da taglio. Ho chiesto a Dracon Araya di visitarla a fondo, non avrei accettato che nessun altro la toccasse. Il Dracone del Veleno è rimasto in silenzio per tutto il tempo, sforzandosi di non dire nulla e di sembrare rilassato, tuttavia lo sguardo nei suoi occhi parlava da sé. Aveva fretta, molta fretta, e paura. Posso giurare di averlo visto piangere quando ha scoperto la Spirale sul petto del bambino.” Trasse un lungo sospiro. “Quel marchio non deve trovarsi sul petto di un mortale, è il simbolo dell’infinito, dell’eterno ciclo di distruzione e rinascita che regola lo scorrere del Tutto. È il simbolo degli dèi. Araya ha spedito un suo allievo fidato oltre le mura di Agalloch nella speranza di scoprire qualcosa in più su quello che è accaduto, come su quello che ci aspetta, ma quando Aniah lo ha implorato in lacrime dicendo Uccidilo, signore del Veleno! Ti prego. Almeno tu puoi ucciderlo, non è vero? la sua risposta è stata di nuovo un cupo silenzio. In quel modo ha confermato quell’unico sospetto che non avrei mai voluto diventasse certezza. Non esiste alcun modo per ucciderlo. È immortale, come suo padre.”

“Allora dobbiamo nasconderlo”, sentenziò Hammoth. “Non c’è nulla di cui discutere.” “Il bambino?” “Quel bastardo!” specificò. “I gorgor hanno occhi e mani anche qui dentro, puoi

starne certo. Dobbiamo nasconderlo il più lontano possibile, lì dove non potranno mai trovarlo. Se questo accadesse, le conseguenze potrebbero essere imprevedibili.” “Voi parlate con saggezza, ma non esiste un posto così lontano. Non su questo mondo, almeno.” “E allora cosa dovremmo fare, chiuderlo in una cassa di amorphis e lasciargli are l’eternità sul fondo dell’oceano? Così da perderne il controllo e lasciarlo in balia delle correnti del destino?” “Angra non lo permetterebbe mai.” “È già stato informato?” domandò il Pendracon. Marduk annuì. “E cosa pensa di noi?” “Si è limitato a chinare il volto, senza rispondere. Sembrava umiliato, e deluso.” Hammoth scosse la testa. “Abbiamo tradito la sua fiducia. Puoi tradire la fiducia di un dio solo una volta. Ai suoi occhi siamo ormai empi, nessuna tempesta potrà mai lavare via le macchie di sangue dalle nostre mani.” Una folata di vento si abbatté contro di loro, scuotendo le vesti e i capelli, prima di abbandonarli al silenzio. “Mentre venivo qui stavo pensando a una possibile soluzione”, riprese il Dracone. “Non è una buona idea, ma è pur sempre un’idea ed è l’unica che ho.” Il Pendracon alzò una mano. Lo guardò con fermezza e paura al tempo stesso. “Fallo sparire, non voglio sapere dove. Nessuno dovrà mai saperlo. Ho appena ucciso dodici Guardiani per proteggere questo segreto.” Lasciò che quelle ultime parole risuonassero all’interno della sua coscienza, mentre si guardava le mani. “Sì, li ho uccisi io”, riprese. “E tu lo hai già capito, se sei ancora il Dracon Delta che conosco. Quel segreto vale più delle nostre inutili vite. Ci sono delle spie qui alla Fortezza, dopo quello che è accaduto a Crowley ne sono sicuro, e se non possiamo fidarci di tutti allora non possiamo fidarci di nessuno. Il bambino e il suo sangue maledetto devono scomparire, nessuno deve sapere dove. Ne va della

salvezza di tutto quello per cui combattiamo da sempre.” “È una grande responsabilità quella che mi affidate.” “Sì. Lo è.” “E io spero di essere all’altezza della vostra fiducia.” “Dovrai esserlo.” Hammoth lo guardò dall’alto. Gli pose una mano sulla spalla e con quel gesto lo congedò. Marduk chinò il volto in segno di obbedienza e marciò a lunghi i verso la porta. Poi si fermò. Si voltò a osservare il suo Pendracon, schiacciato dalle responsabilità, ubriaco, sfinito. Lo guardò con comione e se ne pentì. Un Guardiano, soprattutto un Dracone, non poteva osservare in quel modo la propria guida infallibile, insostituibile, colui dalle cui decisioni dipendevano la vita e la morte di tutti. Non poteva dubitare della sua indiscussa integrità ma, in fondo, non erano ati molti anni da quando erano entrambi semplici Guardiani, Fratelli di Sangue, amici di un Pendracon chiamato Crowley Nightfall. Risentì la sua risata selvaggia, ricordò la luce nei suoi occhi divertiti mentre li guardava vomitarsi anche l’anima al termine di una notte ata a bere. Erano soltanto uomini che giocavano a fare gli dèi, quello era il nocciolo della questione; caricato di ogni responsabilità, nessuno poteva chiedere a un uomo di non sbagliare mai, di essere sempre all’altezza, neanche quando teneva fra le mani tremanti le sorti dell’intero mondo. “Mio re… Hammoth”, disse. “Amico mio. Ciò che è fatto è morto. Ormai suo figlio è al mondo e noi possiamo solo nasconderlo. Adesso, se non altro, sia Skyrgal che il bambino sono nelle nostre mani e non in quelle dei gorgor. Se vorranno venire a prenderli, noi saremo qui ad aspettarli armati sino ai denti come sempre nella nostra gloriosa storia. Fronteggeremo qualsiasi attacco, l’esempio di Crowley non andrà perduto. Lascia che ci pensi io. Lascia che almeno questo fardello ricada su di me. Non sei l’unico ad aver ucciso dei Guardiani per il bene comune. Sono ancora il Dracone Delta che ricordi.” Hammoth rimase in silenzio. Poi rispose in un modo che Marduk non si sarebbe mai aspettato: scoppiò a ridere. Una tetra risata da ubriaco. Si alzò in piedi e scagliò una bottiglia contro il muro. “Crowley è ancora vivo!” urlò. Si prese la

testa tra le mani. “Il nostro vecchio Pendracon è ancora là fuori! È sopravvissuto all’anima di Kam Karkenos e… e…” Scoppiò a ridere ancora.

Marduk provò un dolore profondo in quel momento, il dolore di un bambino che vedeva suo padre divenire inaffidabile e debole proprio quando ne aveva più bisogno.

Si risolse a uscire dalla stanza per lasciarsi la torre alle spalle. Marciò spedito sul etto sostenuto dagli archi imponenti, spinto, contrastato e spostato di lato dalle correnti fredde e impetuose, così simili al vento dei ricordi che spirava dentro di lui. Entrò nella sua torre e salì le scale sino all’ultimo piano.

Aniah era lì dove l’aveva lasciata: seduta su uno sgabello davanti al camino, con il bambino assopito nell’incavo del braccio. “Sono riuscita a farlo addormentare”, disse non appena lo sentì entrare. “Era distrutto. Fa’ piano.”

“Te ne stai andando!” rispose Marduk sbattendosi la porta alle spalle. “Stanotte.” Lei continuò a cullare il bambino, lo sguardo perso nel vuoto, cantilenando con voce sommessa. Il Dracone poggiò le spalle al muro, osservandola nella semioscurità. Adesso che si era cambiata aveva di nuovo un aspetto dignitoso, anche se la tunica di lana, tipica dei Delta, nascondeva le migliori qualità del suo corpo. Il buio nei suoi occhi accecava chi era costretto a guardarlo, soprattutto chi come lui aveva visto un tempo quegli occhi bambini e pieni di luce. Il tempo a e tutto cambia, pensò. “Aniah…” “Perché deve essere questo il mio destino?” domandò la donna. “Perché proprio io, questo dolore?” Il Dracone avanzò e le afferrò la testa per costringerla a guardarlo. Da vicino, vide i suoi occhi rossi per le lacrime e provò comione. “Non possiamo

riscrivere il ato. Possiamo solo cercare di rimediare a quello che hai fatto”, disse. “Se uccidere suo figlio è impossibile, lo nasconderemo.” “E dove dovremmo nasconderlo? Non è al sicuro qui alla Fortezza?” Marduk scosse la testa. “Perché mi fai questa domanda, quando conosci meglio di me la risposta? Tu sei stata con i gorgor, sai che la loro mano si muove anche qui dentro. Se quello che dici è vero, si stanno preparando a una guerra che pensano di aver già vinto. Allora dobbiamo portarlo lontano da qui!” “Dove?” Suo fratello si adombrò. “Nasconderemo suo figlio là dove i gorgor potrebbero mettere piede solo una volta rasa al suolo la Fortezza e ucciso sino all’ultimo di noi Guardiani.” Lei lo guardò esterrefatta. “No. Tu non puoi pensare a quell’inferno! Come puoi–” Il Dracone accarezzò la ferita sul suo volto, quella cicatrice con la quale Skyrgal l’aveva marchiata come un capo di bestiame. Alzò gli occhi: sopra al camino era incorniciato il ritratto di Crowley, con lo sguardo fermo e solenne rivolto allo spettatore. Il dolore dei ricordi attraversò da parte a parte la sua mente ancora una volta:

‘Crow, che cazzo di sguardo stai facendo? Sembri un coglione!’ ‘Marduk. Adesso sono il tuo nuovo Pendracon, dovremmo rivedere il nostro modo di parlare in pubblico.’ ‘Ah, andiamo! Da bambini facevamo la cacca nello stesso posto e per fare lo scherzo alla stessa persona, penso di aver diritto a–’ ‘Non ricominciare con questa storia!’ ‘Secondo me sembri un coglione. E poi, questo pittore è sordo sino alle ossa.’ ‘Mar, che cazzo! Lasciagli finire il ritratto e andiamo a bere.’

‘Da’ retta a Hammoth, mi sta venendo una paresi a forza di stare in posa. Skyrgal maledetto, ho bisogno di una birra!’ ‘E dove potremmo andare a bere? Ormai tutti ti conoscono e un Pendracon non dovrebbe mai bere in pubblico.’ ‘Selliamo gli skar, che domande!’ ‘Tu sei completamente pazzo, mio re.’ ‘Sì, fanculo, sarò incoronato solo tra dieci giorni. Cavalchiamo un’ultima volta nel deserto come ai vecchi tempi. Conosco un posto, ai confini con i domini dei tankar, che vi piacerà.’ ‘Quale?’ ‘La luce alla fine del mondo. Io e Marduk ci siamo incappati cinque anni fa durante un pattugliamento. Dannazione, quel posto è davvero come lo chiamano, eppure servono una birra mischiata col mokai che… ah! Poi mi direte se non avevo ragione. Però adesso fatemi finire il ritratto. Ci tengo a venire bene.’ ‘È quello che diceva sempre tua madre.’ Marduk sorrise amaramente accarezzandosi la cicatrice sul mento, lì dove era piombato lo sgabello che gli aveva tirato addosso il suo re. Quante risate ci siamo fatti quel giorno, anche mentre il vecchio Araya mi ricuciva il volto…

I ritratti rendevano le persone diverse da come realmente erano, pensò mentre Crowley ricambiava il suo sguardo, fermo e solenne. Avrebbe preferito vedere il vecchio amico e re immortalato nel momento del suo massimo splendore, con il volto sporco del sangue del nemico contratto in un urlo di furia assassina. Fece scorrere la mano lungo il viso della sorella, giù fino a incontrare con le dita il pendaglio dorato al suo collo. Aniah non se ne separava mai; dentro c’era quella stessa immagine, forse l’unica cosa che le rimaneva della vecchia vita, della persona che un tempo era stata. Odiava i ritratti. Gli ricordavano del tempo che ava e rendeva tutto più vecchio, più grigio, più triste.

Glielo tolse per metterlo al collo del bambino. “Partirai stasera stessa”, ripeté, guardandola negli occhi e parlando in maniera chiara e concisa, come per non dar luogo ad alcun tipo di fraintendimento: “Raggiungerai Arleb sul mondo Oltre. È l’unico Guardiano che si è stabilito definitivamente dall’altra parte del portale. È un uomo nobile, baciato dalla fortuna. Gli consegnerai il bambino. Gli darai i miei ordini. Poi tornerai qui. Arleb era un Dracone, saprà cosa fare. Custodirà il figlio di Skyrgal in segreto e questo ci darà il tempo necessario per capire quali sono le intenzioni del nemico, ora che l’anima di Skyrgal si trova di nuovo nelle nostre mani. Solo noi due ne siamo a conoscenza. Nessun guardiano, sottoposto alla più atroce tortura, dovrà mai rivelare il luogo dove è custodita questa bestia. Il tempo è l’unica cosa di cui abbiamo bisogno, ora, ed è l’unica cosa che non possiamo permetterci di perdere.” La donna lo guardò, incapace di rispondere subito a quella lunga serie di ordini. Forse, non le parole che si sarebbe aspettata da suo fratello in un momento simile. “Quel mondo… tu vuoi veramente abbandonarlo lì, dove i nostri avi esiliavano i più temibili criminali di Candehel-mas? Tu che sei un Guardiano abbandoneresti mio figlio a–?” “Lui non è tuo figlio!” urlò Marduk, stringendo i pugni. Abbassò il volto e digrignò i denti. “Rassegnati all’idea che per lui sei stata solo un… un…” Non riuscì a terminare. Si voltò verso il muro e lo colpì con le nocche nude. “Prendi quello di cui hai bisogno”, terminò in un filo di voce. “E parti.” “Mi stai abbandonando anche tu, vero?” “Aniah…” Lei scosse la testa, alzandosi. “Dopotutto anche io farei la stessa cosa con te, se fossi nella mia posizione.” Marduk la bloccò per un braccio, ancora voltato. “Aniah.” ripeté, ma non riuscì a dire altro. Lei sorrise. “Sì, conosco il mio nome. È l’unica cosa che mi rimane. Sono riuscita a lasciarti senza parole, fratellone. Quante persone qui alla Fortezza potrebbero dire la stessa cosa? Il tuo senso del sarcasmo sembrava non aver mai fine, un po’ come la nostra convinzione di poter salvaguardare l’Equilibrio per sempre. Skyrgal ha ragione, questo mondo è già morto. È solo una questione di tempo, ma presto anche noi uccideremo i figli più deboli per nutrire quello che

rimane della cucciolata, come nella storia che ci raccontava nostro padre quando eravamo piccoli. Ricordi? Prima di farti addormentare, sicuro che in quella casa non stesse succedendo nulla di sbagliato. Stavolta non ci sarà una nuova alba alla fine della notte. Neanche per te.”

“Non dirlo!” “Siamo già morti, e se sei ancora il Dracone Delta che conosco, lo sai meglio di me.” Lui si voltò e la colpì con uno schiaffo, al quale lei non rispose. Uscì dalla stanza, portandosi dietro il frutto del suo amore. “Mi dispiace”, disse Marduk quando non poteva più ascoltarlo.

* * * * *

Oh, Crowley… Aniah percorse a grandi i il viale di pietra che tagliava in due la Radura, la grotta di rara bellezza che si apriva nel ventre della montagna sacra. I suoi alberi rigogliosi, le altissime cascate e la vegetazione multicolore rendevano quel luogo un perpetuo inno alla vita, in forte contrasto con il senso di morte dirompente del deserto che la circondava. Anche ora che il suo cuore era lacerato dai rimorsi, la Radura le ispirava la pace assoluta. Il suo silenzio ovattato era interrotto solo dal rumore dell’acqua che sgorgava dalle numerose spaccature nella volta rocciosa. Nessuno aveva mai capito da dove questa provenisse. La leggenda parlava delle lacrime di Angra pentito per quello che aveva fatto a suo fratello Skyrgal, eppure lei era troppo pragmatica per crederci. Le cascate erano alte e inarrivabili, nessuno avrebbe mai potuto seguirne il corso fino all’origine. Pensò che, se un giorno qualcuno lo avesse fatto, la bellezza di quel luogo ne sarebbe stata in qualche modo intaccata. Attraversò la foresta di querce secolari e i prati verde smeraldo costellati di fiori

di ogni forma e colore, narcisi gialli, papaveri rossi, bucaneve, viole selvatiche, fiordalisi. ò sui graziosi ponti di legno sospesi sopra i ruscelli pieni di vita. La placida luce viola delle sfere di ensiferum, sparse ovunque, illuminava i luoghi amati nei quali aveva ato i rari momenti felici della sua vita; i boschi dove aveva giocato alla guerra con suo fratello, i tronchi che aveva denudato a forza di fendenti quando dalla spada di legno era ata a quella di manegarm. Gli alberi tra i quali si era abbandonata alle acque calde dei piaceri della carne. La investì il ricordo della pelle di Crowley e le parole dolci sussurrate nell’orecchio, i morsi sulle spalle, il fuoco della ione che Angra, il dio dell’ordine universale, voleva sempre . Oh, Crowley… Alzò lo sguardo: sulla destra un grande edificio di legno, come una mastodontica scuderia, sovrastava le chiome degli alberi. Dalle feritoie, poco al di sotto del tetto, un occhio di pura luce la osservava fuggire dal suo mondo. Nulla gli sfuggiva mai. Angra, mio unico dio, pensò. Sarai almeno tu in grado di perdonarmi?

Un ruggito di dolore attraversò la Radura. Il dio fece propria la sua sofferenza e Aniah si sentì rinfrancata. Iniziò a pensare che dopotutto ci sarebbe stato un ritorno a casa, anche per lei. La sua unica colpa era stata quella di amare un uomo oltre la razionalità, di crederlo vivo quando lo sapeva morto, di seguirlo su sentieri dove egli non l’avrebbe portata. Per un momento, arrivò a pensare che amare non potesse mai essere una colpa, in nessun caso. Angra sceso in terra, io ti ringrazio. La ricca vegetazione scomparve a poco a poco lasciando posto a una brulla distesa di terra nera. Marciò attraverso le infinite lapidi dei Guardiani, sepolti in quel luogo sin dall’alba dei tempi; le tombe si facevano sempre più antiche man mano che le scorrevano accanto, fino a divenire semplici blocchi di pietra le cui iscrizioni erano andate per sempre perdute. Infine, arrivò all’ultimo cancello di Candehel-mas aperto lì dove la Radura terminava. Gli spunzoni di ferro battuto spuntavano dalla nuda roccia, come le zanne di una bestia feroce che volesse solo ingurgitarla e farla sparire per sempre. Si ritrovò ingoiata dal buio prima di quanto avesse voluto, giù per una lunga scalinata. L’eco dei suoi i divenne

l’unica compagnia dei suoi pensieri cupi, mentre una luce rossa e lugubre sorgeva a illuminarle il cammino.

Stagliate contro quella luce, apparvero le ombre di cinque Guardiani. La stavano aspettando con le braccia incrociate davanti al petto e un ghigno sadico sul volto.

“Dove stai andando?” domandò uno di loro. “Il mondo Oltre non è un luogo adatto a una donna, specie una che ha tante cose da raccontare.” Lei mosse un o indietro, contro due mani che la spinsero in avanti sbucando dal buio. “Dodici nostri Fratelli di Sangue sono morti per venire a prenderti”, specificò la voce alle sue spalle. “Immagino ti dispiaccia almeno un po’. Cosa nascondi in quello straccio?” “Devo recarmi sul mondo Oltre, ordini di Dracon Marduk”, rispose Aniah, prima di capire che quelli non si trovavano lì per parlare. Un colpo sulla tempia le annebbiò la vista e tutto scomparve, però al solo sentire il pianto terrorizzato del bambino si costrinse a rimanere cosciente. Sguainò la spada e decapitò alla cieca il Guardiano che aveva tentato di strapparlo dalle sue braccia, ma subito gli altri la buttarono a terra e si chio su di lei per colpirla ancora e ancora, e ancora. Sentì le dita di uno di loro raggiungerla sotto la tunica. Dentro. “Apri le gambe, forza!” intimò una voce grottesca, mentre due mani la prendevano per le caviglie. “Fallo per tutte le persone che sono morte per colpa tua, o ti sgozziamo come la scrofa che sei!” Sentì la sua saliva addosso e pianse, impotente, continuando a stringere il bambino contro il petto mentre cominciavano. Erano stati mandati lì, non erano venuti di propria iniziativa, lo sapeva: la stavano punendo per il suo tradimento. Sperò che tutto finisse presto, eppure quello non finiva mai presto e lei lo sapeva sin troppo bene. Poi si sentì sporcata da uno schizzo di sangue caldo. Alzò gli occhi e vide la gola del Guardiano sopra di lei squarciata da un taglio netto e

tanto profondo da aver aperto la trachea. Gli altri imprecarono e indietreggiarono terrorizzati, prima di dileguarsi. Aniah si tolse da dentro il corpo senza vita del Guardiano, prima di inginocchiarsi a terra e urlare. Marduk apparve di fronte a lei, emergendo dal nulla. Teneva un pugnale insanguinato nella mano. “Marduk”, gemette gettandosi tra le sue braccia. “Mi dispiace! Mi dispiace fratello mio.” “Shhh”, fece lui accarezzandole i capelli. “Andrà tutto bene, vedrai. Ora capisci qual è la situazione alla Fortezza.” “Mi dispiace.” Lui le parlò piano e le parlò chiaro, come era nel suo stile: “Tutto quello che hai ato ti ha solo reso più forte. Anche questo. Hai una missione da compiere. Quando l’avrai compiuta torna, troverò una soluzione anche per te. Lascerai la Fortezza, cambierai vita. Ci penserò io. Non preoccuparti di nulla, stavolta.” Lei lasciò lentamente il suo abbraccio protettivo. Si portò una mano alla cintola e sfilò il pugnale di mayem, l’unico a essere sopravvissuto alla furia distruttiva di Skyrgal nella taverna di Adramelech, giorni prima. “Tieni”, gli disse. “È un regalo.” Marduk la guardò sospettoso mentre lo afferrava dalle sue mani. “Un pugnale di mayem? Dove l’hai preso? Queste armi sono maledette!” “Quando giungerà il momento ti tornerà utile, ne sono sicura. Qui dentro si nasconde quello che io, adesso, amo sopra ogni altra cosa. Per quanto sia la mia morte e rovina.”

Marduk non capì quelle parole. Quando alzò gli occhi per domandare spiegazioni, Aniah era già andata per la sua strada. C’erano ancora molte cose che avrebbe voluto dirle e, ne era sicuro, molte che lei non gli aveva ancora detto.

* * * * *

3. Il vecchio

Quella sera, come tutte le sere, il vecchio Sannah sedeva alla sua scrivania circondato da infiniti cumuli di carte e polvere, da qualche parte in quel meandro di relitti e canali che era il quartiere delle navi abbandonate – noto ai più come il cimitero delle navi. La stanza dove si trovava era stata la cabina di un comandante, una volta. Lì erano state prese decisioni che avevano decretato la morte di molti uomini: manovre di avvicinamento, abbordaggi, torture e giri di chiglia per punire gli insubordinati. Sorrise al pensiero. Adesso era solo il buco di culo dal quale gestiva la gilda dei Ragni, non una delle più importanti della lorda e putrida città di Melekesh, forse neanche una vera e propria gilda; forse solo il rifugio per un mucchio di bastardini abbandonati al mondo, che non avevano niente di meglio da fare delle loro vite se non farsi ammazzare mentre cercavano di rubacchiare qualcosa per lui. Il dolce dondolio del pavimento assecondava i deboli flutti marini del cimitero, mentre il vecchio tracciava l’ennesima voce su un registro macchiato d’umidità. Si massaggiò il mento ricoperto da barba ispida e appiccicosa, rigirandosi tra le dita gli orecchini tondi che pendevano dall’orecchio sinistro, l’unico che ancora avesse. “Non torna. Non torna!” disse, strappando il foglio e gettandolo nel braciere. “Bah. Proventi dalla vendita dei ragazzi… poco, solo venti Dragoon. Chi se li compra magri come sono? Proventi dai furti… ancora meno, dodici Dragoon. Sono bravi solo a farsi beccare, i piccoli stronzi. Accattonaggio. Uhm. Centoquaranta Dragoon. La specialità di queste mezze seghe del cazzo. Totale… centonovantadue Dragoon.” Si grattò la testa. Odiava quando sulla carta trovava più Dragoon di quelle che poteva trovare nel suo forziere. Odiava soprattutto non capire quanto di quel denaro fosse stato speso in alcol e in un certo tipo di funghi, o quanto potesse essere stato rubato dai suoi Ragni. Era più probabile la prima; i Ragni sapevano bene a cosa andavano incontro se venivano sorpresi a rubare lì dentro. La morte sarebbe stata solo la consolazione finale. No, l’errore doveva essere il suo, visto che ogni volta che ripeteva l’addizione il risultato cambiava. Il vecchio sapeva di non aver avuto un’istruzione

particolarmente lunga. Era stato educato alla spada e alla guerra in un tempo e in un luogo molto lontani da quelli. Per un momento lasciò la mente libera di vagare e si ritrovò a pensare alle ampie sale della Fortezza, al desolato panorama sulle rovine di Adramelech, ai volti sporchi di sangue dei compagni dopo una lunga giornata di guerra. Alla Radura. Già, la Radura. Un diamante di purezza incastonato in quel maledetto deserto dove la gente combatteva e moriva, pensò. Uhm, questa me la devo segnare. Ci faccio una poesia.

Ogni sua discutibile ispirazione fu spazzata via dal vocìo confuso proveniente dall’altra parte della porta: “Non puoi entrare!” strillò la voce di un ragazzino. “Non vuole essere interrotto quando cerca di chiudere i conti!” Non comprese la risposta ma riconobbe la voce che rispose: la voce di una donna che non sentiva da molto, molto tempo. La porta dello studio venne spalancata con un calcio, tuttavia Sannah non saltò in piedi e non afferrò il pugnale che teneva conficcato sulla scrivania pronto all’uso. Cercava sempre di non sembrare sorpreso, soprattutto quando, come quella volta, lo era davvero. Tenne le mani incrociate davanti alle labbra e guardò la donna mentre veniva avanti: indossava un paio di stivali impregnati di acqua fetida, così come la tunica amaranto logora e consumata. Sopra le sue spalle sorgeva l’impugnatura di una spada a due mani, oltre ai pugnali assicurati sul suo ventre e al coltello sul polpaccio. Tutto questo avrebbe lasciato davvero pochi dubbi sulla sua provenienza, almeno a chiunque avesse saputo riconoscere un Guardiano di Golconda anche a miglia di distanza, un Delta per la precisione, il loro dannato corpo scelto di cui un tempo anche lui aveva fatto parte. L’unica cosa che Sannah proprio non capiva era cosa ci fe proprio quella donna, proprio lì. Solo dopo notò il fagotto che teneva stretto contro il petto, come se per lei fosse la cosa più importante del mondo, e capì che in un modo o nell’altro grossi guai erano in arrivo. Uno scricciolo di ragazzo, le cui costole stavano per spuntare fuori dalla pelle tanto era magro, irruppe nella stanza. “Scusate grande Mamma!” urlò. “Non siamo riusciti a fermarla! Io ho provato a–” Sannah alzò una mano e il ragazzo si ammutolì. “Sparisci”, mormorò solo. Il Ragno chinò la testa e ubbidì, chiudendosi timoroso la porta alle spalle. Il vecchio e la donna rimasero in silenzio, un silenzio profondo, nel quale emerse

all’improvviso il lamento di un neonato. Sannah alzò un sopracciglio. “Il viaggio è stato lungo, immagino”, esordì. “E, così per sapere, cosa ti ha spinto sul mondo Oltre, Aniah? Non sarai venuta qui per portare indietro il tuo vecchio padre?” Aniah avanzò lentamente, guardandosi intorno. “Bel posticino che ti sei tirato su, papà. Esattamente cosa fai adesso per guadagnarti da vivere? E per quale ragione ti chiamano grande Mamma?” Sannah alzò le spalle. “La cosa è iniziata da un poppante che si è divertito a storpiare il mio nome. Sannah, Mamma, suona praticamente uguale.” Fece una pausa. “Gli ho strappato la lingua”, proseguì. “L’ho indossata al collo per una settimana, in modo che gli altri si ricordassero di quanto odio quando qualcuno scherza con il mio nome. Però con il tempo ho trovato la cosa divertente e ho lasciato che tutti mi chiamassero così, a parte colui che lo aveva fatto per primo, ovviamente. Offro un tetto e mezzo pasto al giorno a una schiera di irresistibili canaglie abbandonate al mondo dalle loro madri puttane. In cambio loro fanno qualche lavoretto per me. È la cosa più simile a un orfanotrofio che potresti trovare da queste parti. Buffo, no?” La donna fece un’espressione scettica. “Potevi fare di meglio”, rispose, osservando il cadavere di un ratto infilzato da una forchetta che, da chissà quanti giorni, imputridiva a un angolo della stanza. “Sì, potevi fare decisamente di meglio, considerando che a Golconda ci sono ancora dei libri che parlano di te come una leggenda. E anche molte persone.” Sannah ghignò amaro. “La vita è mutevole, Aniah, e anche la fortuna. Una volta approdato su questo mondo ho dovuto inventarmi qualcosa per sopravvivere. Da questa parte del portale la vita è più dura di quanto possa sembrare, ma suppongo sia difficile da capire al riparo delle calde mura della Fortezza. Queste persone sono malate, più di noi, dovresti proprio vedere la ione che ci mettono nel farsi a pezzi tra di loro! Persino io sono un principiante al confronto. Per lo meno me lo raccontano, visto che non uscirei da queste quattro mura marce per nessuna ragione.” Ridacchiò, con la sua risata grassa e roca, prima di tirare una boccata dal sigaro che teneva tra le dita sporche. “Quanto alle leggende su di me… sai cosa rimane delle gesta umane una volta che il tempo le seppellisce sotto il suo carico generoso, e inesauribile, di merda?”

Aniah non rispose. Non c’era bisogno di rispondere e lo stesso vecchio lasciò quella domanda sospesa sul suo ghigno. “Che sei venuta a fare?” continuò. “Non solo per ricordarmi quanto è dura la vita su questo porco mondo, spero. Ci pensa già questo porco mondo a farlo.” “Ho un problema. Lo abbiamo tutti e due.” “Oh. Sul serio?” Sannah tossì fuori il fumo. “Be’, dopo tutto questo tempo che ti sto aspettando, sai cosa ti consiglio di fare del tuo problema, di qualsiasi problema? Fa’ marcia indietro e vallo a infilare nel mastodontico culo del tuo amato Angra!” Aniah sguainò un pugnale, portandolo contro il collo del vecchio in un lasso di tempo talmente breve che bastò a questo solo per allargare le braccia impotente. “Non nominare Angra invano!” ringhiò. “Questo è solo un gesto dimostrativo, ma se lo nomini di nuovo – oh porco Ktisis! – se lo nomini di nuovo io ti termino adesso lì dove sei, chiunque o qualunque cosa tu sia stato per me, paparino!” La porta venne spalancata ed entrarono tre ragazzini vestiti di stracci, armati di coltelli a serramanico che chiedevano solo di essere usati. A giudicare dallo sguardo nei loro occhi, Sannah pensò che non si erano aspettati di trovare quella scena: il loro capo, forse il loro proprietario, con una lama alla gola. Avevano l’espressione di chi credeva che una cosa del genere neanche fosse possibile. “Uscite di qui, questo non è affar vostro!” “Ma–” “Sparite!” I tre poterono solo obbedire a quell’ordine. “Così va già meglio.” Aniah abbassò la lama. “Non voglio davvero spargere altro sangue oggi. Il viaggio è stato sin troppo lungo.” Il vecchio si portò una mano al collo, massaggiandoselo nervoso per accertarsi che non ci fosse alcun taglio. “Però, sei diventata bravina. Niente che non mi aspettassi da mia figlia, ben inteso. Neanche tuo fratello Marduk sarebbe stato in

grado di mettermi spalle al muro così velocemente. Sono proprio fiero di te.” “Sei stato un pessimo padre e non a giorno che io non ti maledica nelle mie preghiere”, rispose sua figlia, con lo stesso tono di voce che avrebbe utilizzato per ordinare una birra in una taverna. Era ancora brava a non dar a vedere la sua sofferenza. Lo era sempre stata. “Angra capirà. Il mio dio capisce sempre il rancore.” Sannah rise ancora, massaggiandosi la barba ispida. “Hai ragione. Se è diventato Dracone, Marduk lo deve soprattutto ai miei insegnamenti quindi penso di avergli dedicato più tempo. A dir la verità, neanche ricordo di essermi mai preso cura del tuo addestramento.” “Ti prendevi cura di me in molte altre maniere.” “È che proprio non riuscivo a concepire una cosa simile”, continuò, come se non l’avesse ascoltata. “Per me eri solo una donna e le donne non devono giocare a fare i Guardiani. Le donne devono fare i bambini, non trovi?” Lei incassò il colpo. Lo vide. Trovò stupido il fatto che potesse ancora farle del male dopo tutto quel tempo con poche, semplici parole. Aniah si mise a sedere, poggiando gli stivali lerci sulla scrivania, e scoprì il fagotto che teneva contro il petto. “Un bambino”, constatò Sannah. “Sì. Mi ero aspettato di vederne uno quando ho sentito quel vagito.” “Quando capirai di chi si tratta ci troverai ben poco da scherzare.” “Chi è il ragazzo, tuo figlio?” “Guardalo.” Sannah osservò il piccolo come se si trattasse di uno strano artefatto, prendendolo tra le mani, più che in braccio. L’unica cosa bizzarra che notava era il colore dei suoi occhi: azzurri, ma con sottili venature rosse intorno alla pupilla. Il piccolo allungò una mano per afferrargli il naso, curioso, e quando ce la fece sembrò sorridere. Anche Sannah sorrise. Adorava i bambini. Per questo aveva dedicato a loro quel

che rimaneva della sua vita, anche se in maniera discutibile. “Sei un piccolo figlio di puttana, vero? Sì, sì che lo sei.” Il bambino portava al collo un pendaglio dorato, con dentro il ritratto dei genitori: un Arsis. Tutti i figli dei Guardiani ne avevano uno e, se la madre glielo aveva messo al collo sin d’ora, voleva dire che aveva intenzione di abbandonarlo lì. Pessima storia, pensò ma a rivenderlo ci avrebbe guadagnato un po’, almeno quanto bastava a comprare un paio di quei funghi che allietavano le sue lunghe notti insonni.

Solo successivamente notò qualcosa al di sotto del pendaglio, come un simbolo tatuato sullo sterno candido. All’inizio non credette ai suoi occhi e pensò di aver bevuto troppo ancora una volta, poi il suo volto si trasformò in una muta maschera d’orrore e le sue labbra pronunciarono a stento: “Oh, merda!”

Il bambino sorrise e lui lo adagiò sulla scrivania, sforzandosi di non lasciarlo cadere, per poi sfregarsi le mani come a ripulirle. Alzò il volto verso sua figlia e Aniah ricambiò imibile quello sguardo. “Per Ktisis! Lui è–?” “Lui è mio figlio”, rispose lei. “E non solo il mio, come puoi ben vedere. Conosci quel marchio, non dovrebbe trovarsi sul petto di un mortale. Eppure.”

“Questa è una bestemmia vivente!” sbottò il vecchio. “Non può esistere, non deve! Come puoi essere sua madre?”

La donna si alzò. Oltreò la scrivania e raggiunse la grande vetrata in fondo alla stanza, sporca della polvere di decenni. Non si godeva di una bella vista da lì: solo un putrido angolo di mare riempito all’inverosimile da imbarcazioni abbandonate e relitti decrepiti, ultimo rifugio di una moltitudine di sciagurati che avevano fatto del crimine la propria ragione di vita. “Dentro di me, lo hanno creato”, rispose. Tese le mani sul vetro, piegando le dita come se volesse spezzarsi le unghie e, in quel modo, placare il suo vero dolore con una

sofferenza puramente fisica. “Una madre dovrebbe sempre voler bene a suo figlio, non trovi? E io lo amo. È anche mio, e la mia vita e la mia morte sono per sempre legate a lui.” Chiuse gli occhi. “Eppure non devo.” “Com’è potuto succedere? Chi? Chi ha potuto generarlo?” “Skyrgal. Skyrgal redivivo.” Aniah poggiò la testa contro il vetro. “Nel tempio di Adramelech, dove il padre degli dèi sacrificava i suoi figli. Quelle mura di pietra arenaria sono ancora intrise del sangue immortale versato nei tempi andati. E quelle scritte, Sannah… Loro hanno interpretato quelle scritte.” “Le hanno trovate?” “Hanno trovato molte cose.” “Non è possibile! Non puoi esserne certa! Le hai viste con i tuoi occhi?” “Oh, i miei occhi stanchi hanno visto tutto, per questo non mi permetteranno di vivere. Non importa. Neanche i miei stupidi sentimenti importano. Adesso devo solo fare in modo che i gorgor non mettano più le mani sul mio piccolo. Se non possiamo ucciderlo, possiamo almeno nasconderlo dove non verranno mai a cercarlo.” Sannah scosse la testa. Era tutto troppo grande per lui. Faceva tardi una sera per chiudere i conti e all’improvviso si trovava davanti a un mucchio di merda troppo grande per le sue sole mani. Guardò sua figlia a lungo e per un momento pensò di capire come si sentisse. “E cosa mi chiedete di fare?” “Cosa io ti chiedo di fare”, precisò lei. “I miei ordini erano diversi. Marduk voleva che lo affidassi a un Dracone giunto su questo mondo anni fa, un uomo nobile e baciato dalla fortuna che si sarebbe preso cura di lui, diceva, crescendolo in maniera dignitosa.”

“Arleb?” “Già.” “Ma Arleb è stato giustiziato tre giorni fa!”

La donna ghignò amara. “Giustiziato? No, non penso sia il termine esatto. Il palazzo dove abitava è stato bruciato e tutta la sua famiglia inchiodata sulle colonne portanti, bambini compresi. Uno spettacolo davvero memorabile. Nessuno ha avuto la pietà di tirarli giù da lì e i corvi si nutrono ancora delle interiora carbonizzate fuoriuscite dai piccoli ventri squarciati. Non esattamente ciò che avrei voluto trovare dopo il lungo viaggio che mi ha portato alla sua porta.” Sannah abbassò lo sguardo. “Devi aver ato un brutto quarto d’ora in quel momento.” “Oh. Non ne hai idea.” “Io non so perché è successo. È stato il tipico processo lampo che va tanto di moda da queste parti. Le guardie sono piombate a casa sua con un’accusa di tradimento e la condanna è stata eseguita subito, dal Prefetto Mawson in persona. Dal resoconto che mi hanno fornito i miei Ragni è stato orribile.” Si adombrò, massaggiandosi le tempie. “Orribile anche per questo mondo. Prima le donne e i bambini, prima loro, sotto i suoi occhi. Lui per ultimo. Arleb era finito sulla lista e quando il tuo nome viene scritto lì per te è già finita. Ogni settimana le guardie la espongono nella piazza dell’Infamità e la gente accorre per vedere chi c’è finito sopra. Una volta, curiosando, un uomo ci ha trovato scritto il proprio nome. Si è suicidato lì sul posto, preferendo una morte veloce e indolore piuttosto che farsi torturare in una cella fredda e angusta dalle guardie del Prefetto. Altri sono stati acciuffati e fatti a pezzi da quelli che fino al giorno prima erano i loro migliori amici, ancor prima di aver la possibilità di farsi strada tra la folla e leggere il proprio nome sulla lista. In ogni caso, dopo inizia lo sciacallaggio sui loro corpi e le loro vite. Tutti possono prendere tutto, soldi, proprietà, persino moglie e figli. Molte persone finiscono su quella lista solo per la propria ricchezza. Molti sono stati uccisi dalla loro bella casa, dai gioielli, dalle figlie più belle sulle quali qualcuno voleva mettere le mani. Il che di per sé porta comunque a una grossolana regolamentazione dell’intero processo. Chi ha il coltello più affilato taglia la fetta più grossa, solo è bene non esagerare con lo sciacallaggio, o almeno non farsi notare, se non si desidera finire sulla prossima lista e seguire i morti nella loro lunga marcia.” Quando smise di parlare guardò sua figlia, ma Aniah aveva occhi solo per il bambino. “Cosa pensi di fare ora?”

“Secondo te perché sono venuta qui, per scambiare quattro chiacchiere con il mio amato padre? Ora che Arleb è morto tu sei l’unico Guardiano presente sul mondo Oltre. Non esistono alternative.” “Immaginavo.” “Suo figlio deve sparire. Se non vuoi farlo per me, fallo perché lo ha ordinato Marduk. Deve diventare invisibile, uno nella moltitudine di coloro dei quali il mondo non si cura.” Sannah ghignò. “E hai pensato a me? Grazie tante.” “Di nulla.” “Marduk è solo un maledetto figlio di puttana se ti obbliga a fare una scelta simile! Tu devi avere il diritto di crescerlo, come puoi abbandonarlo qui?”

“Sto eseguendo i miei ordini, come un Guardiano dovrebbe sempre–” “Oh, a Ktisis queste stronzate!” incalzò il vecchio. “Tutti i vostri comandamenti del cazzo. Risparmiami la recita del perfetto Guardiano, talmente cieco e ubbidiente da non vedere che il suo mondo sta andando a puttane. Tu sei sempre stata un’illusa, una marionetta nelle mani di altri. Prima nelle mie, poi di tuo marito, adesso di Marduk.”

Aniah abbassò lo sguardo al cospetto dei severi occhi del padre, mordendosi il labbro inferiore. Come quando era bambina… pensò lui.

“Probabilmente hai ragione”, gli rispose. “Ma non importa più nulla, ormai. Sono solo un fantasma, i pezzi della donna che ero, almeno da quando anche l’ultima illusione si è frantumata tra le mie mani come uno strato di sabbia secca. Non sono qui per discutere. Crescerai mio figlio e lo nasconderai. Quando non

c’è alternativa, fare la scelta giusta è sin troppo facile.” “Queste erano le mie parole.” “Sì, lo erano.” “E tu cosa farai?” “Io? Non lo so. Dopo quello che ho fatto alla Fortezza non sono più ben accetta. Hanno già tentato di…” Non continuò. “Hanno tentato di punirti per quello che hai generato, non è vero?” Il padre capì di aver indovinato quando vide che lei non rispondeva. “Con un po’ di fortuna potrei anche indovinare il mandante. Un uomo calvo e robusto che si crede il salvatore del mondo rinchiuso nella sua maledetta torre; ce l’ha proprio la faccia di uno che farebbe stuprare una donna per punirla.”

Aniah rimase in silenzio, con il volto chino. Una lacrima, e solo quella, cadde sulla vecchia botola posta di fronte alla scrivania. “Il tuo intuito. È sempre stata la tua qualità migliore, forse l’unica.” “Ne avevo molte, un tempo.” “Quanti abitanti ha questa città?” domandò lei dopo un po’. “Nessuno lo ha mai capito. A Melekesh si scopa più di quanto si uccide, e si uccide troppo. La popolazione regolare deve aggirarsi intorno al milione, poi ci sono quelli di aggio, i clandestini, i ricercati, più quelli che risiedono qui al cimitero, che nessuno ha mai veramente contato come esseri umani. Intorno a questa città gravitano tutti i paesi arroccati lungo la costa e quelli sparsi nell’arcipelago. Non lo troveranno mai se non sanno dove cercarlo, se è questo che stai pensando.” “Non me lo puoi rifiutare. Me lo devi.” Sannah annuì, lentamente. “Temo di sì. Gli Oltredei non saranno molto clementi con me. La mia anima è incatenata in fondo al mare torbido di un’esistenza atroce, lontana dalla superficie limpida, e solo in questo inferno ho trovato un

rifugio, soffocato dalla paura di morire senza aver espiato neanche una delle mie colpe. Questo ragazzo sarà la mia Redenzione. Forse.” “Decisamente toccante. Davvero. Ciononostante, se il tuo unico compito è cercare di essere un padre migliore di quello che sei stato per me, non sarà poi così difficile.” “Sono stato Dracone Delta, posso proteggerlo, ma per quanto? Il marchio sul suo petto è chiaro: lui vivrà per sempre e noi dovremo custodirlo per sempre, o morire nel tentativo di farlo.” “Per il momento, deve solo essere invisibile. Sfruttalo come le anime perdute che popolano questo luogo; nessuno è più invisibile di chi è sotto gli occhi di tutti e non viene notato.” Non disse altro. Sannah la guardò trascinarsi verso la porta, esausta. Quando la aprì, i ragazzini che stavano appoggiati a origliare caddero dentro e la guardarono impauriti, arretrando. Lei si voltò per non guardare. Forse non voleva vedere come sarebbe diventato suo figlio per colpa sua: sporco, affamato, e al contempo potente come le forze che regolavano lo scorrere del Tutto. Solo in quel momento la situazione gli apparve nel suo nudo squallore.

“Non mi hai ancora detto che nome devo dargli.” “Uno qualunque”, rispose lei, ferma sull’uscio. “Il primo che ti viene in mente. Però ricorda: quando dai un nome a qualcosa ne diventi responsabile.” “Per questo non gli hai dato un nome, vero?” suppose Sannah, avvicinandosi. “Tu non vuoi esserne responsabile. Per Ktisis, sei comunque sua madre.” Aniah ghignò amara. “Non si diventa una leggenda per caso. Hai ragione, papà. Forse hai sempre avuto ragione, per questo ti odio.” “Cerca di avere cura di te, un giorno potresti riabbracciarlo. Il tempo sistemerà tutto e lui ne ha in abbondanza.” “Ci proverò.” Alzò gli occhi, rossi per le lacrime. “Ma dimmi una cosa, prima che me ne vada: perché hai fatto in modo che solo io lo sapessi?”

“Di che Ktisis stai parlando?” “Perché non hai fatto sapere anche a Marduk che sei ancora vivo, né a nessun altro? Perché solo a me?” Lui ghignò. “Quando ho abbandonato Candehel-mas e la stupida lotta dei Guardiani, c’era solo una persona che avrei voluto incontrare un’ultima volta prima di morire.”

Aniah lo guardò, muta. Poi annuì. “Adesso mi hai vista.” Le sue labbra tremarono nello sforzo di tenere sotto controllo le proprie emozioni. “Però non hai il mio perdono. Il momento in cui morirai ti ricorderai di questo. Io non ti ho perdonato. Spero che bruci all’inferno, come stai già facendo. Ero solo una bambina e tu dovevi proteggermi. Perdonarti potrebbe essere una Redenzione sufficiente per convincere gli Oltredei a lasciarmi entrare dentro Almagard, ma io non lo farò, neanche a costo di bruciare all’inferno per l’eternità. In fondo non ho mai fatto altro per colpa tua. Io…” Non aggiunse altro, si costrinse al silenzio. Non è cambiato nulla da quando eri bambina, constatò Sannah. Ancora oggi nessuno deve conoscere il tuo dolore. Puoi attraversare i cancelli dell’inferno e poi tornare indietro, ma alcune cose non cambiano mai per chi è abituato a lottare. Lei se ne andò e il suo vecchio sangue da Dracone gli disse che quella era l’ultima volta che l’avrebbe vista. Quell’addio, come tutti gli addii che avevano caratterizzato la sua vita, aveva fatto schifo. “Che razza di nome si dà al figlio di un dio?” si domandò rientrando nella stanza. Solo allora vide che il bambino aveva gattonato sulla scrivania, per addormentarsi accanto al suo pugnale.

Con la mano stretta intorno alla lama.

* * * * *

Tredici anni dopo

4. Non dire mai addio

“Dagger!” “Seeth! Dove sei?” Una risata crudele sorse tutt’intorno. “Nessuna Redenzione! Nessun futuro per te!” “Dove sei?” “Sotto la botola…” “… oltre la luce alla fine del mondo!” La nebbia era discesa sul mondo come il bianco velo funebre della notte; la vide infiltrarsi nella gilda come una presenza maligna e infida. Si alzò, camminando tra i Ragni stesi a terra, tutti morti, tutti morti, e si affacciò sul ponte di coperta. L’insegna sgangherata dello zingaro dondolava avanti e indietro nella pioggia, ridendo di lui con una faccia brutta e sdentata. Anche il cliente rideva, la gola di legno putrido squarciata. “Moriremo tutti per colpa tua!” Teneva in mano il fazzoletto che aveva strappato dal suo volto. “Ridammelo!” “Sotto la botola! Sotto la botola!” “Sei morto!” diceva il cliente. “Sei morto perché a questo mondo non esiste Redenzione!” Vide una sagoma candida contro le luci soffuse del quartiere, sul bordo del precipizio, accanto alla taverna, accanto ai ragni, tutti morti, tutti morti. Il vento soffiava sempre più forte, carico di sabbia.

“Seeth!” la chiamò, ma lei non si voltò. Dagger non voleva avvicinarsi, sicuro che lei sarebbe svanita sotto il tocco della sua mano insanguinata. Solo i morti gli sorridevano. Poggiò la spalla contro lo stipite della porta e attese. Lo zingaro rise. Tutto rise. “È colpa mia”, disse. “Mi dispiace. Mi dispiace, Seeth.” Lei chinò la testa e una folata di vento scosse i suoi capelli sporchi di sangue. L’insegna dondolò avanti e indietro. Il vento gli portò i suoi singhiozzi. Cercò di avvicinarsi, lentamente, temendo che lei muovesse quell’ultimo o verso il grande nulla e sparisse per sempre. “Non fare cose stupide. Non lasciarmi solo, Seeth!” Il cliente cantilenò triste come la morte: “Ho vis-to il tu-o vol-to! Ho vis-to il tuo vol-to!” “Regola numero uno! Chi ti vede in volto, muore!” urlò Mamma dietro di lui, da qualche parte, oltre i morti. Seeth, sull’orlo del precipizio. “Sorella…” Non lasciarmi solo Sorella. Salpa via con me, dolce sorella. Nel ventre degli dèi. Quando riuscì a sfiorarla, Seeth era ancora lì. Non scomparve. La voltò e vide ciò che era rimasto del suo viso. “Non guardarmi così”, pianse Seeth. “Ti prego Dag. Non guardarmi così!” Lui cadde in ginocchio e la abbracciò per le gambe. “NESSUNA REDENZIONE!”

“Cosa ti ha fatto?” Seeth pose una mano sulla sua testa, accarezzandogli i capelli color sabbia. Il vento gli portò l’urlo lontano del suo predatore. “Mentre mi tagliava diceva che lo faceva per il tuo bene”, disse. “Perché? Perché per il tuo bene Dag?” “L’ho lavorata per bene”, disse l’insegna, smettendo di dondolare. Fece un giro completo, ancora e ancora, senza mai smettere di nella pioggia ridere di lui. Dagger scosse la testa, il volto contratto in muti spasmi di pianto. Non rispose nulla, non pensò a nulla, il dolore divenne un profondo, enorme vuoto che riempì tutta la sua mente, assorbendo ogni sensazione. “Nessuna redenzione!” urlò una voce dietro di lui. Poté solo vedere il contorno illuminato della porta nel buio. Batteva come un cuore e ad ogni battito ripeteva quelle parole orribili: nessuna redenzione. Nessuna redenzione! NESSUNA REDENZIONE! Presto capì che stava abbracciando il vuoto. “Seeth?” Ridere. “Sta arrivando.” “Chi?” “Scappa. Lui sta arrivando! Loro lo hanno portato in vita, con le scritte.” nel tempio dove il padre degli dèi il padre degli dèi rideva!

Da sotto la porta uscì un rivolo di sangue, nero come la notte, che scivolò lento sino ai suoi piedi. “Chi?” “La luce alla fine del mondo!” “Alzati!” un calcio “NESSUN FUTURO!” “Seeth?” “Nessuna REDENZIONE!” Un potente calcio sul fianco gli diede il bentornato al mondo dei vivi, e Dagger capì che solo per i morti era veramente finita. “Alzati!” Si ritrovò tirato su per il colletto della tunica. Era Mamma. Il vecchio lo guardava con gli occhi iniettati di sangue, più incazzato di quando lo aveva costretto ad affrontare i Tre Galeoni. “Tu e i tuoi maledetti occhi rossi!” sbraitò. “Ti sei fatto vedere in faccia e non mi dici niente!” Dagger sorrise e lo fissò, per fargli capire che non aveva più paura di lui. Non ora che gli aveva portato via tutto quello che avrebbe potuto prendergli. Non ora che non c’era più un futuro, per lui. Era finito, tutto finito: la lotta per la sopravvivenza, la lotta contro quella maledetta città, contro le guardie, la fame, contro la malattia, contro tutto. Era morto e iniziava a trovare piacevole l’idea. “Redenzione!” gli disse in faccia, ghignando. “Redenzione? Sì, te la do io la redenzione!” Il vecchio lo trascinò lungo la gilda sotto gli sguardi ora divertiti, ora terrificati, degli altri Ragni. Lo sbatté di fuori sul ponte di coperta, alla rossa luce dell’alba

che lentamente si spogliava della nebbia. Era un bel giorno per morire. Alzò lo sguardo e vide, disposte intorno a lui, dodici guardie cittadine armate fino ai denti, nere come il terrore. Non si domandò cosa ci fero lì: le guardie si spingevano dentro il quartiere solo in casi eccezionali, solo per reclamare gli occhi di qualcuno da mostrare a coloro che le avevano pagate più del solito per avere una giustizia rapida ed efficace. Si meritava di essere un caso eccezionale; se davvero doveva andarsene da quel mondo, voleva farlo in grande stile. Portò una mano al coltello, poi vide che oltre alle guardie, in disparte, c’era anche un uomo alto e dalle spalle larghe, vestito con un lungo mantello nero, giubba nera, pantaloni neri e stivali neri, ognuno riportante il simbolo argenteo della guardia cittadina: la mano amputata sopra il ceppo di legno. Non poteva vederlo in volto: l’uomo fissava l’orizzonte senza prestare alcuna attenzione a quello che accadeva alle sue spalle, fischiettando un motivetto allegro come se si trovasse, o si volesse trovare, lontano da lì. Quando si ritrovò circondato dal silenzio, capì che tutti erano in attesa della sua parola. Il suo motivetto scese su tonalità minori, cupe, fino a che non imprecò sommessamente: “Ktisis maledetto.” Si voltò. Dagger lasciò cadere il coltello per il terrore. Egli lo capì e sorrise. Avanzò e lo osservò dall’alto con i suoi occhi neri e crudeli, incorniciati da un volto squadrato e gli zigomi sporgenti, le labbra sottili e spaccate da una brutta cicatrice. “Sì”, disse il Prefetto Mawson. “Questo ragazzo ha gli occhi rossi che sto cercando. E puzza, come tutta questa maledetta fogna.” Mosse alcuni i intorno a lui, come un avvoltoio che dal cielo osservasse attento l’agonia del suo prossimo pasto. “Figliolo”, disse con voce paterna. “Esiste un codice di condotta per tutti, in questa città, anche per te e per me. Il tuo impone di stare attento a quello che ti succede intorno in ogni singolo momento, anche quando dormi. Il mio, soprattutto quando dormi. Il tuo impone di stare lontano dai pesci grossi, il mio da quelli piccoli, ma quando una persona mi vede in volto mentre sono in servizio il mio codice impone che questa persona provi paura. Il tuo, impone che muoia.” Si fermò nuovamente di fronte a lui e scavò all’interno del suo sguardo. “Perché

un morto non racconta”, riprese. “E tu avresti dovuto saperlo, visto il luogo dove sei cresciuto. Eppure hai commesso quell’errore, tipico di alcuni di voi, in genere l’ultimo che potete commettere nelle vostre infime esistenze. Hai provato pietà per un uomo che dovevi uccidere. Pietà per qualcuno che non ha esitato un solo momento a denunciarti. Certo, non ti ha aiutato il colore dei tuoi occhi. Ai miei uomini sono bastate poche domande per capire dove ti trovavi. Se tu avessi ucciso quel ragazzo fuori dalla taverna dello Zingaro, adesso avremmo entrambi un problema in meno e saremmo tornati alle nostre usuali occupazioni, però adesso tu sei diventato un mio problema. E i miei problemi hanno vita molto breve, purtroppo.” “Prefetto…” provò il grande Mamma. A Mawson bastò alzare un dito per azzittirlo. “Vuoi trattare, vecchio? Allora ti faccio una proposta. Per evitare il ripetersi di simili incidenti, io e i miei uomini vi chiudiamo tutti dentro questa baracca e la diamo alle fiamme, rimanendocene in disparte ad ascoltare le vostre urla di dolore. Eppure dubito che queste quattro assi di legno marcio siano in grado di prendere fuoco e, comunque, a che servirebbe?” Sbuffò. “A che servirebbe bruciare tutta questa maledetta fogna? I ratti come voi troverebbero un modo per fuggire, salvarsi, ed entro poco ricomincereste a costruire da capo il vostro piccolo mondo schifoso. Perché la ricchezza si nutre della miseria e tutto sommato questa città è molto ricca. Almeno per chi ci comanda tutti dall’alto della Collina e ci dice, con ogni sua azione, tenete il resto!” Il grande Mamma assunse un’espressione seria. “Quanti ne volete?” tentò. “Dieci? Venti? Sono vostri, potete sceglierli voi. Ci fate quello che volete. Non penso che quello che ha fatto questo schizzo di merda valga più di venti degli altri.” “Non quando questo schizzo di merda ha derubato il figlio di un nobile della Collina.” Mamma sgranò gli occhi, colto di sorpresa. “Il figlio di un–” “Sì. Il figlio di un nobile particolarmente ossessivo”, lo interruppe il Prefetto. “E tu sai come il mio culo e quello di tutti voi sta a galla finché l’equilibrio che regola l’esistenza di questa città merdosa non viene compromesso. Devo dire che questo è un modo molto efficace per comprometterlo. Se il figlio di un nobile

viene derubato, quello mi chiederà di portargli la testa del colpevole altrimenti avrà il lecito diritto di prendersi la mia. E io ci tengo alla mia testa. Mi serve.” “Non abbiamo mai battuto la Collina, sappiamo che è proibito!” disse Mamma. “Lo so. Ma a quanto pare quel ragazzo per bene preferiva frequentare i posti per male”, rispose Mawson. “Certo, il ragazzino qui è stato un po’ sfortunato, ma così è la vita.” Sfilò la spada da sotto il mantello, come se fosse ormai stanco delle parole. La situazione stava precipitando troppo velocemente per pensare a una soluzione, eppure il solo vedere la lama affilata riaccese in Dagger l’istinto di sopravvivenza. Si guardò intorno. Mamma era preso in contropiede; il vecchio non veniva mai preso in contropiede e questo non fece che aumentare il suo senso di smarrimento. Arrendersi o lottare sino in fondo? Era finito, tutto finito, pensò. Però lui non voleva morire. Solo ora che il suo tempo era giunto si accorse di quanto tenesse alla vita. Buffo. “Andate… a fare in culo!” Tutti si voltarono. Seeth stava in piedi sulla porta: era stata lei a parlare. “Lasciatelo in pace.” Dagger scosse la testa, muto. Seeth venne avanti zoppicando e lo oltreò. “Anche i morti camminano”, mormorò Sannah, sbalordito. Il suo volto. Il suo volto era come nel sogno: una maschera di tagli profondi e rossi. “Sono stata io. Pagherò per quello che ho fatto, qualunque sia il prezzo.” Dagger sentì la mano gelida del terrore più crudele serrarsi intorno alla sua gola e impedirgli di respirare. Tentò di afferrare Seeth per un braccio e tirarla a sé, ma subito Mamma lo buttò a terra e lo bloccò con un piede sul collo. Come sempre, il vecchio aveva già deciso chi gli conveniva sacrificare. “Occhi rossi”, disse. “Ma certo! Ce li ha anche quest’albina del cazzo!” “No! NO! Vi prego. NO!” Mawson scrollò le spalle. “Davvero commovente.” In tutta risposta, Seeth raccolse quello che rimaneva delle sue forze e gli sputò in

faccia. Venne subito atterrata e picchiata dalle guardie, a lungo, con perizia. Quando ebbero finito era stordita e non parlava più. “Figli di puttana! Figli di puttana!” “Sta’ zitto!” gli ordinò Mamma, faticando a tenerlo fermo. “Che Ktisis vuoi fare, essere fatto a pezzi al posto suo? Lei è già morta, guardala!” Da quella posizione, Dagger poté osservare solo gli stivali di Mawson avvicinarsi minacciosi. “Cos’è successo alla faccia della ragazza, vecchio?” domandò questo. “È stato un incidente.” “Un incidente? A me sembra che qualcuno si sia divertito a ridisegnarla, come fate voi bestie per punire i vostri sottoposti. Dovresti proprio provare cosa significa.” Il vecchio stava per rispondere, quando con un unico movimento il Prefetto aprì uno squarcio sulla sua guancia e poi sull’altra. Da destra a sinistra. Da sinistra a destra. Sannah urlò ma non si mosse, limitandosi a portare le mani al volto sanguinante. “In ogni modo hai fatto bene a lasciarle gli occhi”, riprese Mawson, rinfoderando il pugnale. “Ci bastano quelli. Tieniti il ragazzo se ci tieni così tanto. I miei uomini penseranno a tutto.” Detto questo fece per andarsene. Dagger afferrò il coltello da terra e fuggì alla presa del grande Mamma, tramortito dalle sue ferite. Scattò verso il Prefetto, tuttavia non fece in tempo a fare nulla. Mawson si voltò a spada tratta e gli lacerò la tunica, ferendolo di striscio sul petto. Il ragazzo rimase in guardia. “Riporta indietro mia sorella, stronzo!” Mawson abbassò la spada e alzò una mano verso le guardie che stavano per piombare su di lui. “Fermi!” ordinò. “Tutti quanti!” Dagger si domandò perché non avesse lasciato che le guardie lo massacrassero. Forse voleva riservare il piacere per se stesso, pensò, poi capì che il Prefetto non

lo osservava più con odio, ora, né con rabbia; sembrava piuttosto insospettito. Questo si avvicinò e, quando con la punta della lama gli scoprì il petto, i suoi occhi furono attraversati da una scintilla di desiderio e paura. Dagger poteva leggere negli occhi delle persone, era stato costretto a impararlo dalla lotta per la sopravvivenza. Quello era lo sguardo di un uomo di fronte a una ricchezza troppo grande per essere tenuta con le proprie sole mani. Le sue labbra tremarono, si contrassero, fino a lasciar scappare uno stentato: “Oh, Ktisis, maledetto!” Abbassò gli occhi anche lui.

∞

Il marchio. Mawson aveva visto il marchio che si trovava sul suo petto sin da quando era nato. Dagger conosceva la sua storia, era stato Sannah a raccontargliela: quello era il simbolo che i pirati tatuavano sullo sterno dei figli nei quali erano evidenti i segni di una maledizione, prima di abbandonarli per sempre alle correnti del mare. Il vecchio lo aveva raccolto sulla spiaggia, in una cesta, e lo aveva preso con sé. Occhi rossi, maledizione, abbandono; Dagger non aveva mai messo in discussione quella storia, non ne aveva mai avuto l’interesse né il motivo. Approfittò della situazione e scattò in un lampo con il solo scopo di sfregiare quell’uomo. Sentì la lama scorrere lungo la sua guancia rasata di fresco e non osò colpire ancora quando capì che ce l’aveva fatta. Non avrebbe mai pensato che fosse possibile ferire il Prefetto. Lui lo aveva fatto. Tutta la città avrebbe ricordato il suo nome da quel giorno e adesso, si disse, era pronto per morire. Mawson si ò una mano sul volto, per scoprire il suo ghigno sporco di sangue. “Tirate su quella troia!” ordinò alle guardie. Queste trascinarono Seeth fino a portarla faccia a faccia con Dagger. I due si guardarono negli occhi rossi e Mawson annuì. Fece un cenno a uno dei suoi sottoposti, che subito immobilizzò il ragazzo con un braccio intorno al collo.

“Vedi”, riprese Mawson. “Probabilmente tu non pensi che io sia una brava persona, però ho questo problema. Non piaccio ai topi di fogna come te, e i topi di fogna come te non mi piacciono.” Mamma tornò in sé. “Mawson, non potete–” provò a dire, ma venne interrotto dallo schiaffo repentino del Prefetto. “Io so cosa posso fare. Io so cosa devo fare, per tenervi tutti in riga!” urlò, prima di sfilare la spada e adagiarla sul collo di Seeth, tenuta ferma con una mano sulla fronte in modo da esporre la parte più tenera del collo.

La ragazza non tremò, non mostrò alcun segno di paura o debolezza. Forse era il sopore a renderla così coraggiosa, o forse no. Forse era sempre stata migliore di lui. Guardò Dagger dritto negli occhi e sorrise. “Non aver paura, fratello”, disse. “Sei buffo quando hai paura.”

Poi, la lama scivolò lungo la sua gola aprendo un rosso sorriso di morte. Seeth pagò il suo ultimo tributo di sangue al mondo e cadde sul pavimento con gli occhi rivoltati, la bocca semiaperta, le gambe scosse da un fremito elettrico. Una pozza di sangue si formò a terra e in quel sangue Dagger cadde in ginocchio, senza forze. “No”, sussurrò solo. “No, non lasciarmi.” Il grande vuoto lo riempì. Non aveva mai pensato potesse esistere un dolore così profondo. Mawson gli portò la spada sul collo e lui alzò la gola nuda come se non chiedesse altro che poter morire. Il Prefetto non ghignava più ora. “Tu”, disse. “Non sei nulla. E quelli che non sono nulla meritano solo di vivere per osservare le proprie sconfitte.” Lo fissò negli occhi per un ultimo istante, ma Dagger non lesse altro che terrore in quello sguardo. Quell’uomo aveva paura di lui. Perché? La domanda rimase in sospeso nella sua mente quando questo lo tramortì con un calcio sulla tempia. Strinse i pugni e cercò di rialzarsi nel sangue, ma senza successo. Mawson rinfoderò la lama e lui, da terra, lo guardò andare via con la mente svuotata di ogni pensiero, le labbra contratte che cercavano di dire qualcosa. Non sentiva

neanche il dolore ora. Nella terra di confine tra coscienza e incoscienza giurò a se stesso che avrebbe ucciso quell’uomo. Lo avrebbe ucciso, si disse. Poi perse i sensi. Quando riaprì gli occhi era buio. Si trovava ancora steso a terra e stava colpendo il pavimento da un tempo sufficiente a far sanguinare le nocche. Mamma era seduto accanto a lui con una bottiglia di vino mezza piena accanto, oltre a quelle già vuote. Si accorse che era sveglio e gli tese una mano, ma Dagger la ignorò. Vide di sfuggita lo sguardo comionevole dei Ragni, forse l’unica famiglia che avesse mai avuto, affacciati dalla porta a guardarlo. Ora nessuno di loro rideva. Lo compativano eppure lui non voleva la loro pena: la pena era una forma di disprezzo. Il vecchio fece un gesto spazientito e tutti i Ragni rientrarono nel loro buco, lasciandoli soli nel gelo della notte. Dagger si girò a guardare ciò che rimaneva di Seeth; ò una mano sul suo unico occhio, l’altro lo avevano cavato come prova dell’avvenuta morte da mostrare al nobile che l’aveva decretata. Lo chiuse per sempre. Il suo volto era freddo, spento, morto. Anche lui stava diventando freddo. Non avrebbe più visto le sottili sopracciglia bianche inarcarsi in quel modo unico quando lei rideva, né le fossette sulle guance. Non avrebbe mai più steso la testa sul suo petto per addormentarsi, non gli avrebbe più detto quanto fosse stupido, o scemo, o stronzo, mentre lo abbracciava. Presto non ci fu più posto per il dolore, sentì solo quel profondo vuoto che lo inghiottiva sempre più a ogni respiro, a ogni battito del cuore. Cercò di tirarsi su e si ritrovò in ginocchio con le mani piantate nel sangue. “Tu l’hai uccisa”, disse. “Ero io che dovevo morire.” Mamma sospirò. “Non posso permettere che tu muoia”, rispose. “E poi, tu non puoi morire. Per questo per te non esiste Redenzione.” Il tono crudele che aveva sempre caratterizzato la sua voce adesso era scomparso, ma Dagger non aveva ascoltato neanche una delle sue parole. Alzò la mano aperta e con l’altra sfoderò il coltello. Il grande Mamma si irrigidì, forse dimenticandosi che non avrebbe mai osato colpirlo: invece usò la lama per aprirsi un taglio sulla mano, fondendo il suo sangue con quello di Seeth, poi strinse le dita in un pugno e guardò il loro sangue cadere goccia a goccia, fuso insieme per sempre.

“Non ci rimane da fare altro che seppellirla”, disse il vecchio. “Non te la lascerò seppellire”, rispose lui. Si alzò e caricò il fragile cadavere di sua sorella sulle proprie spalle, prima di iniziare a camminare. Il vecchio era troppo ubriaco per impedirglielo.

* * * * *

Mentre scendeva la lunga spirale di scale scavata sotto il dente di Marbal, residuo di un antico cono vulcanico eroso dai venti, il Prefetto Mawson non poté fare a meno di lasciarsi tormentare dai suoi tortuosi pensieri. Aveva sprecato dodici anni a cercare la Spirale, ovunque, dal porto di Melekesh alla Collina, battendo ogni maledetto vicolo, ogni casa, torturando e distruggendo intere famiglie.

Cazzo!

Ogni morte lo aveva privato dell’umanità, al contempo allontanando sempre più il suo obiettivo, fin quasi a farlo sparire, fino a che non si era dimenticato di quale fosse l’obiettivo di quella sanguinosa ricerca e non era rimasto altro che il piacere della sopraffazione fine a se stessa.

Merda. Merda! MERDA!

Uccidere era diventato vivere, degno sfogo al suo intimo malessere. Era stato più volte punito per la sua incapacità e dopo ogni supplizio era tornato a cercarlo con ancor più tenacia, rendendo la propria opera ogni giorno più brutale. Liste di proscrizione e sacrifici pubblici, violenza indiscriminata, aveva messo

quell’intera città sotto assedio contro se stessa senza mai riuscire a cavare il ragno dal buco. Cavare un Ragno dal buco, pensò. A volte il destino dimostra davvero un sottile senso dell’ironia.

Non aveva mai preso in considerazione che i Guardiani potessero essere stati così folli da nascondere il ragazzo in quel luogo dove neanche esistevano esseri umani degni di questo nome, dove loro non si avventuravano mai se non in caso di assoluta necessità. Dopotutto cos’è un colpo di genio, se non una follia alla quale nessuno penserebbe mai?

Ora tutto aveva un senso compiuto, ora tutto sarebbe cambiato, sì, ora poteva scendere quelle scale da uomo libero per reclamare la sua meritata ricompensa. Dodici anni di attesa erano finalmente terminati.

Solo… le ombre. Quelle non erano d’accordo, non lo erano mai state. Lo disprezzavano; popolavano quell’infinita scala che scendeva nelle budella putride della terra, nascoste nel buio, spiando attente le sue mosse. Le percepiva e sapeva di non essere il benvenuto. Ogni tanto pensava di intravedere i loro occhi rossi o di sentire un respiro fetido sul collo, scorgeva ai bordi del suo campo visivo ombre più buie dell’oscurità che lo circondava ma, quando si voltava, erano già sparite.

Cercava di convincersi di essersi ingannato, di essere solo, eppure le ombre c’erano ed erano gelose di lui, lo sapeva. Mawson era l’unico referente del Divino in quella città, le sue gambe e le sue mani, sin da quando era stato condotto lì sotto per la prima volta, in catene e semicosciente. Tutto era cambiato quel giorno: la sua vita, le sue aspettative, persino le sue paure. Quel posto continuava a puzzare di morte anche adesso che erano ati dodici anni.

Arrivò in fondo alle scale e attraversò il ristretto tunnel che lo avrebbe portato al

suo cospetto. Non percepì alcun rumore lì sotto: tutto era fermo. Il suo cuore non batteva, non aveva più bisogno di respirare, sentiva la polvere sospesa nell’aria spandersi contro di lui mentre avanzava, come se il tempo stesso si rifiutasse di scendere, lì sotto.

Dal buio, emerse lentamente una luce viola e spettrale che illuminava il solo pavimento di roccia nera, lasciando il resto dell’ambiente immerso nell’oscurità. Seduto sul suo trono il Divino lo attendeva, come sempre. Anche la luce si prostrava ai suoi piedi, rendendo visibili i soli gambali dell’armatura che indossava. Nell’aria ferma Mawson sentiva il fetore del suo corpo in decomposizione: più volte il Divino aveva detto di non avere più le gambe, né il braccio destro. Era solo quell’armatura che gli permetteva di muoversi, in puro mayem, il metallo sacro che rispondeva al volere di chi la indossava e, a volte pensava, anche delle sue emozioni.

Da ex capo dei Tre galeoni qual era, il Prefetto si chiese ancora una volta quanto potesse valere un’armatura simile. Forse non esisteva un possibile acquirente, non su quel mondo: non c’era prezzo che un padre non avrebbe pagato per vedere il proprio figlio tornare a camminare, non c’era niente che non avrebbe fatto in cambio.

Alle spalle del trono le ombre lo osservavano silenziose, sicure dell’abbraccio protettivo del grande buio. Erano ostili. Lo percepiva. “Cosa vuoi da noi?” sibilò la voce dentro l’armatura. “I tuoi pensieri sono confusi e mi disturbano.” La luce tremò, scossa dalle onde sonore della voce: quell’armatura alterava le leggi della natura in tutto quel maledetto ambiente. “L’ho trovato, vostra Eternità.” Le ombre fremettero ed eruppero in incomprensibili versi, simili a quelli di uno stormo di uccelli in fuga. Mawson non le aveva mai viste ma sapeva che c’erano,

lì davanti ai suoi occhi, e accompagnavano le reazioni del loro signore con i propri versi raccapriccianti. “Spiegati, mortale.” “Il ragazzo che state cercando si nasconde qui a Melekesh, come avete sempre sostenuto. Di preciso, al cimitero delle navi.” Il piede destro del Divino si spostò in avanti. Mawson se lo immaginò mentre, curioso, egli si sporgeva per prestargli la massima attenzione. Erano anni che attendeva quel momento, lontano dall’esistenza: dodici anni ati a imputridire nell’oscurità. “Ne sei sicuro?” “I Guardiani sapevano che eravate sulle sue tracce e devono averci messo fuori pista. I bastardi sono furbi: forse neanche loro sapevano dove si trovasse veramente. Se solo avessi saputo il colore dei suoi occhi io–” Il Divino sbatté il pugno di metallo e le tristi figure fecero eco alla sua rabbia con lo stridore dei denti. “Pensi che questo abbia importanza?! Dov’è adesso? Perché non lo hai portato qui?” Mawson chinò la testa. “Eternità, io–” Si interruppe. “Ho avuto paura.” Cadde il silenzio. “Paura, tu dici”, rispose colui che sedeva nel buio. “Sì, stai dicendo la verità. Io lo sento. Io sento sempre tutto: è questa prigione che tu pensi sia solo un’armatura a conferirmi questo potere. Tu hai veramente paura: paura di noi, paura di tutte le faccende che riguardano il nostro mondo, paura dell’antico dio che veneriamo. Ma anche desiderio. Morboso desiderio di conoscere, di condividere, e questa è cosa buona: la curiosità spinge gli uomini oltre i confini dai quali la paura li tiene lontani. Tuttavia sento anche che non stai dicendo tutta la verità. Dimmi cosa vuoi veramente.” “Mi sembrava inopportuno portare qui il ragazzo senza aver discusso della mia ricompensa, vostra Eternità.”

Le ombre urlarono il loro sdegno, assordandolo, mentre il Divino si alzava in piedi. Avanzò verso di lui, protetto dall’abbraccio del nulla, e Mawson osservò i suoi piedi farsi sempre più vicini fino a che, alzando la testa, vide un lumicino giallo brillare a poca distanza dal suo volto. Era il suo occhio. Il suo unico occhio maledetto da Kam Karkenos.

“Tu stai trattando con noi, Mawson? Tu osi trattare con noi?”

“No, non oserei mai”, squittì il prefetto, come un topo intrappolato sotto la zampa del gatto. “Vi sto solo implorando di ricompensarmi come avete sempre promesso, almeno ora che il mio compito è assolto. Mio figlio… sono stati loro, gli abitanti di quel lurido cimitero, a ridurlo così. Prostrato ai vostri piedi io vi imploro, Eternità! Avevate promesso che–” Le ombre lo assordarono, ma il Divino urlò: un solo urlo, fragoroso, che costrinse tutti al silenzio. L’armatura generò un lampo di luce che gli permise per un singolo istante di percepire il vero aspetto delle ombre: erano più di quante avesse mai creduto e osservavano solo lui. Aveva distolto lo sguardo, rifiutandosi di guardare. Ora che il buio era tornato, voleva dimenticare anche quel poco che aveva visto. “Il tuo compito sarà assolto quando quel ragazzo sarà portato al nostro cospetto”, riprese il Divino. “Quella sarà la fine del mio tormento e il principio del regno che verrà. Tu non temere. Io mantenevo sempre le mie promesse quando ero vivo, quando ero il Re guerriero dei Guardiani, e non sarò da meno ora. Tuo figlio tornerà a camminare, te lo prometto. Ti donerò la mia armatura e sarà come se questi lunghi anni non siano mai ati. Tu pensa solo a portare qui il ragazzo marchiato dalla Spirale: distruggi anche tutta questa maledetta città se necessario, non importa. Tutto il tuo mondo non importa. Se fallirai, stavolta non puniremo più te: troveremo tuo figlio. E allora le sue gambe non saranno l’unica cosa della quale rimpiangerà la mancanza.”

Il Divino tornò a sedersi e le ombre si placarono. Una scintilla scattò tra i gambali dell’armatura, segno evidente della sua rabbia.

Figlio di puttana! Figlio putrefatto di una cagna balorda! “Mawson?” “Sì?” “Ricordati che Skyrgal mi ha donato un potere enorme prima di abbandonare il mio corpo. Fa’ in modo che tu possa essere ancora utile per questo figlio di una cagna balorda. Anche quando ero solamente un umano ero molto più potente di te, in questa latrina che chiami città.” Come a sottolineare quelle parole, una delle ombre venne avanti. Poté vedere i suoi occhi rossi nel buio e udire il suo respiro famelico. “Servo della vostra volontà, Eterno”, concluse il prefetto, congedandosi con un inchino e tornando sui suoi i. Aveva un lavoro da portare a termine. Maledettamente in fretta. Non poté vedere che nel buio alle sue spalle il Divino aveva alzato una mano. Due occhi rossi e lucenti si avvicinarono ubbidienti. “La preda sta per essere stanata”, disse. “Sono ati tredici anni dalla sua nascita. Ora dovreste essere in grado di percepire il suo sangue, secondo le sacre scritture. Portatelo da me. Non contemplerò alcun fallimento da parte vostra, gorgor!” L’ombra chinò il capo oscuro in segno di ossequio, poi sparì. Anche lei aveva un lavoro da portare a termine, maledettamente in fretta.

* * * * *

5. Redenzione

Un’onda più alta delle precedenti si infranse contro gli scogli e gli schizzi lo raggiunsero sin lì, sul giaciglio di terra smossa sul quale era disteso. Dagger si svegliò nel cuore della notte senza ricordare dove si trovasse, né come ci fosse finito. Il vento soffiava con violenza dando voce alla rocce. Cercò istintivamente lo sguardo di Seeth, stesa accanto a lui, ma quando non la trovò tutto gli tornò alla mente con spietata chiarezza: Seeth non c’era più; dormiva sei piedi sotto di lui ora. Mawson l’aveva giustiziata e lui l’aveva sepolta nel loro luogo preferito: l’Orrido di Ktisis, una distesa di pietre erose dal vento nelle forme più contorte, affacciata direttamente sul mare. In un mondo che non aveva più bisogno di lui. Un dolore penetrante pulsava nella sua testa al ritmo dei battiti cardiaci, doloroso ricordo lasciato in eredità dal calcio del prefetto. Si alzò aggrappandosi alle rocce taglienti, ancora debole. Le nuvole si stavano adunando nel cielo, pronte a lavar via il sangue dal mondo; le tempeste di Melekesh si abbattevano rapide e violente, lasciando la città in ginocchio, sommersa dall’acqua, tutta a parte il quartiere dei nobili sulla Collina, il che spiegava perché abitassero lì da sempre.

Si strinse nelle braccia, infreddolito, percorrendo l’alta scarpata che risaliva la costa. C’erano molti conti che doveva chiudere con il ato, prima di capire cosa avrebbe fatto del suo futuro, se dopotutto esisteva un futuro. Si sarebbe gettato volentieri nel freddo abbraccio del grande silenzio una volta portata a termine la vendetta contro Mawson, contro il nobile che lo aveva tradito, ma prima di tutto contro il suo bersaglio più facile: il vecchio bastardo. Distratto dai suoi oscuri pensieri, quasi non si accorse di poter osservare la propria ombra in quella notte senza luna. Alzò lo sguardo solo per vedere che un unico grande rogo stava divorando il suo misero mondo: il cimitero delle navi bruciava e tutte le sue vie d’accesso erano occupate, non certo per bloccare i cittadini di Melekesh fermi sulle rive a godersi lo spettacolo, quanto per trucidare i pochi reietti che cercavano la salvezza. Le guardie cittadine entravano nel quartiere in lunghe e ordinate file nere, portandosi dietro barili di pece e torce; a giudicare dallo spiegamento di forze, Dagger pensò che volessero radere al suolo l’intero

cimitero. E probabilmente era proprio quello che stavano facendo.

Scomparve nell’ombra, muovendosi con discrezione, occhi bassi, come se niente di tutto quello lo riguardasse. Quando pensò di essere lontano quel che bastava, si calò in acqua tenendo la testa sotto la superficie e nuotò attraverso uno stretto pertugio, ferendosi più volte contro le schegge di legno che sbucavano dal fango. Riemergendo si trovò in un torbido canale periferico, lì dove lo spaccio di carne del quartiere gettava i resti delle carcasse degli animali macellati, comprese quelle di alcuni uomini che, indebitati sino al midollo, valevano ormai solo quanto rivestiva le loro ossa. Rimase quasi soffocato dal fetore dolciastro, mentre si arrampicava sull’albero maestro di uno dei relitti per cercare di capire cosa stesse succedendo. Presto la situazione gli risultò sin troppo chiara: con metodica perizia le guardie avevano incendiato il settore del cimitero più lontano dalla città, in modo che le fiamme risalissero pian piano lungo il quartiere senza lasciare indenne alcuna sua parte. Questo, certamente, dava alle guardie il tempo necessario per trarre dal loro dovere il turpe piacere della brutale violenza, esercitando il potere più oscuro: quello di disporre a proprio piacimento dell’altrui sofferenza.

Chiuse gli occhi e capì che in quella notte ardeva la resa dei conti finale tra la città e i suoi incubi, tra il forte e il debole, il ricco e il povero. Quando trovò la forza di riaprirli, vide che anche i contrabbandieri, la casta occulta di quel mondo, erano stati strappati dal sonno: legati gli uni agli altri con il filo spinato, disposti in cerchio, erano obbligati a guardare verso il centro dove le loro famiglie venivano fatte a pezzi. Il cumulo di orecchie, piedi e lingue in mezzo al cerchio suggeriva a Dagger che per il cimitero non ci sarebbe stata alcuna alba dopo quella notte.

Perché? si domandò poggiando la fronte contro il ruvido legno. I contrabbandieri erano utili a tutta la città, nutrivano i vizi delle guardie e dell’intera casta cittadina con la polvere magica, un certo tipo di funghi e ogni sorta di sostanza che veniva dall’altra parte del mare. Eppure quella notte anche loro venivano massacrati, cancellati dal volto di quel lurido mondo. Per un

momento temette di essere lui la causa di tutto, eppure aver rapinato il figlio di un nobile non poteva spiegare una reazione simile. No, c’era dell’altro.

Tornò in acqua e decise di arrivare sino in fondo, spinto dall’inestinguibile sete di verità. Qualcosa di pesante cadde sulla sua spalla e si scostò istintivamente, temendo di essere stato scoperto. Fece solo in tempo a vedere la testa mozzata di una donna mentre andava a fondo, gli occhi cavati, poi udì un urlo stridulo e lo sferragliare di una lama. Un’altra testa cadde nell’acqua, poco più in là: quella di una bambina. Dagger si ritirò contro la parete del vecchio veliero che ospitava la più grande casa di piacere del quartiere. Le guardie che un tempo, in abiti civili, erano venute lì a soddisfare i loro più abietti istinti, adesso erano giunte in divisa per dare la morte.

Andò sott’acqua e sentì la fanghiglia mista al sangue riempirgli il naso, come se volesse soffocarlo. Quando riemerse si ritrovò in un vicolo cieco, al buio. Si arrampicò lungo lo scafo di un peschereccio e si guardò di nuovo intorno: i Tre Galeoni bruciavano. Il sole intorno al quale orbitava tutto il quartiere ardeva un’ultima volta. Il loro capo assoluto era stato sventrato come un pesce e legato al timone, mentre i cinque luogotenenti pendevano dal pennone impiccati. I loro cadaveri mezzi carbonizzati dondolavano avanti e indietro nell’aria infernale, riscaldata dalle fiamme delle baracche circostanti. Tutti gli altri membri della gilda erano stati inchiodati sulla nave e alcuni di loro, ancora vivi, urlavano con forza sempre minore, sempre minore mentre il fuoco reclamava il loro corpo. Finché non si levò un ultimo grido atroce, e il silenzio ingoiò le loro vite.

Dagger si voltò verso il covo dei Ragni; quella parte del quartiere non era stata ancora lambita alle fiamme. Tornò in acqua e nuotò più in fretta che potesse per raggiungerlo in tempo, si arrampicò lungo il dissestato fianco di legno del vecchio vascello e ò attraverso una crepa aperta dall’umidità. Nella sicura e sinistra semioscurità rimase fermo. I rumori gli giungevano in sordina ora: le urla di dolore e le grida selvagge delle guardie, i corpi che cadevano in acqua e, su tutto, la voce impietosa del fuoco.

Si inoltrò nelle viscere del buio, usando le mani per orientarsi, e arrivato sotto la grata aperta sul ponte di coperta si acquattò contro la parete, al riparo dai mortali e rossi raggi di luce che venivano da sopra. Nel reticolo metallico c’era l’ombra di due piedi, i piedi di un uomo che osservava in silenzio il macabro spettacolo intorno a lui.

“Deve essere scappato. Quel piccolo figlio di puttana deve essere da qualche parte là fuori!” Era la voce di Mawson. Una guardia mosse un o in avanti e si chinò in ginocchio. “Dobbiamo sospendere le ricerche?” In tutta risposta, il prefetto gli piantò la spada nel volto. Poi lo spinse a terra con un calcio, osservandolo scosso dagli spasmi. Il sangue colò al di sotto della grata, gocciolando caldo e denso sul volto di Dagger. “No”, rispose. “Niente di tutto questo vecchio gioco ha più importanza. Non ci sono più regole, non ci sono più patti da rispettare. Lasciate che la violenza regni sovrana e date libero sfogo a ogni vostro più infimo istinto, ma rimanete a sorvegliare questo luogo e fate in modo che le fiamme non lo avvolgano. Forse tornerà, se è più stupido di quanto creda.” Detto questo, se ne andò. Dagger ascoltò i i sferraglianti delle guardie che si disponevano intorno, poi ci fu solo il fuoco, l’abbaiare dei cani e le urla di agonia. Ora poteva essere certo che lo stavano cercando; quella carneficina era tutta per lui. Non si domandò dove fossero finiti gli altri Ragni: dubitava che Mawson avesse bussato prima di entrare.

Sono più stupido di quanto crede. Perfetto, Prefetto!

Doveva andarsene da lì, in fretta, cercare di uscire da quell’inferno finché era in tempo, poi avrebbe pensato al dopo. Tornò alla crepa dalla quale era entrato però

scoprì che il destino aveva tirato di nuovo i dadi, facendo fare due i indietro alla fortuna: fece appena in tempo a nascondersi prima di incappare nello sguardo vigile di una delle guardie che, dal ponte di coperta, osservava adesso i canali tra le navi. Provò l’istintivo desiderio di dare un pugno alla parete e bestemmiare Ktisis, tuttavia non sarebbe tornato utile stavolta.

Si allontanò dalla luce, ingoiato dall’oscurità ed esplorò le pareti con le mani, a lungo, sperando di non incappare in un buco nel pavimento che lo avrebbe fatto precipitare senza rimedio nei ponti bassi della nave, mai esplorati. Presto perse l’orientamento: non era più in grado di capire dove fosse, né sapeva come tornare indietro. Si ritrovò sul punto di cedere e aspettare che la morte venisse a trovarlo lì, per ucciderlo a suo piacimento con il fuoco o la fame, poi le sue mani incontrarono il vuoto e si ritrovò a camminare in un ambiente spazioso, in penombra: la poca luce proveniva da un quadrato dai bordi luminosi posto sul soffitto, alto sopra di lui. Camminò fino a che, con le mani tese in avanti, incontrò una vecchia scala di legno; in quel momento capì con precisione dove si trovava: quella era la stanza delle punizioni, il luogo dove Mamma rinchiudeva i Ragni per tormentarli al termine di una notte andata male. Quel luogo dove lui era entrato una sola volta, scendendo proprio attraverso quel quadrato luminoso: nient’altro che la botola nello studio del vecchio Mamma.

Risalì i pioli nel massimo silenzio fino a che le sue dita non sfiorarono il soffitto. Lì rimase in ascolto, implorando il suo cuore di battere più lentamente. Poi, con prudenza, aprì la botola in uno spiraglio. Vide due stivali e subito la richiuse. Merda! Poggiò la fronte contro l’ultimo piolo e, quando udì il suono di una lama che veniva sfoderata, quel suono che sarebbe riuscito a distinguere anche in mezzo al putiferio dell’inferno, sperò che la sua ora fosse giunta. Era sfinito, il suo mondo non esisteva più. Voleva raggiungere Seeth ad Almagard, la grande taverna dell’aldilà, e ubriacarsi fino a perdere i sensi in compagnia dei morti. Poi capì che quella lama non era stata sfoderata per lui, ascoltando l’ultimo lamento della guardia che veniva sgozzata. La sentì cadere a terra e morire, fino a che il suo sangue non penetrò tra le fessure della botola.

L’assassino atterrò a piedi uniti sul pavimento, come saltando dal soffitto dove, probabilmente, era rimasto nascosto per tutto quel tempo. Non poteva ascoltare i suoi i tanto era silenzioso, eppure riuscì a seguire il suo cammino ascoltando lo scorrere della lama dentro la carne delle guardie, sorprese, sgozzate, eliminate una per una. Solo quando lo sentì uscire sul ponte di coperta, Dagger saltò fuori dalla botola e si lanciò attraverso lo studio di Mamma. Nella semioscurità intravide l’ombra piantare la lama nel collo dell’ultima guardia, poi sbatté la porta e indietreggiò.

ò del tempo e non accadde nulla.

All’improvviso, l’ombra buttò giù la porta con un solo calcio. Vide la sua sagoma nera contro il riverbero vermiglio delle fiamme avanzare attraverso lo studio, le dita strette sul pugnale. La osservò farsi vicina, sempre più vicina, e lui indietreggiò, sempre più, fino a ritrovarsi con le spalle al muro. Si lasciò cadere a terra, rassegnato, riparando il volto dietro il braccio destro in un ultimo gesto di difesa, ma l’ombra lo afferrò per la tunica e lo tirò in piedi con la stessa facilità con cui avrebbe sollevato un cane ferito. Gli scoprì il petto. E sorrise.

“Uhm”, disse. “Guarda guarda cos’ha portato dentro il gatto.” Lo squadrò da capo a piedi. “Però. Sei cresciuto dall’ultima volta.” Dagger si divincolò con uno strattone, portando la mano al coltello, senza sfoderarlo. “Chi… sei?” domandò. L’ombra rimase in silenzio per un istante, poi tirò giù il cappuccio a scoprire il volto di un uomo di almeno cinquant’anni, indurito da profonde cicatrici. Aveva gli occhi blu e capelli grigi che un tempo erano stati color sabbia, come i suoi. “Io sono Marduk”, rispose. “Dracone Delta di Golconda. Di solito non salvo la vita alle persone. Di solito le uccido.” Dopo quella considerazione si guardò intorno, lentamente, come esaminando ogni angolo oscuro di quel luogo. Sopraffatto dal suo istinto di Ragno Dagger

tirò fuori la lama, tuttavia Marduk lo buttò a terra senza neanche degnarlo di uno sguardo. “Questo posto è impregnato di una puzza familiare”, disse con la massima tranquillità, come se avesse appena scacciato via una mosca. “Sin troppo familiare. L’uomo cui appartiene questo tanfo dovrebbe essere morto già da molto tempo. Sono confuso.” Il ragazzo fu di nuovo in piedi con il coltello stretto nella mano. Ansimò, trattenendosi dall’attaccare. Marduk abbassò di nuovo lo sguardo su di lui. “Mettiamo in chiaro una cosa”, disse. “Ti ho salvato la vita, quindi non mi sembra educato cercare di uccidermi. E poi, se proprio vuoi colpirmi, cerca di farlo con un’arma decente. Non con quel coso!” Si portò una mano alla cinta di pugnali sul petto. Ne prese uno e glielo porse. “Buon compleanno. Qualche tempo fa hai compiuto tredici anni, lo sai almeno questo?” “Che Ktisis è un compleanno?” A quella domanda Marduk scoppiò a ridere, prima di capire che Dagger faceva sul serio. “Questo è un regalo”, continuò, porgendogli il pugnale. “Sai almeno cos’è un regalo?” Il sorriso sulla sua bocca si trasformò in un ghigno amaro quando Dag scosse la testa. “Significa che non devi aver paura di me. Sono qui per tirarti fuori da questo guaio. Sempre che tu lo voglia.” Il ragazzo esaminò il pugnale. Non ne aveva mai visto di simili: la lama era grezza e porosa, di un colore verdastro, screziato di giallo come se avesse ato un lungo tempo sul fondo del mare. L’impugnatura era stata incisa in un intrico di figure astratte che ricordavano rovi spinosi e tentacoli. Un attrezzo del genere doveva stare in fondo a una discarica, pensò, eppure capì che quell’arma aveva ucciso: c’erano delle tacche sulla lama, una per ogni vita strappata a un uomo. Quando la prese dalle mani di Marduk, scintille di luce viola ne percorsero l’intera superficie, trasformandola sotto ai suoi occhi. Le sue dita sembrarono riportare il pugnale come indietro nel tempo, al giorno in cui era una lama lucente e affilata, pronta a uccidere.

Alzò gli occhi stupefatto. “Ma che cazzo–?”

“Aniah aveva ragione. Questa è la conferma che sei veramente tu.” “Non ho mai avuto dubbi di essere veramente io.” A quella risposta l’uomo sorrise ancora una volta. Un’ultima volta, poi il suo volto si raggelò di colpo. Tirando indietro il mantello pose mano a una spada nascosta al suo fianco, sfilò la lama argentata dal fodero e rimase immobile. Neanche Dagger osò muoversi. Lo guardò a bocca aperta, muto. “Quando ho sentito la tua puzza non ci volevo neanche credere”, disse Marduk. “Tu dovresti essere morto, papà.” Solo in quel momento il ragazzo vide il grande Mamma venire avanti, claudicante, alle sue spalle. Stringeva due coltellacci tra le mani e il suo volto era una maschera di sangue. Non si domandò come avesse fatto a farsi strada tra le guardie; doveva essere più abile di quanto avesse mai creduto e, a giudicare dal o, anche più ubriaco di quanto fosse mai stato. “Marduk Nightfall!” sputacchiarono le labbra impastate del vecchio. “Ho capito che si trattava di te quando ho visto il taglio sulla gola di queste guardie. Riconoscerei la tua firma maldestra anche in mezzo a un campo di battaglia ricoperto di cadaveri. Ti sembra questo il modo in cui ti ho insegnato a uccidere?” “Non sarai morto ma puzzi come un cadavere.” Marduk si voltò con la spada tesa. “Di’ un po’. Hai bevuto talmente tanto nell’oltretomba da essere cacciato via anche da lì? Ubriachezza molesta all’inferno, sarebbe tipico da parte tua.” “E non cambi mai battute, vero?” Il padre zoppicò un o in avanti. “A volte mi domando se uccidi veramente con il pugnale, o se invece annoi le persone con il tuo sarcasmo fino a farle morire!” “Un po’ e un po’, mi piace variare. L’ironia è di famiglia. Anche tua figlia ne aveva molta, ricordi?” “Dov’è Aniah?” Il figlio abbassò la guardia. “Ma tu sentilo. Sei tu quello che fa le domande?” “Che sta succedendo qui, vecchio?” domandò Dagger.

“Lo sai chi è questo tizio, Dag?” Sannah indicò Marduk con la punta del coltello. “Questo è l’uomo che ha deciso di rinchiuderti in questa gigantesca prigione. È stato lui a ordinare a tua madre di portarti su questo mondo e sai perché? Perché aveva paura, come tutti i codardi. Io non ho mai avuto paura di te, non una sola volta nella mia vita. Forse è per questo che sono impazzito.” E rise. Dagger si voltò verso Marduk, però questo aveva occhi solo per suo padre, in quel momento. Lo guardava con un odio incondizionato sepolto da anni, ma non ancora estinto. “Su questo mondo?” “Oh sì, è una storia maledettamente lunga”, continuò il vecchio. “Non sai neanche quanto. Inizia con quei due dèi del cazzo che si scannano come maiali in cima a una montagna, continua con una serie interminabile di guerre combattute ai piedi di una Fortezza e si conclude con la tua nascita, abominio schifoso!” “Sei ubriaco come sempre, falla finita!” ringhiò Marduk. “Di’ una sola parola in più e se anche non sei morto ti ammazzo lì dove sei, lo giuro sul cadavere di mia sorella.” “Dov’è Aniah?” domandò ancora Sannah. Poi ascoltò, dopo aver solo sentito, le parole del figlio. Il suo volto si trasformò sotto ai loro occhi, attraversato dal dolore. “Hai detto, sul cadavere di mia sorella?”

Marduk chinò la testa. Un urlo sorse dritto dalle sue budella mentre con un calcio scagliava la scrivania contro la vetrata, mandandola in frantumi. Da fuori irruppe il vento, scaldato dal fuoco che regnava sul quartiere. “Aniah è morta!” Sannah cadde in ginocchio, poggiando le mani a terra. “No.” “Oh, ti dispiace?” Il vecchio nascose il volto tra le mani e il pavimento. “Come è successo?” domandò in un filo di voce.

“Cosa te ne frega. Te ne sei stato qui per tutto questo tempo senza dirci nulla, come hai potuto? Come hai potuto farci perdere tutti questi anni?” Sannah si strinse la testa tra le mani. “Brutta faccia di merda!” rispose poi, alzando il volto con gli occhi iniettati di sangue. “Vieni a farmi la predica, adesso? Tu che l’hai spedita qui per privarsi di quell’unico essere che poteva significare qualcosa per lei! Tu, che l’hai trattata come una pedina nella vostra scacchiera, una pedina sacrificabile per il vostro stracazzo di Equilibrio! Sì, tu sì che sei stato coraggioso.” Suo figlio rimase in silenzio, subendo ogni parola come una coltellata rovente. “Adesso dimmi come cazzo è morta mia figlia.” Marduk chinò il volto, si adombrò. “Dopo essere stata costretta a rinnegare suo figlio, Aniah si è abbandonata a una lenta pazzia”, rivelò. “Per dodici anni è rimasta chiusa nella stanza in cima alla mia torre, lasciandosi divorare dall’inedia e parlando per arcani. Spesso ho pensato che si stesse solo prendendo gioco di noi per proteggere il suo segreto, altre volte guardando nei suoi occhi mi convincevo che il dolore l’aveva veramente fatta impazzire. Solo in punto di morte, ridotta a poco più che uno scheletro ricoperto di pelle, mi ha confessato di averlo nascosto qui. Certo, ha tralasciato il piccolo particolare di aver affidato suo figlio proprio a te. Deve essere stato il suo ultimo tiro mancino. L’ho abbandonato da un uomo che ti stupirà, ha detto. Poi, ghignando, è morta.” “Perché solo ora? Perché non ve l’ha detto prima?” Marduk scosse la testa. “Ho sempre avuto la sensazione che lei sapesse di questa storia più di noi. Di sicuro voleva tenerlo lontano dalla Fortezza il più a lungo possibile, ma secondo Dracon Araya, adesso che ha compiuto tredici anni, loro possono fiutare il suo sangue e non è più al sicuro neanche qui. Lei lo sapeva. Lei ha letto tutte le scritture riguardanti la nascita di suo figlio di prima mano, nel tempio di Adramelech. Il suo sangue, adesso… scorre.”

Dagger si voltò verso Sannah. “Eh?!” domandò, senza ricevere risposta. “Sannah. Dobbiamo portare il ragazzo lontano da qui finché siamo in tempo, poi ci potremo rinfacciare le scelte sbagliate di tutti questi anni.”

“Penso che sia già troppo tardi”, disse una terza voce. Al solo udirla, Dagger rabbrividì. Sannah scattò in piedi e tutti e tre si voltarono verso la porta con le armi in pugno. Il Prefetto Mawson mosse un o avanti, avvolto nel suo inseparabile mantello nero. Si fermò sulla soglia della porta e piantò sul ragazzo tutta la sua attenzione. “Eccoti qui, bastardino. Sei stato più stupido di quello che pensavo, a quanto pare.” “E questo chi cazzo è, adesso?” fece Marduk ponendosi di fronte a Dagger. Mawson alzò lo sguardo su di lui. “Sei tu che hai massacrato le mie guardie? Però, sei bravino!” Lui scrollò le spalle. “Grazie, fa sempre piacere sentirselo dire. Anni e anni di duro allenamento finalmente hanno un senso. Certo che potevi addestrarle meglio, le tue guardie. Dannazione, non si sono neanche mosse!” Sannah lo affiancò. “Sta’ attento, figlio mio”, avvertì. “Questo qui gioca sporco. E comunque per me sei sempre maldestro.” “Lasciatemi il ragazzo e vi permetterò di andarvene con le vostre gambe. Lui è troppo importante per me.” “Oh, davvero?” rispose Marduk. “Io invece mi sono fatto strada attraverso tutta questa merda solo per venire a vedere come se la ava. Fa’ il bravo. Chiunque tu sia, fai marcia indietro e torna nel buco di culo dal quale sei uscito. Forse ti lascerò andare con la testa attaccata al collo. Se mi va.” “Sei stato tu a ordinare tutto questo, vero?” intervenne Sannah. Il Prefetto rise di gusto, annuendo. “Oh sì! Hai visto che cazzo di roba?” “Ma perché?” In tutta risposta, Mawson allungò il dito contro Dagger. “Lui. Io so tutto di lui, mi hanno istruito. E so tutto anche di voi: Guardiani di Golconda, templi nel deserto, conoscenze scritte nel sangue e dèi esiliati dal loro corpo. Oh sì, mi hanno raccontato davvero molte cose sul porco mondo dal quale venite. Io sono al servizio del Divino, lo sono sempre stato. Sono il suo referente su questo

mondo.” “Il Divino?” “È il modo in cui chiamano Crowley, adesso”, mormorò Marduk. Sannah si voltò verso suo figlio a bocca aperta. “E Crowley è ancora vivo?” “Non mi sembra proprio il momento di un riassunto, papà.” “Be’, dopo che l’anima di Skyrgal è stata strappata dal suo corpo le sue membra si muovevano ancora”, spiegò il Prefetto. “Almeno quelle che rimanevano. Non so se vivo è la parola giusta, di sicuro adesso non è più dei vostri.”

“E adesso a quanto dice questo stronzo si trova qui”, considerò Marduk. “Perfetto.” “Oh, e non solo lui”, riprese Mawson. “I gorgor hanno messo piede su questo mondo già da molto tempo, alla ricerca del ragazzo.” “E come? Come, se noi custodiamo l’unico nesso tra i due mondi?!” Il Prefetto rise. “Be’, questo è un piccolo segreto. Siete stati stupidi, stupidi e prevedibili. La vostra unica fortuna è che nessuno sapeva dove si trovasse il figlio di Skyrgal, neanche voi stessi, ma adesso il suo sangue divino sta prendendo il sopravvento su quello umano e i gorgor sono sulle sue tracce. Il conto alla rovescia per la vostra estinzione è finalmente cominciato.” Marduk chinò la testa di lato. “Bella metafora”, disse. “Sono impressionato, sul serio. Allora non sei solo un ignorante, stronzo, pazzo sanguinario, mezza sega posto a metà strada nella piramide sociale di questa fogna, tra i nobili che la comandano e i ratti che ci sguazzano!”

In tutta risposta l’altro sfilò a sua volta la spada da sotto il mantello. “Ci sono molte cose che non sapete e che probabilmente non saprete mai. Nella prossima vita, cercate di essere più svegli.”

Sannah urlò e, prima che suo figlio potesse fermarlo, scattò contro Mawson. Quest’ultimo non lo osservò nemmeno mentre con un singolo, elegante fendente gli squarciava il ventre. Il vecchio cadde a terra con le budella tra le mani, fradicio del suo sangue e delle sue feci. Dagger si ritrovò pietrificato. L’odore. L’odore di un uomo sventrato lo conosceva bene, ormai: molti parlavano del sangue e delle budella, delle mani che tentavano di ricacciarle dentro, tuttavia era l’odore che faceva la differenza tra un uomo con la pancia aperta e un altro che moriva di una qualsiasi altra morte violenta. Il penetrante odore di merda. “Uccidete quel… bastardo!” riuscì a sputare fuori il vecchio. Marduk scagliò uno dei suoi pugnali ma Mawson lo respinse con la spada, ridendo divertito. “Vieni qui. Mancano gli occhi di un Dracone nella mia collezione.” “C’è chi colleziona veramente di tutto”, rispose il Dracone. Poi ogni ombra di scherno scomparve dal suo volto. Impugnò la spada con la destra, un pugnale con la sinistra, e fronteggiò il suo avversario. I due iniziarono a girare intorno alla stanza, fissandosi, entrambi attendendo che fosse l’altro a esporsi per primo. “Sai? È un onore duellare con il grande Marduk. Il Divino mi ha parlato molto di te e della tua leggendaria ironia, sempre presente, anche nei momenti più difficili.” “Oh sì, come quando sei costretto a fronteggiare il grande… scusa come hai detto che ti chiami?” Preso dalla lingua tagliente del suo rivale, Mawson diede le spalle a Dagger. Il ragazzo sapeva che Marduk lo aveva calcolato: afferrò da terra una lunga scheggia di vetro, pregando Ktisis di non mollarlo ancora una volta. Aspettò il momento adatto, poi scattò. Il Prefetto doveva averlo già notato e lo schivò agilmente, ridendo della sua innocenza mentre lo spingeva a terra con un calcio sulla schiena. Però la trappola era scattata alla perfezione; abbassando lo sguardo il Prefetto vide che Sannah non era morto come credeva.

Il vecchio serrò un braccio intorno alle sue caviglie e gli tranciò di netto i tendini d’Achille, facendolo rovinare a terra come un sacco vuoto. Poi si arrampicò su di

lui e gli inchiodò le mani al pavimento con i due coltellacci, ignorando persino le budella che ormai pendevano fuori dallo squarcio sulla pancia, tracciando astratti disegni sul panciotto nero. “Questo è per Arleb e per i suoi figli!” ringhiò, prima di lasciarsi cadere a terra esanime.

Dagger capì che il suo momento era arrivato: piombò con il ginocchio sul petto di Mawson, crocifisso a terra, e gli portò la scheggia di vetro alla gola. Il cuore batteva all’impazzata in mezzo al suo petto mentre osservava il prefetto che cercava di liberarsi, terrificato.

“Non voglio morire”, disse. “Io non posso! Chi si prenderà cura di lui?” “Io sono Dagger. Quando sarai all’inferno, di’ a Seeth che sono stato io a mandarti.” E tagliò. Lacerò la gola del prefetto e il sangue schizzò sul suo volto in un abbondante fiotto caldo. Lo guardò negli occhi mentre moriva, pensando a qualcosa di importante da dire, una frase epica, ma non fece in tempo: Mawson non poteva più ascoltarlo ormai. Buffo. Aveva creduto che gli sarebbe servita tutta la vita per portare a termine la sua vendetta, invece era stato sin troppo facile. Quasi non ne era valsa la pena. Si voltò e vide che Marduk teneva suo padre stretto tra le braccia. Il vecchio pazzo era ancora vivo. “È proprio nel tuo stile farti cercare per tutto questo tempo e morire solo una volta che ti ho ritrovato… che tu sia maledetto, papà!” Sannah spostò lo sguardo su Dagger, che lo osservava immobile, sporco di sangue dalla testa ai piedi. “Hai avuto la tua vendetta, eh?” sussurrò. “Non vale la pena vivere neanche un solo giorno, per la vendetta.” Marduk lo strinse a sé e nascose il suo volto. Non voleva essere osservato in quel momento. “Perché? Perché, proprio noi?” In un ultimo impeto di forza paterna, Sannah cercò di colpire suo figlio con un

pugno, però riuscì solo a sfiorarlo. “Cazzo, Marduk, falla finita coi perché”, sussurrò con sempre meno energia. “Domandati piuttosto chi.”

Marduk sollevò il volto. “Chi?” Sannah rise. “Chi è che sta tradendo i Guardiani, da sempre?” disse. “C’è un buco grande… grande come una voragine nella vostra… nostra stramaledetta Fortezza. Chi?” Si girò su un fianco, ansimando, e stese il braccio a indicare la vetrata infranta. “Va’! E quando ci incontreremo per ubriacarci a Almagard, mi dirai chi. Sono… proprio curioso!” Ridacchiò sommessamente, poi allungò una mano per afferrare uno dei suoi coltelli e se lo strinse contro il petto, incarnando la sua regola numero dieci: muori sempre con un pugnale in mano. I suoi occhi lacrimavano per l’agonia. “Prima però…” Marduk alzò il volto ad ascoltare le sue ultime parole: “Prima di’ a Dagger che razza di mostro è.” Detto questo, il vecchio chiuse gli occhi e morì indossando un’ultima volta il suo folle ghigno. Dagger non provò nulla: non era mai stato legato al vecchio se non dalla semplice necessità. Era stato il suo tetto, il suo cibo, la sua protezione dal resto del mondo; un sadico bastardo che non perdeva occasione di sfogare la propria violenza contro di loro. Sputò a terra e si voltò verso le fiamme che ormai lambivano la soglia della gilda, acquisendo forza. Ogni via di fuga era bloccata, a parte una. “Tu conosci questi canali”, disse Marduk, ancora chino sul corpo del padre. “Sei l’unico che può portarci in salvo: fallo, e prometto che ti darò tutte le risposte che cerchi. Se avremo fortuna, entro poco saremo a casa.” “Quale casa?” domandò. Marduk ghignò tra le lacrime. “Golconda”, rispose. “Il luogo dove tutti noi apparteniamo. Forse anche tu.”

* * * * *

6. Ombre di una notte senza luna

Quando si ritrovò immerso nell’acqua rossa e appiccicosa, Dagger avvertì distintamente l’odore pungente del sangue. La luce incostante delle fiamme fece emergere dal buio i volti senza vita dei suoi vecchi compagni, gli occhi sbarrati, le bocche semichiuse, il viso lacerato dall’impatto con gli spunzoni di legno contro i quali erano stati gettati. Non tutti erano morti subito, visto che molti avevano avuto il tempo di portarsi le mani all’aculeo aguzzo che spuntava dal ventre, o dal torace, per cercare di liberarsi. Alcuni tra i più piccoli erano stati uccisi rapidamente, tuttavia con i più grandi le guardie di Mawson si erano divertite un po’ più a lungo. Chinò il volto.

Anche Marduk li stava osservando, con un’espressione di disgusto mista a pietà. “Guarda quello, Ktisis bastardo. Gli hanno…”

“Ho visto”, tagliò corto il ragazzo. “Andiamocene, dannazione. Con che razza di mostri abbiamo popolato questo mondo?” Dagger guidò il Dracone lontano da quell’inferno. Il fuoco aveva preso maggior vigore, ora che il vento annunciava solenne l’arrivo di una tempesta. Gran parte degli uomini di Mawson era tornata sulla terraferma, solo alcuni si attardavano ancora tra i relitti per completare la loro metodica opera di morte. Le loro urla selvagge si insinuavano di tanto in tanto nel vocìo sommesso delle fiamme, tra l’abbaiare dei cani e i tuoni in avvicinamento. Dagger e Marduk si fermarono appena in tempo per non essere scoperti da cinque guardie intente a somministrare la giustizia a un vecchio. Lo avevano gettato nelle sabbie mobili dopo avergli amputato mani e piedi e adesso osservavano divertiti i suoi patetici tentativi di rimanere a galla. Il sangue si mischiava al fango intorno al suo corpo, interamente tatuato con figure di divinità pagane provenienti dall’altra parte del mare.

“Dove sono i tuoi dèi, adesso che ne hai bisogno, eh? Invoca Ktisis, solo lui può salvarti!” disse uno di loro, facendo dondolare un pezzetto di muscolo grondante di sangue. Guardando le lacrime rosse sul mento e il collo del vecchio, Dagger capì che si trattava della sua lingua. “Invoca Ktisis, su, e noi ti salveremo. Non mi sembra così difficile!” Risero e ubriachi si saziarono della sua paura, finché le sabbie mobili arrivarono sino al torace, rifiutando di reclamare il resto del corpo. Il vecchio rimase metà nel mondo dei vivi, metà già inghiottito dal regno dei morti. Agonizzante, guardò i suoi aguzzini senza proferir parola. Oltre il muro dell’ebbrezza le guardie smisero di trovare tutto ciò divertente. Aiutandosi con un bastone lo spinsero giù, lontano da quel che rimaneva della loro umanità. Solo dopo aver aggirato l’infinita serie di relitti, scansando le interiora e urtando con i piedi, sul fondo, gli arti mozzati e le teste spaccate che le guardie avevano gettato in mare, Dagger e Marduk si ritrovarono circondati da un silenzio surreale, rotto solamente dalle urla di agonia di una delle prede riuscita a rimanere nascosta sino a quel momento. Nuotando lungo uno dei canali, ora più ampi e profondi, raggiunsero infine il margine nord del quartiere, lì dove una scogliera delimitava il lordo bacino acqueo del cimitero. Si aggrapparono alla roccia, tirandosi all’asciutto per osservare il triste spettacolo: il rogo si stava propagando sempre più velocemente. Le ultime guardie arretravano solo ora verso la terra ferma, continuando a versare la pece come lumache con il proprio strascico bavoso. I più giovani e inesperti tra di loro erano rimasti intrappolati dal fuoco, ma i compagni non si adoperavano per salvarli: ridevano di gusto mentre li osservavano bruciare vivi. Erano drogati. Tutti. Lo capiva dal suono delle loro risate, lo aveva visto nei loro occhi. Chinò il volto, sfinito da quell’overdose di morte, eppure non c’era tempo per la tregua: a pochi metri di distanza il mare stava dando il peggio di sé, con onde talmente alte da scavalcare la scogliera e lavare via il sangue e il fango dai loro volti, mentre le guardie erano ancora appostate sulla riva per assicurarsi che nessuno uscisse vivo da lì. “Non esiste via di fuga”, disse. “Né per mare, né per terra.” Marduk scosse la testa. “Non smettere mai di lottare!” Il ragazzo stava per rispondere, quando notò due lontani lumicini rossi apparire

tra i relitti che si erano lasciati alle spalle. Li vide scomparire e riapparire più volte e capì che erano due occhi. A quelli se ne aggiunsero presto altri. “Che Ktisis sono?” domandò. “Problemi”, rispose Marduk senza neanche voltarsi, come se li avesse notati già da tempo. “Problemi più grandi di tutte le guardie di questa stramaledetta città. Mawson aveva ragione: i gorgor sono giunti su questo mondo e ti stanno cercando.” Dagger non riuscì a smettere di osservarli e per un momento pensò che quegli occhi stessero ricambiando il suo sguardo. “Non ti preoccupare, sono praticamente ciechi di giorno, o con la luce. Però il loro olfatto è infallibile e stanno seguendo l’odore del tuo sangue.” “Il mio sangue?” “Sì, tuttavia in questa fogna non riescono a sentirlo: penso che tu e questo mondo puzziate troppo anche per loro.” Dagger sgranò gli occhi. “Fogne!” esclamò. “Certo, le fogne di Melekesh sfociano proprio qui!”

Il Dracone chinò la testa. “E suppongo sia la nostra unica via di fuga, vero?” L’altro si limitò ad alzare un sopracciglio. “D’accordo, non sarò troppo esigente stavolta. Mostrami la strada.” Marciarono sugli scogli, attenti a non scivolare sulla superficie umida e mantenendo la testa bassa per non manifestare la loro presenza a chiunque che, fosse uomo o ombra, potesse essere sulle loro tracce o attenderli nell’oscurità. Videro presto il grande cerchio buio del condotto che sbucava dalle viscere della roccia, riversando i suoi densi liquami nel mare. Dagger stava per affrettarsi verso l’agognata salvezza, quando Marduk lo fermò per un braccio.

“Guarda, sempre!” lo ammonì. Solo in quel momento nel cerchio oscuro il ragazzo vide un lumicino . Lo osservò muoversi dal basso verso l’alto e poi viceversa, più volte. “Gorgor?” suppose. “Non essere stupido: qualcuno si sta fumando un sigaro, lì dentro. Significa che anche le fogne sono sorvegliate. Be’, c’era da aspettarselo; nessuno deve uscire vivo da quest’inferno.” “Che facciamo?” Il Dracone ghignò, come sorprendendosi della stupidità di quella domanda. Pose mano a un pugnale, senza sfoderarlo, ma si fermò quando la guardia appostata nel buio emerse di fuori. “Guardate come brusciano!” lo ascoltarono biascicare. Venne affiancato da altri quattro uomini armati fino ai denti, ubriachi fino alle ossa. Uno di loro impugnava una bottiglia quasi vuota. “Ktisis onnipotente, vendica tutti i nostri morti!” urlò. “Fanculo alle gilde!” Alzò la bottiglia e se la svuotò nelle budella, tra le risa e le imprecazioni degli altri. Poi la combriccola sparì nel buio, cantando: “Con un uncino arrugginito li sbudellerem, li sbudellerem! Con un coltello sporco li sgozzerem, li sgozzerem. E se urleranno ancora li farem star zitti per sempre, senza lingua e senza labbra, senza occhi e senza orecchie. Ktisis! Ktisis! Inonda il mondo con la birra e il sangue! Ktisis! Ktisis! A te sacrifichiamo i nostri figli e nemici. Ktisis! Ktisis! Fatta la tua volontà, venga il tuo regno!”

Marduk scosse la testa. “Tre sono completamente ubriachi”, notò. “Solo uno di loro sembra abbastanza lucido da reggere in pugno un’arma, anche se la ebbe come un bastone. Uno zoppica. Uno ha difetti alla vista. Non devono essere estremamente contenti di essere stati mandati a sorvegliare le fogne, per questo si sono ubriacati, se non altro per sopportare meglio questa puzza. Sono ben armati, ma la loro cotta di cuoio fa ridere. Penso che ce la potresti fare anche da solo, diciamo… hai un cinquanta per cento di possibilità se fai fuori prima

quello più lucido. Uhm. Quaranta per cento. Che ne dici, te la senti?” Dagger si voltò. Marduk sorrise. “Ok, per questa volta faccio io”, rispose. Avanzò sino al condotto, arrampicandosi al suo interno, dopodiché accadde tutto molto in fretta: da fuori Dagger non sentì alcun rumore, a parte un solo urlo strozzato. Poi vide Marduk sbucare dal buio con un corpo sulle spalle. Lo gettò nell’acqua fetida e gli fece cenno di avvicinarsi. Nel buio delle fogne, il tanfo si fece insopportabile anche per lui. Si lasciarono in fretta l’entrata alle spalle e con essa la luce delle fiamme, avanzando nella semioscurità. Marduk, di tanto in tanto, indicava dove si trovavano i cadaveri delle guardie che non avevano avuto neanche il tempo di maledire il proprio dio con il loro ultimo fiato. “Potrebbero essercene altre più avanti”, bisbigliò. “Fa’ poco rumore, qui dentro i suoni vengono amplificati.” La luce alle loro spalle scomparve presto, lasciandoli nel buio più completo. Allora Marduk prese una piccola sfera di metallo da sotto il mantello e la sfregò tra le mani, fino a che non emanò una luce violacea via via più intensa. Illuminò il suo volto e lo squadrò da capo a piedi. “Tutto bene?” “E questa cos’è?” “Una sfera di ensiferum. Il metallo creato da Ktisis, il motore primo dell’universo, colui che ha portato la luce nel creato quando gli umani ancora non esistevano. Quando niente esisteva, in effetti, visto che lui esisteva prima di tutto. Forte vero?” “Ktisis è il dio che ha donato l’alcol agli uomini, per ripagarli di tutti i dolori della vita.” Marduk lo guardò scettico. “Sannah non ti ha insegnato proprio niente su di lui?” Dagger scosse la testa.

“Sui burzum e i mastodon, sui gorgor, i Guardiani? Su Borknagar, la creazione del portale, l’Esilio di–” Dagger scosse ancora la testa. “Angra sceso in terra, scommetto che non ti ha detto niente persino di tuo… di Skyrgal!” “Chi?” “Oh, porc–” Marduk chinò il volto. “Questa è veramente bella. Non oso pensare a cosa ti ha insegnato in questi dodici anni.” “A sopravvivere.” Il Dracone ghignò. “Be’, questo non ti tornerà affatto utile, ragazzo mio.” Non disse altro e si mise di nuovo in marcia. Il ragazzo lo seguì riluttante. “Cosa volevi dire con quella frase?” Marduk si voltò e gli pose una mano sulla bocca. “Ti ho detto di non alzare la voce qui dentro. Ci sentiranno!” Lo lasciò andare. Dagger imprecò tra sé e sé, seguendolo. Sbucarono all’improvviso in un ambiente a volta, posto a raccordo tra il condotto nel quale si trovavano e altri due più piccoli, che lì confluivano per proseguire il tragitto verso il mare. Il più grande era praticamente inutilizzato: poteva essere una buona strada da seguire come anche un vicolo cieco, ma a quanto pareva Marduk non aveva intenzione di scoprirlo subito. “Fermiamoci qui”, disse. “Dobbiamo asciugarci.” La volta era in parte crollata e alla loro destra, all’asciutto, c’era un arenile composto da detriti, rami e foglie secche. Dagger lo precedette per arrampicarsi fino a un buco nel muro, dove prese due pietre focaie. Tornato giù, iniziò a sbatterle una contro l’altra con pazienza, sopra un cumulo di rami e foglie posto al centro di un cerchio di pietre annerite. Marduk lo osservò. “Di’ un po’, non è la prima volta che metti piede qui dentro, vero?” suppose. Si sedette accanto a lui, togliendosi gli stivali e svuotandoli

dell’acqua melmosa. “Dag?” “Finché non ti deciderai a parlare, non rivolgermi la parola.” “Cos’è? Un ossimoro?” “Che?” “Sta’ fermo, maledizione!” Lo scansò. Poggiò la punta di un suo pugnale sulla legna e la sfregò un paio di volte: il fuoco prese vita all’istante sotto gli occhi attoniti del ragazzo. Allora alzò la lama a dividere i loro sguardi, ghignando beffardo. “Sì”, disse. “Noi Delta di Golconda conosciamo tutte le proprietà dei metalli sacri. Questa è una lama di hvis, il metallo con il quale i gorgor uccidono e accendono i fuochi, o entrambe le cose allo stesso tempo. È un trofeo di battaglia.” Sorrise, però Dagger sembrava voler rispettare il suo voto di silenzio. “In effetti non ho mai capito come Ktisis fate ad accendere un fuoco con le pietre focaie: mi è sempre sembrata una scemenza buona per i romanzi.” “Ci vuole tempo!” “Oh. Ne sono sicuro”, aggiunse. “Che posto è questo?” “Un luogo sicuro”, rispose il ragazzo, con gli occhi fissi sulle fiamme. “Io e Seeth venivamo a nasconderci qui quando le guardie ci cercavano. Questo posto mi ha salvato la gola almeno un paio di volte.” “Fuggivate nelle fogne?” “Nessuna guardia ti seguirebbe mai nelle fogne. In fondo sono tutte abbastanza nutrite da non poter are attraverso un tombino.” Il Dracone lo osservò con comione. “Oh Dagger…” “Sì, mi chiamo così.” “Che razza di nome è?” Dagger cercò di colpirlo con un pugno, consapevole che non ci sarebbe mai riuscito, eppure senza poter resistere alla tentazione. Poi tornò a fissare il fuoco, cingendosi le ginocchia con le braccia. Marduk portò una mano al di sotto del

mantello, tirando fuori una piccola scatola di legno intagliato. L’aprì, tuttavia la pipa che stava dentro era intrisa d’acqua, così come il tabacco. “Uhm”, mormorò, prima di lasciarla cadere tra le fiamme. “Che giornata di merda. In ogni possibile senso.” Dagger raggiunse di nuovo il muro e scostò un mattone più lento degli altri, facendo apparire una pipa e del tabacco. Tornò da lui e gliela porse. “Questa era di Seeth, non penso che ne avrà più bisogno”, disse. “Prendila. È un regalo.” “Non siete troppo giovani per fumare?” “Sì, però anche per farci sbudellare di fronte a un pubblico pagante e devoto.” Il Guardiano prese la pipa dalle sue mani, accendendola con un tizzone ardente. Aspirò le prime boccate assumendo un’espressione di totale rilassatezza. Ogni ruga e cicatrice sul suo volto contratto sembrò sciogliersi, ringiovanendolo di qualche anno. “Sì”, espirò. “Ora va decisamente meglio.” “Oh, sono contento”, rispose Dagger. “Adesso dimmi per quale cazzo di motivo hanno dato fuoco a mezza città per trovarmi, chi mi sta cercando, cosa vogliono e chi sei tu, che vuoi salvarmi senza che nessuno te l’abbia chiesto!” Marduk sbuffò una nuvola di fumo e la osservò salire lenta nell’aria. Poi scosse la testa. “Non è esattamente la domanda che mi sarei aspettato.” “Scusa, faccio quello che posso.” “Hai l’ironia di tua madre, sai?” “Non l’ho conosciuta!” “LO SO!” ringhiò Marduk. Poggiò la fronte contro il pugno chiuso, tirando una nuova boccata nervosa dalla pipa di Seeth. Si chiuse in se stesso, come se non volesse aggiungere altro. “Lo so, Ktisis maledetto!” riprese dopo un po’. “Sei un ragazzino sporco di sangue nel freddo della notte, costretto a rifugiarsi in una

fogna per sopravvivere.” Si interruppe. “I tuoi occhi stanchi le hanno viste tutte, il tuo odio è cieco. Sei affamato. Sei solo.” “Conosco la mia vita. Sono stato io a viverla. Dimmi qualcosa che non so.” “Conosci? Cosa pensi di conoscere? Questa vita è un’illusione per te, non più reale né piacevole di un incubo. Una copertura, potresti dire. Almeno questo lo avrai capito.” Dagger si mise a sedere. “Una copertura? E per cosa?” “Tu sei il figlio di un dio”, disse Marduk, semplicemente. “Il figlio di un dio bandito dal mio mondo all’alba dei tempi. Nelle tue vene scorre il suo sangue maledetto, il sangue di cui i suoi servi hanno bisogno per riportarlo in vita. Tadà.” Il ragazzo rimase in silenzio, chinando la testa di lato. Poi sorrise. “Il figlio di un dio”, ripeté. “Però. Non è merda che senti tutti i giorni.” A quella il Dracone rise. Anche Dagger rise. Poi Marduk lo afferrò per il bavero e se lo portò muso a muso, costringendolo a guardarlo dritto negli occhi. “Ascoltami bene! Ogni cosa che hai creduto reale o plausibile nella tua vita sta per essere spazzata via come la carcassa di un ratto nelle fogne. Le tue paure stanno per diventare più profonde, più buie, presto ti corroderanno da dentro e non ci sarà più spazio per altro. Ti sarà negata ogni speranza, anche quella stupida illusione, del tutto umana, che un domani le cose andranno meglio nonostante ogni evidenza contraria. Anche quella ti sarà negata. Perché se pensi di essere stato sfortunato sino ad adesso, aspetta ancora un po’. La parte peggiore dell’eternità sta solo per cominciare!” “Vacci piano, grande cap–” “Andrà sempre peggio a ogni respiro, a ogni battito cardiaco, ogni o ti trascinerà sempre più verso il baratro al quale appartieni. In questo stesso momento il tuo cuore sta pompando un sangue che non è il tuo nelle tue arterie. Non sei ancora pronto per la verità, sarebbe stupido credere il contrario, ma sin troppo presto ti renderai conto di quant’è profondo il mare di merda in cui ti trovi. A che servirebbe spiegarti qualcosa adesso? Spiegarti chi sono quelle ombre, chi è che ti sta cercando? Da dove vieni, chi ti ha creato! Ogni singolo errore che ci ha portato a questo punto. No, non servirebbe a nulla. Ora c’è solo

una domanda che devi farmi. Falla, maledizione!” “Quale?” “Oh, quella che ti sei posto ogni maledetta notte della tua vita prima di addormentarti, sotto un cielo grigio, in questa fogna, o nella gilda dove mio padre ti ha cresciuto come un animale. Ogni notte la stessa domanda, ci scommetterei l’anima. L’anima che ho perso in questi ultimi tredici anni per colpa tua!” Lo guardò dritto negli occhi, scavando all’interno della sua coscienza. “Perché sono nato?” rispose Dagger, quasi in un sussurro. “Già, perché!” “E tu cosa sai al riguardo?” Il Dracone si rabbuiò. Lo lasciò andare. Afferrò nuovamente la pipa e riprese a fumare. “Troppo”, rispose dopo un po’. “Troppe faccende oscure, ti basti sapere che non sei l’unico ad aver maledetto il giorno in cui sei nato. Adesso niente ti sarebbe chiaro.” “Lo hai già detto, eppure è tutto più chiaro di quanto immagini.” Si alzò per andarsene. “Anche tu sei solo un vecchio pazzo, e io sono più pazzo di te a starti a sentire.” “Dove pensi di andare?” “Via di qui, ovunque. Me la caverò. Me la sono sempre cavata.” “Fermati!” intimò Marduk e Dagger si fermò. Non certo per l’ordine perentorio del Dracone: sentì qualcosa montare dentro di lui e stavolta non si trattava della semplice rabbia. Un maglio si abbatté contro il suo petto, un dolore penetrante che prese possesso di ogni sua terminazione nervosa, intorpidendogli la mente. Si portò una mano al torace e sentì che il marchio si era fatto gonfio, gravido. Il suo corpo venne scosso da un battito che non era quello del suo cuore, potente, poi un altro e un altro ancora. Osservò le sue dita e vide che erano sporche di un sangue che non era il suo, viscido e nero, lo sentì colare lungo il ventre, giù per le gambe, fino a terra. Provò a tamponare

quella strana ferita ma il marchio gli oppose resistenza, sputando ancora sangue, e sangue. Si voltò verso Marduk implorando aiuto con il solo sguardo. Il Dracone scattò in piedi con due pugnali già stretti nelle mani e ancora la pipa in bocca. “Cazzo! I gorgor sono qui.” Spense il fuoco con i piedi e fece cadere a terra la sfera di ensiferum, lasciando l’ambiente immerso nella sua spettrale luce violacea. Gli fece cenno di avvicinarsi e stavolta Dagger non trovò nulla da obiettare.

“Rimani qui”, mormorò sommesso. “Il tuo sangue li sta chiamando.” Poi, armi in pugno, tornò nel buio ventre del tunnel dal quale erano sbucati.

Dagger rimase immobile vicino alle braci, incapace di fare qualsiasi cosa ora che il sangue non usciva più goccia a goccia, ma in un rivolo costante. Il dolore irrigidì ogni sua membra, dovette dar fondo a tutte le forze per respirare. Sentì il cuore contrarsi un’ultima volta e cessare di battere per venir sostituito dal battito del marchio: un intimo, potente boato che scosse tutto, anche i suoi ricordi. Sentì la sabbia appiccicosa sulla pelle, sentì tremende urla di dolore esplodere nel buio e il fetore della morte. Ora poteva udire, nella testa, nel vento, parole di una lingua sconosciuta pronunciate da una voce ostile. Di nuovo il dolore, di nuovo il colpo di maglio in mezzo al petto.

“Sto morendo”, sibilò portandosi le mani al collo. “Sto morendo!” Capì che tutto era perduto quando ascoltò alle sue spalle un sibilo maligno. Si voltò: due lumicini rossi apparvero nel buio del condotto abbandonato e fu certo che quegli occhi, avversi e assassini, cercavano lui. Solo lui. “Chi sei?” sussurrò. “Vuoi dirmelo, prima di uccidermi?” Sentiva i suoi pensieri, erano in contatto: provò la sua fatica al termine della lunga ricerca, provò il suo impellente bisogno di uccidere. Allora afferrò il

pugnale che gli aveva donato Marduk e lo puntò dritto davanti a sé. Scintille blu ne percorsero l’intera superficie, risalendo anche lungo il braccio; tornò in possesso del corpo e il dolore sparì: quella lama gli diede nuova forza, ne fu certo, placò il male dentro. “Vieni avanti, chiunque tu sia”, disse con la voce appena ritrovata. Non udì alcuna risposta a parte un o nei liquami, poi un altro e un altro ancora. I i si fecero sempre più veloci finché, improvvisa, un’ombra nacque dall’oscurità per attaccarlo con i suoi lunghi artigli affilati. Dagger la schivò d’istinto e fendette l’aria, mancando il colpo, ma ora l’ombra aveva la luce dell’ensiferum alle spalle e poteva distinguerla dal buio. Non era qualcosa che apparteneva al suo mondo: la luce attraversava le membrane del corpo, mettendo in ombra le ossa aguzze e le deformità degli organi interni. Vide un disgustoso bolo percorrere un tratto di budella, il suo sangue viscoso pompato da un cuore trilobato, ossa spinose e appuntite, come quelle dei pesci, che bucavano la pelle per spuntare all’esterno. Sentiva i suoi pensieri atroci di tortura e odio. Quando l’ombra partì nuovamente all’attacco, Dagger richiamò ogni suo nervo all’ordine e si chinò a terra per scattare in avanti, così come avrebbe fatto con un qualunque sgherro dei Tre galeoni. Sentì la lama lucente sprofondare dentro la buia non carne, traare il ventre gelatinoso facendone uscire un sangue immondo e fetido. Sorrise di puro piacere quando ascoltò la creatura trillare di terrore e provò il suo stesso dolore quando la gettò a terra e colpì, colpì, colpì, investito dai suoi ultimi pensieri. Il sangue nero si mischiò ai flutti della fogna, colpo dopo colpo, scorrendo sulla nuda pietra. La bestia ancora si contorceva dal dolore, quando Dagger le sfilò la lama dal ventre per piantargliela nel collo. Udì i suoi sordi versi di agonia gorgogliare fuori dalla trachea squarciata, mentre sollevava le mani al cielo e cercava di urlare. Poi i versi scemarono e il condotto piombò nuovamente nel silenzio più assoluto. Un silenzio assordante. Il marchio sul suo petto smise di sanguinare. Il dolore sparì. Non sentiva più il suo battito, il suo altro battito, il cuore buio che pompava morte. Si rialzò e buttò fuori tutta la tensione in un lungo urlo, prendendo a calci le spoglie dell’ombra. Diede nuova vita al fuoco usando le scintille del suo pugnale.

“Ti insegno io a rompere i coglioni!” urlò mentre gettava il cadavere tra le fiamme. Il fuoco divorò in fretta l’esile corpo, tanto che quando Marduk tornò da lui, correndo, fece in tempo solo a vedere il volto umanoide della creatura scomparire in un fuoco verde e giallo. Del nulla fatto sostanza rimase solo un teschio deforme, appiattito, senza zigomi né naso, senza mascella né mandibola. Solo due piccole orbite per occhi e un foro pieno di contorte lamine ossee al posto della bocca. Vide un liquido verdastro colare dalla bocca, un fluido che sembrava avere una propria volontà e che prese a rigenerare diversi tessuti schiumosi e flaccidi. Dalle lamine ossee della bocca venne un lamento e Dagger si scoprì perso, nauseato, quando capì che l’ombra non era ancora morta. Si voltò verso il Dracone. “Gorgor!” disse questo con calma, avvicinandosi. Penetrò la testa della creatura con il pugnale, facendone uscire il liquido verde chiaro. Una puzza asfissiante riempì l’aria, odore acre di uova marce, e i tessuti smisero di rigenerarsi, le lamine ossee si fecero mute. Il gorgor era morto. “La testa. Separa sempre la testa dal resto del corpo, se puoi, poi aprila, spaccala, bucala, penetrala. Allora non avrai più problemi. Queste non sono comuni creature, penso tu lo abbia già capito.” “Ktisis maledetto”, imprecò Dagger. “Ktisis maledetto!” “Sopravvivere in questa città ti ha insegnato qualcosa, a quanto pare”, notò Marduk, compiaciuto. “Devo dire che sai difenderti.” “Ma chi sono?” “Queste? Queste sono le stesse creature che hanno contribuito alla tua creazione. Oh, non sono le più pericolose, non ti preoccupare. Sono solo degli ottimi segugi, e ti stanno cercando, Dag. Stanno seguendo l’odore del tuo sangue e presto ne arriveranno altre. Sei tu che li stai portando qui.” Il ragazzo si ritrovò pietrificato. “Che posso fare?” “Solo una cosa, temo.” Il Dracone scosse la testa. “Tu sta’ fermo. Faccio tutto

io.” Una nuova fitta di dolore lo attraversò da parte a parte, e il sangue tornò a sgorgare dal suo petto. Voci torbide gli riempirono la testa mentre sentiva nuovamente i battiti del secondo cuore. Due, quattro, sei nuovi occhi rossi apparvero nel buio e puntò il dito a indicarli, quando si ritrovò traato da una spada. Guardò in giù. Portò le mani alla lama che sbucava dal suo ventre e capì che stava morendo. Alzò lo sguardo e vide il volto di Marduk, ora severo e imibile, sopra di lui.

“Scusami”, disse il Guardiano. “Ne parleremo poi, ora non ho più tempo. A proposito: sei immortale.” Poi tutto svanì.

* * * * *

Il buio si infiltrò nel suo corpo e reclamò i suoi pensieri, condannandolo al silenzio assoluto, il silenzio che nasceva da dentro. Tempo e spazio si liberarono dalle inutili briglie del pensiero umano per fondersi insieme come era in principio: tutto divenne niente e niente divenne tutto. Una risata profonda e cupa sorse tutt’intorno e nel buio si materializzò la Spirale. Quella Spirale rossa che pulsava come un cuore. “Noi siamo ciechi al mondo dentro di noi, che aspetta solo di nascere”, sibilò una voce. “Vieni da me. Ti sto aspettando da molto, molto tempo.” Sentì qualcosa sotto le sue mani, pietra fredda e liscia, e sentendo capì di esistere ancora. Aprì gli occhi e si ritrovò carponi su una sconfinata distesa di roccia nera, senza alcuna soluzione di continuità fino all’orizzonte buio. Le voci lontane dei ricordi si rincorrevano dentro la sua mente, ricordandogli che un tempo era stato vivo. Ora cos’era? Osservò il proprio corpo, nero come la notte, un corpo adulto dove ogni muscolo sembrava scolpito in rilievo. La superficie era attraversata da molteplici simboli lucenti che, come ferite aperte,

emanavano una luce bianca e intensa. I simboli cambiavano continuamente posizione ma rimanevano legati gli uni agli altri come gli anelli di un’infrangibile catena, un disegno universale dove il singolo era parte del tutto. Io sono parte del Tutto? si domandò. Alzò lo sguardo e si ritrovò al cospetto di una spirale infinita, un lungo nastro di luce perso nel fluido celeste di materia e vuoto. Il Tutto scorreva unito in maniera inscindibile, senza fine né principio: l’universo era uno e indivisibile, nel caos trovava il suo equilibrio, la sua armonia distruttiva e generatrice. Vide gli astri fondersi, distruggersi e rigenerarsi nell’attrazione fatale che rigenerava e muoveva ogni cosa che esisteva.

Venne investito da un vento carico di pulviscolo grigiastro, quando la voce parlò ancora: “Adesso sono qui.” Si accorse di una luce blu, lontana, e le andò incontro, convinto che quella marcia sarebbe durata per sempre e che in fondo era quella la vita dopo la morte: seguire in eterno la luce alla fine del mondo. Spesso la luce fluttuava e scompariva nel vento celeste ma lui, qualsiasi cosa lui fosse diventato, sapeva che sarebbe sempre tornata a guidare il suo cammino. Era il suo cuore a dirglielo. Quando raggiunse la luce, blu e intensa e meravigliosa, vide che il vento, denso come un fluido, la avvolgeva per difenderla senza intaccarne la lucentezza, spazzando il resto dell’ambiente, ergendosi in una possente torre che schizzava in alto, in un vortice, per abbracciare in mille sottili ramificazioni ogni singola stella.

“Quanto ho atteso il tuo arrivo”, disse la voce nella luce. “Sono stato qui tutto solo ad aspettarti. Ora che sei arrivato ti prego, rimani un po’, e prometto che non ti tratterrò a lungo. Ti tratterrò per sempre.” “Chi sei?” “Io sono Kam Karkenos. E tu. Tu chi sei?” “Io sono Dagger.”

Kam Karkenos rise sommessamente. “Sì, questo è il tuo nome da mortale”, rispose. “Il nome che pensi di avere, non quello che ti ho dato quando ti ho generato, Kam Konkra. Io ti ho aspettato più a lungo di quanto pensi. Ti sto aspettando da quando sono stato rinchiuso qui.”

“E dov’è, qui?”

“Un luogo che non conosce vita e morte, oltre la breccia nell’impenetrabile muro del creato dove solo noi possiamo are: noi, forze vissute attraverso l’eternità. C’è chi ci chiama dèi, chi demoni, tuttavia questi sono solo i nomi che i mortali usano nel disperato tentativo di razionalizzare il potere che li domina, che li avvolge, che li genera e soffoca. Qui, è la tua casa.”

“Carina!” rispose Kam Konkra. Si portò una mano al ventre, istintivamente. “Una spada ha attraversato la mia pancia. Ora dovrei essere morto e trovarmi insieme a Ktisis e gli altri nella grande taverna di Almagard.” “La taverna di Almagard?” “Il regno dei morti. Dove puoi mangiare e bere e ridere per sempre insieme alle persone che ti hanno preceduto.” La luce scomparve e riapparve, come il battito di un occhio. “Che curiosa concezione dell’aldilà: ne ho sentite molte, ma questa le batte tutte. Ora, lascia padre Ktisis ai suoi problemi e guardati intorno.” Kam Konkra si voltò e percepì un esercito di ombre alle sue spalle. Si voltò ancora; le ombre erano tutt’intorno, lo sapeva, eppure non poteva vederle. Le percepiva solo ai bordi del suo campo visivo. “Questo è il vero aspetto di quello che chiameresti l’aldilà”, riprese Kam Karkenos. “Il luogo al di fuori del Tutto, qui finiscono le anime dei mortali quando muoiono. L’ultima visitatrice non ha sembianze umane, né di mostro; la vera forma della morte è il silenzio. Io lo so perché questa è la mia condanna:

vivere la morte qui, al di fuori dell’universo, dove il silenzio regna sovrano.”

“Queste sono le anime dei morti?” “Già. Dopo il termine di quel sogno chiamato vita i mortali si illudono di finire in un luogo simile al mondo delle loro ore liete, se si sono comportati rettamente, o in un luogo pieno di fiamme, dolore e forconi se hanno trovato piacere e giovamento nell’altrui sofferenza. In realtà il grande oltre ospita tutti e tutti rende uguali, senza morale e pregiudizi. Ora, però, osserva il tuo corpo: tu sei diverso.”

Kam Konkra osservò ancora una volta le scritte lucenti, e vive, sulla sua pelle nera. “Io ti ho creato così, Konkra, a mia immagine e somiglianza, nel breve tempo in cui sono riuscito a reincarnarmi sul mondo dal quale anche tu vieni.” “E immagino che devo chiamarti papà.” Il dio non rispose al suo umorismo fuori luogo e Konkra non ci trovò più molto da ridere. No, la cosa non era più divertente, se mai lo era stata. “Cosa vuoi da me?” domandò. “Non sei stata una figura paterna molto presente, dopotutto.” “Hai la mia stessa ironia, sai?” “Ho l’ironia di mia madre!” “Tua madre? Tu non hai avuto una madre, non veramente. Il tuo corpo mortale è un’illusione. Sei ancora cieco al mondo dentro di te, che aspetta solo di nascere. Io ti conosco per ciò che sei veramente.” “Tu puoi capirmi?” “Oh sì. Io so e vedo tutto, seppur esiliato: ero con te quando sei stato

abbandonato da quella donna che reputi tua madre. Ho tremato insieme a te nelle notti più gelide di Melekesh. Ho provato la tua paura di morire sacrificato e conosco il nome di ogni tuo singolo nemico: Mawson, Sannah, persino Lothar, lo sgherro dei Tre galeoni che, quando eri piccolo, ti ha tenuto rinchiuso per tre giorni in attesa di poterti bruciare vivo a causa dei tuoi occhi. Io ho sofferto insieme a te ad ogni o che ti ha condotto sin qui.” “Sarà, ma in quei momenti mi sentivo piuttosto solo.” “… anche mentre sgozzavano Seeth sotto i tuoi occhi.” Konkra si irrigidì. “Conosci molte cose su di me.” “Posso vedere il mondo attraverso i tuoi occhi”, rispose Karkenos. “Io e te siamo legati in maniera indissolubile.” Detto questo rimase in silenzio. “Quando ero un semplice Ragno capivo sempre quando qualcuno cercava di ottenere qualcosa attraverso le sue parole. Con te non penso funzioni in maniera diversa: anche tu vuoi qualcosa.” “E cosa voglio secondo te?” “Che io ti liberi da qui.” “Non ti sfugge proprio niente.” “Dovrei essere io quello ironico tra i due!” Karkenos rise. “Non aver fretta, io non ne ho. Abbiamo tutta l’eternità davanti. Per il momento devo solo metterti in guardia.” “E da chi?” “Da tutti coloro che un giorno moriranno”, rispose Karkenos. “Tutti coloro che dicono di lottare per te, ma che in realtà non lottano altro che per se stessi: i Guardiani di Golconda giurano di proteggerti, e da cosa? Da te stesso, da ciò che sei, ciò che diventerai? Solo io conosco il motivo per cui esisti, loro hanno solo paura di te. E fanno maledettamente bene.” “Mi hanno tirato fuori da quell’inferno mentre le tue ombre cercavano di farmi

a pezzi.” “Stai osservando solo lo strato superficiale della vicenda, tipico dei mortali. Non mi aspettavo certo che tu capissi in fretta: sei l’embrione di ciò che diventerai e ti concedo che è ancora troppo presto.” Konkra strinse i pugni. Anche adesso che era morto odiava quando qualcuno lo riteneva troppo piccolo per capire un discorso. “Sarò pure giovane, però di certo non innocente. E soprattutto non così stupido da gettarmi nelle mani dei tuoi servi solo perché–” “Oh, ma non sono qui per questo”, lo interruppe Karkenos. “Ti aspettavi davvero che ti consigliassi di gettarti nelle mani dei gorgor? No. Proprio no. Fuggi da loro! Un tempo erano i miei segugi, questo sì, ma ora è tutto cambiato. È intervenuto un elemento esterno, destabilizzante. Adesso i gorgor servono il loro messia lebbroso, un uomo, o quello che ne rimane, che ti sta cercando senza sosta. Un tempo era il Pendracon di Golconda, il più potente tra i Guardiani, ma si ritrovò a ospitare la mia anima e adesso è condannato a vivere per sempre alla sua ricerca. Hai già sentito parlare del Divino. Se io tornassi in vita nel mio Vero corpo per lui sarebbe finita, e lo sa. Non potrà possedere mai più l’unico oggetto del suo desiderio, la sola ragione della sua vita infima e vergognosa. Quindi sta’ lontano da lui. Temo che conosca il modo di… be’, farti are il resto dell’eternità in maniera spiacevole.”

“In maniera spiacevole?”

“Vuole tenerci separati per sempre, impedire il nostro ricongiungimento. Non ti conviene farti catturare dai gorgor, ragazzo mio, e sì: questo significa che per il momento dovrai farti aiutare dai Guardiani. Lascia che ti proteggano. Lascia che ti scortino su Candehel-mas, il mondo delle origini: solo una volta che sarai al sicuro dai gorgor, nella loro Fortezza, ti farò sapere cosa devi fare affinché il nostro destino si compia. Fino ad allora niente ti sarà chiaro: i Guardiani ti riempiranno la testa di stupidaggini sull’Equilibrio e l’ordine universale, ti faranno anche incontrare il loro dio, quell’uccellaccio maledetto che ti odia e che spera tu sparisca nel nulla. Forse è davvero bene che tu i un po’ di tempo con loro. Ti darà occasione per capire da che parte stare.”

“Pensavo stessero agendo per il mio bene.” “Chi?” “I Guardiani.” “Oh, lo stanno facendo. In un certo senso.” “Ma che cazzo–” La luce si fece più forte, interrompendolo. “Odio il turpiloquio. Non usarlo mai in mia presenza.” “Scusa, paparino.” La luce tornò come prima. “Quale parte dell’espressione ‘per il momento’ non ti è chiara? Per il momento fatti aiutare da loro, eppure non assaggiare il veleno che ti sputeranno addosso. Non hanno una… come dire, buona considerazione di te, il che spiega perché ti hanno fatto crescere come una bestia. Non li odi almeno un po’? Tutto il tuo dolore, è colpa loro.” Konkra non rispose. “Non scordare mai che solo grazie a me, un giorno, raggiungerai il tuo fine ultimo. Tu sei destinato a un grande potere, ragazzo mio. Molti cercheranno di ingannarti per servirsi di te, o distruggerti, e forse arriverai persino a fidarti di alcuni di loro.” “Sta’ tranquillo, dovermi difendere da tutti non è proprio una novità. Saprò difendermi anche da te.” “Oh, vuoi veramente difenderti da te stesso? Non ti preoccupare, ragazzo mio, è normale essere confuso. Per un essere apparentemente umano gestire l’immortalità è come per un bambino maneggiare la spada a due mani del padre. È pesante e semplicemente troppo grande. Non aver paura: presto ti indirizzerò da coloro che potranno mostrarti la strada, che ti diranno cosa fare affinché tutto si compia. Sono Loro il mio… contatto sul tuo mondo, non i gorgor. Ricorda: esisti solo perché l’ho voluto io. Quando dai un nome a

qualcosa ne diventi responsabile e io ti ho battezzato, Kam Konkra, io so per quale motivo sei nato. Tutti gli altri mentono, per i loro turpi scopi e giochi di potere. Tu, che non hai mai avuto nessuno, sei molto importante per molti. Troppo importante.” Dagger stava per rispondere, quando guardò la luce farsi sempre più forte. Lo avvolse e per un momento fu sicuro di poter scorgere due occhi che lo fissavano dal profondo del nulla lucente, neri come il buio. E zanne affilate, e quattro corna deformi. Vide un ghigno sincero, poi la luce lo attraversò da parte a parte e tutto scomparve.

* * * * *

7. Arcipelago

Aprì gli occhi nel buio e si alzò a sedere sul giaciglio di paglia sul quale si trovava, portandosi subito una mano al ventre: non c’era più alcuna ferita, ora, solo una sottile cicatrice come di un taglio vecchio di anni lì dove la lama della spada era sbucata dalla pelle. Ricordava ancora il dolore, forse il più forte che avesse mai provato, una fitta intensa che lo aveva paralizzato dalla testa ai piedi. I mortali lo sperimentavano una sola volta nella vita, prima di morire, e pensò che fossero in qualche modo fortunati: la sola idea di dover affrontare nuovamente il grande nulla lo terrorizzava. Marduk aveva trovato un modo molto convincente per spiegargli la faccenda della sua immortalità, anche se aveva mancato di sensibilità. Tutto quello che era avvenuto dopo gli sembrava solo un sogno, un sogno maledettamente realistico. Si conficcò l’unghia del pollice nell’indice e provò un rassicurante dolore. È piacevole essere di nuovo vivo.

Si trovava al di sotto di un oblò, chiuso, dal quale filtrava un cerchio di luce arancione. La stanza si muoveva e quando sentì il sussurro del mare capì che doveva trovarsi su un’imbarcazione di qualche sorta, in navigazione.

Tutta questa fatica, e ancora su una nave?

Aprì l’oblò. Dopo essersi abituato alla luce vide che la nave solcava spedita le onde del mare blu; l’acqua era limpida e spumeggiante, non verdastra e melmosa come quella che aveva sempre visto nella propria vita, e anche il cielo era diverso: di un arancione intenso adesso che volgeva al tramonto, libero dal muro di nebbia delle torbide sere di Melekesh. La nave avanzava tra le isole di un arcipelago e sperò che il comandante conoscesse bene il suo mestiere, visto il gran numero di scogli che affioravano dall’acqua. Quando la spuma fredda e salata gli sciacquò la faccia, chiuse l’oblò. Doveva sapere dove si trovava ma,

soprattutto, dove era diretto.

Aprì la porta della piccola cabina e si ritrovò in un ambiente spazioso e semibuio, una stiva con casse e botti assicurate alle pareti. C’erano almeno una trentina di Guardiani intorno a lui, con indosso armature di cuoio logore e sporche di sangue, o tuniche amaranto che avevano decisamente visto tempi migliori. Molti fumavano una pipa di avorio lavorato, o sorseggiavano i loro boccali di birra sdraiati a terra, altri giocavano a dadi rigirandosi pensierosi il coltello tra le dita. Alcune macchie di sangue a terra guidavano fino all’angolo dove altri ancora si stavano ricucendo le ferite. In ogni modo, nessuno aveva meno di una decina di lame a portata di mano tra pugnali, coltelli e spade. Tre sfere di ensiferum poste al centro della stiva assicuravano la luce e, intorno a queste, due Guardiani erano seduti a sorseggiare le loro birre. Quando tutti si voltarono verso di lui, anche Dagger si guardò addosso: indossava ancora la sua vecchia tunica lercia, con il pugnale di mayem infilato nella cinta e la faccia ridotta a una maschera di sangue e fanghiglia. Sembrava appena evaso dall’anfiteatro di Melekesh in un giorno di festa. Alcuni fecero finta di non vederlo, altri lo fissarono a lungo e in silenzio, lasciando in sospeso una conversazione, una partita a dadi o rimanendo con ago e filo tra i denti mentre la ferita ancora sanguinava. Poi tutti fecero finta di tornare a fare quello che stavano facendo prima del suo arrivo e Dagger si avvicinò a una parete per lasciarsi scivolare a terra, nell’inutile tentativo di mimetizzarsi ancora una volta sullo sfondo. Osservò il pavimento tra i piedi scalzi, pensieroso, domandandosi ancora una volta per quale motivo fosse al mondo.

“Sei al sicuro, adesso”, disse una voce. Alzò lo sguardo: uno dei due Guardiani che aveva visto seduti davanti alle sfere di ensiferum stava ora di fronte a lui. Si era avvicinato senza che i suoi sensi da Ragno lo avessero neanche percepito, per quanto fosse grasso e alto non meno di due metri; capì che poteva imparare molto da lui. L’uomo, completamente calvo e con un volto gentile, parlò ancora: “Marduk ti ha affidato a noi. Ha deciso di rimanere su questo mondo per cercare di capire se poteva scoprire qualcosa in più su quello che sta succedendo. O, in alternativa,

far fuori qualche altro gorgor. Ti stiamo riportando alla Fortezza di Golconda, l’unico luogo sicuro per te. Noi Guardiani la difendiamo da sempre perché per noi è tutto. La nostra casa, la nostra esistenza, il nostro futuro. Se quella Fortezza cadesse nelle mani delle ombre, tutto sarebbe perduto.” Dagger annuì. “Chi cazzo sei?” “Io?” fece il Guardiano. “Io sono Moak, ma questo non ha importanza. Tu sei Dagger, e se te lo stai domandando la risposta è sì, io ti conosco. Tutti qui ti conosciamo. Siamo giunti su questo mondo solo per riportarti a casa.” “La mia casa la sto lasciando ed era l’inferno. Il problema è un altro. Marduk mi ha ucciso, mi ha ato le budella da parte a parte, però io non sono morto. Questo gioco non è divertente, hai mai provato a morire? Sai che dolore si prova?” Il Guardiano lo guardò spiazzato e l’espressione gentile scomparve dal suo volto. Assunse un’aria grave. “Vieni”, disse. “C’è qualcuno che ti sta aspettando da molto, molto tempo.” Dagger lo seguì controvoglia verso la luce. Qui stava seduto un uomo alto e robusto che, a differenza di Moak, non indossava una semplice tunica ma una corazza composta da piastre di un metallo blu elettrico, con sfumature viola e gialle. Aveva la carnagione olivastra e nonostante la giovane età il suo volto appariva più vissuto rispetto a quello dell’altro, a causa soprattutto di una profonda cicatrice che solcava tutto il profilo destro, dalla fronte sino al mento. A differenza degli altri Guardiani non si era separato dal suo spadone, ancora ben assicurato sulla schiena. A differenza degli altri Guardiani, era armato solo di quello. A differenza delle altre, la sua spada non sembrava fatta per essere impugnata da due sole mani: era più lunga, più spessa, più larga, la sola scanalatura poteva ospitare una seconda spada e su questa erano incisi diversi simboli, grandi e leggibili anche da lontano, ammesso di conoscere quello che si stava leggendo. Dall’aspetto dell’arma dubitò, tuttavia, che quelle parole parlassero di gioia e amore. Il doppio filo della lama abbagliava con i riflessi lucenti e sull’impugnatura avrebbero trovato posto almeno quattro mani. Una spada a quattro mani, pensò. Che bisogno può mai sentire un uomo di una spada a quattro mani?

“Devi tenere davvero molto a mostrare la tua virilità. Hai qualcosa da nascondere?” constatò. L’altro non rispose. Lo guardò e, prigioniero di quello sguardo, Dagger rimase immobile. “E così saresti tu il motivo di tutto questo?” disse l’uomo, con una voce profonda. “Mi aspettavo qualcosa di meglio da Aniah. A dir la verità, mi aspettavo qualcosa di meglio anche da tuo padre. Siediti, dannazione!” Lui invece attese, in piedi, come se non volesse dare l’impressione di obbedire al suo ordine. Poi si sedette sullo sgabello di fronte e si limitò a fissarlo attraverso la luce viola. “Io sono Olem, Dracone di Golconda”, si presentò l’uomo. “E questo è Moak, il miglior amico che si potrebbe mai desiderare, o forse l’unico che sono riuscito a sopportare nella mia breve ma significativa esistenza. Ti trovi su una nave diretta verso il mondo a cui appartieni e verrai con noi senza fare troppe storie. Tu non appartieni solo a te stesso e se hai un po’ di senno dovresti averlo già capito. Altrimenti è ora che ti abitui all’idea o durerai gran poco anche se sei immortale.” Non disse altro e non sembrò voler aggiungere altro. Il ragazzo abbassò lo sguardo. Dopo aver parlato con Skyrgal aveva la sensazione che nessuna delle esperienze vissute in quella vita, su quel mondo, avesse più veramente importanza, né le parole ascoltate né le persone incontrate. “Da una prigione all’altra”, mormorò. “Lo avevo già capito. E una volta che arriveremo in quel posto cosa ne farete di me?” “Sarà il Pendracon a deciderlo”, rispose Olem, secco. “Te lo assicuro, è una fortuna che questa decisione non spetti a me.” “E cosa sarebbe il Pendracon?” “La nostra guida nel buio, secondo la lingua degli antichi. Nelle tue vene scorre il sangue di alcuni di loro. Sei di ottima famiglia, da parte di madre, sicuramente migliore di quella che ti saresti meritato.”

“Pensavo che nelle mie vene scorresse solo il sangue di Skyrgal.”

Al solo sentire quel nome, i due si irrigidirono e ogni traccia di scherno scomparve dal loro volto. “Chi ti ha parlato di lui?” “Oh, non indovineresti mai.” Olem scattò e lo afferrò per il collo con una sola mano, muovendosi tanto veloce che Dagger, il Ragno coi riflessi più pronti della sua gilda, non riuscì neanche a vederlo. Strinse le dita come se volesse soffocarlo ma, prima che la situazione potesse degenerare, Moak pose una mano sul suo braccio e il Dracone lo lasciò andare. “Tipica ironia di famiglia, non trovi?” Olem si ricompose, senza staccare lo sguardo da quello di Dagger. “Sì”, rispose, mentre tutti intorno a loro tornavano a parlare. “E tu sai quanto odiavo la loro ironia. A volte penso che sia stata quella la loro rovina.” “Deve aver parlato con suo padre quando è morto”, suppose ancora Moak, guardandolo dritto negli occhi. Dagger cercò di non dar a vedere che quella supposizione era maledettamente giusta e, da bravo Ragno, forse ci riuscì. “Quando muore le loro anime si ricongiungono, almeno da quello che ho studiato sul codice di Benighted. Di sicuro lui non ce lo dirà. Non si fida di noi, perché dovrebbe? È già un miracolo che non stia impazzendo.” “Che ne pensi?” “Che ne penso? Che ha vissuto una vita di merda e sarà difficile gestirlo, ma tanto vale fare un tentativo. Me ne occuperò io. Da quando Araya mi ha spedito in giro per il mondo a studiare ogni cosa che riguardasse la sua venuta, mi sono sempre domandato che aspetto avesse realmente. Sembra così… umano.” “Sembra un coglione”, corresse Olem. “Però devo ammettere che portarti con noi non è stata del tutto una stronzata, Moak. Hai sprecato molto tempo dietro tutta questa merda.” “Si chiama studiare, mio Dracone.” “Studiare? Si chiama rubare tempo all’addestramento e sprecarlo sui libri! Dalla

tua voce traspare un pizzico di ammirazione per quello che hanno creato. Come puoi? Io ne ho solo paura. Tutti dovremmo averne.” “È normale. Anche lui ha paura di se stesso, non lo vedi?” Olem chinò lo sguardo. “Tutti abbiamo paura di noi stessi”, rispose. “E tutti ci stiamo anche un po’ sul cazzo.” “Oh, che pensiero profondo.” “Vaffanculo.” “Sei ubriaco. Quando sei ubriaco ti metti a fare il filosofo, senza peraltro potertelo permettere. Hai sprecato troppo tempo con la spada in mano per poter pensare in maniera degna di un essere umano.” “Be’, non penserò come un essere umano, ma per me riportarlo alla Fortezza equivale solo a ricondurlo dritto nella tana del nemico! E se scape? Come potremmo difenderlo se decidesse di farlo? A Golconda la vita è talmente dura che siamo tutti abituati a lottare sin dalla più tenera età, lui–” “La mia vita è stata tutta una lotta!” sbottò Dagger. “Tu che ne sai?” “Dag…” “No no, lascialo finire”, disse Olem, sostenendo il suo sguardo sprezzante. “Sentiamo il piagnisteo del ragazzo che ne ha viste tante. Cosa c’è, ti hanno accoltellato qualche volta? Hai visto tanta gente morire? Sei ridicolo. Il tuo mondo è ridicolo, ed è falso! È il mondo di cui ci siamo serviti per tenerti nascosto. Dannazione, ti abbiamo nascosto così bene che neanche noi riuscivamo più a trovarti!”

“Olem–” “Be’, Dracone, scommetto che tu non hai mai rischiato di farti strappare i coglioni davanti a un pubblico che applaudiva!”

“Dagger!” “Oh, davvero? Be’, la parte peggiore della tua esistenza sta solo per cominciare!” Olem afferrò il boccale di Moak senza chiedergli il permesso e se lo scolò. “Quelle ombre ti stanno dando la caccia e adesso sanno dove sei. Sbaglia una sola volta e non avrai solo un occhio nero da mostrare agli amichetti froci della gilda. Tu! Tu che ne sai, coglione?”

“Olem!” Dagger non rispose, ma non distolse lo sguardo; non un solo battito di ciglia, non doveva, non voleva. Dopo tutte le volte che si era ritrovato faccia a faccia con la morte, non gli riuscì troppo difficile. Capì che anche Olem doveva aver lottato molto in vita sua. “Guarda nei suoi occhi”, disse il Dracone. “È solo un ladruncolo. È cresciuto per strada e non possiamo aspettarci nulla di buono da lui.” “Devo proprio ricordarti il buco del culo dal quale Crowley e Aniah ti hanno tirato fuori?” “Io ero diverso!” tagliò corto Olem. “E di sicuro non ero un…” Si interruppe, abbassando la voce in un bisbiglio: “… maledetto mostro.” “Olem. Sono successe molte cose giù a Melekesh. Marduk ha ritenuto che fosse giusto allontanare il ragazzo da questo luogo e dopotutto, a questa età, è giusto che conosca il mondo da dove viene.” Il Dracone annuì, poco convinto. “Averlo portato su questo mondo è stato il primo errore. Se questa decisione fosse toccata a me la storia sarebbe andata in maniera diversa. Lo avrei seppellito in una cassa di amorphis, a imputridire insieme al suo sangue maledetto per l’eternità. Lo stesso che avrebbero fatto i miei nemici giurati.” “Aniah non te lo avrebbe mai permesso.” “Già, sua madre… morta e sepolta come tutti gli eroi.”

A quella Moak afferrò Dagger per un braccio, prevenendo qualsiasi azione stesse per intraprendere con il suo pugno già chiuso. “Una volta che l’avrai conosciuto capirai che Olem è tutto fumo e niente arrosto”, continuò. “È solo che gli piace tanto pensare al ato. Oh sì, ci farebbe il bagno, nel ato. Ripensa a come sarebbero potute andare le cose, a quello che avrebbe potuto fare ma, soprattutto, a quello che avrebbero potuto fare gli altri. A volte non capisce che quello che è fatto è morto.” “Lusingato. Ma sta’ sicuro che dopo tutti questi anni alla guida della Fortezza riconosco la puzza di merda anche a miglia di distanza, a differenza di Marduk. E a differenza tua!” Moak scosse la testa. “Marduk ci ha sempre visto giusto. E come tutte le decisioni giuste, le sue sono decisioni impopolari. Sembrava avesse fatto una stronzata solo quando spinse il Pendracon a scegliere te, come nuovo Dracone della Spada, a soli vent’anni. Nessun Dracone era mai stato scelto così giovane e di così umili origini. Ricordi quante persone avrebbero voluto vederti morto in quei giorni? E ricordi quanti hanno provato a ucciderti sul serio? Però poi… poi tu hai ricostruito la Fortezza dopo la devastante guerra contro gorgor e tankar, ci hai spinto ad alzare la testa quando persino il nuovo Pendracon indugiava. E oggi difendi la Fortezza come se fosse casa tua, non come la casa di coloro che un tempo ti davano la caccia nella notte.” “Le tue false lusinghe non ti porteranno da nessuna parte.” “Oh, io non sto lusingando te. Sto solo dicendo che Marduk non si è mai sbagliato così come non si sbagliò su di te. Dagger tornerà alla Fortezza e probabilmente sarà cresciuto come un Guardiano. Adesso come adesso, questa follia è l’unica cosa sensata da fare. Tutto il mondo, o i mondi, fuori delle impenetrabili mura di Golconda sono per lui una trappola mortale. Usa quella testa che hai sulle spalle, una volta tanto, per qualcosa che non sia ammazzare, fottere e bere!” Olem si alzò. Non disse nulla; non li salutò, non li sfotté un’ultima volta. Se ne andò e basta. Dagger lo guardò andare via a testa china, ma non sconfitto, e sparire nel buio in fondo alla stiva. Che razza di stronzo! pensò. Moak giocherellò con il suo boccale vuoto e lo guardò, come se fosse sul punto

di iniziare un discorso molto serio. “Olem non è un pericolo per te, Dag. Era molto legato a tua madre e non si è mai perdonato di non aver potuto impedire che le cose andassero per il peggio. Penso che in qualche modo ti voglia persino bene.” Il ragazzo guardò fisso a terra. “Io non ho mai avuto una madre.” “Tua madre non ti voleva abbandonare, se è questo che le rimproveri”, continuò Moak, prima di fermarsi per cercare dentro di sé le parole giuste, probabilmente senza trovarle. “Tu eri un pericolo, e lo sei ancora.” “Un pericolo?” Dagger scosse la testa. “Quando qualcuno diventa un pericolo conviene abbandonarlo, o spedirlo il più lontano possibile, lì dove non può causare danni ad altri che se stesso. Se pensate che mi metterò a cercare la verità su mia madre con tutte le mie forze vi sbagliate. Non provo nulla per lei. In fondo non l’ho neanche conosciuta.” “No, non deve essere stato facile per te, ma la sua è stata una decisione giusta, ragazzo mio. Lei ti ha nascosto persino da noi. Chissà che non avesse già capito quale fosse la situazione alla Fortezza?” Dagger distolse lo sguardo. Le sue stesse sensazioni gli risultarono indecifrabili. “E qual è la situazione alla Fortezza? Da come ne parli non mi sembra un posto così sicuro.” “No, non lo è. Su questo Olem ha ragione, eppure non esiste altro luogo dove potremmo portarti adesso. Se rimanessi su questo mondo, questa storia finirebbe molto male e molto in fretta. Hai già conosciuto i gorgor, sai di cosa sono capaci. I segugi di Skyrgal possono sentire l’odore del tuo sangue anche da lontano e, se quello che ho studiato al riguardo è dotato di fondamento, anche il tuo sangue può sentire loro.” Dagger rabbrividì. Il Guardiano lo notò. “Vedo che questo corrisponde al vero.” “Il mio sangue esce dal mio corpo, quando mi trovo vicino a loro. È come se ne fosse attratto. Vuole tornare da loro o qualche cazzata simile?”

“Molto interessante.” “Certo. Interessante!” Moak si ritrovò spiazzato. “Scusami.” “Perché non mi dici qualcosa su mio padre? Ormai hai capito che ci ho già parlato quando sono morto. Perché Skyrgal si trova lì? Cosa gli è stato fatto?” L’uomo si raggelò. “Non chiamarlo padre, ti prego. Skyrgal è un antico dio, anche se quei pochi che hanno studiato un minimo queste faccende sanno che questo è un termine improprio.” “Una forza vissuta attraverso l’eternità”, specificò Dagger. “Sì, so anche questo. Dimmi quello che gli è successo.” Moak non rispose e si alzò dallo sgabello come se questo si fosse fatto rovente. “È troppo tardi. Sarà meglio andare a dormire.” Oh, non ne avevo dubbi, avrebbe voluto rispondere il ragazzo, ma non lo fece. Si limitò a prendere atto che su molte cose Skyrgal aveva ragione: quelle persone mentivano e volevano tenerlo lontano dalla verità, anche se per il momento si riservava la possibilità di pensare che lo fero per il suo bene o per una qualunque altra buona ragione. Moak lo riaccompagnò alla sua stanza e gli chiuse la porta alle spalle, senza neanche salutarlo. Capì di essere l’unico a bordo ad avere una cabina che, probabilmente, non era libero di lasciare quando voleva; avevano già cominciato a tenerlo rinchiuso in una gabbia e non avrebbero mai smesso. Si guardò addosso: la Spirale era lì, silente e minacciosa, elemento estraneo che non rispondeva al suo volere. Tutto gravitava intorno a quella e, solo a guardarla, mille ombre senza volto si materializzarono nella sua testa. Steso sul giaciglio di paglia scivolò lentamente nel sonno, mentre nella mente echeggiava la voce di Skyrgal: Io so per quale motivo sei nato. Tutti gli altri mentono.

* * * * *

La mattina seguente si svegliò grondante di sudore, pervaso da un terrore totale e opprimente. Si portò una mano al marchio, tuttavia lo trovò silente. È colpa tua, lo so. Il suo sangue si stava prendendo gioco di lui. Si alzò e guardò il mare fuori dall’oblò, a lungo, lasciando che la voce delle onde diradasse le sue paure. Aveva fame e nonostante avesse dormito a lungo era più stanco di quando si era addormentato. Fame e stanchezza. Fu in qualche modo felice di provarle ancora, ma sapeva che era tutta un’illusione: avrebbe potuto guardarsi morire di fame e poi tornare in vita poco dopo. Sarebbe esistito per sempre.

Per sempre, pensò. È un concetto facile da comprendere a parole, eppure ritrovarsi a viverlo in prima persona risulta leggermente diverso. Niente è per sempre nella vita umana: non è per sempre l’amore, non è per sempre l’amicizia, non sono per sempre le cose che rubi o compri o strappi dalle mani degli altri per chiamarle tue. Provò paura quando capì che solo un essere eterno come Skyrgal poteva comprendere davvero le sue paure. Solo lui poteva capire quanto fosse doloroso, il per sempre.

Uscì dalla sua stanza, o cella, e trovò i Guardiani intenti a far colazione: avevano spaccato buona parte delle casse presenti nella stiva, svuotandole, e ora mangiavano con la foga di chi non sapeva quando avrebbe potuto farlo di nuovo. Dagger non aveva mai visto tutto quel cibo, tutto insieme, così a portata di mano. Almeno non senza il pericolo di venir cosparso di miele e dato in pasto alle formiche, se colto con la bocca in flagrante. Quando venne investito dall’odore della pancetta affumicata il suo stomaco brontolò in assenso. Olem stava mangiando in compagnia dei suoi uomini, seduto a un angolo con le mani unte di grasso. Aveva ancora l’armatura indosso, e anche la spada. Sembrava fosse andato a dormire così. Tutti ridevano alle sue battute, lui non rideva alle battute di nessuno: era un capo cosciente di esserlo e negli occhi degli altri leggeva solo rispetto e timore. Per poco, al solo vederlo gli ò l’appetito. Moak invece sedeva davanti alla luce in compagnia di una ragazza, non più che tredicenne; preferì la loro compagnia.

“Ti ho sentito urlare, questa notte”, esordì il Guardiano, osservandolo avvicinarsi mentre gli versava un qualche liquido giallastro e grasso in una coppa, al quale Dagger preferì tre lunghe e spesse fette di pancetta.

“Ful Fferio?” domandò a bocca piena. “Immagino ftessi a guardia della porta.” “Certo che sì. Cosa stavi sognando? Sarebbe interessante per i miei studi.” “Non ricordo.” Moak lo squadrò, prima di ammiccare alla ragazza. “Lei è Kugar. Kugar, questo è Dagger, il ragazzo di cui ti ho parlato qualche tempo fa.”

Ma la ragazza continuò a guardare fissa a terra, sorseggiando in silenzio il liquido nel recipiente come se si trovasse lontana da lì. “Kugar?” “Io non sono qui”, rispose lei. “Cosa?” “Io neanche dovrei esserci qui.” “Be’, non erano questi i patti.” A quella, lei abbassò la coppa. “Io non faccio patti, con nessuno.” La sua voce era piuttosto profonda per una ragazza della sua età. Aveva lunghi capelli corvini e mossi, o forse solo spettinati, la sua pelle scura sembrava fatta per stare al sole ed era tempestata di piccole cicatrici. I suoi occhi, di un azzurro che nessun mare aveva mai visto; due lapislazzuli il cui scopo sembrava essere quello di nobilitare e rendere solenne un volto altrimenti selvaggio. “Uhm, qui ti stai sbagliando”, rispose Moak. “Ma forse devo solo lasciarvi da soli. Lui non è uno di loro. Si merita una possibilità, tuttavia sarà difficile che decida da che parte stare se non sa neanche da dove viene. Fa’ come ti ho detto e

spiegagli quello che deve sapere.”

“Ci proverò, Guardiano lucertola. Ci proverò.”

A quella, Moak si alzò. Olem lo vide subito, come se nonostante il mare di chiacchiere e risate che lo circondava avesse tenuto d’occhio l’amico per tutto quel tempo. “Vieni tra di noi, lucertola!” urlò attraverso la stiva. “Stavamo parlando delle madri di voi Guardiani del Veleno, di come partoriscono al volo tra un omicidio e l’altro.” Tutti risposero al suo selvaggio scoppio di risa ridendo a loro volta e, quando smise di ridere, tutti smisero di ridere con lui. “Non crescerà mai”, sbuffò Moak prima di raggiungerlo.

Dagger si voltò verso Kugar, però questa continuava a ignorarlo anche adesso che il Guardiano li aveva lasciati soli. Da parte sua, non aveva molto da dire a quella ragazza che si dava un’aria vissuta ma che, presumibilmente, non aveva mai rischiato di finire crocifissa per far piacere agli dèi. Abbassò lo sguardo sul grande vassoio ai loro piedi, colmo di pancetta, e solo quando si fu accertato di aver riempito ogni spazio utilizzabile della propria bocca lo rialzò.

Kugar adesso lo scrutava attraverso la luce viola, con gli occhi gelidi e selvaggi. “È impossibile nascondere qualcosa a Moak”, esordì. “Non gli tengo segreti, io. Sente l’odore di una stronzata anche a chilometri di distanza.”

“Questa storia non mi è nuova.” “È un Guardiano del Veleno, è il mio maestro. Ha letto e studiato troppo per

essere preso in giro da uno scarto di merda come te.” Dagger ingoiò la pancetta in un sol boccone. “Non sarà mai bravo quanto Sannah”, rispose, ricominciando a mangiare. “Il vecchio riusciva a capire cosa gli stavi nascondendo, perché lo stavi nascondendo e cosa temevi ti avrebbe fatto una volta che ti avesse scoperto.” Kugar ghignò. “Sannah non era un Guardiano qualunque. Era il Dracone dei Delta, almeno prima che impazzisse e fuggisse dal nostro mondo. I Delta sono il corpo scelto dei Guardiani, sacerdoti del metallo e del silenzio, gli unici ai quali Hammoth avrebbe mai affidato il compito di riportarti alla Fortezza. Molti sono morti combattendo contro i gorgor e le guardie di Melekesh mentre tu te ne stavi morto e tranquillo sulle spalle di Marduk. Non ti senti onorato, e un po’ in colpa, tu che sei solo?” Dagger ghignò. “Temo che dovrai impegnarti un po’ di più se pensi di ferirmi così.” “Sfida accettata.” “Perché ti sto già sul cazzo? Neanche mi conosci.” “Se è per questo, io e Moak sappiamo di te più di quello che tu pensi di sapere di te stesso. Su Candehel-mas sei una sorta di–” “Leggenda?” “Oh, no. Una sorta di storiella, di quelle che si raccontano ai bambini per mettergli paura. Se non fai il bravo bambino l’uomo nero verrà a casa tua e violenterà tua madre. Roba del genere.” Dagger strinse i pugni, incassando in pieno il colpo basso. “Sei proprio carina. Se fossimo alla gilda ti avrei già uccisa.” “Tu non hai mai ucciso, nessuno. Lo sguardo negli occhi di chi ha ucciso qualcuno è diverso, è uno sguardo senza luce. Deve essere il piccolo espediente del quale ti servivi per conservare un barlume di umanità nonostante quello che facevi per sopravvivere. Almeno pensavi, visto che in te non c’è niente di umano. In realtà, tu neanche sei umano.”

“Sei veloce a capire le persone, eh?” “Faccio del mio meglio. Li vedi questi begli occhioni blu? Non servono solo come ornamento alla mia testa, li uso anche per scavare nelle persone e capire cosa sono. È un atempo divertente.” “E io, cosa sono secondo te?” “Un abominio”, continuò l’altra, con naturalezza. “Il solo parlarti mi fa ribrezzo. Sei la sintesi di quanto di più turpe e osceno esiste nel nostro mondo. Il figlio di Skyrgal, per molti, per altri solo il contenitore vivente del suo sangue. Per tutti, la negazione di tutto ciò in cui crediamo e il frutto di un tradimento. Il tradimento di una donna contro il suo dio e i suoi Fratelli di Sangue, contro i propri valori, persino contro se stessa e il suo essere madre. Persino lei ti ha rinnegato, escludendoti dalla propria vita.” Sorseggiò dalla coppa. “Uhm, delizioso questo Mokai.” “Se non la smetti di cercare di ferirmi con quel fare da stronzetta vado da Moak a dirgli che sei cattiva.” Kugar fece una smorfia, seccata dalla sua costante ironia. Non sapeva che Dagger aveva sempre nascosto dietro di quella tutto il suo dolore. “Sta’ sicura che io non sono il tuo nemico”, riprese. “E non serve essere Moak per capire che anche tu, il nemico, te lo porti dentro. Sì. Non sei la sola a capire in fretta le persone. Se tu lo fai come atempo, io lo facevo per sopravvivere. Tu sei stata abbandonata, più di una volta, e gran parte di quelle parole le stavi rivolgendo a te stessa. Povera, povera occhioni blu.” La ragazza chinò il volto. “Piccolo figlio di puttana”, sussurrò dopo un po’. “Parlami di quella puttana. Chi era mia madre?”

Kugar ridacchiò. In tutta risposta Dagger scattò contro di lei e la buttò a terra con una mano sulla gola e la lama lucente contro il volto, trattandola come un qualunque cliente fuori dalla taverna dello Zingaro. “Che ne dici? Ora che so di essere un mostro

posso anche cominciare a uccidere qualcuno”, le disse viso a viso. Tutti li guardavano, ora, anche Olem, eppure nessuno voleva intervenire. “Perché mia madre vi ha tradito? Perché ha accettato il figlio di Skyrgal nel suo ventre?” “E io che ne so? Forse per provare l’ebbrezza di farsi scopare da un dio?” Il pugno arrivò puntuale e Kugar lo incassò in pieno volto, tuttavia quando si voltò stava ancora ghignando. “Tua madre non era innamorata di quel dio, coglione!” “Scusami. Io… non volevo colpirti.” “–ma dell’uomo nel quale Skyrgal si è reincarnato. Bella famigliola, vero? Lui, lei… e il dio che ha penetrato entrambi, sebbene in maniera diversa.” Dagger rabbrividì. “Quell’uomo. È il Divino?” Kugar si limitò ad annuire. “Un tempo il suo nome era Crowley Nightfall”, rispose, rimettendosi a sedere. “Un tempo era il nostro Pendracon e vinse una guerra che tutti pensavano perduta. Venne catturato dai gorgor e condotto ad Adramelech, la loro antica metropoli, dove gli infilarono in corpo l’anima di Skyrgal.” Fece una pausa. “Be’, scusa la brutalità. Quando Skyrgal venne a trovare tua madre nascosto in quel corpo puoi facilmente immaginare quello che è successo.”

“Mia madre ha pensato che Crowley fosse ancora vivo. E lo ha seguito, solo per poi ritrovarsi prigioniera di Skyrgal!” Lei annuì. “Karkenos se ne è servito per perseguire il suo unico scopo”, continuò. “L’unico obiettivo che si era posto per il breve tempo concessogli di are come mortale. Trovare un modo per rigenerare il suo sangue, quello di cui ha bisogno per tornare nel suo Vero corpo.” Detto questo lo guardò, ma Dagger non la stava più ascoltando. “Mamma…” sussurrò. “Già. La troia deve aver ato un brutto quarto d’ora quando l’illusione è caduta, osservando cadere a pezzi, giorno dopo giorno, il corpo di colui che amava.”

Dagger strinse i pugni. “Continua.” “Dopo aver capito di essere stata solo sfruttata, Aniah riuscì a fuggire dal deserto dove era tenuta prigioniera portandoti con sé, per sottrarti ai gorgor e consegnarti ai Guardiani.” “Per nascondermi?” “Oh no. Per ucciderti”, specificò lei, con un mezzo sorriso. “Questo era il suo intento iniziale. Sperava che il mio Dracone, il Dracone del Veleno, conoscesse un modo per farlo, sperava di poter rimediare almeno così al suo errore. Doveva volerti davvero bene. Peccato che tu non puoi morire, come ti ha efficacemente dimostrato Marduk, e portandoti alla Fortezza ci ha solo condannato a nasconderti per sempre.” Rimasero in silenzio. “Io l’ho conosciuta”, rivelò poi Kugar. Adesso non sorrideva più. “Ero lì quando, ridotta a poco più di una larva umana, ha rivelato il luogo dove ti aveva nascosto. Solo dopo si è abbandonata all’ultimo sollievo. La sua è una storia triste, una storia di solitudine. Ho pianto quando se n’è andata, maledicendola al tempo stesso.”

Dagger chinò il volto, cercando di non lasciar trapelare alcuna emozione.

“Il resto della storia lo conosci”, continuò la ragazza. “Tu sei scomparso e per tutto questo tempo è stato come avere un ragno velenoso nascosto sotto le coperte, pronto a mordere in qualsiasi momento, in qualsiasi punto. Ti abbiamo cercato in lungo e in largo e come noi, a quanto pare, anche le dannate ombre.”

“Però come facevano a sapere anche i gorgor che mi trovavo proprio a Melekesh, su questo mondo? E come hanno fatto a metterci piede?” “Tu che ne pensi?”

“Penso che alla vostra stramaledetta Fortezza c’è un buco nella rete dove ano pesci parecchio grossi”, rispose Dagger. “Per questo mia madre non vi ha rivelato dov’ero nascosto, se non prima che fosse assolutamente inevitabile. Lei non si fidava di nessuno, neanche di voi.” “Che sottile intelletto. Be’. Ora capisci.” “Sì, ora capisco qual è la situazione alla Fortezza. Tornare lì per me sarà solo una follia, ha ragione Olem.” Kugar alzò le spalle. “Olem ha sempre ragione… quando ha torto, non parla. Ma prima o poi anche lui capirà che non esiste altra scelta. Il mio maestro voleva che tu sapessi una volta per tutte chi sei, e ora sai che puoi fidarti solo di te stesso. Nessuno tiene veramente a te. La tua compagnia è solo un male necessario, non sappiamo neanche come funzioni veramente.”

“Non sono un oggetto. Sono una persona libera e il mio sangue è mio!” Kugar ghignò. “Oh. Lo pensi davvero?” Il fiume di parole della ragazza si interruppe lì. Rimasero seduti davanti alla luce senza più parlare, senza neanche guardarsi. Dagger osservò di soppiatto Olem, intento a caricare di tabacco la sua pipa d’avorio seduto accanto a Moak. Li avevano osservati per tutto quel tempo, ne era sicuro, sembravano in qualche modo incuriositi di sapere come sarebbe andata tra loro due. Poi una porta venne spalancata e destò tutti dai propri pensieri; dal ponte di coperta scese uno dei marinai, un omone alto e possente che, avvicinatosi a Moak, gli sussurrò qualcosa nell’orecchio. Lui alzò il volto a guardarlo stupito e subito lo seguì sul ponte, chiudendosi la porta alle spalle. Kugar ora guardava fissa le sfere di luce, mentre Olem aveva smesso di caricare il tabacco nella pipa. I loro sguardi si incrociarono per un momento, poi Dagger tornò a guardare la porta e Olem cominciò a ricaricare il tabacco, cupo. La porta venne di nuovo spalancata e questa volta fu Moak scendere le scale, sforzandosi di non sembrare agitato. Si avvicinò a Olem e gli parlò in un orecchio. Vide l’espressione sul volto del Dracone farsi sempre più grave, mentre l’onnipresente ghigno

scompariva. Si accese la pipa tra le labbra e si alzò per seguire Moak di sopra. “È qualcosa di serio”, sussurrò Kugar. “Se Olem si è alzato mentre stava fumando, è qualcosa di tremendamente serio.” I minuti si susseguirono senza che accadesse nulla, nell’attesa, quando Kugar, stanca di aspettare, si alzò per risalire le scale e uscire a sua volta sul ponte. Dagger la seguì: di fuori i due Guardiani e i marinai fissavano un punto all’orizzonte, come una nave lontana; era ancora difficile distinguerne la forma e la grandezza, ma a giudicare dall’espressione sul volto di Moak capì che non si trattava di nulla di buono. Un’ombra ò sul ponte. Alzò gli occhi e nel cielo plumbeo vide alcuni minuscoli punti neri, come uccelli che volassero ad alta quota. Anche Kugar sollevò lo sguardo. Gli uccelli si avvicinarono, tanto che divenne possibile distinguerne la sagoma: avevano le ali palmate e il becco lungo e adunco, la coda che terminava in uno spunzone. “E quelli che Ktisis sono?” “Guai”, fu l’unica risposta.

Il suo senso di smarrimento aumentò quando capì che quelle bestie erano cavalcate: alcune sagome ombrose, che conosceva sin troppo bene, sedevano sul loro dorso reggendo lunghe redini. I gorgor li avevano seguiti sin lì e adesso li braccavano dall’alto. Dagger si ritrovò scosso da ricordi ancora troppo vividi per essere facilmente cancellati.

“Ce l’hai un’armatura addosso?” domandò Kugar. “Cosa me ne faccio, se sono immortale?” “Già, scusa. Deformazione professionale.” Si voltò verso i due Guardiani, che ancora osservavano la nave all’orizzonte. “Cruachan!” urlò. Al solo sentire quel nome Olem e Moak alzarono lo sguardo di scatto, ma anche

i Guardiani che si trovavano nella stiva risalirono le scale per affacciarsi di fuori, alcuni di loro con la spada già sguainata. Olem si avvicinò a loro a grandi i. “Scendete!” ordinò. “Tutti quanti, scendete! Armatevi e aspettate i miei ordini. Se dovremo combattere anche in questo mondo lo faremo, Ktisis bastardo!” I Guardiani fecero come ordinato e discesero nel ventre della nave, per prepararsi a uno scontro che ormai tutti credevano inevitabile. Olem si voltò verso Kugar e la osservò come se avesse voluto ucciderla con il solo sguardo. “Prova a diffondere il panico tra i miei uomini un’altra volta e ti taglio la lingua!” “Perdonate, Dracone.” Moak li raggiunse. “Non vogliono attaccarci per il momento, altrimenti lo avrebbero già fatto. Sembra che ci stiano solo seguendo. Che facciamo, Dracone?” “Maledizione!” Olem volse ancora lo sguardo al cielo. “Se hanno portato i loro fottuti cruachan su questo mondo–” “–i gorgor hanno creato una base stabile tra queste isole”, terminò per lui Moak. “Ormai è certo. Ma da dove sono sbucati?” “E la nave?” fece Kugar. Dagger osservò il punto all’orizzonte: aveva ormai assunto la forma definitiva di un vascello da guerra della marina di Melekesh, a vele spiegate, diretto verso di loro. Olem annuì impercettibilmente. “Ci stanno seguendo da quando abbiamo lasciato il porto. Hanno aspettato che prendessimo il largo e ci ritrovassimo intrappolati tra questi scogli. Con quelle vele e questo vento non c’è da sorprendersi che viaggino più veloci di noi.” “Penso che la situazione ormai sia chiara.” Moak gli mise una mano sulla spalla. “Tutto questo mondo ci è stato rivolto contro.”

“Come hanno fatto?” “A questo punto non ha più importanza. Ora dobbiamo giocare d’astuzia.” “Dobbiamo giocare di lama!” inveì Olem. “Vogliono darci la caccia? Benissimo. Si ritroveranno nel ventre del mare prima che abbiano la possibilità di invocare il loro osceno dio!” Detto questo sparì oltre la porta. Moak scosse la testa. “Sta accadendo tutto troppo velocemente. Olem non è Marduk. Non avere molto tempo a disposizione gli impedisce di pensare, e quando non riesce a pensare lui pensa ad ammazzare, che è la cosa che gli riesce meglio. Come vorrei che Marduk fosse qui!” “Il Divino”, mormorò Kugar. “Persino Mawson e le autorità di Melekesh lavorano per lui, a quanto sembra.” “Ci deve essere un altro aggio tra i due mondi, un secondo portale sul quale solo loro hanno il controllo.” “Se i gorgor ci stanno attaccando lo stanno facendo solo perché sanno di avere la vittoria in pugno.” Moak prese la ragazza e la voltò verso di sé. “Sapere che perderai non è un motivo sufficiente per smettere di lottare! È il quinto comandamento, dannazione, il più importante!” “Allora combatterò anche io.” “Non essere stupida, ci saresti solo di intralcio. Voi due rimarrete nascosti e, quando la nave sarà abbordata, noi combatteremo fino alla morte per respingerli.” “E se non ce la farete?” Il Guardiano si fece cupo. “Se non ce la faremo… be’, spero che qualcuno scopra almeno da dove sbucano i gorgor su questo mondo.” Detto questo li lasciò da soli. “Spero che qualcuno scopra almeno da dove sbucano i gorgor”, ripeté Dagger, guardandosi attorno: le vele erano spiegate al vento e i marinai, con la pelle cotta

dal sole e i capelli scuri, gestivano pigramente il cordame agli ordini del nostromo, un grassone calvo con più dita che denti. Al timone stava un vecchio con entrambi gli occhi ed entrambe le gambe, che per un uomo invecchiato sul mare in quell’angolo del mondo era una qualità rara. “Questa gente non ha paura.” “E allora?” “Non capisci. Sono loro che vi hanno venduto. Sono troppo calmi. Sono in attesa di una ricompensa. Che io sia dannato una seconda volta se non c’è l’ombra del tradimento nei loro atteggiamenti.” Kugar li esaminò a sua volta e non rispose nulla. La nave solcava le onde costeggiando le alte scogliere dell’arcipelago. Quelle isole erano praticamente disabitate, fatta eccezione per alcuni villaggi lungo la costa, abitati da pescatori così abituati alle avversità della vita da non temere nulla: né l’isolamento, né le tempeste, né la violenza dei pirati. A pensarci bene, Dagger capì che stavano ando proprio nelle acque che questi ultimi battevano con più frequenza. Meglio così, pensò tra sé e sé. Ho molte cose da chiedere a Skyrgal. Si scoprì pronto a correre incontro alla prima spada affilata che qualcuno fosse stato così stupido da mettergli davanti al naso. Però, quando scese nuovamente, Dagger indossò un’armatura come tutti gli altri, anche se dubitava che quella semplice corazza di cuoio gli sarebbe stata di alcuna utilità per almeno due buone ragioni: la prima riguardava la sua immortalità; la seconda riguardava le frecce affilate con le quali i gorgor avevano iniziato a bersagliarli e che avevano già ucciso due marinai, come per rendere chiare le loro intenzioni. Questi, da parte loro, erano spaventati a tal punto che si erano rifugiati sotto coperta e niente, neanche le bestemmie di Olem, poteva convincerli ad andare di nuovo là fuori per governare la nave. Molti si inginocchiarono e iniziarono a dondolarsi avanti e indietro, alcuni di loro urlarono al capitano di non voler nessuna maledetta ricompensa, mentre questo li fulminava con lo sguardo; presto la sua testa rotolò lungo le scale, tranciata di netto dalla spada di Olem.

“Traditori!”

Gli altri marinai portarono la mano a una rozza statuetta che pendeva dal loro collo, raffigurante Ktisis, e presero a arsela più volte tra le dita mentre imploravano il dio, e anche Olem, di risparmiargli la vita. Avevano lasciato le vele spiegate e il timone bloccato, tanto che ora la nave procedeva al di fuori di ogni controllo e, in mezzo a tutti quegli scogli, la cosa sarebbe diventata presto un problema. Sembrava che i gorgor avessero già vinto la battaglia semplicemente manifestando la loro presenza. Olem smaniava per uscire sul ponte a combattere, ma in quel tratto di mare le correnti erano più forti e ora la nave oscillava tanto che persino mantenere l’equilibrio divenne difficile. La nave che li inseguiva si stava avvicinando sempre più velocemente, solcando sicura le onde, e non sembrava più volerli solo scortare dalla distanza. Afferrato a un boccaporto, Dagger la osservava farsi sempre più vicina: aveva issato lo stendardo di Melekesh, solo l’ultima prova che quel mondo era ormai sotto il controllo del Divino. “Ci vogliono affondare”, considerò Moak. “Non avranno scrupoli a mandarci giù negli abissi sapendo che tu comunque non morirai. Così avranno ottenuto tutto ciò che vogliono. La nostra morte, e il tuo sangue.” Dagger si voltò. “Spero che abbiate un piano migliore del semplice lasciarli fare.” Un verso rapace attraversò l’urlo del vento, facendogli accapponare la pelle. Vide il volto del Guardiano farsi cupo, terrificato. A quanto pareva la nave nemica non avrebbe potuto abbordarli in quelle condizioni, ma niente aveva impedito alle bestie alate dei gorgor di atterrare indisturbate sul ponte di coperta, ormai deserto.

“In guardia!” urlò Olem, sfoderando la spada. Al primo animalesco grido di avvertimento seguirono i trilli dei gorgor, ormai atterrati sul ponte; solo una porta di legno, neanche chiusa a chiave, divideva gli uomini e le ombre armati fino ai denti per darsi la morte. “Kugar”, sussurrò Moak. “Scendete nel ponte sotto la stiva e non ne uscite per nessun motivo, anche a costo di rimetterci la vita. Sai cosa intendo.”

Kugar chinò la testa in segno di obbedienza e trascinò via Dagger. “So camminare!” disse lui ma Kugar, pressata dagli occhi di Moak, lo portò giù come se fosse solo un prigioniero. Scesero una scala mezza ammuffita e si ritrovarono nel buio più completo, in una nave in totale balia delle onde e con una battaglia sul punto di scoppiare sopra le loro teste. Sentì la mano dell’altra che gli sbatteva addosso del catrame. “Usa questo, forse impedirà che sentano il tuo odore.” Riluttante, Dagger fece come detto e presto si ritrovò coperto da uno strato di catrame. “Brucia!” “Ricordati che sei immortale, a differenza mia.” Si sedettero a un angolo, aggrappandosi a una trave di legno e cercando di capire cosa stesse succedendo sopra le loro teste. Presto sentirono i versi infernali delle ombre, miste alla voce delle lame; la battaglia era cominciata e, prima che potessero capire chi stesse avendo la meglio, si accorsero che era già conclusa: ascoltarono i lamenti degli ultimi Guardiani che venivano traati, poi più niente. Dagger trovò quel silenzio più sinistro di ogni grido di battaglia. Adesso erano soli, e sapere di essere immortale non era più di alcuna consolazione. “È finita”, sussurrò Kugar. “Almeno per me. Per te è solo cominciata.” “Dobbiamo fare qualcosa.” “Cosa? Andare là fuori e chiedergli di farci are?” Stava per risponderle, quando lo scafo urtò il fondale. Vennero sbalzati. La nave iniziò a inclinarsi su un lato e gli scogli squarciarono la sua fiancata mentre, spinta dal vento, ancora proseguiva nel suo percorso curvilineo. Nel buio sentì il fragoroso ruggito dell’acqua irrompere dentro la stiva e capì che la falla era dritta davanti a lui. La nave urtò un altro scoglio. Si ritrovò immerso nell’acqua salata e turbolenta, intrappolato, incapace di aprire gli occhi fino a che la nave non prese a ruotare, e ruotare, adagiandosi definitivamente sul fianco. Ora uno degli squarci dava verso il cielo. Dagger si guardò intorno: Kugar era priva di sensi, forse morta, con il volto sott’acqua. La cinse con un braccio sotto le spalle e la trascinò dietro di sé, mentre la nave si disincagliava e proseguiva nel suo

moto scoordinato. Si arrampicò fino allo squarcio, trovando nella sua insensata paura di morire un coraggio e una forza che non avrebbe mai sospettato di avere, e riuscì ad affacciarsi di fuori. I cruachan erano tornati in volo, ma non erano più cavalcati, segno che anche i gorgor erano rimasti intrappolati nel relitto. La nave continuò ad affondare, tanto che presto anche quella falla si ritrovò sott’acqua. Trattenendo il respiro, sicuro delle onde che nascondevano la sua fuga, Dagger riuscì a fuggire da quell’enorme bara trascinandosi dietro Kugar.

Scivolando sotto il pelo dell’acqua provò a non respirare, tuttavia scoprì a sue spese che aveva bisogno di farlo. Probabilmente, se fosse morto annegato, sarebbe semplicemente risorto e iniziò a pensare che quel potere gli sarebbe servito davvero a poco in situazioni simili. Riemerse in superficie e si guardò intorno; quello che ormai era diventato il relitto della nave si era arenato una volta per tutte, mezzo sommerso, con uno scoglio ben piantato nella fiancata destra che lo teneva fermo, gli alberi spezzati, le vele lacerate. Una bestia morta, un tempo viva, il cui lamento si levava ancora lugubre nell’aria. Kugar non respirava, allora Dagger nuotò verso riva più veloce che potesse, ringraziando gli scogli che frangevano le onde, rendendole più clementi. Raggiunsero presto una piccola cala posta tra due alte falesie. Felice di sentire nuovamente la ghiaia sotto i suoi piedi, trascinò la ragazza per la veste zuppa d’acqua fino ai margini della foresta che ricopriva l’isola. Al riparo degli alberi la stese a terra e la schiaffeggiò più volte. “Respira!” urlò, ma Kugar lo fissava pallida, muta. Dag sapeva cosa doveva esser fatto; lo aveva visto fare per la prima volta a uno dei contrabbandieri del cimitero, un uomo che veniva da lontano. Pose le mani una sull’altra al centro del petto e iniziò a premere, più volte, come per ricacciargli dentro la vita. Non funzionò. Le respirò dentro la bocca, continuando fino a che non si ritrovò esausto. Poi, urlando per la rabbia, la colpì con un solo pugno sul costato, mettendoci tutta la forza che aveva. Kugar espirò un solo: “Che cazz–?” pervasa da nuova vita. Si girò su un fianco e vomitò tutta l’acqua nei suoi polmoni, tornando a respirare. La guardò stupito. “Sul serio, quali erano le possibilità che funzionasse?” Lei, esausta, non sembrava averlo ascoltato. Dagger allora tornò a concentrarsi

sulla situazione, anche se non serviva molto per capire che era disperata: si trovavano su un’isola in mezzo al nulla, circondati da un mare in tempesta e ombre assassine che volevano lui, solo lui. Alzando gli occhi al cielo vide che non c’era traccia dei gorgor ma, tendendo bene le orecchie, poteva sentire i loro lontani trilli. In avvicinamento. “Ti stanno… chiamando…” “Pensi che qualcuno dei nostri sia sopravvissuto?” Kugar si trascinò sino a lui. “No”, rispose, gettandosi a sedere contro una roccia. “Ktisis bastardo!” Pochi istanti dopo un lampo rivelò ai loro occhi il vascello da guerra che li aveva braccati sin lì, facendolo emergere dalla nebbia. La nave nemica aveva gettato l’ancora a distanza di sicurezza dagli scogli e adesso era in attesa. I cruachan volteggiavano sopra di essa, trillando nervosi. “C’è un motivo se ci hanno fatto naufragare su quest’isola. Questo non è un luogo qualunque e loro lo sanno bene.”

“Che vuoi dire?” “È su quest’isola che si trova il portale verso Golconda. Anche loro devono saperlo.” Dal vascello venne calata una scialuppa, con a bordo dodici uomini che indossavano la tenuta militare di Melekesh, e a loro capo una figura oscura; lunghe vesti di seta nera ne ricoprivano l’intero corpo, persino il volto, adombrato da un ampio cappuccio. Dalle vesti sbucavano solo i due stivali dell’armatura e quando vide la viva elettricità che li attraversava, dando l’impressione che quell’ombra camminasse sulla luce, Dagger capì che erano costituiti dello stesso metallo del suo pugnale. Il mayem. Kugar lo strappò dai suoi pensieri: “È lui che ti sta cercando”, disse. “E che forse stai cercando: il Divino. Usa un’armatura di puro mayem per muoversi, un artefatto antico e maledetto. È viva e risponde al volere di chi la indossa. Strana la vita: un tempo Skyrgal usava il suo corpo per muoversi sul nostro mondo,

adesso lui usa quella per farlo. Tanto va la gatta al lardo…” Erano lontani quanto bastava a non essere scoperti, vicini quanto bastava per vedere quello che stava succedendo: il Divino alzò una mano e presto un gorgor raggiunse in volo il relitto. Scese dal dorso del suo cruachan, tenendosi in perfetto equilibrio su una trave spezzata mentre la sua bestia alata, con la massima tranquillità, si leccava le ferite sulle oscure ali di membrana. Estrasse la sua spada di hvis e si aggrappò al bordo dello squarcio per affacciarsi dentro. Vide qualcosa e si voltò verso gli altri, strillando versi acuti e sgraziati che, sebbene ricordassero i trilli animaleschi dei cruachan, erano articolati in sillabe e dovevano costituire un vero e proprio linguaggio. “Cosa sta dicendo?” Kugar tese l’orecchio e ascoltò le parole nel vento: “Ha trovato qualcuno in vita. Un uomo calvo”, dedusse. “Sta prendendo in giro il suo sovrappeso. Penso si tratti di Moak.” Altri cruachan atterrarono sul relitto, ovunque, mentre la maggior parte rimase in volo. Non sembravano aver fretta: la battaglia era stata intensa e, anche se avevano avuto la meglio, molti di loro dovevano essere feriti. Il gorgor si affacciò ancora dentro la nave, ma si ritrasse di scatto; una freccia saettò poco sopra la sua testa, scoccata dall’interno, e in sordina gli giunse un urlo: “Fatti avanti, figlio di una tankar lebbrosa!”

“Olem”, bisbigliò Dagger. “Stavolta riuscirà a farsi ammazzare!” “Che facciamo?” “Aspettiamo.” Il gorgor sembrò ridacchiare. Rimontò in sella al suo cruachan e con un colpo di redini saltò in volo. La bestia alata volteggiò sopra la carcassa della nave un paio di volte, prima di spiegare le ali al vento e rimanere sospesa a mezz’aria. Poi piombò in picchiata dentro la crepa, per sbucare fuori poco dopo con gli artigli piantati nelle spalle sanguinolente di Olem. Lo lasciò cadere in mezzo ai suoi

compagni, come un predatore che getta la preda inerme nel nido dei pulcini affamati. Il Dracone provò subito a rialzarsi, però fu disarmato con un calcio sulla mano e un altro sulla schiena. Un’ombra aveva già sguainato la propria spada e sembrava sul punto di ucciderlo, ma il Divino lo ammonì e tutti si fermarono. Urlò qualcosa nel loro duro linguaggio, composto di sole consonanti gutturali e caratterizzato dalla quasi totale assenza di vocali.

“Cosa sta dicendo?” domandò Dagger. “Sta ordinando ai gorgor di non uccidere il prigioniero, perché è più utile vivo che morto.” “E lo stanno ascoltando?” “Sembra di sì.” Agli ordini del Divino, i gorgor si calarono nel ventre della nave e radunarono in tutto cinque superstiti, tra cui Moak e Olem. Dopodiché iniziarono a banchettare con i corpi dei morti: un paio di cruachan si divertirono a squartare il cadavere di un Guardiano, nutrendosi delle sue viscere sotto gli occhi compiaciuti dei loro cavalieri, presto imitati dal resto della squadriglia. Il relitto si trasformò in fretta in un enorme mattatoio di carne umana, con le interiora e il sangue che scivolavano sulle fiancate lignee della nave sino alla rosata spuma del mare. Moak sembrava confuso come gli altri superstiti, solo Olem trovò ancora la forza di urlare contro quelle belve, prima di venir azzittito da un calcio in piena faccia. I gorgor presero a picchiare selvaggiamente i prigionieri, urlando in continuazione.

“Ti stanno cercando”, disse Kugar. “Sapevano che ti trovavi a bordo. Stanno costringendo Olem e gli altri a parlare ed è una fortuna che si tratti di loro. Io non ci avrei pensato due volte a venderti.” I gorgor continuarono a pestare i Guardiani fino a che non persero i sensi. Uno di loro perse anche la vita e fu gettato in mare, divenendo subito preda di un cruachan che non aveva ancora avuto la sua razione di carne. Il Divino tornò a bordo del vascello ancorato nella baia, mentre i superstiti furono caricati su una

scialuppa e condotti sulla terraferma, scortati da dieci gorgor. Gli altri montarono nuovamente in sella ai loro cruachan e spiccarono il volo verso l’interno dell’isola. Dagger notò che uno di quelli rimasti a terra stava annusando intorno. “Il vento sta cambiando”, notò Kugar. “Dobbiamo allontanarci prima che si accorgano di te.” Si inoltrarono all’interno della foresta, facendosi troppo lontani per vedere quello che stava accadendo, così come per udire l’orrido verbo dei gorgor. In silenzio, osservarono a disagio gli alberi che li circondavano. “Dobbiamo starne il più lontani possibile.” “Dobbiamo seguirli!” rispose Dagger. “Se stanno trasportando i prigionieri via terra, vuol dire che è da qui che sbucano fuori. Dobbiamo capire da dove.” La ragazza lo afferrò per il bavero dell’armatura, portandoselo viso a viso. “Dobbiamo tornare a casa”, sentenziò. “È già un’impresa disperata così com’è, perché complicarci la vita?” “Finirete tutti nello stomaco di quelle bestie se non capite in fretta da dove vengono. Ho ato la mia vita a nascondermi da chi voleva uccidermi, posso darti una mano.” “Darmi una mano a fare cosa?” “A scendere nelle profondità della tana del lupo.” “Non è quello che ci hanno ordinato!” “Un Guardiano fa sempre quello che gli viene ordinato?” “Be’, sì!” rispose Kugar, lasciandolo andare. “Allora non mi sorprende che le cose siano precipitate a tal punto. Non ci saranno altre occasioni per seguirli senza essere visti. Decidi. Adesso o mai più.”

Lei chinò la testa, ragionando in silenzio. “Il vento soffia da nord”, disse infine. “E quindi?” “È un vento contrario. Li accecherà, almeno fino a che non cambierà direzione. Allora porterà il tuo odore dritto alla loro narici e noi ci ritroveremo in trappola.” Ragionò un ultimo momento. “Che tu sia maledetto, Dag”, ringhiò poi. “Andiamo!”

* * * * *

8. Paura del buio

La vita non è camminare lungo una strada piena di bivi, pensò Dagger. La vita è vagare in una foresta priva di sentieri, dove a ogni angolo buio sembra celarsi un’ombra pronta saltarti addosso quando meno te lo aspetti, per portarti via tutto quello per cui hai sempre lottato. Fosse anche la mera sopravvivenza.

Insetti grandi come chicchi d’uva gli risalivano le gambe, piantando le zampe nella pelle con maggior forza quando cercava di staccarli. Le spine lo graffiavano, i rami lo trattenevano. Ogni singola, ghiacciata goccia d’acqua sembrava avere il solo scopo di infilarsi sotto il colletto della cotta di cuoio per scivolare lì dove non avrebbe potuto più asciugarla. Già rimpiangeva il fango e i ciottoli scivolosi di Melekesh; in città le strade portavano tutte da qualche parte, anche se dritte verso la morte, ma nel dedalo di una foresta era diverso: non c’era alcuna strada e quelle che creavi spesso non portavano da nessuna parte. In quella situazione poté solo fare la cosa che gli era sempre riuscita peggio: affidarsi a chi gli stava accanto. Seguì Kugar ciecamente, ovunque l’avesse portato.

Dopo ore di marcia a o serrato, lei lo trattenne per un braccio: i gorgor si erano fermati. Arrampicandosi sui rami di un albero, videro che avevano legato i prigionieri, a terra, e ogni cosa nel loro comportamento suggeriva che non prendevano neanche in considerazione l’idea di essere seguiti. Olem era tornato in sé ed era tornato a imprecare. Si domandò quanto tempo sarebbe ato prima che fosse riuscito a farsi uccidere. Moak invece era ancora stordito, così come gli altri due Guardiani.

Uno dei gorgor sfoderò due sciabole di hvis e sfregò le loro lame, facendo arretrare gli altri quando le fiamme si levarono nell’aria. Si avvicinò ai prigionieri con le armi strette nel pugno e, solo a vederle, uno dei Guardiani gridò terrorizzato.

“Chiudi la bocca, Guardiano!” urlò Olem. L’ombra allora si voltò verso di lui e schiacciò il dorso della lama infuocata contro la sua spalla. Il rumore delle carni che friggevano arrivò sino a loro, ma Olem non urlò. Strinse i denti e sopportò il dolore con disciplina. “Li stanno torturando?” “Non del tutto”, rispose Kugar. “Si stanno divertendo a disinfettare le loro ferite con il fuoco.” Dagger pensò che fosse un po’ rozzo come mezzo di disinfezione, eppure a suo modo pratico. Lui conosceva altri metodi, forse persino più efficaci: non contava le volte che aveva utilizzato la propria urina come disinfettante su di sé o Seeth. Non aveva mai visto una ferita infettarsi in quel modo, tuttavia quando vide uno dei gorgor urinare a un angolo capì perché loro non lo praticavano: il suo getto verde bucò la corteccia dell’albero, penetrandolo in profondità e sollevando un vapore acido. Uno dei gorgor trillò qualcosa e quello che stava urinando scoppiò a ridere; si mise in piedi davanti al Guardiano legato tra Olem e Moak, il più malandato, e gli spruzzò l’urina in volto. Dagger si portò una mano alla bocca quando vide il volto del Guardiano sciogliersi sotto il getto acido. Nel torpore che precedeva la morte il Guardiano urlò, sputando fuori pezzi di lingua e sangue, allora i gorgor lo slegarono e lo gettarono faccia a terra, continuando a ridere. Uno di loro sfoderò la sciabola e gli scorticò la schiena, denudando i muscoli. Poi ci urinò sopra, scavando un buco da parte a parte attraverso carne, ossa e organi. Solo dopo essersi rialzato per osservare compiaciuto la sua creazione decise di finirlo: infilò la mano nel buco che aveva creato e gli strappò il cuore da dietro, lanciandolo per scherzo a uno dei suoi compagni mentre questo ancora batteva. Dagger si voltò e vomitò la colazione, cercando di non far più rumore del necessario. “Shhh!” “Gli ha sciolto la faccia! Oh cazzo. Gli ha–” “Non vogliono ucciderli tutti, almeno non subito”, dedusse Kugar, per niente turbata. “Hanno fatto fuori quello che rallentava la loro marcia. Estremamente pratico.” Lo afferrò per un braccio e lo costrinse a guardare. “Osservali! Sono loro che ti hanno creato. Immagina cosa sarebbero in grado di farti per–”

“–tirarmi fuori il sangue dal corpo e riportare in vita mio padre? Lo so. E se stai cercando di convincermi a non gettarmi tra le loro braccia è tempo sprecato. Non ne ho alcuna intenzione.” Osservarono i gorgor mentre facevano a pezzi il guardiano, tagliandolo a metà, sviscerandolo e poi strappando le sue membra in piccole parti. Impacchettarono i muscoli per il viaggio e consumarono crudo ciò che poterono, soprattutto il fegato, del quale sembravano particolarmente ghiotti. Infine ripresero la loro marcia. “Quando un prigioniero rallenta la marcia diventa utile solo per essere mangiato”, disse Kugar, mentre scendevano nuovamente a terra. Lo guidò attraverso una macchia di larici, talmente fitta che un secondo cielo verde si stendeva ormai sopra le loro teste.

Udirono un lungo tuono e presto il soffice picchiettare della pioggia gremì l’aria fredda e umida. La pioggia iniziò a penetrare le fronde degli alberi, cadendo sull’invisibile sentiero che stavano seguendo, e Kugar dovette chinarsi a terra sempre più spesso per cercare le orme del nemico. A volte ava del tempo prima che decidesse quale direzione prendere. Iniziò a pensare che si fosse persa quando arrivarono, come all’improvviso, al cospetto di un’alta parete rocciosa, impenetrabile barriera chiusa a ferro di cavallo sul loro cammino. Non c’era modo di proseguire tuttavia, sotto i loro occhi, centinaia di orme vecchie e recenti si accalcavano le une sulle altre.

“Sembrerebbe un vicolo cieco, invece è un punto di aggio.” Kugar si chinò a osservare le orme. Annusò. “E non solo per i gorgor.”

Dagger si avvicinò. “E da dove si a?” “Comincia a cercare.” Esplorarono la lunga e curva parete rocciosa alla ricerca di una fessura che indicasse la presenza di un aggio. Cercarono ovunque, a lungo, imprecando,

finché quello di fronte ai loro occhi si rivelò solo un impenetrabile muro di pietra senza alcuna soluzione di continuità. Kugar si allontanò pensierosa, piantò la spada nel terreno e si sedette, poggiando il mento sul pugno chiuso. “Uhm”, bofonchiò. “L’uomo può attraversare anche la pietra grigia.” “Cosa?” “È un detto di Golconda, inventato da qualcuno che probabilmente non si è mai trovato di fronte a una vera parete di pietra grigia.” Lui, ostinato, continuò a cercare. “Da qualche parte si dovrà pur are.” Provò a spingere la roccia con tutte le sue forze, quando udì un rumore insolito, come il lamento di una bestia ferita. “Fermati!” Dagger si voltò e nello sguardo dell’altra lesse sola paura. Allora si scostò dalla parete. “Ci sta osservando.” “Chi?” Lei si portò un indice alle labbra, soffocando sul nascere ogni altra domanda. I suoi sensi erano più affinati dei suoi, a quanto pareva, per questo continuò a fidarsi anche quando la vide portare una mano dietro la schiena per far apparire un coltello da lancio. “Che Ktisis–?” “Ti vuoi togliere dai coglioni oppure rimani lì?” Dagger si spostò giusto in tempo per udire il sibilo della lama. Un cruachan cadde a terra dai rami sopra la sua testa, trillando di dolore con il coltello sprofondato nel torace. Si dimenò e scaraventò la lama contro la parete rocciosa, prima di avventarsi contro di lui con gli occhi iniettati di follia omicida. Dagger schivò il becco adunco e gli troncò di netto il collo; il corpo della bestia venne attraversato dalle scintille del mayem, mentre ancora arrancava in avanti mosso solo dall’istinto predatorio. Infine crollò a terra privo di forze, e di vita.

“Dag!” Kugar si avvicinò con la mano aperta. “É finita.” Nonostante le sue parole, lui piantò il pugnale nel mezzo della immonda testa decapitata. Solo quando vide il cervello bluastro colare in mezzo agli occhi spenti accettò di considerare morto il cruachan. Allora crollò in ginocchio. “Non è finita, se ce n’era uno ce ne saranno altri. Stanno arrivando, sono io che li sto portando qui!”

Lei si chinò, esaminando il corpo esanime. “Non essere stupido, è stato lasciato indietro.” Alzò un’ala per mettere in mostra gli ampi squarci che gli avevano impedito di volare. “È stato ferito durante lo scontro con i Guardiani e rallentava la loro marcia, per questo hanno lacerato le sue ali. Poi se lo sono abbandonato alle spalle mentre, nella sua incoscienza animale, lui si domandava perché. Povera bestia. Sola contro l’intero mondo.” “Povera bestia? Ha cercato di scannarci!” “Le bestie uccidono e nessuno può biasimarle per questo”, si oppose lei, gli occhi persi nel vuoto. “Non esistono tribunali nella foresta, non c’è alcuna morale, o sei il predatore o diventi la preda. Tu dovresti saperne qualcosa. In ogni modo non ha niente a che fare con il gruppo che stavamo seguendo.” La guardò fisso. “E che fine ha fatto la spedizione con i prigionieri?” “E io che Ktisis ne so? A questo punto è meglio lasciar perdere e tornare al portale per Golconda. È stata tutta una follia, non dovevo darti retta sin dall’inizio.” “Vuoi arrenderti così? Questo è il punto di svolta!” “Questa è solo una maledetta parete!” urlò Kugar, prima di guardarsi intorno e capire che, se voleva arrivare viva al tramonto, era meglio non farlo di nuovo. “Se questa fosse l’entrata del loro covo sarebbe sorvegliata molto meglio, e noi saremmo già morti.” “I loro compagni li raggiungeranno, quando non mi troveranno nel relitto. Se eranno di qui saranno loro a mostrarci il aggio.”

“È rischioso!” “Rischioso? Quando siamo usciti fuori dalla nave tu non eri neanche viva!” “E va bene!” lo interruppe. Dagger rimase in silenzio, sorpreso. Non avrebbe mai pensato di averla vinta. “Sarà meglio trovare un posto adatto a are la notte. Un albero, possibilmente. Tra poco ci ritroveremo nel fango fino alle ginocchia.” Quando trovarono un albero robusto quanto bastava per reggerli entrambi, vicino quanto bastava per vedere, lontano quanto bastava per non farsi massacrare da eventuali anti, la pioggia si era fatta così forte che a Kugar bastò mettere le mani a coppa per raccoglierne abbastanza da poterla bere. Poi si tirò il cappuccio sulla testa e, con la schiena poggiata al tronco, iniziò a guardare dritto verso la parete. Dagger si distese sul ramo, lasciando che la pioggia lo inzupe come sempre. Osservò il suo pugnale, quel pugnale che gli aveva salvato la vita: quando era in mano sua niente riusciva a intaccarne la lucentezza. Sfiorò il filo della lama e si tagliò. “Non giocarci”, lo ammonì lei. “Quella luce è visibile da lontano e ci rende facili prede.” Lui non rispose. Rinfoderò il pugnale e si cinse le ginocchia con le braccia, fissando a sua volta la parete rocciosa. “Come l’hai chiamata?” “Cosa?” “La tua lama”, rispose Kugar. “Noi Guardiani diamo sempre un nome alle nostre armi.” “Non ci ho mai pensato. Se proprio deve avere un nome, il suo sarà Redenzione.” “Che cazzo di nome da dare a un pugnale!” “E il tuo come si chiama?” “I miei si chiamano: Veleno, Sangue, Merda e Morte.”

“Complimenti.” “Ognuno è intinto di un veleno diverso, per questo Merda ha rallentato il cruachan. Lo avrebbe paralizzato se tu non avessi avuto la brillante idea di ucciderlo.” “Volevi che vivesse?” Lei non rispose. Il tempo ò con lentezza esasperante e non accadde nulla fino a che, oltre le nuvole, il sole iniziò la lenta discesa nell’orizzonte. “Presto madre notte calerà e qui sarà totalmente buio. Non ci sono luci in una foresta, non ci sono taverne. Hai mai ato una notte in una foresta immersa nel buio, Dag?” “No. Ma se vuoi giocare a chi ce l’ha più lungo, sul luogo più pericoloso dove abbiamo ato le notti della nostra vita, ti consiglio di lasciar stare. Perderesti. Primo, perché sei una ragazza. Secondo… be’, perché spero tu non sia mai rimasta per una notte intera sotto i cadaveri dei tuoi compagni per fingerti morta agli occhi di coloro che avrebbero visto volentieri com’eri fatta dentro. Se rimaniamo col sedere su questi rami non potrà succederci niente.” “Non ti addormentare. Non verrò a raccoglierti a terra.” “Ti ho già mandato a fare in culo?” “Non più del dovuto.” Dagger rabbrividì e ricambiò il suo sguardo. “Che c’è, ti sei imbambolato?” Non disse nulla. Si distese sul ramo, rimanendo in perfetto equilibrio con una gamba penzoloni nel vuoto, e chiuse gli occhi. … Seeth. …

“Dag!” Lo chiamò in un sibilo la voce di Kugar. “Svegliati, maledizione!” Dagger si alzò a sedere di scatto e per poco non perse l’equilibrio. Si era addormentato e la notte aveva steso il suo manto oscuro sul mondo. Il volto di Kugar emerse lentamente dal buio, illuminato da una luce sempre più forte. Con un indice sulle labbra gli consigliava di rimanere in silenzio e lui non trovò nulla da obiettare. Presto dal torbido fondo della notte emerse colui, o quella cosa, che si stava facendo strada tra gli alberi tranciando il fitto sottobosco con le lame del suo guanto artigliato. Non si trattava di un gorgor, né di un umano.

“E quello che Ktisis è?” “Un tankar”, rispose lei. “Un razziatore del deserto. Anche loro, qui.” Il folto pelo bagnato dalla pioggia riluceva al fuoco della torcia, dando al gigantesco corpo del tankar un aspetto statuario. Orrore atavico e opprimente incutevano le sue zanne affilate e gli occhi iniettati di sangue, le labbra nere e contratte in un costante ghigno, la bava copiosa, le orbite ossute e la fronte prominente, la criniera che, dalla testa, scendeva lungo la schiena sino all’osso sacro. Le braccia, possenti e muscolose, erano lunghe quanto le gambe tanto da costringere l’essere a camminare curvo a terra. Ogni singola vertebra, malleolo e prominenza ossea spuntava a fior di pelle mentre il resto del corpo sembrava costituito da sole fibre muscolari e tendini. Non c’era un filo di grasso in quell’essere bestiale e ancestrale, in cui ogni cosa sembrava costituita per permettere la sopravvivenza in ambienti estremi. Era una macchina vivente di brutale, selvaggia morte. Dagger si voltò verso Kugar: la luce illuminava il suo volto, come ogni cosa intorno a loro. Se la bestia avesse alzato lo sguardo non avrebbe avuto alcuna difficoltà a vederli ma, per loro fortuna, ò oltre giungendo di fronte alla parete rocciosa. Qui prese a scostare il fango con la zampa, della quale usava solo la parte anteriore, come i cani. Poi si chinò e con l’artiglio dell’indice iniziò a fare dei cerchi a terra, alla ricerca di qualcosa che sembrò aver trovato quando grugnì compiaciuto. Infilò le dita nel terreno, sollevò una botola, e ne sparì al di sotto. Una botola! pensò Dagger, sentendosi di colpo la creatura più stupida del

mondo. “Una cazzo di maledetta botola.” Si voltò a cercare lo sguardo beffardo di Kugar, che doveva sentirsi stupida quanto lui.

Ma una folata di vento gelido e carico di pioggia lo fece sentire ancor più solo di quanto già fosse: Kugar era scomparsa. Si guardò intorno, convinto che fosse scesa giù sulle tracce della bestia, e la chiamò, bisbigliando, come per non destare le ombre che lo circondavano. Nella riconquistata oscurità sarebbe stato difficile riconoscerne una reale da una disegnata dalla sola paura, allora sfoderò Redenzione e con quella non temette più nulla. Si calò di ramo in ramo e saltò a terra, facendosi strada con la luce tra le fronde e i rami aguzzi. La chiamò ancora, finché non giunse di fronte alla parete rocciosa. Un tuono scosse il cielo e lei non c’era. Avanzò nella pioggia battente e si chinò a terra. Vide che una trama di foglie e sassi mimetizzava perfettamente la botola, rendendola invisibile con la complicità del fango. La sollevò e si ritrovò di fronte a una buca profonda.

“L’ennesimo salto nel buio”, mormorò. “Speriamo non sia un’altra stiva.” Si guardò ancora intorno, sperando di veder sbucare fuori la sagoma ombrosa di Kugar, poi ebbe paura di tutte le altre ombre che si muovevano nel vento e si voltò in fretta. Troppo in fretta; slittò sul fango e cadde faccia in giù sul ruvido pavimento di pietra. Quando si alzò in ginocchio, di fronte a lui si presentò un lungo tunnel dalle pareti regolari e lineari, come se fosse stato scavato da mani esperte e non dal freddo volere della natura. Scorse il lume lontano della torcia che si faceva sempre più piccolo, poi più nient’altro. Solo una scintilla nel buio, pensò. Da seguire o dalla quale fuggire. Si voltò verso la foresta, nera e minacciosa. Non trovava entusiasmante avventurarsi di nuovo là fuori, da solo. Senza la guida di Kugar non avrebbe impiegato molto tempo a finire nell’abbraccio affettuoso dei gorgor, ma probabilmente anche la luce di fronte a lui portava dritta verso le ombre e, presto, capì che l’unica scelta che gli veniva concessa in quel momento era tra una sinistra luce da seguire e il buio che lo braccava.

Con il pugnale fedele al suo fianco, mosse il primo o verso la luce.

* * * * *

L’oscurità aiutò le paure più remote a tornare in superficie dal fondo della sua coscienza dopo la breve tregua che gli avevano accordato. Tornarono la solitudine e il dolore, tornò l’angoscia di morire affrontata con l’inesperienza di un bambino. Apparvero di fronte a lui gli occhi senza vita di Seeth, lo squarcio sulla gola, le urla di dolore che si levavano dalla stanza delle punizioni nelle lunghe notti insonni al cimitero delle navi. Era un’unica paura con diversi volti: Sannah e Mawson, i gorgor e le guardie drogate; la ricacciò lì da dove era uscita. Non avrebbe perso il controllo, si disse. Se lo ripeté con ancor più convinzione quando la luce che stava seguendo scomparve e si ritrovò all’improvviso nel buio più completo. Fu tentato di afferrare il pugnale per illuminare il suo cammino, poi l’idea gli ò presto di mente; avrebbe manifestato la sua presenza al tankar. Sentì un lento ululato alle proprie spalle e si voltò con la mano già pronta sull’impugnatura. Il destino stava giocando con lui, divertendosi a tormentarlo. Rimase fermo, in ascolto. Aveva lasciato la botola aperta e qualsiasi bestia avrebbe potuto seguirlo lì sotto aspettando, o dopo o, il momento giusto per attaccare. Non certo un gorgor, che non avrebbe perso un istante per aggredirlo, ma forse un altro tankar che si godeva la caccia degustando con calma la sua paura prima del suo sangue.

Al secondo ululato capì di essere stretto tra due fuochi; inseguiva ed era inseguito a sua volta. Questa presa di coscienza alimentò ogni possibile paranoia, come l’alcol con il fuoco. Vide il volto di Sannah proiettato nell’oscurità, blu e morto, il ghigno onnipresente, presto sostituito da occhi rossi e maligni che lo fissavano dal nulla. Si aprì davanti a lui lo squarcio sulla pelle bianca di una gola, sentì le mani sporche di terra mentre scavava e scavava e scavava. Di nuovo l’ululato. Si colpì la fronte più volte, per tornare in sé. Costrinse la mente al silenzio e, sopprimendo ogni pensiero, andò avanti mettendo un piede davanti all’altro perché quello era l’unico modo in cui poteva affrontare quell’enorme guaio: un o alla volta. Il flebile lumicino riapparve e scacciò via i fantasmi dalla sua testa; lentamente continuò ad allontanarsi fino a che smise di riflettersi sulla bassa volta del tunnel per perdersi nel nulla e

iniziare a salire, e salire.

Quali sono i confini di questo buio? Sentì il sussurro di mille gocce d’acqua echeggiare ovunque intorno a lui e capì di essere entrato in una grotta di vaste proporzioni. Si ritrovò in equilibrio su un precipizio e provò un brivido vertiginoso. Chiuse gli occhi e quando li riaprì dal buio dei sensi emerse il profilo irregolare delle stalagmiti e delle stalattiti, delle colate calcaree, dei veli traslucidi scolpiti dal tempo incosciente nelle profondità della terra. Quell’unica torcia non riusciva a illuminare tutto l’ambiente e più si allontanava, più il buio tornava a nascondere ciò che aveva appena svelato. La bestia risaliva un tortuoso costone di calcare che attraversava la grotta da parte a parte, scolpito in una scalinata e in cima alla quale si trovavano alte colonne di sali di calcio, come una foresta di sequoie candide illuminata a giorno. Aspettò che il tankar terminasse la sua scalata prima di seguirlo. Le scale erano ripide e irregolari, scivolose. La paura di cadere nel vuoto lo obbligò a misurare ogni o fino a che, arrivato in cima, vide con piacere che la calda luce di mille torce illuminava il cammino tra le bianche colonne, riflettendosi sulla loro superficie umida. Ascoltò un vocìo confuso e avanzò fino a che fu possibile prima di nascondersi a osservare: il tankar aveva raggiunto un suo simile, seduto a terra davanti a un fuoco. Oltre di loro il tortuoso sentiero tornava a salire verso la sommità della grotta, tuttavia per il momento i due non erano intenzionati ad andare oltre. Si avano di mano un grande otre dal quale, di tanto in tanto, traevano grandi sorsate di un liquido denso e schiumoso. Tra un sorso e l’altro, nel silenzio dove anche il più piccolo suono aveva il suo momento di importanza, li ascoltò parlare in un linguaggio articolato e capì che non dovevano essere semplici bestie irrazionali. Inoltre, riusciva grossomodo a capire quello che dicevano: “Ombre fatto cose veramente in grande”, borbottò quello che aveva seguito fin lì. “Nave distrutta, fatto prigionieri. Tutto molto Bum Bum! Fuoco e sangue ovunque!” L’altro, il più grosso, latrò soddisfatto. “Yay, fuoco e sangue! Visto are umani in catene, terrorizzati. Forse rincoglioniti capito da dove venire gorgor su questo mondo, peccato non vivere abbastanza per raccontare loro simili.” Entrambi risero di gusto, continuando a bere.

Poi il più piccolo si rabbuiò, andosi la lingua sulle labbra nere e le zanne, bianche e lucenti come le colonne di calcare che li circondavano. “Ma questa volta noi rischiare grosso”, disse. “Sì, troppa attenzione su noi e cazzo di aggio. Guardiani non così stupidi.” “Noi e ombre potere contrastare ogni attacco, ormai!” “No che non potere! Non finché ragazzo ancora in loro mani! Meglio stare nascosti e agire nel buio ancora un po’, almeno fino a che lui non in mani nostre.” “Lui non trovato?” “Nay, lui non trovato. Perquisito resti di nave cima a fondo, e tutto mare. Nessuna traccia dello ragazzo. Ombre cercare lui da anni. Ora che sbrigarsi!” Il grosso ringhiò. “Forse sana vecchia tortura tornare utile. Sicuro prigionieri sapere qualcosa!” “A proposito. Io fare te vedere una cosa. Avere sorta di spina nel culo da un po’ di tempo, che mi segue da quando io sceso in tunnel. E che pensa me così stupido da non sentire lui e sua puzza di cadavere lasciato al sole per giorni.” Si alzò in piedi e si voltò, ghignando con i canini aguzzi mentre guardava esattamente lì dove Dagger era nascosto. “Tu venire fuori ora!” latrò. “So tu essere lì, cosa credere? Pensi me non accorto? Tu venire fuori e io uccidere te in fretta. Tu fa me venire sin lì, e io divertire con te un poco di più!” Santa merda! “Con chi tu parlare?” “Qualcuno seguito me fin qui.” Il piccolo annusò l’aria. “Yay! Suo odore arrivare fino Adramelech.” Il grosso si alzò di scatto. “E tu lasciato te seguire fin qui? Stupido, questo grave gravissimo! aggio non più segreto!” L’altro ringhiò e calzò il guanto dai lunghi artigli di metallo. Anche il grosso indossò il suo, pronto allo scontro. A quanto pareva ne indossavano solo uno, sulla mano destra, tenendo l’altra libera per agguantare meglio il collo delle loro

vittime. Le lame del guanto erano affilate, rilucevano minacciose alla luce del fuoco ed erano maledettamente lunghe. Sicuramente più lunghe di Redenzione. Con le fiamme alle spalle le due belve mossero un o avanti, ma Dagger sbucò da dietro la colonna con la lama lucente già puntata contro di loro. “Non un o oltre!” disse, cercando di sembrare più determinato di quanto le sue gambe tremanti indicassero. I due si fermarono e si guardarono negli occhi. “Uno ragazzo?” “Sì, tenero ragazzo da sbranare crudo.” “Tu fatto seguire te da uno ragazzo?” “Avanti, guarda come lui vestito! Essere uno di loro, uno Guardiano!” “Lui solo novizio, non essere neanche… avanti, tu guarda come tiene suo pugnale!” A quella, il piccolo chinò la testa di lato come ragionando. “Uno momento!” “Cosa?” “Luce! Luce!” abbaiò. “Pugnale di mayem, brilla! Lui Lo ragazzo! Yay! Lo ragazzo!”

“Fatevi sotto! Ne ho già ammazzati parecchi di cani rognosi come voi!” I due si guardarono di nuovo negli occhi, stavolta solo per scoppiare a ridere in selvaggi latrati. Dagger approfittò della loro distrazione e partì all’attacco, raccomandando la sua anima a Ktisis e, adesso che c’era, anche a suo padre Skyrgal. Sbucò fuori dalle colonne e infilò il pugnale nel petto di uno dei due, ma questo lo scaraventò di lato con un unico rovescio assestato sul ventre. Dag fece appena in tempo a notare di essere sospeso in volo, prima di sbattere la schiena contro la parete rocciosa e scivolare a terra, piegato in due. Il tankar si ò la mano sulla ferita carbonizzata. Leccò il suo stesso sangue mentre lo guardava dritto negli occhi; sembrava arrabbiato sul serio, adesso.

Dagger si costrinse a ignorare il dolore e a rialzarsi in piedi. “Tu ragazzo molto imprudente”, disse il gigante, puntandolo con l’indice. “Yay, tu molto imprudente e neanche saper usare quel pugnale! Quello molto potente se tu sa come usarlo. Peccato tu non avere più tempo. Ora noi tankar mangiare te lentamente, in culo a ordini ricevuti.” “Tu non fare stronzate!” lo ammonì l’altro. “Non dimenticarti chi lui è!” In tutta risposta il grosso si voltò con il braccio teso e la testa del compagno rotolò per terra. Dagger scattò verso il fuoco per afferrare un tizzone ardente e agitò le fiamme davanti a sé, sperando che la natura bestiale del suo nemico temesse il fuoco. Sul serio, come penso di cavarmela stavolta?

La bestia ringhiò, muovendo le lame minacciose nell’aria, prima di scattare in tutta velocità con il braccio teso in avanti. Dagger chiuse gli occhi, rassegnato all’ennesima morte. Poi sentì un trambusto infernale e nuovi latrati feroci. Sentendo capì di essere ancora vivo, o almeno ancora parte di quel mondo. Riaprì gli occhi e vide che un tankar dal folto pelo bianco, sbucato dal nulla, aveva azzannato il collo del gigante un istante prima che lo uccidesse. Scattò in piedi, osservando le due bestie che lottavano avvinghiate l’una all’altra in una disperata lotta per la sopravvivenza. Senza porsi troppe domande infilò il legno ardente nell’occhio del nemico, che abbandonò la lotta contro il bianco per sfilarsi il tizzone dal cranio. Con il volto ridotto a una contorta maschera di sangue e peli bruciati, questo fu di nuovo in piedi mentre il bianco guaì, il pelo candido macchiato dai fiotti di sangue di una ferita aperta sul fianco. Dagger non si fece trovare impreparato. Schivò la mano inguantata del gigante e gli piantò il pugnale nel mezzo del possente bicipite. Questa volta le scosse elettriche fecero esplodere sotto ai suoi occhi il braccio della bestia, che guaì di dolore mentre tentava di fermare l’emorragia con l’unica mano rimasta. Il bianco accorse nuovamente in suo aiuto, ma il tankar sfigurato e smembrato riuscì a voltarsi in tempo per tracciare quattro linee di sangue sul suo petto, tramortendolo. Quella fu l’ultima cosa che fece, come sembrò capire lui stesso portando la mano al pugnale infilato nella sua gola.

“Muori, bastardo!” Dagger lavorò di pugno per squarciare il collo della belva, aiutato dalla forza vitale del mayem che splendeva come non mai. Gli staccò l’intera testa facendo leva sulle vertebre cervicali. Ancora scosso dalla vita empia che di colpo lo aveva abbandonato, il tankar gigante sembrò alzare gli artigli contro di lui. Infine il collo mozzato donò il suo ultimo schizzo di sangue alla terra, abbandonando il corpo alla meritata morte. Dagger si inginocchiò nel sangue, ansimando. Guardò il pugnale, domandandosi per quale motivo solo ora dimostrava tutta quella potenza. Poi vide che anche l’impugnatura era sporca di sangue. Il suo sangue. Questo venne rapidamente assorbito, o bevuto, dal metallo maledetto, e capì che i Guardiani non gli avevano raccontato tutta la verità. Adesso poteva sentire quella lama come se fosse stata la sua mano; era diventata parte di lui, la continuazione naturale del suo braccio. La sensazione ò solo quando la lama scivolò dentro il fodero, diventando nuovamente silente e inutilizzabile.

Si voltò verso il tankar dal folto pelo bianco e per la sorpresa indietreggiò. A terra non si trovava più la bestia che lo aveva salvato: con quattro linee insanguinate che le attraversavano il ventre, a terra, giaceva il corpo inanimato di Kugar.

* * * * *

Strofinò le dita per staccare la patina di sangue coagulato che le ricopriva e, quando la lasciò cadere tra le fiamme, fu investito dal suo odore acido e disgustoso. Osservò Redenzione, silente al suo fianco. Donandogli quell’arma maledetta Marduk aveva fatto per lui più di quanto chiunque altro avesse mai fatto. Persino Kugar, in un modo o nell’altro, o meglio in una forma o nell’altra, aveva rischiato di morire per la sua salvezza. I Guardiani non si fidavano di lui, non più di quanto lui si fidasse di loro, eppure stavano morendo per lui. Chi può volerti bene più di me, che ti ho voluto e creato?

Sfilò la lama, rigirandosela tra le mani e osservandola. “Io”, rispose alla voce nella sua testa. “Io mi voglio bene, più di chi mi ha creato.” Kugar si mosse nel sonno ed emise un gemito di sofferenza. “No!” urlò alzandosi di scatto. Si guardò intorno, cercando di capire dove si trovava. Vide le sue ferite, poi si voltò verso il cadavere decapitato del tankar. “C’è stato uno scontro”, la informò, rinfoderando il pugnale. “Abbiamo avuto la meglio.” “Sembra di sì.” Guardandosi addosso, la ragazza comprese di essere nuda. Dagger arrossì e distolse lo sguardo. “Che c’è? Non hai mai visto una ragazza così com’è fatta?” “Falla finita!” Lei sorrise. “Bel dio verginello che mi sono trovata”, disse. “Non oso pensare a cosa hai fatto mentre ero svenuta e nessuno ti guardava.” “Ti ho solo medicata!” “E con cosa?” Lui non rispose. Lei sgranò gli occhi, portandosi le dita sulle ferite e poi al naso. Fece una smorfia disgustata. “Dag!” “Non ho mai visto una ferita infettarsi in quel modo e non avevo altro!” “Mi hai pisciato addosso!” “No, ti ho solo tamponata con un panno imbevuto di… cioè…” Lei provò a colpirlo con un pugno, lui la schivò e la immobilizzò a terra. Si guardarono negli occhi, prima di scoppiare a ridere. Rimasero così a lungo,

prima di stendersi a terra l’uno di fronte all’altra. “Temo che questa sia la cosa più bella che qualcuno abbia mai fatto per me”, disse Kugar. “Devi tenere veramente a qualcuno per fare una cosa simile.” Dagger si fece serio. “Ehi”, fece lei. “Cosa?” “Non farti venire idee strane. Sarà meglio che trovi qualcosa da mettermi addosso.” Si alzò e andò a rovistare tra i resti umani alla base di una colonna, probabilmente l’ultimo pasto del tankar che stava lì di guardia. Da quella posizione, Dagger poté notare molti dettagli, comprese le lunghe, profonde e vecchie cicatrici sulla schiena della ragazza, come di violente e ripetute frustate. Kugar trovò una tunica tutta strappata e la indossò, nonostante le macchie di sangue incrostate sul tessuto, poi tornò a sedersi davanti al fuoco, accanto a lui, cingendosi le ginocchia con le braccia. “Spettacolo finito, ragazzino.” “Cosa sono quei segni?” “Non lo domandare.” “E almeno cos’è appena successo, puoi dirmelo? Forse per te sarà la cosa più normale del mondo, ma–” “Falla finita!” Lui la accontentò e si limitò a chinare il volto, giocherellando con la falange di un qualche animale. “Non ricordo niente”, riprese Kugar dopo un po’. “Dal momento che sono scappata da te con i peli che crescevano ovunque sulla mia pelle.” Fece una pausa, prima di ringhiare: “Odio. Odio ogni volta che succede!” “E quante volte succede?”

“A volte tutti i giorni, a volte non accade per mesi. Non so mai se da un momento sto per diventare una minaccia per chi mi sta accanto.” “Be’, non ti sei comportata proprio da minaccia. Quando non ti ho più vista ho deciso di seguire quella bestia dentro la caverna. Mi ha scoperto e stava per uccidermi, poi sei arrivata tu. Devi avermi seguito dentro la grotta e mi hai salvato.” “Non l’ho fatto apposta.” “Cosa?” “Salvarti, è stato solo istinto. Probabilmente è come quando i cani mordono gli altri cani prima di attaccare i loro padroni.” “Fa lo stesso. Tu non sei morta annegata quando la nave è naufragata e io non sono stato sbudellato in questo posto. Adesso siamo pari. Anzi, io ti ho anche medicata.” Kugar scrollò le spalle al di sotto dei suoi stracci. “Sei una di loro, vero?” suppose Dagger. “Voglio dire–” “No”, lo interruppe, facendosi seria. “Non sono una di loro, anche se in me scorre il loro sangue. Mia madre era un Guardiano, mio padre un tankar.” Abbassò lo sguardo verso la testa mozzata della bestia. “Gli uomini-lupo che popolano il deserto di Candehel-mas, diventati alleati, o pedine, dei gorgor, il loro braccio armato. Individui veramente deliziosi, come avrai visto.” “E suppongo che io sono l’unico a sapere della tua vera natura.” “Tu che dici? Quanto ci metterebbero i Guardiani a bandirmi per sempre oltre le mura di Golconda se conoscessero la mia vera natura? Non ci penserebbero due volte e farebbero bene, dannazione. Anche io lo farei con me stessa!” La sua voce si era caricata di rabbia verso la fine. “Sai mantenere un segreto senza che ti uccida?”

“Basta tenerlo dalla parte giusta della bocca”, rispose lui. “In fondo te lo devo.

Se non fossi intervenuta per me sarebbe finita molto male. Non oso pensare a dove sarei risorto questa volta.” “Non penso di essere stata la sola a rischiare la propria vita per te, considerata la spensieratezza con cui ti butti tra le braccia della morte. Seguire un tankar nella sua tana… bisogna essere proprio delle teste di cazzo per farlo. Forse tu non puoi morire, però chi ti sta intorno sì!” Quella frase gli era scivolata dentro il cuore come una lama arroventata, ma Dagger si curò di non darlo a vedere, come sempre. Lo sguardo morente di Seeth gli riempì tutta la mente. Seeth che dormiva il suo sonno eterno sul letto che le aveva scavato a mani nude. “Dovresti imparare a difenderti da solo.” “È molto potente.” “Cosa?” Dagger alzò lo sguardo. “Redenzione. Il mio pugnale gli ha fatto scoppiare il braccio, guarda!” Kugar ghignò, voltandosi verso il cadavere smembrato del tankar. “È davvero un’arma straordinaria, non solo per il materiale di cui è fatta. Temo che ci sia molto di più.” “Cosa intendi?” “Supposizioni. Tu e quell’arma sembrate legati in maniera indissolubile, lo avrai notato. Uccide solo nelle tue mani, è come se ti ubbidisse. Se bagnata del tuo sangue, diventa ancora più potente.” “Io non ti ho mai detto che era bagnata del mio sangue.” Kugar si gelò. “Ho letto qualche libro di troppo”, rispose poi. “Alcuni dei quali non ero neanche autorizzata a leggere. Non ce ne sono molti che parlano delle armi Viventi.” “Armi Viventi?”

“È il mayem, è quel metallo maledetto che le rende vive, ma non saprei dirti altro. Esiste un solo libro che tratta a fondo di loro, della loro creazione e del loro utilizzo, tuttavia nessuno sa più dove sia custodito. Moak lo cerca da anni. Ti dirò che siamo giunti su questo mondo anche per dare un’occhiata e vedere che non si trovasse qui. Buffo.” Dagger scosse la testa. “Ce l’hai proprio la faccia di un topo da biblioteca.” “E tu hai una faccia da stronzo! Adesso abbiamo ben altro a cui pensare che non a quel coltellaccio.” “E cosa dovremmo fare?” “Rispetta le tue convinzioni e arriva sino in fondo. Non eri tu quello che voleva scoprire da dove sbucano fuori? Be’, adesso lo devi fare per forza.” “Non ti sei ancora ripresa!” “Il mio corpo si rigenera in fretta quasi quanto il tuo.” In tutta risposta, Dagger poggiò un dito contro le sue ferite e Kugar saltò dal dolore. “Be’, quasi”, si corresse, stringendo i denti. Spostò lo sguardo sulle fiamme e, come se stesse parlando tra sé e sé, aggiunse: “Né tankar, né umana. Io sono solo una via di mezzo.” “Se tua madre era un Guardiano allora il suo stesso sangue scorre nelle tue vene. Il tuo sangue tankar non è una condanna, ma può essere un’arma in più, come oggi.” Kugar ascoltò in silenzio, poi annuì e rispose: “È la più grande stronzata che abbia mai sentito. E se per caso te lo stai domandando, la risposta è no, noi due non abbiamo proprio niente in comune. Tu sei un abominio, io faccio comunque parte di questo mondo. Grazie ad Angra!” “Cercavo solo di dire qualcosa, non c’è bisogno di essere così stronza.” “Apprezzo lo sforzo. Però ognuno ha i suoi mostri da combattere e solo alcuni fanno veramente paura. Ti dirò che preferisco i miei.”

Dagger scosse la testa. “Parlare non è stata una buona idea. Parlare non è mai una buona idea. Dobbiamo metterci in marcia se vogliamo recuperare il tempo perso.” “Mi serve un’arma.” Kugar si avvicinò al cadavere del tankar decapitato. Sfilò il guanto artigliato dalla sua mano e lo indossò, muovendo le dita alla luce del fuoco. “Devo dire che apprezzo molti aspetti della loro cultura.” Sorrise compiaciuta prima di voltarsi verso di lui. “In marcia!”

* * * * *

Quando tornarono a risalire la tortuosa scalinata che portava verso la sommità della grotta, la rassicurante luce del fuoco li abbandonò in fretta. Dagger illuminò il cammino usando Redenzione, anche se la luce li rendeva prede sin troppo facili. Kugar non disse nulla; lo seguì in silenzio, ogni suo senso allertato come in attesa di una sorpresa che già sapeva sarebbe stata spiacevole.

“Se le ombre non ci stanno venendo incontro è solo perché ci stanno aspettando”, disse. Lui rinfoderò il pugnale e, quando la sua vista si adattò, capì che il buio non era più completo. Adesso poteva persino vedere la grande volta, bianca e rossa, con numerose spaccature dalle quali filtrava l’acqua cristallina. Scivolando lungo le stalattiti, l’acqua cadeva infrangendosi sulle lontane stalagmiti, diminuendo la lontananza a ogni goccia fino a che, quando quel tiranno che era il tempo fosse stato sconfitto, i due freddi amanti si sarebbero infine ricongiunti. Dagger si voltò verso Kugar e si accorse di poter vedere i suoi lucenti occhi azzurri. Io e te siamo legati per sempre. Quello che accade a te, un po’ accade anche a me, si ritrovò a pensare, cieco alle sue stesse emozioni.

La luce proveniva da qualche parte davanti a loro. Continuando a salire e salire,

scivolando spesso sugli scalini umidi e rischiando di precipitare verso la rovina, giunsero al principio di un nuovo tunnel. Dagger guardò in giù; era impossibile vedere quanto fosse profondo il nulla ai loro piedi. Afferrò un frammento di pietra calcarea e lo lanciò. Non udì nulla e stava per tornare sui suoi i, quando Kugar lo afferrò per un braccio, tendendo l’orecchio per setacciare l’apparente silenzio. “Hai sentito?” “Cosa?” “Spade! Qualcuno sta combattendo.” Si guardarono un ultimo momento, prima di iniziare a correre nella semioscurità. Sbucarono in una nuova grotta, le cui alte pareti blu si innalzavano verso una lontana spaccatura nella volta, dalla quale penetrava l’eterea luce dell’alba. Si fermarono a guardare estasiati la luce del sole, come uno spettacolo che non ammirassero da tempo. Il raggio cadeva dall’alto e si allargava in un ampio cono, formando un cerchio di luce poco prima di un precipizio. Kugar lo invitò a guardare proprio lì: videro Olem infilare la punta di una spada nel collo di un tankar, lasciandolo in vita per il solo tempo necessario a urlargli in faccia: “Sì, stai morendo! Stai morendo, bastardo, e sono io che ti sto uccidendo! Va’ e di’ agli Oltredei che sei tu la mia Redenzione. Gliene manderò molti altri prima di raggiungerli!”

Rigirò la lama affinché soffrisse ancora, poi la sfilò per decapitarlo con un unico fendente. La testa del tankar rotolò a terra fino ai piedi di Moak, inginocchiato con le mani strette intorno al collo di un gorgor. Intorno a loro c’erano le catene spezzate, i corpi smembrati e le teste spaccate degli altri undici gorgor, un tankar e un Guardiano. “Tre contro tredici. Stiamo diventando bravini”, disse Moak, lasciando andare il corpo senza vita dell’ombra e infilandogli una lama nella testa. Olem gettò a terra la spada e si voltò verso il Guardiano morto, steso a terra. Nessuna emozione trasparì dal suo volto. Si chinò su di lui e gli ò una mano sugli occhi, chiudendoli per sempre. “Riposa in pace, fratello di sangue”, sussurrò, muovendo le labbra in un silenzioso commiato.

Allora ha anche lui un barlume di umanità, pensò Dagger. Il Dracone si rialzò. Scostò con un calcio le cianfrusaglie dei gorgor e recuperò il suo spadone, che le ombre dovevano aver portato con sé reputandolo di un qualche valore. Accarezzò la lama, come se stesse sfiorando il volto di sua figlia, e disse: “Scusami, prometto che non ti toccheranno più.” “Faremmo meglio a muoverci, Holly”, lo interruppe Moak. “Non chiamarmi così. Solo Aniah poteva chiamarmi così!” “Ktisis.” Moak si portò una mano alla spalla, osservandola coperta di sangue. “Ho proprio bisogno di una vacanza.” Il Dracone si guardò nervosamente intorno. Solo allora notò le loro minute figure che li osservavano nascoste nell’oscurità e d’istinto gli puntò contro la spada da poco riconquistata. “Venite avanti, ce n’è per tutti!” “Frena!” urlarono Dagger e Kugar all’unisono. Olem li guardò avanzare all’interno del cerchio di luce, assumendo un’espressione indecifrabile sul volto. In quel momento sarebbe potuto essere felice e incazzato, sollevato o scioccato nel rivederli. Abbassò la punta della spada e si voltò verso Moak. “Guarda guarda cosa ha portato dentro il gatto.” Moak scosse la testa. Non sembrava affatto felice di rivederli: “Che ci fate qui? In questo momento dovreste essere in marcia per raggiungere il portale, non nella tana del lupo!” “La foresta brulica di gorgor, maestro”, rispose Kugar. “Lo avrebbero odorato prima dell’alba.”

Olem annuì comprensivo. Poi mosse il braccio in un lampo e la prese per il collo, sollevandola da terra. “E quindi hai pensato saggiamente di portarlo qui!” sbraitò. “Senza neanche dargli la noia di doverlo braccare. Un piano perfetto!” “Non… potevamo… fare altro!” La ragazza si aggrappò all’enorme avambraccio del Dracone per non rimanere soffocata.

“Lasciala, stronzo!” intimò Dagger. “Tu, lo sai quanto sei importante?” fece Olem, rivolto a lui mentre ancora guardava Kugar. “Pensi che sia tutto un gioco? Pensi che–” “Lasciala.” Stavolta era stato Moak a parlare. Lo gelò con il solo sguardo e il Dracone lasciò la presa. Kugar cadde a terra, portandosi le mani al collo e respirando a fatica. “Volevi ammazzarmi?” “Se lo avessi voluto, non saresti qui a domandarlo.” Dagger guardò fisso Olem, poggiando una mano sulla spalla di Kugar. “Non sarò al sicuro neanche alla Fortezza, non avrei tutta questa fretta di arrivarci se fossi in te. Il nemico è di fronte a noi così come alle nostre spalle, quindi dovremo ancora lottare sia che andiamo avanti che indietro. Ma adesso abbiamo la possibilità di vedere cosa c’è in fondo a tutto questo. Dobbiamo sapere contro chi stiamo combattendo.” “Non ha tutti i torti”, disse Moak. Il Dracone si voltò verso di lui. “Sei impazzito anche tu, adesso?” “Vedere cosa si nasconde alla fine di questo sistema di grotte è l’unica cosa buona che possiamo tirare fuori da questa faccenda, prima di farci ammazzare tutti”, continuò il Guardiano. “E lo sai anche tu. Tu non sei uno scemo, Olem.” “Sono io il Dracone qui dentro! Io prendo le decisioni, non un qualunque Guardiano del Veleno cresciuto dalle lucertole!”

L’eco si disperse sotto l’alta volta. Moak lo guardò negli occhi, a lungo, imibile; qualcosa di orribile sarebbe stato detto o fatto se uno dei due non avesse fatto subito marcia indietro. Dagger capì che una lunga amicizia legava i due Guardiani da molto tempo, quando udì Olem pronunciare parole che non sembravano fatte per la sua bocca: “Perdonami, amico. È solo che non mi sembra una buona idea.”

“No, non è buona”, rispose Moak. “Ma è pur sempre un’idea ed è l’unica che abbiamo. Fidati di lui, così come un giorno ti sei fidato di sua madre.” L’altro non rispose. Mia madre, pensò Dagger. Olem era legato a lui per via di quella figura ombrosa e avvolta dalla nebbia dell’oblio che lo aveva dato alla luce. “Raccogliete tutto quello di cui potreste aver bisogno. Forse non torneremo in questo posto. Non vivi, almeno.” Dag avanzò tra i cadaveri, mentre la suola del suo stivale destro, ricoperto dalla patina oleosa del sangue dei gorgor, si attaccava e staccava dal pavimento producendo un rumore appiccicoso. “Come avete fatto a farli fuori?” “Ci hanno dato le spalle”, rispose semplicemente Moak. “Penso siano stati distratti dal tuo odore. Quando si sono voltati tutti insieme, per loro era già troppo tardi.” Kugar raccolse la spada del Guardiano morto, preferendola al guanto dei tankar. I loro sguardi si incrociarono per un momento, poi Olem avanzò sul ciglio del precipizio, in cima al quale si trovavano, e tutti lo osservarono stagliato contro il buio. “Cosa c’è, oltre?” Olem non rispose subito, poi disse: “Venitelo a vedere da voi.” Dagger lo affiancò e guardò giù, solo per ritrarsi di scatto. Serrò i pugni per sconfiggere le vertigini mentre si sporgeva ancora per guardare: un burrone, immenso, si presentò davanti a lui. Il suo insolito aspetto suggeriva che non fosse stato aperto dalla mano della natura, almeno non la stessa che aveva generato il resto del mondo; aveva la forma conica di un vortice, come se un buco aperto nelle viscere della terra avesse risucchiato la roccia. Sul fondo c’era una luce rossa e lugubre, troppo lontana per capire da cosa fosse generata. Una lunga, infinita scala era stata scolpita su un braccio della spirale e portava giù verso di essa.

“Verso la luce alla fine del mondo”, sussurrò. La luce in fondo al tunnel non aveva mai nascosto nulla di buono da quando quella storia era cominciata, e capì che anche quella non avrebbe fatto eccezione. Olem stese un braccio per fermarlo, ma lui lo scansò, iniziando a discendere. Tutti lo seguirono. Scesero e scesero, girando intorno al baratro, giù per il vortice, fino a che non persero il senso dello spazio e del tempo, girando e girando. Non parlarono, camminarono solamente, e Dagger provò un senso di sollievo sempre maggiore mentre si avvicinava alla fine del mondo. Le sue paure furono sciolte, allentato il tedio della fame e della fatica. Si sentì liberato da un peso gravoso del quale solo ora, di fronte all’estremo richiamo del nulla, si accorgeva dell’esistenza. Discesero sino in fondo, fino all’ultimo scalino prima del vuoto; un altro o e sarebbero stati inghiottiti dalla luce, o dal buio dentro di questa, perché solo da così vicino Dagger poté vedere che il centro esatto della luce era un occhio di pura oscurità fatta sostanza. “E questa che puttanata è?” Olem sbatté un pugno contro la parete rocciosa, staccandone un pezzo. “La fine dei Guardiani. La fine del nostro mondo e del nostro compito. Di tutto!” “La luce che nasce dal buio”, aggiunse Moak. “La materia generata dal nulla. Questo è un portale, Dag. Una frattura nel Tutto, il punto di rottura nell’eterno equilibrio del creato.” “Un secondo portale”, precisò Kugar. “Aperto dai gorgor e sul quale noi non abbiamo alcun controllo. Ecco come facevano a giungere qui. Questo mondo non è più il nostro giardino segreto.”

“E dove porta?” Moak annuì. “Esiste solo un modo per scoprirlo.” Non disse altro e mosse un o nel vuoto, come tuffandosi in uno specchio d’acqua di luce e inconsistente buio. Preso in contropiede Olem lo raggiunse subito dopo, seguito da Kugar. Dagger guardò il portale un’ultima volta, lontano ai suoi piedi, prima di lasciarsi

cadere in avanti. Si sentì sballottato da forze di gravità opposte e violente, inghiottito da un gelido buio e infine sputato dalla luce. Si ritrovò a rotolare per terra in un ambiente dove l’aria era calda e afosa ed era difficile persino respirare. Cercò di alzarsi ma incespicò, cadendo in ginocchio mentre il mondo continuava a girare e girare. La forte luce gli impediva di aprire gli occhi. “Dove siete? Dove sono?” “È finita!” lo rassicurò da qualche parte la voce di Olem. “Per Skyrgal maledetto, prendetelo!” Kugar lo aiutò a mettersi in piedi e Dagger si aggrappò alle sue braccia. Dischiuse gli occhi in uno spiraglio e vide, alle spalle di lei, il vortice lucente dal quale erano sbucati, perpendicolare al pavimento come un sole sceso in terra. Il solo vederlo girare e girare gli dava la nausea. Faceva caldo, molto caldo, e si sentiva soffocare. Aprendo gli occhi una volta per tutte capì di trovarsi in un ambiente totalmente diverso da quello che si erano appena lasciati alle spalle. Due file di mastodontiche colonne di pietra arenaria si stendevano davanti a loro, fin dove non era possibile vedere, e sorreggevano un soffitto talmente alto da nascondersi nella propria oscurità. Piccole gocce d’acqua cadevano contro il suo volto, perché quel luogo, sebbene chiuso, era tanto vasto da avere le sue precipitazioni. Non era stato costruito da esseri mortali, pensò, o almeno non per esseri mortali. Quando vide che alcune delle colonne erano scolpite a raffigurare statue di creature antropomorfe, delle quali non poteva vedere la testa tanto si trovava in alto, provò l’inquietudine di un uomo al cospetto degli Oltredei. Quando notò il simbolo sul petto delle statue, all’inquietudine subentrò la paura; era lo stesso posto al centro del suo sterno.

∞

“Io sono già stato qui dentro”, disse, sottovoce. “L’odore di questo luogo, di questa pietra, è inciso nella mia memoria.” “Temo di sì”, rispose Kugar. “Tu sai dove ci troviamo, vero?”

“Andiamo”, ordinò Olem e tutti lo seguirono. Si inoltrarono fra le colonne, camminando sotto lo sguardo celato delle antiche divinità che vi erano scolpite. “Sì. Io sono già stato qui dentro.” “Qui è dove sei stato creato, Dag”, sussurrò Kugar, per non farsi sentire dai due Guardiani. “Questo tempio è casa tua.” Dagger chinò il volto, stringendo gli occhi per scacciare i frammenti di memoria che cercavano di farsi strada verso la superficie della sua coscienza, ricordi che sapevano di sabbia, urla di dolore e morte. Più avanti una delle statue aveva perso metà della testa, caduta in frantumi a terra, e come emergendo dal pavimento un occhio gigantesco sembrava guardare proprio lui, dandogli il bentornato. Il semplice respirare gli risultava ancora difficile e si voltava in continuazione, ascoltando voci che lo chiamavano in una lingua che un tempo, ne era certo, aveva conosciuto. Sentiva il suo nome, il suo altro nome, Konkra, echeggiare tra le colonne e le statue e piombargli addosso dall’alto, da quel soffitto invisibile. È successo qualcosa qui. Qualcosa di orribile.

Il monumentale occhio di pietra impediva di proseguire, quindi svoltarono a sinistra. La luce del portale, l’unica presente nel tempio, adesso giungeva a stento, ma era ancora abbastanza forte da permettergli di vedere. Le statue digradavano a perdita d’occhio, facendosi meno alte e imponenti, tanto che era possibile intravederne anche la testa. Dagger si accorse che il loro aspetto gli era familiare. “Lui! Allora esiste per davvero?” “Chi?” “Ktisis!” A udire quel nome, Olem si voltò di scatto però non disse nulla. Le statue ritraevano l’immondo dio sciacallo della violenza e del peccato che aveva venerato sin da quando era bambino: Ktisis. Eppure era raffigurato in maniera diversa. Non sgozzava il maiale sacro per inondare la terra di sangue fecondo,

non teneva tra le mani le due metà di un uomo per nutrirsi dei suoi intestini, come nuovo potere che nasce dalla putrida morte. Le statue raffiguravano il dio seduto, con la mano sinistra poggiata pacifica sulla gamba e la destra contratta in un pugno autoritario. Nella sua divina compostezza, teneva lo sguardo dritto davanti a sé. “Così è accaduto”, recitò Moak. “Chiudete gli occhi e dimenticatevi di voi stessi, fate un o fuori dal corpo e lasciate andare la mente, mentre impazzite.”

“Risparmiaci questa diavoleria da lucertola, dannazione”, mormorò Olem. “Ho già la pelle d’oca solo a trovarmi qui.” “Il tempio di Ktisis è tornato alla luce”, continuò Moak. “Con tutto ciò che contiene. Inutile domandarsi chi lo custodisce, ora.” Dagger rallentò il o, affaticato. Osservò i due Guardiani confabulare sommessamente tra di loro senza poter ascoltare quello che dicevano. L’eco dei loro i si perdeva nel nulla, mentre le divinità di arenaria lo osservavano attente. “Chi è veramente?” domandò sottovoce, afferrando Kugar per un braccio. “Non penso che sia solo il dio dell’alcool.” La ragazza alzò il volto a guardare il buio sopra le loro teste. “Ktisis è il padre di tutti gli dèi. Il padre di Skyrgal, di Angra e di tutti i loro divini fratelli. In qualche modo fa parte del tuo albero genealogico, ci crederesti?” “E dove si trova? È qui, in questo posto?” Kugar scosse la testa. “Come fai a dire di no? Lui è qui, io lo sento!” “Che ti sta succedendo?” “Non lo so. Non sono più io, non qui dentro. Sono già stato qui!” “Ktisis non dà più segni della sua presenza già da prima che noi umani

fimo la nostra comparsa sul mondo”, rispose lei. “Se fosse ancora qui ce ne saremmo accorti, te l’assicuro.” “Chi era veramente?” “Questa storia non ti–” Lui la interruppe stringendole il braccio e lei lo scostò, timorosa. “Ma che cazzo hai?” “Kugar…” “Ktisis è il motore primo dell’universo”, rispose, massaggiandosi il polso e guardandolo con diffidenza. “Colui che lo ha creato e popolato dei suoi figli divini. I burzum, come tuo padre, e i mastodon, come il nostro dio Angra. Nei primi incarnò il caos e la distruzione, necessari all’eterno rigenerarsi dell’universo. Nei mastodon incarnò l’equilibrio di tutto ciò che esiste.” “Il bene e il male?” Kugar ghignò, scuotendo la testa. “È facile per noi identificare nei burzum il male e nei mastodon il bene, tuttavia è sbagliato e riduttivo. L’armonia suona le note del caos e il caos rimpiange l’armonia perduta. In loro Ktisis volle incarnare le due forze che regolano l’universo, la Distruzione e la Creazione. Non puoi avere l’una senza l’altra, è un eterno ciclo dove solo dalla morte nasce la vita. Skyrgal e Angra sono i soli sopravvissuti delle due progenie divine e in loro giace l’essenza stessa dell’equilibrio, i suoi due poli opposti. Nel grande Tutto non esiste il bene e il male così come non esistono il giorno e la notte, il prima e il dopo. I contrasti, la morale e l’etica sono inutili coordinate con le quali l’uomo si illude di poter organizzare il creato, una sua esigenza logica, ma Ktisis lo ha reso incomprensibile ai nostri occhi, privo di morale nella sua insaziabile potenza distruttiva e generatrice. La verità ci è nascosta, sempre, e più le corriamo incontro più questa si allontana da noi come una luce nel deserto.” Kugar si guardò intorno, affascinata più che impaurita da ciò che vedeva. “Avrai capito che attraversando il portale hai messo piede su un altro mondo, il mondo al quale appartieni, Candehel-mas. Questa terra viene chiamata santa perché qui si sono consumati tutti i fatti narrati nella Genesi. Qui l’anima di Skyrgal è stata estirpata dal suo corpo, qui lui e Angra si sono scontrati. Qui, su questo mondo lordato di sangue per il quale tutti combattiamo.” Alzò gli occhi a guardare un

solenne, titanico volto di sciacallo scorrere sopra di loro. “Ci sono incubi che non vengono dimenticati del tutto, e questo è uno. Ktisis ha lasciato strascichi indelebili nella storia prima di sparire nel nulla, atroci testimonianze del suo antico potere. Alcune di queste non dovevano essere ritrovate, alcune conoscenze non dovevano tornare alla luce. Soprattutto, non nelle mani sbagliate.” Indicò una strana pittura violacea sulla parete alla loro destra. Dagger vide che ce n’erano molte altre, ovunque, persino sul pavimento e sulle statue. Non erano pitture, capì presto, quanto lettere di un alfabeto incomprensibile tracciate in lunghi schizzi di sangue. “Il sangue delle forze vissute attraverso l’eternità”, spiegò Kugar andoci sopra la mano, meravigliata. “Sangue vecchio di milioni di anni, che il tempo non riuscirà mai a lavare via, versato dai figli che Ktisis ha sacrificato per giungere al potere ultimo. L’abbandono assoluto al grande silenzio. La fine di ogni cosa che esiste.” Andò avanti e si fermò poco oltre, raggiungendo Moak e Olem, fermi a esaminare a loro volta le immense, dissacrate scritture sulla vasta parete che avevano di fronte. Le scritte calavano su di loro dall’alto, come nascendo dalla semioscurità; simboli rossi e acuminati, lame affilate e sporche di sangue, parole assassine intinte di violenza. “Lui deve essere impazzito”, sussurrò Kugar. “Può un dio impazzire?” “Cosa c’è scritto su questa parete?” domandò Olem. “Sembra meglio conservata delle altre.” “Io ho paura di saperlo”, rispose Moak. “Paura che i gorgor possano ora tradurre queste scritte senza alcun disturbo, mentre noi ce ne stiamo ancora rinchiusi nella nostra ignoranza ad aspettare l’inevitabile.” Kugar sbuffò. “Se sono riusciti ad aprire un nuovo portale, sono già molto avanti nella loro opera di traduzione.” “Riuscite a tradurle?” domandò ancora il Dracone. “Avete studiato ovunque nel mondo, dovete essere in grado di cavarne qualcosa!” Moak si concentrò. “Solo in un luogo ho potuto studiare il loro alfabeto, o per lo meno partecipare alla sua traduzione, prima di accorgermi che non era un vero e

proprio alfabeto. Questo è il linguaggio degli dèi, funziona diversamente dal nostro. Vedete i simboli dentro le lettere? Ognuno di quelli dà un significato totalmente diverso alla parola, e le lettere sono tutte legate le une alle altre, come gli infrangibili anelli di una catena. È un linguaggio perfetto.”

Dagger rabbrividì. Guardando meglio si accorse che quelli erano gli stessi simboli che aveva visto incisi sulla propria pelle, quando era morto e si era ritrovato al cospetto di suo padre. “Vediamo un po’…” continuò il Guardiano. “Non riesco a leggere lassù, però questo davanti a noi sembra una sorta di avvertimento.” “Avvertimento?” “Sì. Dice Se vuoi sconfiggere la morte, devi solo… ah, dannazione! L’ultima parte è cancellata.” “Sei veramente un pessimo traduttore.” “Guarda poco sopra, invece. Lui verrà e sarà come se niente sia mai esistito, eppure grazie ai simboli dentro le lettere assume un significato come La vita eterna che verrà dal nulla. E più dentro ancora, L’eternità del nulla assoluto. Sempre più interessante.” “Sono contento che ti stia divertendo.” Poi Moak si rabbuiò. Di colpo. “Cosa c’è?” Il Guardiano si allontanò dal muro, come se le scritte non fossero più fonte di meraviglia, quanto di orrore. “Andiamocene”, disse solo. “Alcune cose non devono essere lette.” “Che cosa–” “Non ci leggo, Olem, non lo so! Non ho imparato nulla!” Riprese a camminare ad andatura serrata.

Seguendolo, giunsero al cospetto di un cranio deforme e imponente, alto ben sopra le loro teste. Questa volta non si trattava di una scultura, capì Dag. Nella penombra intorno a loro, si accorse dei mastodontici scheletri crocifissi sulle colonne del tempio. I teschi dalle quattro corna deformi lo osservavano con le orbite nere, sorridendo con le zanne affilate. “Skyrgal?” suppose. “No”, rispose Kugar. “Questi sono i suoi fratelli, o quello che ne rimane. Torturati e sacrificati da Ktisis per ricavarne il sangue da utilizzare nei suoi riti.” Sull’alta volta oscura intravide altri scheletri inchiodati, ma questi avevano le ali. “E quelli sono i mastodon, vero?” Kugar stavolta annuì. “I divini fratelli di Angra, uccisi sotto i suoi stessi occhi.” “Non possiamo girargli intorno?” fece Olem, rivolto a Moak. “Dobbiamo proprio entrarci dentro?” Il Guardiano osservò il cranio di fronte a loro, una fortezza di ossa. “Temo di sì”, disse solo, muovendo il primo o nella bocca spalancata del burzum.

Sprofondarono nell’oscurità delle sue fauci, ogni dente alto come una colonna, il palato una grottesca volta bianca. arono per il forame della testa, oltreando le due corna che si piantavano a terra come il colossale arco di trionfo della morte, poi attraversarono il porticato delle costole, uscendo dal bacino, in parte crollato come il rudere di un vecchio palazzo.

“Mangiati e cagati da un dio”, considerò Olem. “Ecco qualcosa da raccontare ai propri nipoti. Chissà quante metafore ti stanno facendo venire l’orgasmo adesso, eh lucertola?” Moak non rispose, era troppo nervoso. Si ritrovarono ancora una volta nel colonnato del tempio, addobbato dagli scheletri dei burzum, mentre i mastodon vegliavano dall’alto sul loro cammino.

“Ktisis maledetto”, si lasciò sfuggire Olem; lontano di fronte a loro il colonnato terminava in una colossale arcata, sorretta dagli scheletri di un burzum a destra e un mastodon a sinistra. Oltre videro un solo titanico piede di pietra e, a giudicare dalla sua grandezza, Dagger pensò: La testa della statua deve trovarsi talmente in alto da non essere neanche visibile. Olem fece loro segno di fermarsi. Subito sfoderò la spada e rimase in ascolto. Kugar annusò l’aria. “Odore di guai.” Si nascosero in fretta dietro una delle vertebre sparse alla base del colonnato, poco prima di udire i i di due creature. Presto giunse una voce: “Yay, stupidi gorgor dover esser arrivati da tempo! Loro perso orientamento, tu aspetta e vede!” “E se loro morti?”

“Morti? No, chi potere loro uccidere su mondo Oltre? Ombre non orientarsi sotto terra, questo è problema. Io domanda me come avere fatto padrone a dare fiducia loro e non noi!” “Gorgor stupidi. Creature stupide più servili e manovrabili. Padrone sapere questo, noi troppo furbi e poco gestibili. Ma tempi migliori arrivare, amico, tu aspetta e vede.” Nel silenzio che seguì Dagger cercò di fare a meno di respirare, tuttavia ebbe la sensazione che il suo cuore battesse tanto forte da attirare l’attenzione delle bestie. “Quanto aspettare noi ancora?” “Tempi migliori?” “No, imbecille, gorgor e loro notizie!” mugugnò l’altro. “Io volere sapere quanto noi dover ancora attendere prima di mettere questo mondo ferro e fuoco BUM BUM. Quello ragazzo non poter nascondere se stesso per sempre. Io volere umani, amputare loro tenere membra. Io guardare in loro occhi mentre lentamente potare loro come alberi.”

“Yay! Umani poca sopportazione di dolore, loro urlare sempre, vero? E il suono di loro ossa tranciate da colpo d’ascia? Trak! Cosa esistere di meglio?” “Ombre sicuramente fermati in grotte su mondo oltre, stupide creature senza sangue, a mangiare disgustose carni viola di loro uccelli. Ah, padrone, padrone! Troppa fiducia in loro, poca in noi, eppure noi scavato sotto deserto e trovato il buio nella luce, noi trovato grandi conoscenze!” “Questo che io dire!” “Yay! Noi scoperto vecchio dio dimenticato e tutte cose che lui scritto quando impazzito! E noi trionfare infine, tu aspetta e vede!” La loro voce si fece sempre più vicina. Dagger avvicinò la mano al pugnale, tenendosi pronto al peggio, il suo cuore sul punto di scoppiare, ogni pensiero spazzato via nel momento di uccidere così come gli aveva insegnato il vecchio Mamma: non si pensa a nulla quando è il pugnale a parlare; l’istinto di sopraffazione riempie tutta la mente, uccidere è un atto puro. Sentì i i sempre più vicini e si tenne pronto a sbucare dall’oscurità per seminare la morte, ma non appena transitarono di fronte a Olem le teste dei due tankar rotolarono sul pavimento, senza che fosse udito altro suono se non quello della lama che troncava le vertebre. – Trak! – Dagger si ritrovò deluso, fermo con il pugnale in mano. Il Dracone lo guardò con superficialità, rinfoderando la spada sotto i suoi occhi stupiti; se di certo non sapeva sempre ragionare in maniera del tutto lucida, Olem almeno una cosa la sapeva fare, e anche molto bene. È una macchina assassina, non un uomo. “Questi erano due pezzi grossi, guarda come sono vestiti.” Moak si avvicinò ai due tankar. “Avremmo avuto dei problemi se costretti a uno scambio di opinioni.” “Non ti sarai messo a studiare anche come si vestono, in quella cazzo di biblioteca?” Olem non badò ai due corpi e riprese il cammino. “Che io sia castrato se mi faccio mettere paura da due dei loro capi clan, tribù, o qualsiasi cazzo di organizzazione si danno! Siamo vicini alla verità o alla morte, non

perdiamo altro tempo.” “Aspetta.” Moak si chinò a perquisire i due cadaveri. “Cosa ti aspetti di trovare, i loro ordini?” Moak si fermò, quando sembrò aver trovato qualcosa nelle tasche di uno dei due. Sorrise, tirando fuori una pergamena arrotolata e con il sigillo infranto. Il Dracone sbuffò. “Il solito culo delle lucertole.” “C’è poca luce, non riesco a leggere bene.” Moak esaminò la pergamena. “Guarda un po’, sembrerebbe l’alfabeto dei–” “Siamo vicini alla soluzione di tutto il fottuto mistero”, lo interruppe ancora Olem. “Non perderti dietro un piccolo indizio, come fanno sempre i messhuggah. Ci sarà tempo per leggerla.” Il Guardiano annuì controvoglia. Ripose la pergamena nella sua borsa e si voltò verso il cammino che li attendeva. “Se sopravviviamo.” “Il fallimento non è mai contemplato, quarto comandamento. Non ve li fanno studiare i sette comandamenti a voi del Veleno?” “Veramente sono sei.” “Quelli che sono!” Ripresa la marcia, Dagger capì che i loro occhi, confusi dalle spropositate dimensioni del luogo, li avevano ingannati sin lì e continuavano a ingannarli anche ora; avanzando, il piede della statua sembrava allontanarsi, mentre l’arco si faceva sempre più alto e imponente sopra le loro teste. Le due scheletriche sentinelle, il mastodon e il burzum impietosamente usati come ornamento, li osservarono transitare nel loro eterno e vigile silenzio. Oltre l’arco il soffitto del tempio era crollato e lasciava penetrare il caldo bagliore di un sole al tramonto. La luce scorreva lungo le forme della possente statua, tingendola di un uniforme rosso sangue e rendendola interamente visibile nonostante le sue dimensioni: era Ktisis che urlava al cielo la sua collera silenziosa, come maledicendo i raggi vermigli che ne svelavano le orride

fattezze. Il dinamismo di questa spezzava con quello delle statue incontrate sino ad allora, stilizzate, le loro pose poco naturali; i muscoli contratti, la bava che colava copiosa dalle fauci spalancate, ogni particolare gli dava l’impressione di trovarsi di fronte a un essere un tempo vissuto, pietrificato per sempre in quella posa al momento della morte. L’impressione si accentuò, quando Dagger si accorse della profonda ferita aperta nel petto del titano. Oltre il colossale piede si scendeva nell’immensa anticamera del tempio scavata nella pietra ocra, dove rimbombavano migliaia di voci e versi animaleschi. Il Dracone avanzò con la spada tesa davanti a sé, ma solo Dagger ebbe il coraggio di seguirlo fino alla cima della lunga scalinata che portava dritta verso la morte. Gli scalini erano alti, troppo alti per qualsiasi mortale. Era di quelli che si serviva Ktisis per ascendere al suo tempio, lo sapeva. O forse lo ricordava; alcune immagini lo investirono e dovette chiudere gli occhi: quel luogo era diverso un tempo, rivestito di preziosi marmi rossi e verdi, il pavimento come le colonne e la volta. C’era luce, molta luce, e ovunque echeggiavano i i del Creatore, l’essere vissuto attraverso l’eternità che ascendeva al suo altare. Poteva udirne la voce recitare versi blasfemi, e oltre a quella le grida di terrore di coloro in attesa di essere sacrificati. Olem gli diede una gomitata nel fianco. “Hai sentito quello che ti ho detto? Abbassati, coglione!” Ora ai loro piedi, in un ambiente vasto quanto spoglio, si stendeva un esercito di tankar. A giudicare dallo sguardo del Dracone, capì che quello era l’esercito più grande che avesse mai visto. Al centro si trovava il quartier generale dei gorgor, fatto di tende di pelle nera dove a stento un uomo sarebbe riuscito a entrare. Solo alcune delle ombre si trascinavano tra una tenda e l’altra, le braccia tese lungo il corpo, la testa piegata scompostamente di lato. Tutt’intorno si stendeva l’accampamento dei tankar, dagli spazi ordinati e ben organizzati. A differenza dei loro alleati e padroni, questi bevevano e cantavano, lottavano e scolavano i propri boccali di legno, riversando il loro contenuto schiumoso tanto sui tavoli quanto nelle proprie fauci. Facevano sesso davanti a tutti in maniera violenta e selvaggia, senza mai smettere di bere e urlare, nell’alcol, nel sudore e nel sangue. Poco lontano un tankar venne sgozzato per un qualche futile motivo, mentre intorno gli altri ridevano e incitavano il suo carnefice. In confronto alla sinistra vitalità dei tankar, il senso di morte che vigeva nel campo dei gorgor era come amplificato. Per quanto fossero selvaggi e

guidati da bestiali istinti, Dagger avrebbe di gran lunga preferito trovarsi di fronte a un gruppo di tankar ben armati, piuttosto che un solo gorgor disarmato. Forse non contribuiva il marchio che gli consigliò, con una viscida goccia di sangue, di allontanarsi da lì quanto prima. Non molto lontano, in un recinto di fortuna, erano stati legati centinaia di cruachan, i loro destrieri alati. Altri venivano portati in continuazione, imbrigliati e sottomessi. “Guarda quell’esercito”, disse Olem. “Guardalo bene. Tra poco verrà a cercarti e neanche con tutte le nostre forze riusciremmo a fronteggiarli.” Dagger si guardò attorno, come rendendosi all’improvviso conto di quanto fossero esposti e vulnerabili. Una seconda goccia di sangue fu l’ultimo avvertimento del suo cuore. “Fa sempre piacere parlare con te, ma adesso pensiamo alla nostra pelle”, sussurrò. Raggiunsero nuovamente il titano di Ktisis, nascondendosi al di sotto di un suo artiglio di pietra insieme a Moak e Kugar. “Ci troviamo di fronte al loro esercito. Al completo.” Olem si gettò a sedere con la schiena contro il dito. “Lontani da casa, lontani da tutto. Anche ammesso che riusciamo a are inosservati attraverso migliaia di tankar, non sapremmo come tornare a Golconda. Non ci rimane altro che tornare sui nostri i.” “E come?” domandò Moak. “Arrivare qui è stato facile, solo un o nel nulla. Il ritorno sarà un po’ più complicato, non ci hai pensato? Se attraversassimo il portale da questo versante saremmo lanciati nel vuoto, per poi ripiombare qui.”

“E loro come fanno, allora?” domandò Kugar. “I cruachan”, rispose il Guardiano. “Attraversano il portale volando in sella alle loro bestie, ovvio no? Noi invece siamo… a piedi.” Olem ci trovò qualcosa da ridere. Alzò lo sguardo per osservare l’amico, con un ghigno sul volto. “E adesso che vuoi fare, ammazzarli tutti per conquistare il nostro affetto?” fece

Moak. “Lascia fare a me, so muovermi nel buio.” “Tu? Tu sei più pesante e rumoroso di un tankar ubriaco che stupra i suoi ostaggi, finirai per farti ammazzare!” Prima che potesse terminare, Olem era già uscito dal nascondiglio sparendo dalla vista. “Ecco cosa succede quando i genitori dedicano poca attenzione ai figli”, aggiunse il Guardiano, eppure non corse a fermarlo. Qualcosa nel suo volto tradiva una cieca fiducia nel Dracone e amico. ò del tempo, molto lentamente, e non accadde nulla. “Forse dobbiamo andare a dargli una mano”, disse Dagger, snervato dall’attesa. Moak scosse la testa. “Se vuole farsi ammazzare ci riuscirà anche senza il nostro aiuto. Diamogli tempo. E teniamoci pronti.” Il ragazzo stava per domandare Pronti a cosa? quando ascoltò il vocìo proveniente dall’anticamera del tempio trasformarsi in un coro di sdegno prima, e di rabbia poi. Non resistette alla curiosità e strisciò sul pavimento fino a sporgersi di nuovo dalla cima delle scale. Ci mise del tempo a individuare Olem: aveva percorso molta strada, arrampicandosi fin quasi al recinto dei cruachan. Tra i denti teneva una balestra, che doveva aver sottratto a un gorgor, e seguendo le urla Dagger individuò la fonte di tanto baccano: un tankar giaceva, morto, sulla tavola dove fino a poco prima era intento a bere con i suoi compagni; almeno prima che il dardo di Olem lo centrasse in piena fronte. Ovviamente per i tankar quello era solo un dardo dei gorgor, nero e viscido come ogni cosa che li riguardava, penetrato nella fronte di un loro compagno. La collera si trasmise di orecchio in orecchio, saltando di bocca in bocca, fino a coinvolgere tutto il campo. Anche i gorgor uscirono dalle loro tende per vedere cosa stesse succedendo, alcuni giusto in tempo per perdere la testa. La battaglia scoppiò e si estese a macchia d’olio. Dagger osservò i capi tribù tankar tentare di sedare gli animi quando già camminavano nel sangue dei loro simili. Allora Olem saltò giù e afferrò due cruachan per le redini, montando in groppa a uno. Con un calcio nel fianco fu in volo e tutti lo videro. Il massacro cessò di colpo. Molti gorgor rimasero fermi a osservarlo con la testa dei nemici tra le mani o la lama penetrata nel ventre di un tankar. Urla di collera echeggiarono nel

vasto ambiente, quando sia bestie che ombre si accorsero di essere state raggirate. Olem venne bersagliato dai dardi, tuttavia ò indenne sopra la testa di Dagger prima di essere sbalzato e rotolare a terra. I due cruachan ribelli tornarono in volo verso l’accampamento, ma Dagger afferrò le redini di uno e venne trascinato in volo. Riuscì a salirgli sul dorso, però la bestia non ne voleva sapere di essere domata, allora sfoderò Redenzione e la portò vicino ai suoi occhi. Questa mutò subito atteggiamento; divenne docile, il suo volo regolare. Dag giurò di poterne sentire le emozioni, in quel momento, come se stesse provando lui stesso lo spiacevole senso di prigionia che aveva sempre caratterizzato la sua infima esistenza. Recuperò anche il secondo cruachan e tornò dai compagni, atterrando ai piedi di Ktisis. Tutti lo guardarono stupiti, il volto illuminato dal pugnale. Olem aprì la bocca per dire qualcosa, quando venne interrotto dal rumore cadenzato di migliaia di i. Alle spalle di Dagger apparvero, armi in pugno, i gorgor e i tankar sopravvissuti alla battaglia fratricida, ancora molti, troppi. Si fermarono davanti a loro come pregustando il prossimo massacro e la giusta vendetta. Il ragazzo gli puntò la lama contro e questi sembrarono esitare. Sentì la voce di Moak proprio dietro di lui: “Figliolo, non tirare troppo la corda. Penso sia il momento giusto per togliere il disturbo.” Questa volta non ebbe nulla da obiettare. Salirono sui cruachan e spiccarono il volo verso il portale, inseguiti per il tempio di Ktisis da due gorgor riusciti a montare in tempo in sella ai loro destrieri alati. Vennero catapultati di nuovo sul mondo Oltre, in un’esplosione di luce che li accecò per alcuni istanti, eppure i cruachan non si fermarono. Sbucati nella grotta dove si erano ricongiunti, il Dracone stese il braccio e urlò di salire verso la spaccatura dalla quale penetrava la luce del sole. Dagger non se lo fece ripetere due volte. Sbucarono all’aria aperta, così come i loro inseguitori che non mancarono di bersagliarli con i propri dardi, probabilmente avvelenati. Fuggirono tra gli alberi per cercare di seminarli ma, quando questi si rivelarono degni avversari, Olem rallentò e si fece raggiungere lasciando le redini a Kugar. Saltò con la spada sguainata verso i loro più diretti inseguitori, penetrando il petto del gorgor e afferrando le redini del cruachan mentre quello cadeva nel vuoto, scomparendo

tra le chiome degli alberi. Il Dracone attese il secondo avversario, che non si tirò indietro. Volarono l’uno incontro all’altro, la spada sguainata, però all’ultimo momento Olem tirò le redini per prendere quota e, sorvolando il nemico, gli spaccò la testa con un solo fendente. Quando tornò da loro, disse solo: “Be’, che cazzo avete da guardare? Moak! Chiudi quel dannato buco.” Dagger guidò il Guardiano sino alla spaccatura rocciosa dalla quale erano sbucati. Moak afferrò dalla sua cinta una piccola sfera di metallo; quando già i versi degli altri cruachan echeggiavano al di sotto delle montagne, la lanciò dentro. Seguì una potente esplosione e presto non videro altro che detriti. “Fatevela a piedi, gorgor!” Tornarono dagli altri e volarono fino al tramonto, prima di scendere a terra e accamparsi per la notte. I tre cruachan si lasciarono legare all’albero senza ribellarsi, osservando Dagger simili a docili cuccioli. “Sembra quasi che ti vogliano bene”, mormorò Olem, scettico, mentre stringeva il più possibile il laccio intorno al collo di una delle bestie, come se volesse strozzarla. “Non rispettano me, ma il pugnale”, rispose Dag. Il Dracone non ribatté. Non accesero un fuoco per ovvie ragioni. I due Guardiani non avrebbero chiuso occhio fino alle prime luci dell’alba, vegliando su di loro.

* * * * *

9. Il pericolo amico

Dagger venne svegliato alle prime luci del giorno dalla grande mano di Moak, che lo scuoteva per una spalla. Aprì gli occhi e si guardò intorno: Kugar era già in piedi e si stava stringendo la cintola intorno alla vita, Olem invece si trovava nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato. Probabilmente non si era mosso di un o dalla sua vedetta, senza sbattere ciglio, senza sbadigliare. Poco oltre, i cruachan giacevano scomposti nella rugiada, decapitati. Si avvicinò e notò i segni dei loro morsi sulle corde che li tenevano legati.

“Stavano cercando di liberarsi”, spiegò Olem. “Per quello che mi riguarda è più comodo proseguire a piedi.” “Li hai uccisi?” “Ci avrebbero tradito non appena avessero sentito i versi dei loro compagni.” “I gorgor sanno bene dove si trova il nostro portale, ormai è chiaro”, aggiunse Moak. “Ci daranno la caccia fin lì. Abbiamo un discreto vantaggio, non lo sprechiamo.”

Si misero in marcia verso un orizzonte coperto da una coltre di nubi grigie; Olem e Moak in testa, Dagger e Kugar alle loro spalle. “Quanto è lontano il portale?” domandò Dagger. “Non molto”, rispose lei. “Stiamo salendo di quota. Se avremo fortuna arriveremo non oltre mezzogiorno.” Le orme che lasciavano sul terreno fangoso erano troppe e troppo profonde per essere cancellate. Un qualsiasi inseguitore non avrebbe faticato a seguirle, ma il ragazzo aveva la sensazione che i Guardiani si fossero ormai rassegnati a uno scontro inevitabile. Forse speravano solo di raggiungere il portale prima del

nemico. Quando il sole, oltre le nuvole, doveva ormai essere alla sua massima altezza nel cielo, una radura apparve tra gli alberi davanti a loro e Olem si fermò.

“Rumori, più avanti”, sussurrò, sguainando la spada e avanzando chino sul terreno. Si nascose dietro un albero un istante prima che una freccia sibilasse nel vento per conficcarsi sul tronco. Moak sorrise. Mise le mani a coppa intorno alla bocca ed emise un lungo verso animalesco, come di un lupo; doveva essere un segnale perché, quando Olem uscì da dietro l’albero, non venne scagliata una seconda freccia. “Siamo arrivati”, constatò Kugar. Al segnale di Moak ne rispose un secondo, da qualche parte tra i rami degli alberi. Dagger guardò con attenzione sopra le loro teste, tuttavia notò la figura ombrosa, perfettamente mimetizzata, solo quando questa si mosse per scendere. La perse di vista, poi sentì un fruscio di foglie e la vide balzare a terra proprio di fronte a lui. Era completamente avvolta in un mantello composto da macchie verdi e marroni, di tonalità diverse, così come il cappuccio che ricopriva la testa a parte per la griglia di tela all’altezza degli occhi. Stese un braccio verso di lui e solo quando vide la sua mano emergere dalla manica, Dag capì di non avere di fronte un essere umano: la pelle era rugosa e verde, le dita artigliate. Era la zampa di un rettile, o almeno credeva. La guardò avvicinarsi, fino a che non gli colpì la fronte con un buffetto, quasi affettuoso. Poi la strana creatura si avvicinò ai due Guardiani. Dagger portò istintivamente una mano al pugnale ma, al luccicare delle sue scintille, tutti si voltarono verso di lui con aria interrogativa. Si sentì stupido e lasciò andare la presa, alzando le spalle. “Suppongo tu non abbia mai visto un messhuggah”, esordì la voce sibilante della creatura, con una nota di scherno. “Be’, non c’è da stupirsi. Non ci sono messhuggah sul mondo Oltre, purtroppo e per fortuna.” Alzò il volto a guardare Olem. “Aspettavo visite uno di questi giorni, da parte vostra o dei gorgor. Penso di aver visto persino alcuni dei loro maledetti cruachan sorvolare la foresta. Mi sono preparato al peggio.” “Il peggio è quello che è accaduto, Dracon Araya”, rispose Olem. “Hanno attaccato la nave sulla quale viaggiavamo e quelli che vedi di fronte a te sono gli unici sopravvissuti. Gli unici, di tutto il contingente di Guardiani spedito su

Melekesh alla ricerca del sangue di Skyrgal.” L’altro li osservò in silenzio, al di sotto del cappuccio. “Comunque meglio di quello che mi aspettavo”, aggiunse. “Il problema è: come hanno fatto i gorgor a mettere piede su questo mondo?” “Hanno fatto il giro”, mormorò Moak. “Moak!” sbraitò Olem. Tuttavia Araya sibilò una risata. Allungò la mano squamata sulla fronte del Guardiano, in un gesto di affetto e perdono. “Fratello Moak è uno dei pochi umani in cui riusciamo ad avere fiducia”, disse. “Per questo lo abbiamo accettato tra di noi. Noi messhuggah siamo diffidenti e riservati, ma apprezziamo la sua ironia, Dracon Olem. Nell’ironia giace spesso la verità e, dalle sue poche parole, penso di aver già capito molto su quello che è successo. Mi spiegherete il resto con calma, ora venite dentro e riposate. Non si attraversa il o della morte stanchi, affamati… e con la ferita della ragazza che puzza di infezione a miglia di distanza. È stata quella a tradire la vostra presenza per prima.” Araya calò lo sguardo su Kugar, che si fece piccola, come volendosi trovare all’improvviso lontana da lì. La lucertola ragiona in fretta, pensò Dagger. “Oh, pensi che non lo abbiamo notato anche noi?” fece Moak, guardando a sua volta la ragazza. “Ti porti continuamente la mano al petto, sei lenta e ansimi come un cane. Nessun Guardiano deve mai nascondere ai compagni le proprie ferite, ne va della salvezza di tutti!” “Stupida ragazzina”, rincarò Olem. “Dobbiamo sapere chi ha bisogno di essere protetto e chi no.” Kugar abbassò lo sguardo. “Io non ho bisogno di essere protetta.” “Oh, tutti i Guardiani devono essere protetti”, intervenne Araya. “Alcuni soprattutto dalla loro stupidità.” “Abbiamo avuto uno scontro con due tankar, prima di incontrarvi”, spiegò lei. “Hanno avuto la peggio.” “È stato solo un miracolo, credimi!” concluse Moak.

Stava per continuare, ma Araya gli pose una mano sulla spalla, porgendogli un sacchetto di cuoio. “Su, fratello, siamo stati tutti giovani. E più un individuo è giovane, meno ha la capacità di sentire il fetido respiro della morte che si appresta, e meno capisce quanto sia necessario l’aiuto degli altri per evitare di incontrarla prima del dovuto. L’acqua è già sul fuoco, stavo cucinando qualcosa quando ho odorato il vostro arrivo. Scioglici questa porcheria da lucertole, a giudicare dall’odore che sta torturando il mio naso penso che ci servirà.” Il Guardiano sorrise. “Il Dracone del Veleno è sempre pronto al peggio, vero?” “Già. Eppure sarà meglio prepararci in fretta. Sento anche un’altra puzza, in avvicinamento. Puzza di uova marce.” “Quanti?” “Una squadra, non particolarmente numerosa, però potrebbero essercene altri dietro di loro. Saranno qui per stanotte.” “Gli daremo il benvenuto, stanotte!” precisò Olem. “Li affronteremo e non lasceremo nessun sopravvissuto. Questo sarà un bel messaggio per loro.” Seguirono Araya nella radura, circondata da larici, in fondo alla quale videro una baita di legno. Dagger non avrebbe mai pensato che da quelle parti si nascondesse il confine tra i due mondi. “Camminate solo sul sentiero”, consigliò il messhuggah. “Non vorrei vi ritrovaste infilzati da uno dei pali nascosti sotto questo bel prato verde.” “Gli uccelli hanno smesso di cantare.” Olem si guardò intorno nervoso. “Stasera faremo fatica a prender sonno.” “Non pensateci, ora. Riposate. Il mio istinto mi dice che ci aspettano giorni peggiori di quelli ati. E dopo di quelli, giorni ancora peggiori. Forse tu non riesci a sentirlo, ma l’odore del suo sangue è forte.” “Io lo sento!” protestò Kugar. Araya accarezzò la sua testa. “Oh, lo so. Lo so.” “Non posso farci niente!” disse Dagger. “Non è come una scoreggia che si può

trattenere.” Il messhuggah rise sommessamente. “Già, non è una scoreggia”, ridacchiò. “Bella risposta.” Entrarono nella piccola baita, riscaldata e illuminata da un vivace camino , sul cui fuoco bolliva una pentola piena d’acqua. La mobilia all’interno era ridotta all’essenziale: un tavolo, alcune sedie, e vecchi mestoli di rame appesi al muro. Araya teneva pronta per la cottura la carcassa di un qualche animale della foresta, scuoiata, fatta a pezzi e divisa ordinatamente sul tavolo ricoperto di sangue. Doveva cavarsela bene da solo. Moak svuotò il contenuto del sacchetto dentro la pentola, una polvere verdastra con un odore acre che arrivò sino alle sue narici. Kugar si issò sul tavolo controvoglia, scostando alcune membra della carcassa. Scoprì il petto, ora diventato rosso fuoco: l’infezione galoppava veloce attraverso la pelle, partendo dai lunghi tagli lasciati in eredità dal tankar. “Per Angra, guarda che roba”, mormorò Araya, tamponando le ferite con un panno bagnato. “Bei tagli di striscio fanno con quei loro guantini. E cos’è quest’odore, qualcuno ti ha pisciato addosso?” “È una lunga storia.” Il Dracone si voltò verso Dagger, poi di nuovo verso Kugar e rise. “Oh, oh oh! Deve essere davvero una lunga storia”, commentò divertito. Moak sopraggiunse con la pentola appena tolta dal fuoco. “Penso che sia pronta, mio Dracone.” Araya intinse una garza nell’intruglio bollente e ci soffiò sopra. “Questo farà un po’ male, mia signorina”, avvertì prima di sfiorare la ferita. Kugar saltò ed emise un gemito, subito coperto dalle risa selvagge di Olem. “Brucia come fuoco, eh?” disse. “ Be’, ricordati che è un onore essere curata dal Dracone lucertola in persona. O in lucertola… o in quello che cazzo è!” Tornò a guardare fuori dalla finestra, sporca e opaca, spostando lentamente lo sguardo da destra a sinistra. “Kugar. Quando hai finito di farti salvare la vita porta Dagger di sotto e armalo come si deve. Gli adulti devono parlare di faccende importanti. Su, sciò!”

Kugar annuì. Quando Araya ebbe finito di medicarla saltò giù dal tavolo e prese Dagger sotto braccio, portandolo al di sotto di una botola nel pavimento. Lui la seguì controvoglia, pensando che le cose peggiori accadute in tutto quel viaggio erano successe sotto terra. Il piccolo scantinato della baita era pieno di armi. Almeno un centinaio di spade lucenti erano addossate alle pareti e, oltre a quelle, archi e scudi tirati a lucido. Kugar afferrò una spada dall’impugnatura a forma di artiglio. “Non tutte le questioni della vita si risolvono con un pugnale”, disse. “A volte serve una spada.” “Carina, dove l’hai letta?” “È un vecchio detto di Golconda.” “E questo posto, cos’è? Voglio dire, cosa ci fa quel tizio tutto rugoso qui sul mondo Oltre?” “Quel tizio è uno dei cinque Draconi della Fortezza, come Olem e Marduk, quindi cerca di avere un po’ di rispetto. Custodisce il o della morte da quando io e Moak siamo giunti su questo mondo. Questa è l’ultima frontiera per noi Guardiani, non senti le vibrazioni del portale? Si trova qui vicino.”

Dagger sfiorò le lame lucenti, affascinato da come rispondevano al tocco delle sue dita variando l’intensità dei loro riflessi. “Questo è il manegarm”, spiegò Kugar “Un metallo in grado di strappare l’anima dal corpo degli dèi, così come fece Angra con tuo padre. È una spada come queste che custodisce l’anima di Skyrgal, alla Fortezza.” Lui scelse una spada e fendette l’aria. “La usi come un bastone. Spero che alla Fortezza qualcuno ti insegni come maneggiarla.” “Tutte le questioni della vita si risolvono con una spada, ma per alcune è meglio un pugnale.”

“Dag?” “Questa mi è venuta adesso.” “Dagger?” “Cosa?” Kugar lo osservò in silenzio, prima di abbassare lo sguardo. “Grazie per aver protetto il mio segreto, finora.” “Di nulla”, rispose lui. “Non me ne faccio niente del tuo segreto, è il tuo fardello e ci devi pensare tu. Ognuno deve pensare al proprio, non trovi?” Lei annuì. Assicurò un fodero alla sua cintola, sfilò la spada e fendette l’aria un paio di volte. Era bravina, a quanto sembrava. “Per il momento cerchiamo di sopravvivere alla notte. Cerca di farlo anche tu. Potrai anche tornare in vita ogni volta che vuoi, ma se ti risveglierai nelle loro mani per te sarà finita lo stesso.” “Kugar?” “Cosa?” Dagger non riuscì a dire nulla. “Dag, c’è qualcosa che vorresti dirmi?” “Be’, io…” “Dagger?” “Io ho molto apprezzato tutto quello che… hai fatto per me.” Kugar alzò un sopracciglio. “Sei proprio sicuro che non ci sia dell’altro?” Lui chinò il volto. Lei sorrise e si avvicinò, stringendolo a sé. Portò il volto a contatto con il suo, tanto che poteva sentire il calore del suo respiro sulla pelle. Presto Dag iniziò a sentire una reazione prevedibile. Cercò di scostarsi, ma lei lo tenne ben saldo.

“Succede spesso, per un sacco di ragioni!” si scusò in fretta. “Sono contenta che hai apprezzato i miei sforzi”, rispose Kugar. Sfiorò le sue labbra, facendosi strada tra queste e baciandolo in un modo in cui non era mai stato baciato prima. Dagger chiuse gli occhi, lasciandosi trasportare da quella nuova energia dirompente sgorgata al centro del suo petto, proprio lì dove si trovava la sua maledizione eterna. Vita e morte, tormento senza fine ed estasi dei sensi erano così vicine da sembrare la stessa identica cosa. Decise di abbandonarsi a quel piacere e dimenticare tutto il resto, lasciando che Kugar fe di lui qualsiasi cosa volesse… quando lei lo respinse, facendolo rovinare a terra. “Sarà meglio che torniamo di sopra, abominio.” Kugar risalì la scala a pioli, continuando a guardarlo con quel ghigno misto di sfida e qualcos’altro; quel qualcos’altro che rischiava di farlo impazzire. Quando risalirono trovarono Moak seduto davanti al camino, con la pipa tra le labbra, pensieroso. Olem non doveva aver staccato gli occhi dalla finestra per un solo istante. Araya era invece intento a disossare la carcassa con le sue mani nude. Si era tolto il cappuccio con la griglia e, quando si voltò, Dagger si ritrovò a fissare due occhi gialli che non erano di quel mondo, tempestati d’oro intorno alla sottile spaccatura delle pupille. Il Dracone lucertola ò la lingua viola sopra una doppia fila di denti affilati come coltelli e disse: “No, vecchio mio”, rivolto a Moak, come continuando un discorso già iniziato. Si leccò l’indice e il medio, ripulendoli dal sangue, e tornò a concentrarsi sulla carcassa dell’animale. “Marduk è pieno di risorse. Tornerà al portale in un modo o nell’altro, scoprendo da solo tutto quello che è successo.” “Corre molti rischi, tuttavia. Non è al corrente di nulla”, rispose il Guardiano. “I gorgor ci staranno cercando per tutta la foresta e quando incroceranno il suo cammino–” “È il Dracone Delta, se la caverà”, lo interruppe Olem. “E se non ce la farà, allora non è degno di questo nome. Un Delta si muove nel buio, uccide in un lampo e vive di morte, un po’ come voi del Veleno. Solo sono un po’ più leali. Si servono dei loro pugnali e del favore delle tenebre per uccidere, non ti fanno saltare in aria la casa o ti avvelenano la birra. La birra, cazzo! A volte mi domando cosa c’è di sbagliato in tutti voi. Non riuscite ad amare il campo di

battaglia e basta?” “Be’, Dracon Olem, ne abbiamo parlato spesso”, rispose Araya, sbattendo sul tavolo un pezzo di muscolo grondante di sangue e impacchettandolo. “Ci sono molti modi per vincere una guerra, o una battaglia, o averla vinta in un litigio, una bega, uno scambio di opinioni o vedute. C’è sempre un buon motivo e un buon modo per uccidere qualcuno.” “Uhm”, fece Moak. “Sì, Marduk se la caverà.” Seguì un momento di silenzio, colmato a malapena dello strepitio del fuoco nel camino. “Ce la caveremo tutti, ma a cosa servirà? Il loro esercito si trova sulla soglia di questo mondo. Ci prenderanno alle spalle. Ora che hanno aperto il loro portale eranno di qui per piombare nel cuore della Radura, colpendo lì dove non possiamo difenderci. E il loro primo colpo sarà mortale.” “Fratello Moak ha ragione. Non attaccheranno più le impenetrabili mura della Fortezza di Golconda come hanno sempre fatto, ora che grazie ai due portali possono fare… il giro.”

“Ci annienteranno”, sentenziò Olem. “Mangiandoci dall’interno come un cancro. Riportarlo alla Fortezza sarà come dirgli Venite pure, vi aspettavamo!” Tutti si voltarono verso Dagger. Lui, da parte sua, non ci mise molto a capire di chi stesse parlando. “Dici che mi stanno cercando?” rispose. “Sì, l’avevo intuito.” “Ironia”, sibilò Araya. “Il verbo degli dèi, o delle forze vissute attraverso l’eternità, come gli piace essere chiamati quando il tempo non ci costringe ad abbreviare.” “Quindi, se io tornassi alla Fortezza, si troverebbe tutto nello stesso luogo”, ragionò Dagger. “L’anima di mio padre, il suo corpo… e io. Gli basterà attaccare ed espugnare la Fortezza per mettere le mani su tutti e tre, non trovate?” Araya annuì. “Quello che dici è vero”, rispose. “E capisco dove vuoi arrivare. Eppure alla Fortezza sapremo come proteggerti, così come per secoli abbiamo protetto il corpo di paparino e la sua anima maledetta.”

“Siamo ancora in vantaggio”, intervenne Moak. “Torneremo alla Fortezza e nella Radura costruiremo un nuovo sistema di difese per contrastare il loro attacco. Dovesse essere anche l’ultima cosa che facciamo, li prenderemo nuovamente a calci in culo come fece Crowley!” A sentire quel nome, tutti si rabbuiarono. “A proposito”, fece Olem per cambiare discorso. “Il messaggio che hai trovato addosso al comandante tankar, giù nel tempio di Ktisis. Ce l’hai ancora?” Moak si portò una mano in tasca, come se se ne fosse ricordato solo in quel momento. Tirò fuori la pergamena e la srotolò, prima di leggerla attentamente. “Non ha molto senso.” Olem tese una mano, senza scostare lo sguardo dalla finestra, e Moak gli consegnò la pergamena. Dagger allungò la testa per sbirciare a sua volta. Non capiva cosa stesse leggendo, se quelle dopotutto erano parole, ma il suo cuore mancò un battito quando vide il simbolo posto in cima al messaggio:

∞ Kudr ò Sktena amis. Temko o ‘kvana Ramidt. Io’ten cruachan koro. Satanke.

“Che Ktisis di lingua è?” fece Olem. “Dall’abuso di consonanti sembrerebbe la lingua dei gorgor”, rispose Moak. “Però è trascritta nel nostro alfabeto. Deve essere il modo in cui gorgor e tankar comunicano tra di loro. Sktena ricorda il loro equivalente per dannato, e Temko significa aspettare. Per il resto–”

“Io’ten cruachan koro suona come Solo pochi cruachan, per ora…” intervenne Kugar, avvicinatasi per leggere. “E Satanke ricorda uno dei loro nomi, probabilmente è solo una firma.”

“Uhm.” “E tu dove Ktisis hai imparato la loro lingua?” fece Olem. Kugar abbassò lo sguardo. “Nella biblioteca dei messhuggah.” “E che Ktisis ci facevi nella–” “Olem!” lo interruppe Araya. “Abbiamo molte cose alle quali pensare, discuteremo delle regole di accesso alla mia biblioteca un’altra volta.” Olem si voltò verso Kugar. “Che aspetti? Traduci!” “Più o meno c’è scritto Non ancora preso il figlio del dannato. Aspettare per l’attacco. Solo pochi cruachan per ora. Satanke. Avete visto il simbolo in cima?”

“Pensi che non l’abbiamo visto?” Moak ripiegò il messaggio e se lo mise in tasca. “È tutto abbastanza chiaro. Stanno aspettando ad attaccare perché prima vogliono mettere le mani su voi sapete chi e perché non hanno ancora cruachan a sufficienza per muoversi su questo mondo. Temko, aspettare. È questa la parola chiave, per loro come per noi. Il tunnel stretto e buio dal quale siamo ati in catene deve essere solo un aggio secondario, non possono far are tutto quell’esercito per di lì. Loro si muovevano come ombre nel cielo notturno, sbucando dalla grande spaccatura nella montagna che abbiamo… che ho, fatto saltare in aria. Dovranno aprire un nuovo aggio per i loro cruachan affinché possano muoversi di nuovo e per farlo gli servirà del tempo. Ce la faranno, ma non entro pochi giorni.”

Olem annuì, tornando a concentrarsi sulla finestra. La notte stava calando in fretta.

Dagger si avvicinò. “Saremo attaccati stanotte?” “Certo che sì”, rispose Olem. “Come sono certo che tu nascondi qualcosa.”

* * * * *

Barricarono porta e finestre e, scese le tenebre, salirono sul tetto armati sino ai denti. Araya si tolse il mantello di dosso scoprendo l’armatura rossa che indossava al di sotto, plasmata sulle forme di una muscolatura umana resa alla perfezione; i deltoidi, i bicipiti e i pettorali lucenti e vermigli come i muscoli di un uomo scuoiato. Indossò anche l’elmo, un cranio di metallo forgiato in un terrificante urlo di battaglia. Per il resto, il Dracone del Veleno indossava le sue armi: due scimitarre sulla schiena, due cinte di pugnali ricurvi incrociate sul petto, due katar pronte all’uso sui fianchi e due lunghe catene di mayem arrotolate intorno alle braccia. Erano attraversati da una tenue luminosità e terminavano in una punta affilata, sospesa nel vuoto. Dagger osservò il semplice arco che teneva fra le mani, sentendosi come un ragazzino alle prese con un giocattolo difettoso. “Almeno sai come si usa?” domandò Olem. In tutta risposta, Dag scagliò una freccia contro la corteccia di un albero, centrandolo. “Un Ragno ha molte qualità nascoste.” “Come Ktisis funziona questo coso?” Si voltarono entrambi verso Kugar, intenta a litigare con la propria balestra. “Non possiamo semplicemente avvelenare l’intera foresta?” “Perché hai preso quella? È lenta da ricaricare!” la avvertì Olem. Proprio in quel momento dalla balestra partì inavvertitamente un dardo, e l’urlo stridulo di un gorgor li assordò. Sentirono un fruscio e dei i. Un’ombra incespicò nel buio, lontana, prima di stramazzare a terra con il dardo piantato nella fronte.

“Però!” Seguì un momento di silenzio, poi dalla foresta si levò il verso acuto dei gorgor, uno stormo di predatori in procinto di piombare sulla vittima indifesa. Dagger abbassò lo sguardo: il marchio sul suo petto batté una volta, due volte. Sentì il sangue colare lungo il ventre e sfoderò il pugnale, lasciando che la mano e la lama diventassero tutt’uno, sopendo il dolore. “Si comincia.” Olem impugnò il suo spadone con entrambe le mani. “Ricordate. Mirate alla testa!” Adesso potevano sentire i i dei gorgor spezzare i rami e frantumare le foglie secche, da qualche parte in quel buio impenetrabile. Presto apparvero le lame infuocate. Una freccia sibilò vicino al suo orecchio e Dagger si buttò a terra, in tempo per vedere le trappole disposte nella radura iniziare a funzionare. I malcapitati condannati a marciare per primi morirono infilzati, bruciati, squartati. Le tagliole si chio sulle loro gambe tranciandole di netto. Le buche reclamarono i loro piedi, infilzandoli in maniera tale da rendere impossibile tirarli fuori. Per un istante sembrò che gran pochi sarebbero riusciti a raggiungerli, presto però le ombre capirono che marciando sul sentiero non sarebbero incorsi nelle trappole, e chi non lo capì si limitò a marciare sui cadaveri dei compagni. Araya lanciò due pugnali, entrambi a segno. Fece volteggiare la catena e attraversò il volto di un gorgor da parte a parte. Si portò una mano alla cinta e subito dopo una palla infuocata apparve sulla sua mano. Attese un po’ prima di scagliarla contro il nemico. Un boato assordante li investì mentre i corpi smembrati dei gorgor volavano in aria. “E io che pensavo di essere bravino”, disse Olem. I gorgor sembrarono decidere di aver giocato abbastanza. Uno di loro lanciò un acuto grido di battaglia e tutti i suoi compagni sbucarono dagli alberi, correndo e investendoli con versi acuti e penetranti. Kugar ne centrò uno, Moak due, ma il più veloce era Araya; impeccabile, uccise cinque gorgor con un solo colpo delle sue catene, decapitandoli in un tempo talmente breve che a Dagger bastò solo per scagliare una nuova freccia e mancare il bersaglio. Altri gorgor spuntarono ovunque davanti ai suoi occhi, marciando sui corpi dei loro compagni come un mare di ombre. In poco tempo i primi tentarono di issarsi su. Era probabilmente

il momento che stava aspettando Olem. Corse lungo il bordo del tetto a spada tratta, decapitando le ombre prima che avessero la possibilità di mettere piede lì sopra. Dagger centrò la fronte di un gorgor sfuggito alla furia di Olem e tese nuovamente l’arco, quando Moak gli urlò qualcosa; fece appena in tempo a voltarsi prima udire il trillo agghiacciante del gigantesco cruachan che gli stava piombando addosso. Si ritrovò bloccato a terra con gli artigli infilati nel petto. Kugar corse in aiuto, ma alla bestia bastò un solo colpo d’ala per scaraventarla da una parte. Gli occhi del cruachan, rossi di lucida follia, assorbirono i suoi pensieri. Lo guardarono fissi, immobili, e tutto si fermò. Lo scontro si fece lontano; la morte, lo sferragliare delle spade, tutto il mondo che moriva intorno a lui. Sul dorso della bestia sedeva un’ombra. Vedeva il suo occhio completamente nero e nell’occhio una luce gialla e maligna in un volto scomposto, distorto, innaturale. Con orrore comprese che quell’ombra indossava una maschera di pelle morta e, quando vide i suoi stivali di mayem, capì chi aveva realmente di fronte: il Divino scese dal suo destriero alato e lo afferrò per il collo, sollevandolo in aria come se fosse solo un cane disubbidiente. Dagger si aggrappò con entrambe le mani al polso e lo colpì col suo pugnale, eppure ora questo non brillava più, neanche in mano sua; era spento, innocuo, e non poteva più proteggerlo. Presto si sentì soffocare. Tutto il mondo era in quel momento confinato a quell’occhio nero e alla luce che conteneva, nel quale poteva leggere la rabbia incosciente di una creatura per sempre votata al male. Questa volta non sentì semplicemente il marchio maligno espellere il sangue dal suo petto. Lo sentì corrodere la pelle e la carne, gli mozzò il respiro in gola affliggendolo con un’asma soffocante, un senso di perdizione totale che serrò i suoi sensi e asfissiò sul nascere ogni tentativo di reagire. Lo sentì lavorare dentro di lui, prendere possesso dei suoi centri nervosi. Stava diventando qualcos’altro. In quel buio della mente e dei sensi sentì un sibilo, appena percettibile nel buio: “Tu non lo farai risorgere, Kam Konkra. Il tuo sangue sarà mio! Perché devo essere schiavo di questo potere? Io non voglio morire, ero un dio, perché non posso vivere per sempre?” “Fffanculo!” Le labbra del volto ghignarono, come divertite. “Ti darò la caccia senza pietà”, disse il Divino. “Ti darò la caccia lungo tutto l’incubo. Al tuo risveglio scoprirai quanto è orribile, dopo il morire, vivere ancora!”

Puntò la spada, una spada di mayem, contro il suo petto e Dagger capì che la fine era arrivata; alla figura in nero sarebbe bastato un solo rapido movimento del polso per trafiggergli il cuore. Allora capì: voleva esiliarlo dal mondo così come era capitato a Skyrgal. Gli alitò sul volto il rancido respiro della morte, ma lui non aveva paura, anche se sapeva che non ci sarebbe stato alcun ritorno se i Guardiani avessero perso quella battaglia. Poi sentì la mano sul suo collo mollare la presa e cadde sul tetto svuotato di ogni energia, senza aver più il possesso del proprio corpo. Tutto riprese lentamente vita intorno a lui; il combattimento, le urla, lo sferragliare delle lame. Riuscì a rialzarsi sulle ginocchia, eppure non poteva ancora usare né sentire le braccia. Alzò lo sguardo. Mentre la battaglia imperversava e i gorgor morivano sotto l’impeto omicida di Araya, Olem era corso a salvarlo caricando il Divino sul fianco per buttarlo a terra. Adesso si trovava sopra di lui con lo spadone posto tra i loro due volti, tuttavia, con un solo gesto della mano, il Divino si liberò dalla stretta facendo volare il Dracone sul tetto. Impugnò la scimitarra dandogli tutto il tempo di rialzarsi e mettersi in guardia, come se volesse solo godersi uno scontro dall’esito già deciso. Dagger si ritrovò sollevato di peso da Moak e trascinato via. “Non ce la faremo mai contro di lui, dobbiamo ripiegare!” urlò il Guardiano. Con la coda dell’occhio, il ragazzo vide Olem incassare i potenti attacchi a due mani del Divino, le cui risate metalliche risuonavano nell’aria fredda. Un colpo più forte degli altri gli fece perdere la presa, e presto anche il Dracone capì che solo un miracolo lo avrebbe salvato quella volta. Ma non fu un miracolo quello che piombò dal cielo: Araya si lanciò in volo e riuscì a superare le difese del Divino, ferendolo con i suoi stessi artigli, di striscio, sul collo. La figura in nero si portò una mano al taglio. “Veleno! Maledetta lucertola, tu e il tuo cazzo di veleno!” Caricò frontalmente, alla cieca. Araya montò con un piede sulla scimitarra e saltò all’indietro, fuggendo adesso che era riuscito nel suo intento. Altri gorgor saltarono sul tetto, strillando agghiaccianti versi, ed entro poco li avrebbero circondati. Dagger fu il primo a saltare giù. Atterrò sulle mani e si rialzò in tempo per vedere Moak che lo raggiungeva; cadendo faccia a terra, scomposto, con una lama conficcata nella schiena. Si alzò per soccorrerlo,

sentendolo spirare tra le sue braccia. “No”, riuscì solo a dire il Guardiano, prima di rendere l’anima. Araya saltò giù a sua volta e lo tirò in piedi. “Presto, non c’è tempo neanche per questo!” “Olem e Kugar sono ancora su!” “Quel veleno non lo fermerà a lungo!” Dagger si oppose, pronto a tornare sul tetto per combattere, ma qualcosa di orribile pose fine al rapido degenerare della situazione; non poteva vedere quello che stava accadendo sul tetto, tuttavia poté ascoltare: udì il ruggito di una bestia feroce, né gorgor, né cruachan, né umano, presto sovrastato dalle grida dei gorgor che, colti di sorpresa, venivano fatti a pezzi. Le loro membra strappate volarono nell’aria. I loro cadaveri, i loro arti, le loro teste e budella immonde piovvero giù dal tetto insozzando la terra con il lurido sangue nero. Araya respinse i pochi che, saltati giù, osavano ancora combattere per la vita. Infilato il pugnale nel ventre gelatinoso dell’ultima ombra, ci fu solo il silenzio. Nel silenzio il muto ululato di una bestia ferita a morte. Quando Dagger si arrampicò nuovamente sul tetto, per capire cosa fosse successo, vide Kugar stesa a terra in una pozza di sangue. Respirava ancora sotto l’armatura ridotta a brandelli dalla sua incontrollabile muta, ma ogni respiro sembrava l’ultimo. Olem sfilò la spada con la quale aveva trafitto il suo petto, respirando a fatica, scosso da quello che aveva visto e fatto. Dagger corse ad abbracciarla sporcandosi del suo sangue. “L’hai uccisa!” urlò. “Hai ucciso anche lei, sporco bastardo!” Il Dracone lo guardò, perso. “Io… stava per attaccarmi!” “Che sta succedendo lassù?” urlò Araya da sotto. “Non abbiamo tempo da perdere. Il Divino è scappato in volo e presto tornerà con i rinforzi!” “Araya, maledizione! Quella puttana era una tankar!” “Una tankar?”

“Non è una tankar!” “Fatela finita!” ordinò Araya. “Dobbiamo scappare verso il o e dobbiamo farlo in fretta, anche con il buio. Il Divino tornerà!” “E cosa ne facciamo di questa mezza lupa del cazzo? È ancora viva!” Araya non rispose. Dagger guardò Olem dritto negli occhi. “Non te la lascerò ammazzare!” “Un tankar non ci penserebbe due volte a tagliarti la gola, coglione!” “Dovessi anche portare il suo cadavere sulle mie spalle, la porteremo via da quest’inferno! Ha salvato anche la tua vita stanotte. Tu non la ucciderai!” “Allora rimani qui con lei!” urlò il Dracone. “Voglio proprio vedere cosa farai, una volta che–” “Olem, per Skyrgal stronzo!” lo interruppe Araya. “Non abbiamo tempo!” Olem aprì la bocca per urlare qualcosa, prima di dirottare il suo urlo nei pugni serrati. Chinò il volto e mandò giù un boccone molto amaro. “Che tu sia maledetto. Più di quello che già sei!” Afferrò Kugar per i brandelli dell’armatura, trascinandola giù come la carcassa di un animale e gettandola ai piedi di Araya. “Non hai preso il cuore”, disse solo questo, mettendole due dita tra la mandibola e la gola. “È una mezza tankar, sopravvivrà, anche se non so per quanto. Un motivo in più per tornare a Golconda più in fretta che possiamo.” “Dovevamo lasciarla qui.” Araya si alzò di scatto e colpì Olem con un pugno, tanto velocemente che l’altro non si difese nemmeno. “Porca troia!” urlò, ed era la prima volta che lo vedeva perdere la calma. “Tu lo sai quanto è importante questa ragazza adesso?” Olem non rispose nulla, chiudendosi nel suo silenzio offeso e incazzato. Scomparve dalla loro vista, in mezzo agli alberi.

Non ci fu tempo per dare una degna sepoltura a Moak. Araya estrasse il suo cuore, riponendolo all’interno di un panno sporco. “Almeno il tuo cuore sarà sepolto a casa, fratello”, sibilò. Poi trasportò il corpo dentro il rifugio prima di darlo alle fiamme; non avrebbe mai lasciato che i cruachan banchettassero con le sue spoglie. Guardando le fiamme alzarsi nel cielo notturno, Dagger giurò di poter sentire la lucertola piangere. “Questa è la fine di un’epoca, degna di essere vissuta”, disse il Dracone messhuggah. “Ora ne inizia una nuova. Un’epoca di paura.” Prese Kugar sulle proprie spalle. “Andiamo, ragazzo mio.” Si inoltrarono nella foresta che si stendeva oltre la baita, fino a raggiungere Olem lì dove due alte conifere, con le loro chiome, costituivano il cancello naturale posto al principio di un sentiero sterrato, subito ingoiato dall’oscurità della foresta. La fitta coltre di rami e foglie degli alberi nascondeva il sentiero alla vista di qualsiasi creatura avesse solcato il cielo. Non avrebbero dovuto temere gli attacchi dei cruachan, lì dentro, eppure al cospetto di quell’ennesimo cammino nell’ombra Dagger non si sentì al sicuro; vide un reticolo di sottili fili di metallo argentato, appena visibili nel debole chiarore della sfera di ensiferum tenuta in mano da Olem, suddividere il sentiero in una sinistra scacchiera dove loro sarebbero stati le pedine in gioco. “Sarebbe stato meglio affrontarlo di giorno”, disse quest’ultimo, la rabbia di poco prima scomparsa. “Un solo o sbagliato e saremo morti.” Alle loro spalle, il lontano verso rapace di un cruachan li invitò a non perdere altro tempo. “È facile scegliere, quando non hai scelta”, disse Araya. “Guardate dove metto i piedi io, nell’esatto punto. Qui dentro serve poco per morire.” Detto questo afferrò una pietra, non molto grande, e la lanciò davanti a sé. Al primo rimbalzo venne investita da uno schizzo di acido. Al secondo una tagliola si chiuse di scatto. Al terzo venne scagliata in aria da sei spunzoni di metallo, sbucati dal terreno così rapidamente che chiunque si fosse trovato a are di lì ne sarebbe rimasto impalato. Il sasso volò in alto e girò più volte, prima di cadere nuovamente a terra. Lì non accadde nulla.

“Uhm. Curioso”, disse. “Sbagliate solo una volta e non potrete raccontare questa storia. Quando si tratta di costruire trappole e maneggiare veleni mortali, nessuno batte i messhuggah.” Detto questo il Dracone lucertola mosse un o avanti e loro lo seguirono, osservandolo molto attentamente: si spostava in continuazione da un quadrante all’altro, mantenendo la calma per permettergli di vedere l’esatto punto dove metteva i piedi. I gorgor erano ormai giunti alla baita in fiamme e stavano esplorando la foresta alla loro ricerca, ne era sicuro. Sentivano il suo odore e lui sentiva la loro presenza al centro del suo petto dolorante. “Incastrati nella tagliola delle lucertole”, mormorò Olem. “Mentre i gorgor camminano liberi su questo mondo. Cosa ho fatto per meritarmi di vedere una cosa simile?” “Oh, molte cose Olem, a cominciare da tutte le tue pessime battute razziste sui messhuggah, ma cerchiamo di non parlare a meno che non sia necessario. Guarda i tuoi piedi!” lo ammonì Araya, procedendo con lentezza. Poi si fermò, voltandosi. “Avete sentito?” domandò. Rimasero in silenzio, fino a che la luce di una fiammata illuminò il sentiero e furono investiti dalle urla di sorpresa dei gorgor. “Prima fila. Secondo quadrante”, notò Araya. “Pessima scelta.” Allo scemare delle urla, si levarono i soli versi di dolore di coloro che stavano morendo bruciati vivi. “Prendetelo nel culo!” disse Olem. Araya tornò in marcia, senza più distrarsi. Un o a destra, un balzo a sinistra, avanti per un tratto e poi di nuovo a destra. “E quindi dovete attraversare questa porcheria ogni volta che volete tornare a casa?” domandò Dagger. “C’è qualcosa di profondamente sbagliato in voi, lo sapete vero?”

“Se non fosse stato per te non avremmo mai messo piede in questo postribolo che tu chiami mondo.” “Araya ha ragione. Il mondo Oltre è solo un’antica prigione”, spiegò Olem. “Usata per esiliare la crema della società di Candehel-mas agli albori della nostra storia, migliaia di anni fa, quando l’ordine era ancora giovane. Ladri, stupratori, assassini. Tutti qui, fuori dai coglioni dal nostro mondo.” “Qui non esistevano sbarre, non esistevano celle”, continuò Araya. “Esisteva solo la legge scritta nel sangue che si davano gli stessi criminali esiliati oltre il portale. Si condannavano da soli a vivere in un mondo dominato dalla violenza. Non mi sorprende che con i secoli abbiano creato una città gradevole come Melekesh.”

“Questo sentiero venne costruito solo per fare in modo che questa rimanesse una strada a senso unico”, concluse Olem. “In effetti, non sono poi molte le volte che è stata usata per tornare su Candehel-mas.” “Mia madre lo fece.” I due Draconi si scambiarono un’occhiata. “Non c’era proprio bisogno di specificarlo”, mormorò Olem. “E quei Guardiani che si trovavano qui per cercarmi? Quelli che sono morti nell’affondamento della nave, da quanto tempo erano qui? Non tornavano mai a casa?” Araya ghignò amaro. “Non esisteva alcun ritorno per loro”, rispose. “Una volta giunti su questo mondo, una volta oltreato il portale, sapevano che non avrebbero più rivisto casa. Dovevano ritrovarti e quella sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbero fatto nelle loro vite di Guardiani.” “Sarebbero morti?” “Be’, almeno coloro che volevano tornare su Candehel-mas. Potevano farlo solo con i piedi davanti. Gli altri sarebbero semplicemente rimasti qui per costruirsi una vita lontano da Golconda, se gli fosse risultato possibile.”

“Tu non capisci fino a dove arriva il senso del sacrificio, per un Guardiano.” “Cieca obbedienza”, rispose Dagger. “Il grande Mamma ne parlava sempre.” “Il grande che?” “Sannah”, rispose Olem. “È il nome che usava Sannah su questo mondo.” Araya emise un verso divertito. “Capisco.” “A Golconda sono stati dichiarati scomparsi”, riassunse Olem. “Come copertura per la loro missione. Uomini cancellati dalla storia, potresti dire, sacrificati per il bene comune. Il tuo ritrovamento. Non potevamo tollerare di sapere della tua esistenza e al contempo non sapere dove fossi finito. Finché tua madre non si fosse decisa a parlare, chiusa nella sua pazzia, l’unica cosa che potevamo fare era cercarti senza sosta. A Golconda ci sono figli che non hanno più visto tornare a casa i loro genitori, cani morti aspettando i padroni sull’uscio di casa. Vecchi genitori sopravvissuti ai loro figli.” “È il prezzo del tuo segreto, Dag”, continuò Araya. “Nessuno, a parte i Draconi, deve sapere chi sei veramente. Quando torneremo a Golconda ricordati sempre di questo. Frequenta poco gli altri, stattene per conto tuo. Sono già molte le persone morte per colpa tua. L’essere umano è corruttibile.”

“Non sarebbe più facile dire la verità? Dire ai vostri Fratelli di Sangue, o come vi chiamate, che sono il figlio di Skyrgal?” Il messhuggah si adombrò. “Tu fallo. Verranno a trovarti di notte”, disse. “Ti infileranno in un sacco, gonfiandoti di botte, e forse ti faranno a pezzi. Letteralmente a pezzi. Ti daranno alle fiamme, ti chiuderanno in una cassa sigillata e ti getteranno in fondo a un burrone o all’oceano. Inutilmente. Tu tornerai in vita e aspetterai per sempre, o almeno finché qualcuno, nel corso delle ere, non ti ritroverà. Allora sarai già impazzito. Non ti conviene giocare con le nostre superstizioni, ragazzo mio. Skyrgal è una presenza inquietante sita nel nostro inconscio, fa parte della storia personale di ognuno di noi così come della nostra storia collettiva. Siamo cresciuti ai suoi piedi, ciascuna pietra della Fortezza è stata posta sotto il suo sguardo silente. Lo abbiamo visto urlare al cielo la sua collera pietrificata ogni maledetto giorno della nostra esistenza.”

Chinò la testa, bloccandosi con il piede a pochi centimetri dal suolo. Lo spostò su un altro quadrante e continuò ad avanzare. “Spero che tu non ti stia distraendo”, disse Olem. “È stato un errore persino portare qui Moak”, continuò Araya. “Ma quando, dopo dodici anni di inutili ricerche, tua madre ha svuotato il sacco e Hammoth il Pendracon ha spedito anche Olem e me su questo mondo, ci ha ordinato di portare anche lui. Avete bisogno del suo aiuto, ha detto, e aveva ragione, dannatamente ragione. Moak era un Guardiano fidato e sarebbe diventato Dracone del Veleno alla mia morte. Uno strappo alla regola necessario.” “E perché proprio lui?” “Perché Moak aveva viaggiato e studiato molto, cose che neanche io conosco. Conoscenze proibite. Lui ha ricercato in lungo e in largo il tempio di Ktisis e le iscrizioni maledette, era il motivo stesso della sua esistenza. Parlava correntemente la lingua dei gorgor, aveva stretto amicizie clandestine persino con alcuni tankar e conosceva la tua storia già prima che lo informassimo. Ci sarebbe sicuramente tornato utile per seguire le tue tracce su questo mondo.” “E adesso è morto”, aggiunse Olem. “Morto per colpa nostra.” “Eppure le sue conoscenze non sono andate del tutto perdute”, riprese il messhuggah osservando il volto assopito di Kugar, sulle proprie spalle. “Deve averle trasmesse a questa sua studentessa, almeno in parte. Non mi sorprende che abbia insistito così tanto per portarla con sé. Hanno viaggiato e studiato molto, insieme, e temo che sapessero sulla tua natura più di noi.” “Per lei sono solo un abominio”, disse Dagger. “No, non lo crede veramente”, rispose Araya, ghignando. “In qualche modo penso che si sia affezionata a te, però tu non puoi vederlo. Devi avere una sufficiente esperienza della vita e aver avuto un determinato numero di delusioni amorose per riconoscere alcuni sguardi, alcune dinamiche.” Olem gli assestò un buffetto sulla nuca, ma Dagger non rispose. Araya si rabbuiò. “Come loro, alla Fortezza ci potrebbero essere altre persone che conoscono la tua natura. Nasconderti non è mai stato facile e forse solo ora

capiamo che è impossibile farlo ancora per molto. Nel dubbio, è comunque l’unica cosa da fare.” “L’unica cosa da fare, lo ripetete in continuazione. È una scemenza, non esiste mai l’unica cosa da fare, almeno questo è quello che mi hanno insegnato le strade di Melekesh. C’è sempre una scelta, a volte si tratta solo di decidere cosa ci convenga sacrificare. Come la vita dei nostri Fratelli di Sangue spediti su un mondo ostile e depravato, ad esempio.”

“Solo noi Draconi dovevamo essere coinvolti nelle tue ricerche dopo l’errore di tua madre.” “Kugar manterrà il mio segreto.” “Non possiamo saperlo.” “E che volete fare, uccidere anche lei non appena arrivati alla Fortezza?” I due Draconi rimasero in silenzio. “Esistono altre soluzioni”, disse poi Araya. “Forse persino peggiori della morte. Per quello che ti riguarda, è meglio che ti abitui all’idea di non stringere legami troppo forti con i mortali. Tu vivrai per sempre, noi no. Fidati di una creatura vissuta molto più dei suoi amici, e del suo unico amore.” Chinò il volto. “Pensa a concentrarti sui tuoi i, lucertola!” fece Olem. “Non voglio finire i miei giorni con un palo ficcato nel culo! Quando sarai morto ci sarà molto tempo per ripensare al ato.” “Se state cercando di farmi sentire in colpa, ci state riuscendo benissimo”, disse Dagger. “Ho vissuto nella convinzione di non aver mai ucciso nessuno, nonostante quello che facevo per vivere. Adesso invece mi dite che sin troppe persone sono morte a causa mia, e che altre ne moriranno.” Araya alzò le spalle. “Il nostro mondo non è fatto per la pace. La pace è un’illusione posta in mezzo a due guerre e per i mortali la morte è una sorta di irrinunciabile abitudine. Siamo tutti sacrificabili per il fine ultimo, la preservazione dell’Equilibrio che tutto protegge, e del quale purtroppo tu sei una

colonna portante.” “Guarda dove cammini!” “Non ce n’è più bisogno”, rispose Araya. Giunsero a un prato spazioso e ordinato, circondato dai larici. Il sentiero continuava all’altro capo ma, per il momento, il Dracone lucertola non sembrava aver intenzione di affrontarlo. “Riposiamoci”, disse. “Quando costruirono il o della morte, i miei antenati ben sapevano che la mente ha bisogno di un meritato riposo dopo uno sforzo prolungato. Ora non ci sono trappole sotto i nostri piedi, anche se il prato e tutto il o ne sono circondati. Cercate di non andarvene troppo in giro.” Nonostante le sue parole Dagger aspettò che fosse lui a camminare per primo sulla rigogliosa erba, verde come un veleno, e solo dopo lo seguì mettendo ancora i piedi dove li aveva messi lui. Olem raccolse alcuni rami e delle foglie secche, dando vita a un fuoco al centro di un cerchio di pietre annerite usate per quello scopo chissà quanto tempo prima; forse proprio da sua madre. Davanti alla calda luce delle fiamme i due Draconi si sedettero, accendendosi la pipa tra le labbra per fumare in pace dopo la lunga marcia. “E così si conclude la nostra decennale spedizione”, disse Olem. “Una città in fiamme, migliaia di morti e una tankar tra le nostre file.” Araya sbuffò una nuvola di fumo, osservando Kugar stesa a terra accanto a lui. “Poteva andare peggio, Olem. Molto peggio”, rispose, voltandosi verso Dagger. “Pensa se avessero preso anche lui.”

“Lo prenderanno prima o poi. L’eternità è un tempo troppo lungo per tentare di averne un minimo controllo.” “Smettetela di parlare di me come se fossi un oggetto del cazzo!” Araya lo squadrò sibilando, socchiudendo gli occhi in due strette fessure. “Odio il tuo turpiloquio. Non usarlo in mia presenza.” Dagger ghignò. “Buffo”, disse.

“Oh. Ci trovi qualcosa di divertente?” “Nulla.” Olem si alzò e lo prese per il bavero, portandoselo faccia a faccia. “Non siamo invecchiati attraverso tutta questa merda solo per essere presi per il culo da te!” ringhiò. “Lo trovavi buffo? Qui non c’è proprio niente di buffo! La gente sta morendo per colpa tua!” “Lasciami!” “Lascialo!” “Cosa ci trovavi di così divertente?” “Kam Karkenos!” rispose Dagger in un sussurro soffocato. Olem lo lasciò cadere a terra aprendo lentamente la mano, una luce sinistra nei suoi occhi. “Uhm”, fece Araya, sbuffando il fumo. “Sono pochi a usare ancora quel nome, ragazzo mio. Dove l’hai sentito?” “Quando sono morto”, rivelò Dagger, rimettendosi a sedere. “Io l’ho visto.” Olem sgranò gli occhi. Stava per urlare qualcosa, ma il messhuggah lo azzittì con un solo gesto della mano. “Ci hai parlato?” “Sì”, continuò il ragazzo. “E anche lui dice di odiare il turpiloquio. Per questo ridevo. Avete qualcosa in comune, tu e mio padre.” “E cos’altro ti ha detto?” “Che gli servo, che sono destinato a un grande potere e che non devo fidarmi di nessuno, neanche di voi. Buffo anche questo. Mi domando solo perché ne sto parlando proprio con voi.” Araya scattò in piedi. Sembrò sul punto di urlare qualcosa, ma si limitò a stringere le mani da rettile in due pugni, prima di dire: “Io odio! Odio non avere

il controllo su di te!” Olem scosse la testa. “Vecchio figlio di puttana”, mormorò. “Il dio sta giocando sporco. Ci hai parlato per davvero, aveva ragione Moak.” Il messhuggah avanzò verso Dagger e lo guardò dall’alto. “E tu che ne pensi?” sibilò rabbioso. “Che ne pensi di quello che ti ha detto?” “Io? Non lo so. C’è stato un momento in cui ho pensato di fidarmi di lui, non lo nascondo. Insomma, mettiti nei miei panni.” “Skyrgal vuole solo il tuo sangue!” sentenziò Araya. “Una volta che l’avrà usato per tornare nel suo corpo pensi ancora che… ti vorrà bene?” Dagger rimase in silenzio. Araya stava per aggiungere qualcosa, quando il ragazzo lo interruppe: “Chi ti dice che non sia proprio quello che voglio?” rispose. “La morte, la fine di tutto.” “Te lo dico io!” tagliò corto Araya. “Risparmiaci queste idiozie, perché non morirai una volta che l’avrà fatto. La morte non esiste per una forza vissuta attraverso l’eternità, lo capisci o no? Ciascun mortale toccato da quel dio vive per sempre, pensa al Divino. Figurati tu che sei suo figlio. Il grande potere di cui parla è qualcosa di orribile. ORRIBILE!” Dagger rabbrividì. “Cosa mi succederà?” Il Dracone distolse lo sguardo, così come Olem. Si rimise a sedere e guardò il grande vuoto che si presentava di fronte ai suoi vecchi occhi da lucertola. “Tornerai a essere ciò che eri prima di nascere”, rispose infine. “Qualcosa che, ti assicuro, non vuoi essere.”

“Cos’ero prima di nascere? Io ho dei ricordi. Sabbia, urla, e quando sono stato in quel tempio–” “Piantala, Dag!” “–io ho ricordato qualcosa. Non so cosa, ma ha a che fare con un dolore senza fine e ne ho paura.”

A quell’ultima parola, Araya cambiò atteggiamento. “Paura. Sì. La paura è una cosa buona. Posso capirti, ragazzo mio.” “Lui mi ha persino consigliato di lasciarmi aiutare da voi.” “Sul serio?” “Sì. Dannazione, sembra che stiate lavorando per lo stesso obiettivo! I gorgor non mi stanno cercando per riportare in vita Skyrgal, ora servono solo il Divino e lui vuole eliminarmi per impedire il suo ritorno.” “Dicci qualcosa che non sappiamo”, mormorò Olem. Araya sibilò un verso divertito, poi rise e Olem gli fece eco. “Già lo sapevate?” “Ah! Certo che sì!” “E chi ve l’ha detto?” “Il Divino stesso”, rispose Olem. “O almeno i suoi emissari. Ogni maledetto mese, un gorgor si presenta sotto le mura della nostra Fortezza portandoci il suo messaggio. Lui vuole te, solo te. È ancora alla ricerca dell’anima perduta di Skyrgal e vuole di nuovo possederla dentro il proprio corpo storpiato. È il motivo della sua esistenza, come la droga di un reietto, l’alcol di un alcolizzato–” “Vacci piano con le metafore.” “–e se tu lo riportassi in vita il Divino perderebbe il suo gioco preferito”, continuò Olem. “Sarebbe disperato, condannato a vivere per sempre, per sempre alla ricerca di qualcosa che non potrà mai avere. Così i suoi ambasciatori si presentano a Golconda ogni mese. Noi gli apriamo le porte, li accogliamo con cortesia, come si deve a tutti gli ambasciatori, li facciamo mangiare, riposare, gli prepariamo un bagno caldo e gli facciamo scopare le nostre sorelle. Quelli dicono con quel loro orrido accento, Dove si trova il ragazzo? Consegnatecelo e non ve ne pentirete! Sembra non sappiano dire altro, deve essergli costata molta fatica imparare a dire quelle poche parole in maniera tale da essere vagamente capiti. Non importa. In tutta risposta noi li incateniamo, gli mozziamo le mani e

la lingua, li scuoiamo, del tutto, assicurandoci di metterci la perizia e il tempo necessari. Poi li mettiamo nel sale per far piacere a Angra, e anche a noi, e li lasciamo essiccare al sole con i testicoli o qualche dito in bocca, in modo che muoiano di fame, dolore e sete, con la sabbia negli occhi e il vento che gli erode il volto e tutto quello che potrebbe rendere la loro morte un tantino più atroce. Il loro corpo si rigenera, lo hai visto, il che significa che possiamo prolungare la loro sofferenza a nostro piacimento. Quando smettiamo di trovare la cosa divertente, e questo non capita spesso e sicuramente non in fretta, gli spacchiamo la testa in due e generalmente queste bestie del Veleno conservano la loro materia grigia, o in questo caso verde, per i loro studi del cazzo. Delizioso.” “È solo grazie a quegli studi che abbiamo potuto rallentare il Divino. Dal cervello dei gorgor si rimediano i veleni più potenti, veleni che stringono accordi con la stessa morte, rallentandola o… simulandola. Alcune persone sono morte molto dopo essere sepolte.” “Un vero spettacolo. Ci accertiamo sempre di metterli in alto, così che anche da lontano possano vederli, eppure ogni mese arriva un nuovo emissario per trattare la tua consegna. Il poveretto sa bene quale fine lo attenda una volta ripetute quelle fredde, sterili parole. Consegnateci il ragazzo. Ah! Ti dirò che per un po’ ho trovato la cosa divertente, poi ho capito che il loro senso del sacrificio è simile al nostro e mi domando sempre se non siamo noi quelli dalla parte del torto. In fondo loro vogliono solo farti a pezzi e farti sparire per sempre, quello che farebbe qualsiasi essere dotato di senno.” Sorrise. “In ogni modo, i gorgor non vogliono più il ritorno del loro antico dio”, concluse Araya. “Ora ne servono uno tutto terreno, il loro messia lebbroso. Ma ci sono altri che servono il signore della Distruzione e sono figure meno oscure di quanto potresti immaginare.” Olem si fece serio di colpo, voltandosi lentamente. “Araya. È davvero troppo presto per questa storia.” Il Dracone del Veleno non continuò, forse combattuto tra la voglia di parlare e la convinzione che fosse meglio star zitto. “Chi sono?” domandò Dag. “Chi è che vuole il suo ritorno, oggi?” “Se Olem dice che è troppo presto, c’è da fidarsi.”

“Non è mai troppo presto per la verità”, replicò Dagger, alzandosi. Sfilò Redenzione, che lacerò la penombra con la sua luce. “Parlate!” Araya lo freddò con lo sguardo. “Posa quella lama prima che qualcuno si faccia male. Cosa vuoi fare? Ucciderci?” “Oh, no. Io non l’ho sfoderata per voi”, rispose il ragazzo portandosi la lama contro la gola. “Devo solo uccidere me stesso se voglio sapere altro. Salgo un attimo da papà e torno. Lui almeno parla con me.” Il buio attraversò gli occhi del messhuggah. “Non farlo. Mai! Noi non ti abbiamo nascosto nulla, solo le cose che ancora non avresti capito.” “Voglio sapere cosa mi succederà una volta che avranno spremuto il sangue fuori dal mio corpo. Anche se è terribile. Nessuna verità è mai peggiore delle illusioni che la nascondono.”

Araya si alzò, muovendo un o verso di lui. “Voglio sapere chi sono veramente”, ripeté, comprensivo. “È quello che dicono tutti gli umani. Domandati piuttosto se non sono gli altri a dire chi siamo veramente, attraverso l’uso che fanno di noi.” Mosse un altro o. “E attraverso le menzogne che ci raccontano con l’unico scopo di usarci. Quante persone, o dèi, stanno cercando di usarti in questo momento. Eh, Dag?” A quella Dagger non rispose. Araya si pose di fronte a lui e abbassò la lama stretta nel suo pugno con la massima naturalezza. Lo guardò. Gli occhi del Dracone celavano una profonda sapienza. Si domandò quanto fosse vecchia quella creatura, quante cose orribili fosse stato costretto a vedere nella sua lunga esistenza. Si domandò quante persone a cui teneva avesse visto morire, e lo sentì in qualche modo vicino. “Alla Fortezza farò in modo che tu riceva tutte le informazioni che chiedi, almeno quelle che abbiamo”, disse Araya in modo tale da essere sentito solo da lui. “È la mia parola, la parola di un messhuggah, che potresti scrivere sulla pietra. Ora c’è solo una cosa di cui mi preoccuperei se fossi in te. Non morire più. Ogni volta che parlerai con Karkenos ti allontanerai sempre più dalla verità. C’è solo la voce dentro di te, che devi ascoltare, è quella l’unica guida. Io lo vedo, ragazzo mio. Tu vuoi fidarti di noi, senti che solo noi possiamo essere

dalla tua parte e, per quanto vorrei farti capire che hai ragione, non riesco a dimostrartelo. Be’, alla Fortezza ti sarà spiegato tutto. Ora è il momento della fiducia. Tu ti fidi di me?” Dagger vide uno sguardo comprensivo, lo sguardo di un essere che capiva il suo dolore e la sua confusione. Si ritrovò ad annuire, rinfoderando il pugnale. “Bene”, disse Araya. “Rimani con noi e prometto che questo giro, questa volta, ti piacerà.” “Araya, siediti. Che cazzo, mi stai rendendo nervoso!” disse Olem. Il Dracone lucertola tornò a sedersi. “Si fidava di Skyrgal.” “Sì, ho sentito. Io l’ho detto subito che non mi sembrava troppo sveglio. Chi non si fiderebbe di un dio esiliato dal mondo all’alba dei tempi?” Olem rise, con la propria risata selvaggia, prima di rabbuiarsi lentamente come se un pensiero oscuro fosse calato sulla sua mente. “Fallo tornare in vita, poi sarà lui a dimostrarti quanto tiene a te. E a tutti noi. Ogni padre, in fondo, vuole solo il sangue di suo figlio. Distruggere il futuro che ha creato, mangiare il frutto delle sue gonadi. È il vecchio che ha paura del nuovo, la morte che teme la vita.” “Non dovresti essere ubriaco, non ti ho neanche visto bere”, provò Araya, ma Dagger poteva vedere che quelle parole lo avevano in qualche modo colpito. “Quando sono ubriaco, io sto zitto.” “Ah già, dimenticavo.” “Lo prenderanno prima o poi.” Olem tirò una nuova boccata dalla pipa. “Sì. Lo prenderanno e noi perderemo nuovamente il controllo sulla situazione, ammesso che lo abbiamo mai avuto.” Araya fumò a sua volta, ragionando. “Molte pedine si stanno muovendo in maniera insolita in questa gigantesca scacchiera”, rispose. “E ci stanno guidando sempre più verso uno scacco ineluttabile. O forse questa non è la scacchiera sulla quale abbiamo sempre combattuto, almeno non più. E se fossimo noi il vecchio che ha paura del nuovo?” Calò un silenzio profondo tra di loro, echeggiato dalla foresta senza vita.

“Dag, non morire più”, disse Olem, cupo. “Tuo padre sa essere molto convincente quando parla coi mortali. Sarebbe in grado di convincerli di qualsiasi cosa, anche a fidarsi di lui. È già accaduto, pensa a quella troia di tua madre.” Dagger provò l’improvvisa voglia di aprirgli un sorriso da orecchio a orecchio. “Ciò che è fatto è morto”, concluse Araya. “Riposate voi che potete. Giorni difficili si stendono davanti ai miei occhi. E dopo di quelli, giorni ancora peggiori.” Rovesciò il contenuto della pipa a terra e lo calpestò. Incrociò lo sguardo di Dagger. “Dormi. Noi possiamo farne a meno.” “Voi non dormite mai?” “Siamo troppo stanchi per dormire.” Dagger si stese a terra e si addormentò quasi subito, sicuro che gli occhi vigili di Araya avrebbero vegliato su lui e Kugar.

* * * * *

10. Divino

Gli alberi, accarezzati dal vento del mattino, salutarono il nuovo giorno scuotendo le foglie ricoperte di rugiada. Una vista piacevole dopo tanta morte, uno spettacolo abbagliante nella sua spoglia semplicità. Poi, il suo sguardo cadde sul sentiero che si apriva davanti a loro e Dagger sentì il vuoto e la paura riempirgli di nuovo la mente.

Olem era seduto accanto a Kugar. Non appariva stanco, anche se doveva aver ato tutta la notte sveglio. Araya si trovava poco oltre e raccoglieva le proprie cose senza fretta. Sembrava che anche loro volessero solo godersi la pace della prima mattina prima del pericolo che li attendeva. Non cancellarono le tracce del loro aggio, sicuri che nessuno li avrebbe seguiti lì dentro e presto, sin troppo presto, furono di nuovo in marcia per giocarsi ogni o con la morte.

“Tutti i i compiuti nella tua vita ti hanno condotto qui”, recitò sommessamente il messhuggah. “Primo comandamento.” “Cosa significa?” domandò Dagger. “Che le cose vanno come vanno, non come dovrebbero andare. Tutto contribuisce al risultato finale, anche ciò che non vorremmo. Non ci sono decisioni, scelte o esperienze più significative delle altre nella vita. Quando ridi e quando piangi, quando sei solo contro il mondo o hai tutti dalla tua parte, le persone che hai amato e lasciato, quelle che hai tradito e quelle che sono tornate. Tutto contribuisce al risultato finale. Nell’esistenza quasi nulla dipende interamente dal nostro volere e tutti i i compiuti nella vita–” Si interruppe. “Avete sentito, vero?” Rimasero in silenzio, cercando di cogliere anche il minimo rumore nel sinistro vocìo del vento. Presto l’inconfondibile verso di un cruachan gli fece accapponare la pelle.

“Sente l’odore.” “Ci stanno aspettando”, disse Araya, indicando dritto davanti a loro. Da lì in avanti il tetto di rami e foglie che li aveva protetti sino ad allora era stato sfoltito, distrutto, tanto da lasciar penetrare la luce del cielo grigio e nuvoloso. “Sta sorvolando la zona. Ci sta braccando, il figlio di puttana.” “E cosa dovremmo fare, scappare attraverso le trappole?” Araya scosse la testa. “Non ci sono trappole nell’ultimo tratto del o. Anche loro devono saperlo.” “Allora andiamo avanti, se non possiamo fare altro. Smettila con la filosofia e pensa alla pelle, o quello che cazzo avete voi lucertole.” Il Dracone del Veleno continuò a misurare i i finché non raggiunsero due grandi pietre bianche poste ai lati del cammino. Da lì in poi iniziò a procedere più spedito, senza curarsi di dove metteva i piedi, e Dagger capì che le trappole erano finite. Adesso la morte sarebbe potuta calare solo dall’alto; le chiome degli alberi si diradarono sempre più, rendendoli bersagli sin troppo facili. “Stiamo andando dritti verso una trappola e non possiamo tornare indietro”, dedusse Araya. “Vogliono farci uscire allo scoperto, poi attaccheranno.” Alle loro spalle il verso rapace del cruachan sembrò confermare i suoi sospetti. “E cosa dovremmo fare?” Stavolta Araya non rispose; lasciò solo scivolare le catene lungo le braccia. Olem recepì il messaggio e sfilò lo spadone dal fodero sulla schiena. Così andarono incontro al loro destino, mentre la sicura penombra portata in dono dal fogliame si diradava sempre più. “Pensi che dovremmo iniziare a correre?” domandò Olem.

In tutta risposta, un cruachan sbucò tra i rami e planò sulle loro teste come se volesse solo sentire il loro odore, prima di spiccare nuovamente il volo e rimanere sospeso a mezz’aria, a osservarli. Lanciò il suo trillo infernale, Araya scagliò un coltello, la bestia lo schivò e continuò a seguirli assordandoli coi suoi

versi infernali. Quando alle loro spalle udirono nuovamente il sinistro fruscio delle foglie, capirono che tutto era perduto; apparvero nove cruachan cavalcati da nove gorgor, che li raggiunsero e presero a volare in cerchio sopra di loro.

“Inutile fuggire.” Araya si fermò. “Cosa ti sei messo in testa?” fece Olem. “Prendi i ragazzi e corri verso il portale. Non è molto lontano, ce la dovreste fare.” “E tu?” Araya si rigirò le catene tra le dita, mettendolo a tacere con il solo sguardo. Olem strinse i pugni, poi guardò in alto e capì che non avevano più tempo. “Che tu sia maledetto!” disse solo. Caricò Kugar sulle proprie spalle e iniziò a correre. “Seguilo.” “E tu cosa…” “Ho detto seguilo!” Il cruachan che fino a quel momento si era limitato a osservarli, astuta sentinella in attesa dei suoi compagni, si lanciò nuovamente contro di loro. Dagger riuscì a gettarsi a terra appena in tempo prima sentire il sibilo del suo aggio sulla testa. “Scappa maledizione!” urlò ancora Araya. Dagger poté solo fuggire dietro Olem, mentre con le sue formidabili catene il Dracone lucertola gli copriva le spalle. Atterrò e uccise il cruachan e il gorgor che lo cavalcava, tuttavia questo non intimorì gli altri e presto si ritrovò a respingere i loro attacchi con la sciabola, arretrando sempre più sotto i colpi affilati di artigli e scimitarre. Un cruachan aggirò le catene e si gettò subito in picchiata contro di loro. Olem cinse Dagger per le spalle e si gettò di lato. Scapparono nuovamente, poi un dardo sibilò nell’aria; il gorgor che lo cavalcava

li stava bersagliando con la sua balestra. “Non ce la faremo mai, dobbiamo combattere anche noi!” urlò Dagger. In tutta risposta, Olem lo spinse avanti rimanendo indietro con Kugar adagiata su una spalla e lo spadone tenuto con la sola mano destra. Decapitò il cruachan gettatosi nuovamente all’attacco e, in un solo, potente movimento, conficcò la lama nella testa del gorgor che lo cavalcava. Dagger capì in fretta il messaggio: corse, diede fondo a quello che rimaneva delle sue forze e corse veloce, come quando era solo un Ragno di strada in lotta per la sopravvivenza tra i vicoli fangosi di Melekesh. Apparve il portale, dritto davanti a lui. Le due impenetrabili file di alberi che li avevano condotti sin lì venivano quasi a un tratto risucchiate dal vortice di luce e buio, fuso alle alte pareti di roccia che lo affiancavano. Era lontano, eppure così maledettamente vicino. Riacquistò la speranza e corse ancor più veloce, affidandosi al buio nella luce, ma si voltò e vide che un cruachan aveva afferrato Olem per le spalle trascinandolo in volo. Si fermò, osservando il corpo inanimato di Kugar che giaceva a terra, abbandonato dal Dracone prima dell’attacco. Io non sono un codardo! si disse. Non lo sono mai stato!

Osservò il portale un’ultima volta, la luce alla fine del mondo, poi tornò sui propri i guardando verso il cielo: Olem aveva trafitto il petto del cruachan e si era issato sul suo dorso, scalzando con un calcio sui denti il gorgor che lo cavalcava. Grondante di sangue, planò a terra insieme alla bestia e scivolò nella polvere fino a raggiungere Araya. Zoppicò al suo fianco poi, armi in pugno, i due Draconi scatenarono l’inferno e cercarono di resistere fino all’ultimo. Non avevano bisogno di lui. Da Guardiani, in quel momento dovevano solo sacrificare la propria vita per dargli quanto più tempo possibile. Dagger allora raggiunse Kugar e caricò il suo corpo sulle spalle, prima di tornare in fuga verso il portale. Non ò molto prima che i cruachan rinunciassero alla loro vendetta contro Olem e Araya per gettarsi tutti insieme contro di lui, spinti dalle frustate dei loro oscuri cavalieri. Quando vide l’intera squadriglia venirgli incontro capì che la fuga era finita ancor prima di cominciare. Sentì il fetido fiato della morte sul collo e non si voltò nemmeno quando tre artigli affilati penetrarono nella sua schiena, conficcandosi tra le costole. Cercò di urlare, ma non ce la fece. Si ritrovò sollevato di peso mentre il sangue inondava uno dei suoi polmoni. Lottò contro lo stremo, schiacciò la sofferenza sotto il tacco della volontà per non far

cadere Kugar a terra. Il portale era già lontano. Ce l’aveva quasi fatta, pensò, quasi fatta. Sollevò lo sguardo e vide che quel cruachan era cavalcato dal Divino in persona. Lo poteva sentire ridere, ridere della sua stupida pretesa di sopravvivere alla lunga caccia. Lo torturò con le scosse del mayem mentre il cruachan scorticava con il becco il suo cuoio capelluto. Era solo il principio, pensò, di ciò che lo attendeva. Sentì Kugar respirare tra le sue braccia. Sorrise. Era ancora viva. Resisti, almeno tu! Poi una luce viola e accecante investì il mondo e il tempo si fermò. La vista sbiadì. Non sentì più la fatica né il dolore, la paura né il tormento. La luce lo attraversò da parte a parte e pervase tutto. Sentì l’urlo del Divino, mentre un forte vento spazzava via i cruachan, così come i gorgor che li cavalcavano. Una folgore saettò contro di loro, bruciandoli vivi. Udì i loro versi di agonia e le grida di terrore, vide gli scheletri carbonizzati precipitare senza rimedio, sentì un forte calore e subito dopo un grande freddo mentre gli artigli che lo avevano afferrato, privi di vita, lo lasciavano andare. Dagger cadde a terra e rotolò su se stesso. Cinse Kugar per le spalle, respirò tra i suoi capelli nel mezzo dell’inferno e continuò a trascinarsi verso il portale. Davanti a lui vide che il Divino si era alzato, solo un’ombra contro la luce porpora. La bestia lucente avanzò contro di lui, ringhiando con le sue zanne d’avorio e osservandolo con il solo occhio bianco. Due enormi ali adombravano la foresta, ricoperte di piume che avevano tutte le sfumature possibili dal lucido bianco delle perle al viola del cielo dopo il tramonto, così come il pelo che ricopriva l’immenso corpo di lupo.

“Crowley!” ruggì, facendo tremare l’intero mondo. “Perché, Crowley?!” Il Divino rise di lucida follia, alzando la spada verso il dio, ma Angra lo azzannò per il petto e lo scosse furiosamente. I pezzi dell’armatura di mayem volarono ovunque, scoprendo il corpo dell’ultimo Re guerriero devastato dalla morte vivente. Dagger chiuse gli occhi. Strisciò nel suo sangue verso il portale, perché non poteva più camminare, poi si sentì sollevato di peso e trascinato in volo. Raccolse quel che rimaneva delle forze per osservare il suo salvatore: era una visione terrificante e meravigliosa, l’alba su un campo di battaglia alla fine di una notte di guerra, la luce alla fine del tormento. Si sentì bene, non temette più

nulla. In quel momento riuscì ad abbandonarsi al volere superiore e lasciò che il destino gli sfuggisse di mano, ammesso che ne avesse mai avuto il controllo.

Il portale era davanti a loro. Stremato, Dagger perse i sensi e si abbandonò all’abbraccio, stavolta piacevole, del grande silenzio. Si sentì meglio, mentre moriva.

* * * * *

Pietra, liscia e fredda sotto le sue mani. “Oh no, non di nuovo!” Ascoltò una risata, lenta e sarcastica. Alzò gli occhi e vide la luce nel vento, alta ben sopra di lui. “Adesso che hai scoperto di poter tornare in vita quante volte vuoi, non riesci proprio a resistere alla tentazione di morire ogni dieci minuti, vero?” “Ciao papà”, disse Konkra, alzandosi. “Già. Papà.” rispose la voce. “Devo dire che mi fa uno strano effetto sentirmi chiamare così.” “Oh, devi dire molte cose. Non vedevo l’ora di morire, ho talmente tante domande da farti che non so neanche da dove cominciare.” “Ah sì? Del tipo?” “Un certo Araya ha detto che–” “Oh, perfetto! Adesso ci mancava solo il principe lucertola del cazzo!” sbottò Karkenos. Konkra rimase spiazzato. “Non eri tu che odiavi il turpiloquio?” “Sì, ma le lucertole hanno la rara capacità di farmi perdere la pazienza.” Konkra sorrise. “Tu ne hai paura”, rispose, e la luce rimase in silenzio. “Sì. Tu ne hai una paura fottuta.” “Vedi, figlio mio, in molte filosofie e culture del tuo mondo la lucertola viene vista come un simbolo di saggezza per la sua interminabile ricerca della luce. Una lucertola starebbe nella luce fino a bruciare viva e morire.” “Non ti seguo.” “Divagavo”, fece una pausa. “Dove l’hai incontrato?” domandò poi. “No,

aspetta, non dirmelo. Siete ati attraverso quella diavoleria che i messhuggah hanno costruito per tenere separati i due mondi, vero?” “Il o della morte?” “Già, il o della morte! Ora siediti e raccontami cosa ti ha detto.” Konkra si mise a sedere al cospetto dell’occhio di luce e con pazienza, per filo e per segno, raccontò tutto quello che era accaduto dal loro ultimo incontro. Solo poi si ricordò che la luce aveva un tempo detto di poter vedere tutto attraverso i suoi occhi, e capì che in quel modo stava solo cercando di capire il suo punto di vista riguardo l’intera faccenda. I suoi pensieri dovevano risultargli quindi impenetrabili. Poteva veramente mentire a quell’entità? Poteva tenergli nascosto qualcosa, o stava semplicemente bluffando? Giocare a dadi con un compagno della gilda era diverso, c’erano le espressioni del volto, gli impercettibili movimenti degli occhi da interpretare ma, con una luce nel vento, questo risultava un tantino più difficile. Poteva leggere nella sua mente anche in quel momento? “Cos’ero prima di nascere?” domandò, in conclusione. “Tu non mi consideri un figlio, solo un mezzo per raggiungere il tuo fine ultimo, ossia rientrare nel corpo dal quale Angra ti ha buttato fuori a calci in culo.” Karkenos non rispose subito. “Apprezzo l’eleganza della lucertola. Lui si è astenuto dal giudicarti. Quelle carogne che tu chiami Olem e Kugar, invece, hanno parlato di cose delle quali non capiscono nulla. Continui davvero a pensare che loro sappiano su di te più di quello che so io, che ti ho creato? Io che ti ho voluto, io che ho attraversato gli abissi del tempo per averti?” “Cosa mi succederà una volta che–” “Morirai! Morirai una volta che mi sarò servito di te. Ti farò spremere come un frutto succoso per tirare fuori dalle tue membra quel tuo bel sangue necessario a dare nuova vita al mio corpo. Ti lasceranno lì, vuoto a terra, e la vita così come la conosci non potrà più continuare.” “E dopo aver sentito una cosa del genere ti aspetti ancora che io ti aiuti?” “Sì. Per molte buone ragioni.”

“Vorrei proprio sentirle.” “Quante volte ti sei ritrovato a desiderare la fine di questa vita, più di ogni altra cosa?” Konkra rimase spiazzato. “Questo è irrilevante”, rispose, come imbarazzato. “E poi Araya dice che per me non esiste una vera e propria morte. Dice che tornerò a essere ciò che ero prima di nascere, quindi torniamo al punto di partenza. Cos’ero prima di nascere?” Karkenos ridacchiò ancora. “Nascere, morire. Guardi ancora l’intera faccenda con i tuoi occhi da mortale, questo è il tuo problema, e anche il mio. Chiedere a un mortale di parlarti della tua natura è come chiedere a…” Non continuò. “Non ti viene in mente nessuna metafora convincente, vero?” “Be’, è come chiedere qualcosa a qualcuno che non ne sa nulla. Non capisci l’elemento fondamentale dell’intera questione. Tu sei mio figlio. Solo mio figlio. Il figlio di un dio.” “E il figlio di un dio vive per sempre?” “No. Una forza vissuta attraverso l’eternità, come anche tu sei, vive da sempre. Tu non esisti. Tu sei. Sei da sempre. Sei per sempre! Ricordi ancora quella sensazione di essere già stato nel tempio di Adramelech, nelle profondità del deserto? Era come se non fosse la prima volta che ti trovavi lì.”

“Io c’ero già stato.” “Già.” “E cos’è successo, lì?” “Oh. Molte cose orribili, figliolo. Io c’ero, e anche tu, e anche quell’uccellaccio che ti ha salvato. Ci conosciamo da prima che nascessi, su questo la lucertola ha ragione. Però tu non ricordi.”

“Questo Araya non l’ha mai detto.”

“Allora te lo dico io. I tuoi presenti ricordi non sono che granelli di sabbia persi nel deserto di una più vasta memoria, e cominciano dal momento in cui sei uscito dall’utero violato di tua madre. È un vero peccato, tutti quei bei ricordi, quelle conoscenze, andate in fumo. Ma non ti preoccupare, con il tempo ogni cosa si sistemerà. Una forza vissuta attraverso l’eternità è sempre vissuta, lo dice il nome stesso. Tu non sei mai nato, ci sei semplicemente sempre stato. Aspetta di vedere che prigione stanno per costruirti intorno, Araya e i suoi amichetti. Aspetta di capire le loro reali intenzioni. Non sono molto diverse da quelle dei gorgor e del Divino. Lui voleva trafiggerti il petto con una lama di mayem e imprigionarti per sempre, i Guardiani lo faranno in maniera diversa, tuttavia la sostanza sarà sempre quella. Tenerti lontano da ciò che sei nato per essere. In fondo, non ti sei mai domandato cosa si nasconde in quel pugnale?”

“In Redenzione?” “Così come l’hai chiamato. Non ti domandi perché ubbidisce solo a te?” “È un’arma vivente. Lì dentro si nasconde qualcuno.” “In un certo senso sì.” “Non sono così stupido, l’ho capito. Alcune armi hanno la possibilità di–” “Alcuni metalli, prego”, lo corresse suo padre. “Il mayem, nello specifico. Lo stesso che costituisce il vivente corredo funebre del Divino.” “Quello che vuoi!” rispose Konkra, spazientito. “Alcuni metalli possono contenere le anime. Chi si nasconde dentro Redenzione?” “Qualcuno a cui tieni molto.” “Seeth?” “Sì.”

“Sul serio?” “No!” Karkenos rise ancora. “Avanti, come sarebbe possibile? No, lì dentro si trova l’anima di una figura chiave della tua esistenza. Forse la più importante. Ora, ti domanderai cosa c’entra questo con quella che chiami la tua morte, o di cosa ne rimarrà di te una volta che mi sarò servito del tuo sangue. Be’, ti basti sapere che, in quel momento, solo grazie a quel pugnale ricomincerà la tua vera vita, la tua vita divina. Ciò che sei stato, ciò che sarai. Un giorno, figlio mio, saliremo di nuovo le sacre scale del tempio di Adramelech per terminare ciò che abbiamo solo cominciato, quel lontano giorno. Ah. Non vedo l’ora.” Konkra chinò la testa di lato. “Eh?” “Scoprirai presto il significato di queste parole”, continuò Karkenos. “La memoria. Parlavamo di memoria, no? Tornerà. Perché riportandoti alla loro stramaledetta fortezza, i Guardiani hanno fatto l’unico errore che non avrebbero mai dovuto commettere. Si credono furbi, ma non lo sono. Sono solo disperati e le persone disperate fanno scelte stupide. Presto i miei servi ti troveranno e saranno Loro a mostrarti la strada.”

“Loro? Non mi dire gli ennesimi cavalieri oscuri in cerca del ragazzo predestinato?”

Karkenos rise. “Temo di no. È una promessa, la promessa di un dio, che potresti scrivere sulle stelle. Penso che Loro ti stupiranno.”

Dagger capì che il suo tempo nella terra di mezzo era nuovamente giunto al termine, quando la luce alla fine del mondo lo avvolse. Vide nuovamente il terribile volto caprino di Skyrgal, incorniciato dalle corna deformi ma, riflesso nei suoi occhi, stavolta intravide anche il proprio aspetto. Il suo vero aspetto: non sembrava un burzum come suo padre, né un mastodon come Angra.

Per un momento, ebbe l’assoluta certezza che riflesso in quegli occhi ci fosse il ghigno maligno di Ktisis.

Poi tutto scomparve e il grande buio fu la premessa della sua prossima resurrezione.

* * * * *

‘Abbiamo invece prove certe che il primo incontro vero e proprio tra Dagger e quelli che, per rispetto nei confronti del lettore, mi ostinerò a definire ‘Loro’ avvenne quella notte in cui il ragazzo, o dio, o vettore del sangue di Skyrgal o come avete convenuto di chiamarlo, si recò alla tomba di sua madre nella Radura per renderle omaggio. Non conosciamo tutti i dettagli della vicenda, eppure grazie alle mie indagini posso dichiararmi sicuro di almeno due particolari. Primo: Dagger aveva già conosciuto uno di ‘Loro’ prima di allora, nello specifico durante il tormentato viaggio che dal mondo Oltre lo aveva portato a Candehel-mas. Solo che ancora non lo sapeva. Secondo: tutti gli avevano mentito sulla sua vera natura. E questa è una faccenda così delicata da non poter esser trattata apertamente su un testo scritto, se non si vuole incorrere in qualche spiacevole inconveniente come, ad esempio, capitato ai miei esimi colleghi, i Guardiani Reali e Popester. I quali sono spariti in circostanze misteriose dopo aver sostenuto che Dagger fosse la reincarnazione dello stesso Ktisis.

Io non sto sostenendo nulla e non sto muovendo alcuna accusa. Non mi sono mai fatto dei nemici, l’ho sempre trovato stupido e controproducente. Ma la libertà d’espressione nella quale ho sempre creduto e per la quale ho sempre lottato mi costringe a riportare questa loro tesi.’

Ismah Gordon. ‘Testi non compiuti’, pubblicati post-mortem.

Nota da parte dell’autore e noiosi ringraziamenti.

Molti dei nomi utilizzati in questo romanzo per personaggi e luoghi hanno un duplice richiamo. Alcuni si rifanno a demoni o forze maligne appartenenti a diverse culture (Adramelech, Angra, Marduk), altri sono ispirati a personaggi dalla sinistra nomea (Crowley). Al contempo sono anche i nomi, spesso volutamente storpiati per migliorarne la leggibilità (Candehel-mas, Melekesh, tankar, messhuggah), di gruppi heavy metal o brani che hanno ispirato la stesura del presente. In effetti, penso che questo sia un romanzo heavy metal. Adesso, la lista della spesa che tutti mettono all’inizio della propria opera ma che, per rispetto nei confronti del lettore, preferisco inserire alla fine, così chi non se la vuole sorbire può già chiudere il libro: i ringraziamenti.

Ringrazio il mio migliore amico, nonché addetto alla punteggiatura e critico enormemente rompicoglioni, Salvatore. Con il senno di poi, bisogna davvero averli i coglioni per far leggere il tuo libro al tuo migliore amico, con la paura che questo possa ferirti, nel vero senso della parola, ucciderti o darti fuoco a casa a seconda della qualità del romanzo. Coglioni che bisogna anche avere per criticare ogni congiunzione messa a membro di segugio nel libro del tuo migliore amico, se è per questo. Be’, insomma, grazie. Grazie per essere stato un buon amico, un distinto compagno di bevuta, ottimo compagno di viaggio, terzo o quarto lettore, primo editore e agente pubblicitario kamikaze. Grazie anche a sua moglie Sonia che da qualche parte, in qualche momento, deve avergli detto di non rompermi così incessantemente i coglioni, mitigando le invettive del marito sui punti e virgola. Ringrazio Daniele, altrettanto fervente rompipalle, compagno di bevute e cacciatore di svarioni, il quale ha salvato la mia carriera da morte prematura in almeno un paio di occasioni. Grazie a Silvio “Simbio” Costa per le illustrazioni interne e la copertina. Se volete collaborare con lui, potete contattarlo a [email protected]

Ringrazio i colleghi Wirton e Wally per le revisioni last minute; Vera Q per l’ineguagliabile assistenza grafica; l’azienda ospedaliera Regina Elena di Roma e l’intero Sistema Sanitario Nazionale italiano; Flavio Falsone e i Whisperz; i fratelli Livi, batterista e chitarrista degli Asphaltator, con i quali facevo un ottimo thrash metal-bay area fatto in casa e per i quali ho scritto diversi brani, a partire da uno che parlava di un certo dio sciacallo che guidava le anime dei morti, copyright dell’antico Egitto… E poi ringrazio te, lettrice o lettore o x, chiunque e ovunque tu sia. Se sei arrivato sin qui devi avere decisamente qualcosa che non va, quindi temo che andremo molto d’accordo. Trovi il mio indirizzo e-mail a inizio romanzo per critiche, apprezzamenti, minacce di morte, proposte di matrimonio, riflessioni sul significato della Redenzione e della luce per i vari personaggi del romanzo, autore compreso. Oppure puoi scrivermi sulla mia pagina Facebook: facebook.com/walt.popester. Generalmente non nego l’amicizia virtuale e nel mondo reale a nessuno che non abusi della mia purtroppo limitata scorta di pazienza per il genere umano, momenti di ebbrezza a parte. Combattere da solo contro le grandi case editrici non è sempre facile, e Amazon richiede sempre nuove recensioni; se ritenete l’opera valida, aiutatemi lasciandone una, anche breve, al seguente link: tinyurl.com/recensioneDagger1. Aiuterà gli altri a scoprire Dagger (o evitarlo!).

La saga prosegue con Dagger II – Fratelli di Sangue, disponibile su Amazon al seguente indirizzo: tinyurl.com/Dagger2WaltPopester.

Spero di risentirvi presto, altrimenti è stato un piacere avervi sin qui. That’s all folks. Good night.

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