Claudio Pellacchia
IL MAESTRO DI SCI
ISBN: Non disponibile
Questo libro è stato realizzato con BackTypo un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
I - MARIO II - FRANZ III - LA PAURA IV - LA CENA V - IL NONNO VI - I RAGAZZI VII -CARLO VIII - INGRID IX - LA RAGAZZA X - LA CITTA' XI - LO SCI XII - JACOB XIII - PETER XIV - IL SERVIZIO MILITARE XV - LA MADRE XVI - COLUI CHE PUO' NON E' XVII - COLUI CHE E' NON SARA' XVIII - COLORO CHE SARANNO
Ringraziamenti
Collana della normalità contatta l'autore su Facebook e Twitter: ellacchia
I - MARIO
Faceva freddo in quella sera di fine ottobre. Mario, parcheggiato il suo vecchio e malandato fuoristrada al solito posto, scese, chiuse lo sportello e s’incamminò verso il ristorante di Franz. Il o era lento perché, oltre ad essere la strada in salita, tirava un forte vento di tramontana che gli fece volare il cappello, costringendolo, mestamente, a ritornare sui suoi i. “Brutta storia” pensò “se continua così la neve quest’anno non tarderà ad arrivare”. Aveva lavorato duro tutto il giorno al suo distributore di carburante, situato sulle Alpi al confine con l’Austria. Seppur fuori stagione, si erano avvicendati molti degli automezzi di una ditta che stava riparando gli impianti di risalita. Oltre che rifornire di gasolio gli autocarri e le ruspe, aveva dovuto assisterli anche in piccole riparazioni meccaniche, rimanendo all’aperto per tutto il giorno. Talmente impegnato, non aveva avuto la possibilità di riscaldarsi nel suo box, largo 2 metri e lungo 1 metro e mezzo, che lui chiamava “La mia tana”, tanto era piccolo e puzzolente, ma caldo come un’isola tropicale, così almeno immaginava. Mario era un omone alto un metro e ottantacinque per 110 chilogrammi di peso. Il suo viso, grande e rosso, sembrava essere appena ritornato da un incontro di pugilato con Belzebù. I lineamenti, con i suoi capelli biondi, lunghi fin sulle spalle e la barba fluente, lo facevano rassomigliare ad un antico guerriero vichingo. Le mani, poi, erano così grandi e potenti che riuscivano ancora a schiacciare due noci contemporaneamente, stringendole nel palmo di una sola mano. Era nato 60 anni fa in un paesino di sette case arroccato a 1.800 metri di quota, dove d’inverno non si poteva uscire da casa, tanta era la neve che scendeva. Lì aveva vissuto fino al compimento del sesto anno d’età quando, per la morte del padre, era dovuto scendere a valle dove la madre aveva trovato lavoro come governante.
«Questa sera quanto è distante quella taverna?» disse a voce alta «cammino da due ore» falso «e non sono ancora arrivato?» Diceva così perché gli facevano male le gambe e la schiena, non essendo abituato a restare in piedi per molto tempo, in questa parte della vita, tanto che in quei momenti gli sembrava di scalare, come amava dire quando voleva esagerare, il monte Everest. Finalmente, alzando la tesa del cappello, intravide l’insegna luminosa della taverna. «Taverna del Gallo» lesse. «Come Del Gallo! Si sarebbe dovuta chiamare: “Del Muflone, Della Marmotta, Del Cervo» disse alzando la voce. “Bizzarri questi osti”, pensò. Parlava sempre a voce alta quando voleva spiegarsi meglio il significato delle cose o proporsi un concetto per lui complicato o quando, ragionando, si confermava la bontà del suo pensare. I suoi amici, o per meglio dire i suoi conoscenti, lo prendevano in giro per questo suo modo di fare, ma lui non ci faceva caso, tanto era impegnato ad ascoltarsi. Arrivato alla porta della taverna fece per aprirla quando, per una raffica di vento improvvisa, questa gli sfuggì di mano, andando a sbattere contro una sedia dimenticata dietro di essa. Il rumore fu così forte ed improvviso da far sobbalzare i sei avventori presenti, mentre una folata di aria gelida entrò nel locale. «Mario, ci vuoi far prendere un colpo? Chiudi quella benedetta porta!» disse Albert, che sedeva con Josef al tavolo appena a destra dell’entrata. «Vecchi ubriaconi!» ringhiò Mario «Cosa volete che vi faccia un po’ d’aria, visto tutto quell’antigelo che avete nelle vene! Non siete mica sull’Everest?» esclamò, con quel tono indispettito che usava sempre quando era convinto di essere nel giusto. «A dir poco sarete qui dalle tre d’oggi pomeriggio a bere e a giocare, mentre io sono stato fuori tutto il giorno a lavorare anche per voi». «Come “anche per noi”!» ribatté Anton dal fondo del piccolo locale, appollaiato su di uno sgabello ed appoggiato al bancone insieme con un tizio che Mario non conosceva.
«Dico “per voi” perché, se non sbaglio, tua moglie, Anton, ha un albergo vicino alla funivia e la mamma del tuo compare ha un negozio di cianfrusaglie lì accanto» apostrofò con tono ancora più risentito Mario e puntando il dito in direzione di entrambi. «Quindi... vedete un po’ di farvi gli affari vostri, che non è serata!» Non capendo fino in fondo quelle affermazioni, i due ritennero di non insistere. Conoscendo il soggetto, sapevano che non dovevano farlo scaldare più di tanto, per evitare di ritrovarsi sotto i tavoli con un occhio nero o la testa rotta. In paese, infatti, era conosciuto con il soprannome di “tornado” da quando, per la festa annuale di Ferragosto, preso di mira dai soliti bulletti per i suoi modi schivi, aveva reagito con veemenza ed irruenza. Dal campo sportivo, dove si svolgeva la sagra, si era alzato un polverone di proporzioni tali da far pensare, appunto, al fenomeno atmosferico da cui prese l’appellativo. Sentendo il vocione di Mario, Franz apparve dalla porta della cucina tutto trafelato. «Cosa sta succedendo qui!» «Nulla» rispose Albert «Sai come è fatto Mario…lui si scalda per niente!» L’omone lo guardò in cagnesco, senza dire nulla. Era davvero troppo stanco anche per parlare e non vedeva l’ora di sedersi, mangiare e andarsene a dormire. In ogni modo, capendo che quella poteva essere la calma prima della tempesta, i quattro, dopo che Albert e Anton si erano scambiati occhiate d’intesa, capirono che non era il caso di andare oltre. «Ciao Franz, ciao Mario» disse Albert «credo sia ora di andare a mettere qualche cosa sotto i denti» e s’incamminò verso l’uscita con Josef che non disse nulla, imbarazzato com’era dallo scambio di battute. «Arrivederci a tutti» fece eco Anton e, prendendo per la manica il suo compare di bevute che non aveva afferrato la situazione, uscì in tutta fretta. «A domani ragazzi» esclamò Franz, sollevato senza darlo a vedere. Mario non rispose ai saluti e rimase immobile vicino all’uscio, piazzato come una roccia del Neolitico. Gli avventori, per uscire, dovettero mettersi di traverso e sgusciare silenziosi, come lontre nell’acqua gelida, seguiti dal suo sguardo
torvo. Franz, avvicinandosi a Mario, chiuse la porta e gli mise una mano sulla spalla sinistra e disse: «Non te la prendere troppo per quei due, sai come sono fatti. Le parole gli escono dalla bocca senza che il cervello abbia avuto modo d’intervenire». «Va tutto bene Franz» rispose Mario «Quei due vagabondi m’innervosiscono! La loro occupazione principale è quella di are tutto il giorno qui da te a bere». Poi, pentendosi «Scusami, non volevo offenderti». «Non ti preoccupare» lo interruppe Franz «se me lo potessi permettere li caccerei a calci nel sedere, ma sono pur sempre dei clienti, buonissimi clienti» disse sommessamente. Così dicendo, strizzò l’occhio destro, l’unico rimasto sano dopo che tre anni indietro era caduto in un dirupo. In quell’occasione aveva riportato, oltre alla perdita dell’uso dell’occhio sinistro, una brutta ferita alla gamba destra che lo costringeva a camminare con andamento saltellante, tanto da meritarsi il soprannome paesano di “grillo canterino”. Proprio così “grillo canterino”, visto che, oltre a sembrare una molla ambulante, non ava un minuto senza canticchiare, tranne quando si recava alla messa del sabato sera. Da fervente cattolico com’era diventato, Franz sosteneva che quella della domenica era, più che un atto di fede, un rituale per la maggior parte dei fedeli. Una consuetudine che serviva a riempire la mattinata, fatta più in funzione degli altri che per convinzione personale. Invece, lui, unico maschietto a partecipare al vespro serale del sabato, sosteneva che il suo era il vero modo di rendere grazie al Signore perché interamente e pienamente sentito. Non era stato sempre così, anzi fin da piccolo i suoi genitori avevano avuto il bel da fare per farlo andare a messa. Lui riusciva sempre, o quasi, a farla franca scappando dalla porta della sacrestia, per andare a giocare con gli altri ragazzi nei campi dietro la piccola chiesa. La svolta nel suo rapporto con Dio fu dovuta proprio alla caduta nel burrone che lo aveva invalidato, mentre si trovava a cercare funghi nei boschi vicino a casa sua.
II - FRANZ
Un giorno di fine estate, con un sole brillante in un cielo terso, dopo un periodo di piogge intense, Franz disse a sua moglie: «Emma, visto che ho finito di tramutare il vino e che il formaggio al caseificio è pronto solo domani mattina di buon’ora, vorrei andare per funghi. Potremmo cucinarli per cena al Cavalier De Robertis e già mi immagino quanto sarà contento». «Va bene. Stai solamente attento a dove metti i piedi. Ti ricordi l’acqua che è venuta giù nei giorni scorsi?» «Sì Emma, starò attento, come sempre» rispose sogghignando. “Donne! Non perdono mai quel vizio di dirti sempre quello che devi o non devi fare. Forse sarà il loro istinto materno di protezione che le accompagna per tutta la vita? Materno? ma io mica sono suo figlio! E’ dall’età di quattro anni che vado per funghi. Ora ne ho 54 ed ancora devo sentirmi dire le stesse cose dalle mie donne. Capisco che lo fanno per il mio bene... basta, lasciamo correre. Si sta facendo tardi”. Così pensando, scese le scale della cantina, s’infilò i pantaloni lunghi fino al ginocchio. Indossò con cura una camicia di flanella a quadri bianchi e verdi, calzò gli scarponi da montagna, non senza fatica e si mise a tracolla lo zaino con dentro un giaccone impermeabile e la sua fida roncola. «Non si sa mai cosa ti può capitare in mezzo al bosco» disse sottovoce. Vestito di tutto punto, uscì dalla cantina e fece solo tre i quando si bloccò, come se gli fosse colato in testa un camion di cemento. «Sciocco che sono» disse a voce alta «dove li metterò i funghi che trovo, nello zaino? Sai che multe!» Tornò indietro, entrò in cantina, prese il canestro, deputato esclusivamente per la raccolta dei funghi, che si trovava sempre a portata di mano appeso ad un chiodo vicino alla porta ed uscì. Percorsi 20 metri si fermò di nuovo. «Dove ho la testa oggi! Il bastone, dove è il bastone?» ripeté a voce alta. Ritornò in cantina, prese il “compagno” di tante escursioni, come lo aveva
soprannominato, che era appoggiato alla parte fissa della porta e fece per uscire quando si bloccò sullo stipite, folgorato da un pensiero funesto. «Non che io sia superstizioso» disse tra se. «Un avvertimento del destino per non farmi andare? Cosa ti a per la mente Franz. Sarà forse la vecchiaia che si avvicina? Ma che vecchio, ho da poco superato la cinquantina. Allora Abramo, che ne ha 82, cosa dovrebbe fare, buttarsi sotto un treno, tanto è poco il tempo che gli rimane da vivere? Basta! Io lo so da dove vengono tutti questi brutti pensieri. Lo avevo detto ad Emma che non avrei digerito le cipolle messe nell’insalata. Sì, sono sicuro! Deve trattarsi proprio di questo, ma io ho il rimedio adatto». Rincuorato dalla sua lettura degli avvenimenti, aprì la cerniera anteriore dello zaino e prese una piccola fiaschetta di grappa “sempre pronta per le evenienze”, come amava dire. Ne bevve un lungo sorso, si asciugò la bocca con il dorso della mano sinistra e mentre il liquore stava ancora scendendo giù nell’esofago esclamò: «Ahh, ora cominciamo a ragionare!» Accostò dietro di sé la porta della cantina, controllò se fosse ben chiusa e s’incamminò su per la strada che s’inerpicava dentro un bosco di pini e betulle. “Emma aveva ragione” pensò “l’acqua di ieri ha creato dei ruscelli dove normalmente ci sono i sentieri e le pietre sono diventate molto scivolose. Dovrò fare molta attenzione se non voglio rischiare di ritrovarmi con una gamba rotta”. Il sole, che aveva fatto la sua comparsa fin dal mattino presto, stava facendo evaporare l’umidità rimasta sui fili d’erba. L’impressione che si aveva era quella di entrare in una sauna talmente perfetta che solo Madre Natura era in grado di creare, senza necessità di stravolgere l’ambiente. Franz, seppur avesse visto tante volte un tale fenomeno, ne rimaneva sempre sorpreso e restava assorto in contemplazione, rapito dalla bellezza di quella semplice complicità. La raccolta dei funghi proseguiva spedita, quasi che fossero loro a saltare da soli nel canestro, quando vide due porcini, grandi come dei meloni, che spuntavano da un prato di muschio, ancora bagnato di rugiada. «Funghi, siete miei!» esclamò, ma non appena poggiato il piede sul letto d’erba che li circondava, scivolò su di una pietra resa liscia dalle piogge, posta appena sotto la superficie. Fece per riprendersi, iniziando ad annaspare nell’aria con braccia e gambe, come un ragno che cerca di sfuggire alla lucertola. Niente da
fare. La forza di gravità ebbe il sopravvento su quella umana e Franz iniziò a rotolare giù per la collina urtando rocce, alberi, sterpi. Si fermò contro un grosso abete che sembrava essere nato lì apposta. Ancora due metri e sarebbe finito in un burrone così profondo da essere stato soprannominato, da un vecchio conte venuto a visitare il paese tanti anni prima, Lasciate Ogni Speranza. Nel ruzzolare aveva perso lo zaino, il bastone e il cappello. La gamba destra aveva assunto una posizione strana, irreale. L’occhio sinistro era tumefatto e si stava gonfiando sempre di più. Dai capelli alla punta dei piedi era tutto un dolore. Con sua somma incredulità, però, riusciva ancora a sentirsi. Dalla tasca dei pantaloni prese il fazzoletto, che assomigliava ad un piccolo lenzuolo ed iniziò ad asciugarsi il sangue che colava dal viso. Rimise l’arto inferiore in parallelo con l’altro, fece un profondo respiro e: «Fammi telefonare a casa» sussurrò. Si tastò la tasca della camicia. Il telefono non era rintracciabile. «Forse sarà in quella posteriore dei pantaloni?» Era lì. Appena lo ebbe in mano tutta l’eccitazione che si era creato svanì in una frazione di secondo: somigliava ad una sogliola. «Calma» disse tra sé «posso sempre chiamare aiuto» ed iniziò ad urlare, dapprima piano poi sempre più forte. Con il are delle parole la voce si affievoliva con moto inversamente proporzionale alla disperazione. Fece per alzarsi, ma il dolore lancinante al ginocchio gli impedì di tirarsi su. «Non preoccuparti» si ripeté «questi boschi sono così trafficati che qualche volta sembra di essere all’uscita della messa domenicale». Il suo istinto di sopravvivenza cercava di sdrammatizzare, ma lo scorrere del tempo inesorabilmente, ed inutile, accentuava la sua preoccupazione. Il sole stava ormai per tramontare e creava delle ombre lunghissime. Sembrava che il bosco, amico fino a pochi minuti prima, ora lo trattasse da intruso. Ogni minuto che ava Franz era sempre più spaventato. Lui, in fin dei conti, era un “cittadino d’alta montagna”, come lo aveva soprannominato Emma, nata invece in quei luoghi. «Coraggio» disse a voce alta «coraggio, non lasciarti andare, non darti per vinto» ed iniziò a canticchiare tutti i motivetti che gli venivano in mente, di qualsiasi genere fossero, così da rimanere sveglio qualora i soccorritori fossero arrivati da
quelle parti. Si quietò ben presto. Il dolore gli distorceva talmente le parole da non riuscire a seguire il filo della melodia. Ricorse, allora, all’ultima risorsa cui fanno affidamento gli uomini meschini, quando si trovano in stato di bisogno. «Scusami, o Dio. So che non abbiamo avuto modo di conversare ultimamente, per colpa mia s’intende, ma Franz ti è stato sempre devoto e prometto, che se riuscirò ad uscire vivo da qui, non mancherò di ringraziarti tutti i giorni della mia restante vita» disse con voce incrinata dall’emozione e dal dolore. Tacque. L’adrenalina che aveva in corpo iniziò a diminuire. Il dolore aumentò talmente che si stese, chiuse gli occhi e, dopo qualche minuto, si addormentò. “Sarà l’anticamera della morte?” pensò prima di perdere i sensi.
III - LA PAURA
Mario, quel sabato pomeriggio, terminato il pranzo si era andato a distendere sul letto, come di solito amava fare nei periodi più caldi dell’anno, dove, dopo un attimo di meditazione, collassava in un sonno ristoratore. Verso le cinque si svegliò, non senza difficoltà. Si vestì ed usci di casa con l’intenzione di comperare carne per cena nell’unico locale di alimentari, sempre aperto. Mentre stava andando al negozio di Maria, ò davanti alla taverna di Franz. Guardò la porta d’ingresso e disse ad alta voce: «Mi è venuta una sete! Maledetta cipolla!» riferendosi alla frittata che si era preparato per pranzo. Le uova con la cipolla era la pietanza che si preparava quando non aveva voglia né di cucinare né di lavare i piatti, perchè preparata velocemente e consumata direttamente nella padella. Entrò nel locale. Vuoto. «Oste, ostessa, dove vi siete cacciati! un povero diavolo deve andare al torrente di San Remy se muore di sete!» Così dicendo, iniziò a dare colpi sul bancone che rimbombarono talmente forte da sembrare il rumore di una valanga che si sta per abbattere sulla vallata sottostante. Udendo quel baccano, Emma scese le scale dell’abitazione posta sopra la taverna strillando: «Arrivo, arrivooo! Non prenderai mica fuoco!» «Forza, donna, dammi un bicchiere di quello rosso che ho fretta! Non posso mica stare qui tutto il giorno!» Emma lo guardò profondamente, senza dire nulla. Mario abbassò i suoi occhi e disse: «Scusami! Non volevo mancarti di rispetto. Sai … quella maledetta cipolla …» «Lo so, lo so» rispose dolcemente Emma, che capiva le situazioni solo come una donna sa fare «non ci pensare più» e gli servì un bicchiere di vino, quello buono.
Poi: «Scusami Mario, non hai visto mica in giro Franz? Sono tre ore che è partito in cerca di funghi e non è ancora tornato». Mario guardò l’orologio. “Le cinque e mezza? Tra meno di un’ora sarà buio!” pensò. «Emma» chiese «dov’è andato per boschi?» «Non ne ho idea. Perché? «Nulla, nulla. Forse sarà già a giocare alle bocce da Tommaso. In ogni modo vado a controllare. Non si sa mai cosa…» s’interruppe, mordendosi le labbra per essere andato troppo oltre. «Non si sa mai?» rispose Emma leggermente allarmata. «Niente, non ti preoccupare. Faccio un giro in paese e ti riporto il tuo sposo» sorrise ed usci di corsa. «Mario! Il vino?» «Non ho sete» rispose. «Non ha sete?» sussurrò «ma se …» e l’allarme si stava già tramutando in panico. Ritornato di corsa a casa, prese il fuoristrada. «Tommaso hai visto per caso Franz?» «No, Mario, perché?» «Niente, lo sto cercando» «Forse lo trovi da Giuseppe, nell’orto che ha dietro casa. Li ho visti giocare qualche volta a carte sotto il grosso cipresso» «Grazie, Tommi» e corse via. «Marta, non c’è Giuseppe?» «No, Mario. Forse sarà andato a consegnare i pomodori e l’insalata al negozio di Maria. Perché?»
«Niente lo cercavo per chiedergli se avesse visto Franz. Ciao.» Diceva a se stesso di stare calmo, ma, da profondo conoscitore della montagna com’era, il dubbio che lo agitava stava diventando certezza. Franz non era tipo da bighellonare in giro senza avvertire la moglie. Per questo suo modo d’essere Mario lo ammirava, a differenza degli altri maschi del paese. “Basta! Inutile continuare a girare a vuoto” pensò. Fermò il pick-up con una frenata improvvisa e violenta che le gomme stridettero sull’asfalto. «Calma!» disse tra sé «ragioniamo! Dove potrebbe essersi andato a cacciare? Va bene che non è nato qui, ma sono circa 15 anni che ha sposato Emma. La cosa che gli ho sempre raccomandato è che si deve uscire dal bosco molto prima che faccia notte. Mhh. Anselmo mi ha detto che sul monte San Rocco ieri ha trovato solo pochi porcini. Rita ha riempito il canestro piccolo vicino al burrone della Speranza e … sarà stato così incosciente da essere andato proprio fin lassù? Ma sì! Certo! lo sai Franz come ragiona! Cerca sempre di andare a rimorchio di chi li ha trovati. Cittadino!» esclamò a voce alta. Ripartì sgommando. Ad ogni curva gli pneumatici si lamentavano e il vecchio macinino ansimava in salita, spinto fino all’estremo. Entrò in casa, prese lo zaino che teneva sempre pronto nell’armadio della camera, il giaccone dietro la porta e la torcia elettrica nel cassetto del comodino. Uscì e guardò il cielo. Iniziava a far buio e ad ovest si stavano addensando delle nuvole nere. «Ci manca solo la pioggia!» disse ad alta voce. Salì in macchina ed iniziò ad inerpicarsi sulla strada che conduceva a circa 700 metri dal famigerato burrone. Nel frattempo aveva iniziato a piovere. Prima con qualche goccia isolata poi sempre più intensamente. «Cosa ti avevo detto!» si disse. Il fuoristrada arrancava lentamente sulla strada sconnessa, riempitasi d’acqua piovana, mentre la mente di Mario, in tumulto, pensava sul da farsi. «Allora… arrivo al Pianoro dello Stambecco. Lascio l’auto, prendo il sentiero n. 5 fino a … scemo… il 24 fino al Sasso Grosso e da lì scendo per sentiero del Mulo fino al Bosco Santo dove credo, spero, ci sia Franz. Franz! Povero Franz. Sai che paura avrà! Sarà rintanato come una lepre sotto uno sperone di roccia» si rassicurò Mario. Quando lo trovo gli do un pugno in testa che se ne ricorderà per
cinque anni» berciò. Posteggiò il pick-up, si mise lo zaino in spalla, infilò il giaccone, prese dal cassone una corda, accese la torcia e s’incamminò su per il sentiero. Tutto intorno era buio. Veniva giù un’acqua che rendeva difficile mantenere l’equilibrio, tanto era il vento che la sbatteva. «Emma! mi sono dimenticato di avvertirla! Ora provo con il cellulare. Non prende la linea! Maledetti arnesi tecnologici. Quando veramente servono non si possono utilizzare e quando non dovrebbero, continuano a martellarti con i loro squilli» esclamò. «Su coraggio» si disse «andiamo avanti. La strada sembra ancora più lunga con questa maledetta pioggia ed Emma poi sta sicuramente meglio di me e di Franz, anche se l’attendere può essere altrettanto doloroso». Emma, nel frattempo, per nulla rincuorata dall’atteggiamento di Mario, al calare delle tenebre era corsa alla stazione del Corpo Forestale. Incontrato il Maresciallo gli spiegò quanto stava accadendo. Il sottufficiale, capita al volo la situazione, cercò di tranquillizzarla. «Non ti preoccupare, organizzo subito tre squadre di soccorso. Vedrai che te lo riportiamo indietro e così dovrai continuare a sopportarlo ancora per molto tempo» disse sorridendo «Sai dove andava a cercare i funghi?» Emma scosse la testa. Molto preoccupata e non riusciva ad avere lo stesso ottimismo del suo interlocutore. Come tutte le donne aveva quel sesto senso che in molte occasioni le era stato risolutivo. Questa volta? «Sento che gli è capitato qualche cosa di brutto» rispose singhiozzando. «Su non fare così. Vai a casa e prenditi un bel punch caldo. Vedrai che tutto andrà bene». Senza aggiungere nulla, Emma uscì dalla caserma e si diresse verso la sua abitazione. La voce della scomparsa di Franz aveva già fatto tutto il giro dell’abitato. Ad ogni o incontrava i maschi che si stavano preparando per le ricerche. La guardavano are rimanendo silenziosi, incapaci di pronunciare una qualsiasi sillaba. Questo senso della comunità la rincuorava. In questo momento anche le persone che in condizioni normali dimostravano un certo distacco, ora le manifestavano comprensione, affetto. Arrivata a casa si stese sul divano, prese la
testa fra le mani e rimase così, immobile, in attesa delle mogli. Una sensazione di disagio turbava Mario, impegnato ancora nella salita. Il bosco quella sera sembrava non volerlo accogliere. Quell’essenza, parte dominante della sua esistenza, gli faceva capire che non era ben accetto. Sentiva che lo stava respingendo con tutte le sue forze. Di giorno la montagna si concede a tutti, senza limiti. Ti fa eggiare, sostare all’ombra, sdraiare nei prati, annusare l’aria. Di notte, pretende che sia lasciata libera di ritornare a quello stato originario, puro, che appartiene solo ad essa e che non vuol dividere con l’essere umano, talmente ottuso da non capire che è parte della natura, non che la domina. Questo sentiva Mario, ma il pensiero che un amico era in difficoltà lo spingeva avanti, anche se con molta fatica. Franz, nel frattempo, si era svegliato dal torpore in cui era caduto all’arrivo delle prime gocce di pioggia che gli bagnavano il viso. Accortosi del calare della sera, la sua disperazione si tramutò in terrore al sentire di un urlo cupo e prolungato in lontananza. Rabbrividì talmente che i denti scricchiolarono. Un fremito convulso sconvolse il suo corpo, impedendogli di respirare. Si guardò intorno. Non riusciva a distinguere nulla. Né una pietra, né un bastone, un aiuto e rimase immobile mentre la pioggia continuava incessante, senza pietà. “Lupi” pensò Mario sentendo l’ululato. «Vedi che avevo ragione» disse «questa è la voce della montagna, che puoi sentire solo di notte e… Ecco il Sentiero del Mulo. Finalmente!» ed iniziò la discesa rischiando di cadere ad ogni o, tanto era scivoloso. Con enorme fatica arrivò al Bosco Santo. «Eccomi. Dove sarà Franz?» mormorò tra sé. Iniziò a chiamarlo rischiando ad ogni sillaba che gli scoppiassero le vene del collo, ma il suono, intriso di pioggia, non riusciva ad arrivare a Franz, nonostante fosse sostenuto dalla disperazione. «Ascolta» si disse «i lupi non sono diretti verso di te! Senti, sono diventati quattro e sicuramente hanno fiutato una preda e … Franz?» Con il cuore ancora più in tumulto, se tale poteva essere dopo l’angosciosa
scarpinata notturna, iniziò, di soppiatto e tenendosi sottovento, a seguire i selvatici. Dopo pochi minuti i ringhi cessarono di muoversi. “Ecco! ci siamo!”, pensò. Si affacciò verso il burrone e vide Franz, circondato dai predatori che si erano predisposti a semicerchio a circa cinque metri da lui. Gli animali stavano avanzando guardinghi, visto l’immobilismo di quella insolita preda. Un suono pauroso sovrastò la notte. Franz si destò. I lupi si guardarono intorno, smarriti. Una massa nera, enorme, urlante, piombò su di loro. «Mario?» fece appena in tempo a dire con voce flebile Franz, prima di svenire nuovamente. I selvatici scapparono atterriti, con la coda non più in posizione di attacco. L’omone si chinò sul malcapitato e, dopo averne controllato il respiro, preparò con la corda una specie di sedia con cui imbracò Franz e, non senza sforzo, se lo caricò sulle spalle iniziando il cammino di rientro. Dopo dieci minuti di marcia estenuante, Franz si svegliò. «Dove mi porti, diavolo maledetto!» disse «non sai che non è venuto ancora il mio tempo di morire» e fece per divincolarsi. «Zitto! o ti do subito quella botta in testa che ti ho promesso prima» gli urlò Mario. «Mario!» esclamò svenendo di nuovo. “Senti come scotta, ha la febbre alta e deve aver perso molto sangue. Farei meglio a sbrigarmi se voglio avere ancora un amico” pensò l’omone. Il cielo, da parte sua, non sembrava aver comione di quelle due sventurate creature in difficoltà. Mario, dopo un’ora di cammino sotto una pioggia torrenziale, fu costretto a far scendere Franz. Lo appoggiò delicatamente ad un albero, gli sentì il polso, si tolse il giaccone e lo coprì con cura. Stremato, si sedette. Dopo pochi minuti riecheggiò “la voce” a lui tanto familiare. I lupi li avevano seguiti, non volendo lasciarsi andare la preda tanto facilmente. Mario, nonostante ciò, non riusciva ad odiarli. “In fin dei conti, siamo estranei,
fatti di carne, sul loro territorio. Ma di sicuro non saremo la cena!” pensò. Rimise a fatica Franz sulle spalle ed iniziò a percorrere i sentieri più in fretta che poteva. I suoni si avvicinavano sempre di più. «Forza Mario siamo vicini alla macchina, non mollare» si disse con quel poco di voce che gli restava. Le sue gambe stanche con la complicità del buio e del terreno scivoloso, gli tesero un agguato. Scivolò e cadde in avanti trascinando con se Franz. Alla fine del ruzzolone sentì un dolore lancinante al braccio destro. Si toccò. Era rotto in due punti. Sentì un ringhio. I lupi li avevano circondati e uno di loro si stava avvicinando. Si mise con fatica fra loro e Franz, ancora svenuto. Appena in tempo. La bestia ò all’attacco mordendogli il braccio fratturato. Un altro urlo, di dolore questa volta, aprì la notte. Prima di svenire ebbe il tempo di vedere delle luci sfocate. «Angeli o demoni?» pensò. Rinvenne. I soccorritori erano intorno a lui e lo stavano mettendo su di una barella. «Franz?» chiese «Franz! Avete visto Franz? Fraanzzz!!»
IV - LA CENA
«Franz? Franz!» sussurrò. «Mario! Cosa ti succede questa sera?» esclamò Franz, prendendolo sottobraccio. «Niente… niente... ricordavo». «Stai attento! Certi ricordi possono uccidere!» sentenziò agitando l’indice della mano destra. «Dai non ci pensare. Vieni, siediti. Emma ha già pronta per te la cena di polenta e funghi, la tua preferita». Così dicendo, lo condusse fino al tavolo dove era solito mangiare, non distogliendogli mai gli occhi di dosso. A vederlo, poteva sembrare una di quelle vecchie comari che cercano di ammaliarti con la loro piaggeria. Gli occhi, però, avrebbero ingannato anche il più attento osservatore della serata. L’atteggiamento di Franz era solo d’ammirazione e complicità. Mario l’aveva capito e, abbassando la guardia razionale, gli permetteva di entrare nel suo essere. Era una piacevole sensazione il sentirsi coccolati. Provare quel sottile piacere dato dal fatto che per qualcuno contavi veramente. Franz, poi, aveva il dono di tranquillizzare Mario anche nelle situazioni più critiche. Quel suo modo sereno, istintivo, di capire le situazioni e di regolarsi nel modo più consono, erano per lui un’attrazione. Mario si sedette al solito posto, sulla solita sedia ed accomodatosi guardò Franz andare in cucina, ritornare con la prima portata, due bicchieri e una caraffa di vino rosso, quello buono. Arrivato nei pressi del suo ospite, posò il piatto fumante di polenta proprio sotto il naso di Mario, si mise seduto e riempì i bicchieri fino all’orlo. «Senti Mario che nettare. L’ho comperato questa mattina da Luigi. Pagato un po’ caro … ma ne valeva la pena». Poi, bisbigliandogli all’orecchio: «Non dirlo a nessuno! Questo è solo per pochi intimi» e strizzò l’occhio destro, quello sano. Mario sorrise e osservò il suo amico.
Franz non dimostrava i suoi 55 anni. Aveva ancora tutti i capelli di un nero corvino, il naso adunco e i lineamenti irregolari. Era alto un metro e settantacinque per sessanta chilogrammi di peso, tanto che gli abitanti del paese lo schernivano, apostrofandolo sempre di mettersi delle pietre in tasca, altrimenti sarebbe volato via con la tramontana. Quello che non si poteva vedere, però, compensava il suo aspetto. Mario era uno di quei pochi che aveva capito la sua vera natura e riusciva ad assaporare in pieno la scelta di essergli amico. «Non ingrassare mai!» esclamò. Franz lo guardò incredulo, senza dire nulla. Si alzò dalla sedia e si diresse verso il bar. A metà strada si girò, lo guardò e sorrise. «Mangiamo, altrimenti la polenta si raffredda così velocemente che sarà buona solo per attaccare i manifesti al muro» sussurrò. Bevve un sorso di vino. Tranquillizzatosi, iniziò il pasto e l’arte che metteva nei movimenti dava solennità a quella funzione naturale. Prendeva un pezzetto di polenta, vi poneva sopra in equilibrio uno o due pezzi di funghi porcini rigorosamente trovati da Franz, soffiava delicatamente e il tutto spariva sotto la barba fluente. Dopo setto od otto di questi gesti, semplici ed efficaci, intramezzati da un bel bicchiere di vino, alzando gli occhi, per caso, vide un ragazzo ed una ragazza seduti ad un tavolo, alla sinistra del bancone. “Quando sono entrati?” pensò “Ah! Erano già qui al mio arrivo, chissà se si sono spaventati… con quel trambusto!” I due, che avranno avuto circa 25 anni, ora che la situazione nella taverna si era tranquillizzata, avevano ripreso a mangiare. S’interrompevano spesso prendendosi per mano e guardandosi intensamente negli occhi, senza dire nulla. Si mise ad osservarli e rimase subito colpito da quel loro modo di comportarsi, per lui molto distante. Sembrava come se tutto il loro mondo fosse lì, nelle mani, negli sguardi. Avevano creato un’atmosfera che gli altri non potevano respirare, ma solo ammirare da un luogo lontano, distante.
Mario restò colpito da tale simbiosi e, come tutte le cose belle, fece nascere in lui un po’ d’invidia. Lui, solo con il suo piatto. Loro, insieme nell’universo. Franz ritornò dalla cucina e si diresse verso di loro. «Tutto bene ragazzi?» disse. «Sì, grazie» rispose il giovanotto «ma vorremmo finire la cena con un dessert. Cosa ha di buono?» «Creme caramel, strudel, panna cotta ai frutti di bosco». «Cosa vuoi Carla?» «Per me una fetta di strudel» rispose la ragazza. «Io, invece, vorrei una panna cotta, grazie». «Molto bene» confermò Franz. Dopo aver consegnato le porzioni di dolce, Franz si diresse al tavolino di Mario. «Mario, cosa hai questa sera? Sembra che al posto della polenta ti abbia dato da sgranocchiare mais crudo! Non era buona, forse?» «No, no, la cena è a posto. Casomai sono io che non vado» rispose mestamente. «Mario…» «Lasciamo perdere, erà. Senti, piuttosto... chi sono quei due polipi sempre avvinghiati?» Franz li guardò e, rigirandosi, si chinò e gli sussurrò all’orecchio: «Sono due sposi novelli che sono arrivati qua da noi in viaggio di nozze da …» «In questo periodo dell’anno?» «Si sono dovuti sposare in fretta e furia. Lei è incinta di tre mesi!» rispose gongolando. «Ma come… come diavolo fai a sapere queste cose» esclamò Mario a voce alta,
richiamando l’attenzione dei due che guardarono verso di loro. «Shh!» sibilò Franz «Lei si è confidata con Emma quando lui era andato a eggiare da solo, visto il tempaccio che infuriava sulla valle». «Ah! Ho capito! La solita storia». Franz lo guardò senza dire nulla. Si limitò ad uscire di scena, andandosene a testa china. Sapeva benissimo cosa angustiava il suo amico e gli faceva sempre male vederlo in questo stato, ma era dispiaciuto anche per se stesso perché le parole di Mario gli avevano riaperto un’antica ferita. Non potevano avere figli, lui ed Emma. “Bambini!” pensò Mario “roba che sporca, piange e non finisce mai di rompere!”. Riprese a mangiare. Masticando lentamente, viaggiando sull’onda dei ricordi, si rivide bambino, con i capelli lunghi e biondi, i calzoni corti con le bretelle, a dorso nudo, che correva su di un prato verde, mosso da un lieve vento di tramontana, impegnato a rincorrere una palla tirata da suo nonno. Era bellissimo giocare nei campi, dove era libero di muoversi a suo piacimento. La natura ricambiava il suo affetto, accogliendolo completamente senza nulla chiedergli in cambio. Sensazioni meravigliose, uniche, importanti.
V - IL NONNO
«Mamma, mamma, vado con nonno Bartolomeo a cercare i mirtilli nel bosco» disse Mario. «Non dovevi andare con i tuoi amici a giocare a pallone in piazzetta?» «Hai ragione, ma preferisco andare per boschi». «Va bene! Stai molto attento ed ubbidisci al nonno». «Nonno, nonno, andiamo?» «Arrivo Mario» rispose Bartolomeo da dentro la sua baita. La casa era piccola, per una persona sola e situata in una posizione isolata rispetto al paese, tutta immersa nel bosco. Scese dalle scale, guardò il nipote e disse: «Sei pronto? Hai preso tutto quello che ti ho detto?» «Sì nonno ecco qua. Il cappello, il cestino, il bastone e la bottiglia d’acqua». «Bravo!» esclamò «Andiamo, se non vogliamo fare tardi». S’incamminarono per il sentiero che, interrompendo un campo dove pascolavano pacifiche quattro mucche, portava fin dentro il bosco. Era un pomeriggio d’estate, il sole era a picco sugli alberi, i grilli facevano un frastuono assordante. Mario batteva le mani e questi si quietavano un istante, per poi ricominciare a frinire più forte di prima. Dopo aver percorso circa un chilometro fra sbuffi e applausi, arrivarono in una radura che si credeva potesse esistere solo nei sogni. Il magico spazio era quasi completamente immerso nell’ombra. Un ruscello d’acqua limpida gli scorreva placido al centro, circondato da alte felci. Prati di soffice muschio, che arrivavano fino al bosco, lasciavano spazio a rigogliosi arbusti di mirtilli.
«Ohh» esclamò Mario «che bello! Nonno, ma qui non mi ci avevi mai portato. E’ bellissimo! Il più bel posto del mondo! Ne sono sicuro!» «Visto Mario che cosa sa fare la natura quando è libera di…» «Perché chi la tiene prigioniera, nonno?» «Nessuno! Dicevo libera per dire che se l’uomo non la disturba è capace di costruire capolavori come questo. Non modificandola per i propri comodi, lei ti ricambia con questi spettacoli». «Cosa vuoi dire nonno? Non possiamo stare qui altrimenti roviniamo tutto? Io non voglio questo!» «No Mario, stai tranquillo. Voglio dire che dobbiamo rispettarla per quello che è ed osservarla con rispetto, perché solo così ne potremo apprezzare tutta la sua bellezza». «Nonno, scusa... ma non ho capito molto». «Hai ragione, mi dimentico sempre che hai solamente cinque anni. Vieni qua che ti tolgo le scarpe e poi …» «Perché, si rovinano?» «No Mario, ti voglio spiegare cosa voglio dire». Gli tolse le scarpe e i calzini. Lo prese in braccio e lo portò verso il prato di muschio. «Prova a camminare! Senti il contatto con la terra, con la natura?» Il ragazzo abbozzò alcuni i. «Io sento solo che mi fa il solletico e mi viene da ridere». «Ascoltami! Non provi la sensazione di parlare con la natura anche senza dire nulla? Non ti sembra che il muschio, che è la natura, ti accolga facendoti entrare dentro di esso, ricoprendoti i piedi, tanto è soffice? Questo tappeto ti dà qualche cosa e tu ricambi rispettandolo, non cogliendolo, non rovinandolo».
«Oh! Aspetta nonno! comincio a capire. Fammi provare ancora». Continuò a camminare sul prato, prima saltellando, poi correndo ed infine facendo i lenti, misurati. Vista la sua piccola età, non capiva molto bene cosa volesse dire il nonno, ma ricavava una sensazione di benessere, di tranquillità, di pace. «E’ bellissimo nonno! bellissimo!» esclamò tutto felice. L’uomo sorrise e guardò il nipote gustarsi la gioia di quel momento. «Vieni Mario, ora ti faccio provare un’altra cosa». «Cosa nonno?» «Vieni». Lo prese in braccio, gli rimise le calze e le scarpe e lo accompagnò verso alcune cicale che facevano un baccano assordante. «Senti Mario! Questa è la voce della natura». «A me sembra solo un rumore che mi dà fastidio alle orecchie». «Senti quest’uccello! E’ la ghiandaia che si muove felice fra gli alberi». «Come strilla, sembra che la stiano picchiando!» «Mario!! Ascolta il vento che si muove tra le foglie degli alberi. Non ti sembra che tutti questi suoni ti vogliano dire: “Noi siamo qui. Stai con noi. Non ti tradiremo mai se tu non lo fai”». «Ma nonno! Io non capisco cosa dicono! Mica parlano come me!» «Lo so Mario. Ogni creatura vivente parla a modo suo. Queste sono le voci del bosco, che devi imparare a riconoscere. Le cicale che cantano vogliono dirti che sono felici e se le disturbi, come prima, stanno zitte ed hanno paura. La ghiandaia si muove tranquilla fra gli alberi e canta contenta. Se le dai fastidio, si nasconde e non la senti più. Capito?» «Sì nonno. Ma il vento? Mica posso spaventarlo?»
«Giusto Mario. Lui è quella voce della natura che non puoi controllare, che non puoi comandare. Solo ascoltare» disse Bartolomeo, con aria seria. «Oh, ora ho capito. C’è una natura forte e una debole e dobbiamo stare attenti a non rovinare quella debole sennò quella più forte si arrabbia, vero nonno?» «In un certo senso … diciamo così. Ora vieni qua, odora il muschio, senti che buon profumo?» «Sì, ha lo stesso profumo dei funghi che riporta papà a casa». «Bravo. Ora annusa questo cipresso. Senti che buon odore ha quando si scalda al sole?» «Buonissimo nonno. Quasi come le torte che mi prepara la mamma». «Ah, ah, ah» sorrise Bartolomeo «bravo! Questi sono gli odori del bosco ed anche loro ti vogliono sempre dire qualche cosa» «Non capisco!» esclamò Mario. «Quando senti questi profumi vuol dire che il bosco non è malato, che puoi stare con lui tutto il giorno. Sentire quest’odore di acqua, vuol dire che …» «Odore d’acqua, nonno? Ma l’acqua non puzza!» «Annusa l’aria profondamente. Senti che ai profumi di prima se ne è mischiato un altro?» Mario tirò su con il naso due o tre volte. «Hai ragione nonno, sento come quando la mamma mi prepara il bagno per lavarmi». «Bravo! E’ l’umidità che sta riempiendo l’aria e questo significa che c’è pioggia in arrivo». «Piove? Allora dobbiamo andare. Io non voglio bagnarmi!» «Stai tranquillo! Ho detto che tra un po’ pioverà, non ora». «Oh!» esclamò Mario «il bosco non ti tradisce mai, ti avverte sempre prima che succeda qualche cosa».
«Bravo, vedo che hai capito. Ora facciamo merenda». Mario e il nonno si sedettero su di un masso vicino al torrente ed iniziarono a mangiare. Tutto intorno si udivano le voci del bosco e Mario si girava al loro sentire. Ogni tanto inspirava così profondamente che gli girava la testa. Stavano quasi per terminare, quando a circa cinquanta metri da loro fece capolino da un cespuglio una testa. Guardò a destra e a sinistra e, seguita poi da tutto il corpo, sbucò nella radura con altri due soggetti più piccoli. Erano caprioli che venivano ad abbeverarsi al torrente. Mario li vide, si girò lentamente verso il nonno, ma non disse nulla. Aveva imparato la lezione. I quadrupedi, per nulla impauriti dalla presenza umana, iniziarono a bere e, finito che ebbero, ritornarono da dove erano venuti non senza voltarsi verso di loro, per un ultimo sguardo d’intesa. Quando furono lontani, Bartolomeo disse a bassa voce: «Hai capito ora quello che abbiamo detto oggi? La natura ha le sue regole, le sue leggi. Noi esseri umani, gli animali e le piante nasciamo, cresciamo, abbiamo dei piccoli e poi finiamo di esistere dando così possibilità agli altri di restare al mondo. Questa è la natura. Non devi mai aver paura di viverla e non devi mai tradirla» «Sì nonno, ho capito». «Bene. Ora andiamo, se non vogliamo bagnarci». Rimisero tutto nello zaino e fecero per incamminarsi verso casa quando Mario esclamò ad alta voce: «Nonno! ma… i mirtilli?»
VI - I RAGAZZI
«Mario!» esclamò Albert, che era rientrato nel locale dopo una cena lampo «sei rimasto congelato in cima al Monte Everest?» Svegliatosi dal torpore dovuto dai ricordi, Mario si rese conto che era rimasto con la forchetta piena di polenta e funghi, con il gomito appoggiato al tavolo e la bocca semiaperta per non so quanto tempo. Appoggiata la posata sul piatto, prese il bicchiere, lo riempì fino all’orlo con il prezioso nettare rosso, lo appoggiò alle labbra e, senza respiro, lo tracannò. Prese poi il tovagliolo, si pulì le labbra, lo ripiegò in quattro, si raschiò la gola, puntò il dito del maglio destro verso il nuovo avventore e ruggì: «Sei di nuovo qui? Beato te che non ti perdi mai nei ricordi! Non ne hai! Pieno di benzina come sei, l’unica cosa che non trovi è la strada di casa!». Tacque. Poi, guardandolo fisso negli occhi: «Credo che la tua voglia di bere sia uguale a quella di stare lontano da tua moglie!» Così apostrofato, Albert distolse il suo sguardo, chinò la testa, si diresse verso il bancone e si sedette sul suo sgabello preferito, quello che dava verso un quadro raffigurante un paesaggio esotico. Il suo sogno segreto. Mario, dopo l’ennesimo scambio terminato in suo vantaggio, riprese a mangiare. Dopo due bocconi si accorse che la polenta si era freddata. «Franz!» urlò «Fraanz!» «Sì, Mario» disse l’oste uscendo dalla cucina e guardando di soppiatto Albert che era in storica contemplazione. «Per favore, portami della carne alla brace» disse allontanando la portata da sé. «Subito. Ma … non ti è piaciuta la polenta?» «Moltissimo. Però non mi va più»
“Strano” pensò Franz “quando non finisce il suo piatto preferito... ma il problema è che non gli va mai giù. Maledetto boccone!” «Mario» disse «adesso ti porto il secondo e mi siedo con te a bere un bicchiere». L’omone lo guardò. Franz notò che i suoi lineamenti iniziavano a distendersi. Il ghiaccio che gli ricopriva l’anima si stava, lentamente, sciogliendo e un pallido sorriso iniziò ad illuminare quel volto, arso dal sole e dal freddo. L’oste si diresse verso la cucina. Mario, però, non ebbe modo di vedere la soddisfazione stampata sul volto e la lacrima che iniziava a calarsi dall’occhio destro, quello buono. Nell’attesa della seconda parte della cena, si alzò ed uscì. Fuori il vento era cessato ed aveva lasciato spazio ad una leggera brezza che gli accarezzava la pelle e i lunghi capelli biondi. Il cielo era sereno e, alzando gli occhi, iniziò a scrutarlo mettendosi una mano di lato per non avere i riflessi di luce della taverna. «Ecco… la Via Lattea» sussurrò «con vicino la Vega, che luminosa! Quella è… Arturo, sì, Arturo, con a destra il Carro Maggiore. Poi… tra il Carro e Cassiopea ci dovrebbe essere la Stella Polare. Uhmm… aspetta, com’era il trucco che mi aveva insegnato il nonno?» Mise le quattro dita della mano sinistra in prospezione a destra dell’ultima stella del Carro e ne contò altre quattro. La stella era al solito posto, più luminosa che mai. Instancabile di dare luce e calore anche dopo milioni di anni, come un’amica che non ti tradiva mai. «Il nonno… come vola il tempo. Lui e la natura. Stessa cosa» sussurrò. Rientrato, si rimise seduto, con la mente ancora piena di ricordi. Ad un certo punto trasalì: «E i polipi» sussurrò «saranno ancora li?» Erano dove li aveva lasciati. Avendo finito di mangiare anche il dolce, la ragazza si era messa accanto a lui, lo aveva preso sottobraccio e gli aveva posato la testa sulla spalla sinistra. Entrambi
guardavano un programma televisivo che affrontava i problemi dei ragazzi in età adolescenziale: primi amori, primi quesiti esistenziali. «Ti ricordi quando eravamo così anche noi? Ho l’impressione che sia ato un secolo» disse la ragazza con una voce appena percettibile. «Certo! Sembra ieri. Giocare in strada, insieme agli altri ragazzi del quartiere e nel campo abbandonato dietro la chiesa...» «Bei tempi e tu …» «Volevo stare sempre vicino a te» la interruppe il ragazzo. «Ah, ah, ah» sorrise Giulia con entusiasmo «mi ricordo! ma quanto eri appiccicoso, sembravi un polipo che …». “Polipo?” disse tra se Mario “avevo ragione!” Il giovane non rispose. Guardò la ragazza con aria da cane bastonato. Lei subito gli schioccò un bacio sulla guancia vicina: «… ma mi piaceva tanto essere al centro della tua attenzione». Il ragazzo le sorrise stringendola forte a sé, come a voler superare l’ostacolo dei loro corpi, unico baluardo alla completa osmosi delle anime. Franz, in quel preciso momento uscì dalla cucina con un piatto fumante d’arrosto, li vide e gli ò davanti velocemente. Avendo capito la situazione, non voleva rovinare, con quanto di terreno teneva in mano, quel momento di celestiale intimità. «Ecco qua Mario, il tuo arrosto» disse sedendosi al tavolo del suo amico «e per stasera credo di aver terminato di cucinare. Allora, quel bicchiere di vino?» Mario lo guardò e gli versò il vino. «Hai visto?» disse Franz guardando verso i ragazzi «teneri che sono? Giovani ed innamorati. Cosa vuoi di più dalla vita!» «Già, i giovani. Mi fanno una rabbia. Sempre così entusiasti, di tutto. Ma cosa avranno da essere felici? Non lo sanno ancora che la vita è una bugiarda?» sibilò
Mario. Franz lo guardò bieco, solo un attimo. Sapeva benissimo cosa turbava il suo amico. Lui se lo immaginava come una nave carica d’amore che, non avendo trovato un porto dove attraccare, era sbatacchiata nei meandri dell’anima sempre in tempesta. «Dai Mario, non fare così. Sai benissimo che mi fa star male sentirti dire queste cose. Io mi rifiuto di credere che da ragazzo tu non ti sia mai lasciato andare, non ti sia goduto un solo momento di spensieratezza e…» «Sì, ci sono stati momenti belli, ma poi …» «Poi, poi, poi, lascia stare i “poi”! Sempre con questi “poi”! Quello che è stato oramai è andato, non esiste più, appartiene al ato. Vuoi vivere la vita che ancora ti resta, con il rimorso di quello che potevi o dovevi fare?» disse con fervore. Pacando il tono: «Tu sei una gran persona …e non mi riferisco al tuo aspetto» sorrise «Sei un amico che tutti gli altri m’invidiano e, cascasse il mondo, non permetterò che niente e nessuno ti porti via da me, nemmeno il ato». Mario lo guardò. Era un amico “vero”, quello che aveva di fronte e l’iceberg riprese a gocciolare. «Su Mario, facciamo un altro giro di valzer» disse riferendosi al vino. «Non vorrai farmi tornare a casa brillo questa sera?» «Ma che ubriacare, su bevi» e riempì entrambi i bicchieri «Alla salute di Mario». «Alla tua» rispose, facendo tintinnare i calici. «Franz, Fraanz» chiamò Emma dalla cucina. «Sì, amore» rispose, facendo l’occhiolino a Mario «arrivo subito. Ma te mangia!» disse, come si ci rivolge ad un bambino capriccioso. Mario sorrise vedendo l’amico saltellare fino alla cucina. “Sentiamo l’arrosto, prima che si freddi anche questo” pensò.
VII -CARLO
«Mario! Mario! Dai che rischiamo di fare tardi a scuola!» urlò Carlo da sotto la finestra. «Arrivooo… un attimo» rispose nascosto dalle coperte. «La scuola! Il nonno non c’è andato eppure sa tutte quelle cose» masticò nervoso. «Mariooo» insistette Carlo «lo sai che la maestra si arrabbia se non siamo in classe quando suona la camla!» «Maledetta camla! Sono anni che mi perseguita… eccomi!» rispose. Tirò via le coperte con tanta rabbia che volarono sul pavimento insieme al lenzuolo, saltò giù dal letto e… era già vestito. Camicia, pantaloni, calzini. Faceva sempre così, quasi che fosse una sfida con il tempo. Quel tempo che sembrava volerlo portare nei luoghi a lui non adatti. Il tempo, di contro, era suo alleato quando si recava in montagna a eggiare sulla neve, a cogliere funghi o solamente a camminare. In questi casi, appena svegliato, saltava giù così rapidamente da sembrare una molla lasciata libera di esprimere tutta la sua forza. «Mario!» disse la mamma vedendolo scendere le scale con la solita rassegnazione scolastica «sei già pronto? come fai!» «Ehh…» ammiccò con il dito indice della mano destra «il trucco me lo ha insegnato il nonno, ma è un segreto che non posso dire a nessuno» disse facendosi serio. «Va bene! ora sbrigati» «Ti voglio bene mamma» con espressione che appariva fuori tema. «Grazie tesoro, ma … hai qualche cosa da farti perdonare?» «No mamma! Mi dici questo perché ho fatto qualche cosa di male?»
«Proprio perché ti conosco …» rispose, guardandolo fisso con degli occhi che avrebbero fatto invidia ad un metal detector. Mario sorrise, si avvicinò e l’abbracciò, disarmandola. Dopo la morte del padre aveva interiorizzato un rapporto quasi morboso con la madre, tanto che quella volta in paese che l’aveva vista parlare con un uomo, aveva reagito in malo modo prendendo a calci il malcapitato. «Mario! Maarioo! io me ne vado!» urlò disperato l’amico. «Carlo! Me ne ero dimenticato!» Si staccò a malincuore dalla madre, cercò la cartella, lasciata, come sempre, in una parte diversa del soggiorno e si precipitò fuori. «Mario! Non mangi nulla?» «Ah… già» disse e, ritornando sui suoi i, tracannò il latte, prese la merenda, saltò a piè pari i tre gradini di casa e fu in strada. «Era ora!» esclamò Carlo «ogni giorno che a ti si deve aspettare più a lungo! domani non vengo!» «Dai, lo sai che ho fatto più in fretta che posso. Per me alzarmi la mattina è difficile come scalare il Monte Everest» L’amico lo guardò con rimprovero e: «Cosa ne sai di quella montagna se non ci sei mai andato?». Mario sorrise, ma non disse nulla. Il nonno c’era andato qualche anno prima e lui aveva fatto suo quel modo di dire. Iniziò a correre. «Tanto arrivo prima io» disse con tono cantilenante. «Non vale» ribatté ansimando Carlo «sei partito prima». Vederli correre così felici e liberi da cattivi pensieri, colmava il cuore della madre. La vita, tutta, era di fronte a loro. L’orizzonte non era in vista e anche se il lungo percorso sarebbe stato irto di pericoli ed insidie, lei era fiduciosa, vista la reazione di Mario al funesto evento che aveva colpito la loro famiglia.
Arrivati a scuola, quando tutti erano già seduti, entrarono in classe e la maestra apostrofò Mario: «Il solito ritardatario!» «Scusi maestra, questa volta è colpa mia. Mario mi ha aspettato... perché mi sono svegliato tardi» disse Carlo. L’insegnante li guardò entrambi. Aveva capito benissimo com’erano realmente andate le cose. «Andate ai vostri posti!» sentenziò. I due, dopo un sorriso d’intesa, si sedettero e la lezione iniziò. Mario era, manco a dirlo, all’ultimo posto vicino alla finestra, da dove poteva ammirare le montagne che circondavano il paesino. Al momento della ricreazione, mentre gli altri ragazzi scherzavano e ridevano, facendo un baccano d’inferno, lui si sedeva sui gradini della scuola e contemplava il paesaggio, indifferente anche alle pallonate che gli altri ragazzi gli tiravano per deriderlo. Carlo aveva capito che il comportamento di Mario non era adatto ad un ragazzo della loro età e così andava sempre a prenderlo, portandolo con sé a giocare insieme agli altri dicendogli: «Dai vieni!» tirandolo per la manica della camicia ed ammiccando «poi oggi pomeriggio, dopo aver fatto i compiti» rimarcava sempre «andiamo su in montagna». Subito gli occhi di Mario s’illuminavano. Arrivato a casa, dopo la scuola, posava la cartella, dava un bacio a sua madre, mangiava velocemente ed era già fuori, per i sentieri del bosco. Il più delle volte Carlo, non vedendolo sui gradini di casa ad aspettarlo, chiamava la madre che, affacciandosi dalla finestra della veranda, alzava le spalle. «Ho capito, signora, Mario è già su» indicando la montagna. Dopo averlo raggiunto iniziavano a girare per i boschi incontaminati, guardando, osservando, ammirando la natura e Mario era contentissimo e quando non erano per boschi, parlavano sempre delle loro ate avventure e ne pianificavano di future. Una bella mattina d’inizio primavera, Mario dormiva placidamente cullato dal
rumore lieve del pino, che sovrastava la casa. Ad un tratto, si svegliò di soprassalto. «Ma che ore sono? Perché Carlo non mi chiama? Vorrà farmi uno scherzo! Se lo prendo …» Scese dal letto, si mise le scarpe, indossò la camicetta e corse giù per le scale come suo solito. «Mamma! mamma!» gridò «come mai Carlo non è ancora arrivato?» La madre era seduta su di una sedia della cucina, aveva le mani congiunte e i gomiti appoggiati sul tavolo, come a pregare. «Mamma!» esclamò Mario «non mi prepari la colazione? Carlo fuori mi starà sicuramente preparando uno scherzo». Lei non rispose, tolse i gomiti dal tavolo e disse: «Vieni piccolo, siediti sulle mie ginocchia». «Ma, la scuola, Carlo e …» «Vieni» continuò con voce suadente. Lo prese sulle ginocchia e: «Carlo non verrà questa mattina perché è dovuto andare via». «Ma per dove? e come mai ieri non mi ha detto niente? quando torna? e …» incalzò Mario. «Non tornerà» lo interruppe la madre «è andato lontano». «Lontano? Ma quanto lontano e con chi e…» «Quello è un posto che nessuno può vedere se …» «Mamma, mi prendi in giro? che posto è se non puoi vederlo, se …» S’interruppe. Con gli occhi che iniziavano ad inumidirsi, iniziò a balbettare: «Ma non sarà mica andato a trovare … il … il babbo?» I loro sguardi s’incrociarono. La madre non disse nulla. Due lacrime iniziarono a scenderle dagli occhi. Liquido raro il suo, che non pensava più di avere a
disposizione. Mario uscì dalla porta con una tale velocità che le parole della signora non riuscirono a raggiungerlo. «Nonno, nonno» singhiozzò. Bartolomeo uscì da casa tutto trafelato «Cosa hai? perché piangi? ti sei fatto male?» «Sì nonno». «Ma dove? non vedo nulla!» esclamò, rigirandolo in continuazione. «Fermati nonno, sento tanto male solo dentro!» «Oh! capisco. Sei triste per Carlo». «Sì nonno, ma come fai a saperlo?» «I grandi, purtroppo, sanno sempre tutto prima dei bambini. Vieni». Mario, che non smetteva di singhiozzare e di tirare su con il naso quasi che volesse rimettere dentro le lacrime che gli uscivano, si avvicinò lentamente al nonno, con lo sguardo basso. Bartolomeo si mise seduto sulla veranda, lo sollevò e se lo appoggiò delicatamente sulle ginocchia, tanto familiari a Mario. Poi, prendendo un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni, gli asciugò le lacrime e gli fece soffiare il naso. Quando le lacrime esterne si furono asciugate, disse: «Mario, ti ricordi cosa abbiamo detto quel giorno in montagna quando eravamo andati a cercare i mirtilli?» «Cosa abbiamo detto, nonno?» «Quando ci sono venuti vicino i cerbiatti e …» «I cerbiatti? Ah sì, la mamma con i piccoli!» «Bravo!»
«Che si nasce, si cresce e poi si …» «Muore. Così vanno le cose». Mario lo guardò con occhi indagatori ed il viso corrucciato, esclamando: «Nonno, ma Carlo non era mica vecchio come te? Lui era ancora un cucciolo!» «Lo so, Mario ma …» «Non è giusto che non sia diventato grande ... poi vecchio e poi ... non credi?» Il nonno lo guardò commosso e disse: «Hai ragione! La vita a volte è ingiusta. Puoi essere cattivo e vivere cento anni o essere buono e morire bambino». «Ma nonno!» «Lo so Mario che non dovrebbe andare così. E’ la natura che comanda e nessuno può farci niente. Non esistono cose belle o brutte in natura. Crediamo di poterla usare e modificare a nostro piacimento, ma ci sbagliamo. E’ come un vulcano in eruzione. Bellissimo, ma mette paura. Affascinante, ma da tenersi a distanza. Si può solo ammirare, altrimenti …» «Ti bruci!» lo interruppe Mario. «Bravo! Senti… quello che provi in questo momento è la nostra forza. Noi ci distinguiamo dagli altri esseri viventi perché abbiamo i sentimenti che ci aiutano nella vita. Non pensare solo alle cose brutte, pensa anche al bene che vuoi a tua madre e quello che lei vuole a te. Gli animali adulti allontanano i loro cuccioli appena sono in grado di mangiare, la tua mamma, invece, non ti abbandonerà mai, finché potrà». «Ho capito, nonno, ma continuo ad essere triste… molto triste». «Vieni, facciamo una eggiata nel bosco, così faremo la pace con Lei» disse Bartolomeo, avviandosi per i sentieri. Dopo quel giorno la montagna, però, non fu più la stessa. La finestra della classe, le eggiate nei boschi, non gli davano più quelle gradevoli sensazioni da lui tanto ricercate. Alcune volte, durante le sue eggiate, il rancore affiorava a livello cosciente e gli faceva urlare a squarciagola: «Ti oodioo!»
Subito gli rispondeva l’eco: «Ti odioo, odioo, dioo». Mario rimaneva muto e pensava che, in quel momento, anche lei ricambiasse il suo risentimento.
VIII - INGRID
«Ciao Mario, sempre a rimuginare, eh?» «Oh... Ingrid!» sussultò Mario, ritornando in sé «scusami! Mi annoia mangiare da solo e, allora …» «Allora ti avvii nei sentieri dei ricordi, come hai sempre fatto. Il problema è che ti perdi e non trovi più la strada del ritorno!» Mario sorrise. Ingrid aveva sempre la battuta pronta e questa sua caratteristica era una delle ragioni per la quale non era riuscita a trovare l’anima gemella. Tutti quelli avvicinatisi troppo erano rimasti scottati da quel modo di fare esuberante, che non piaceva molto ai maschietti del paese abituati da sempre ad essere in posizione dominante. «Cosa fai da queste parti? Posso offrirti un bicchiere, di quello buono!» si affrettò a dribblare Mario. «Grazie, molto volentieri. Stavo andando dalla Rosina per sentire se domani mi poteva aiutare a sistemare alcuni quintali di legna, tagliati giorni fa. ando qua davanti mi sono detta che una buona bevuta avrebbe potuto aiutarmi a mandare giù la frittata con le cipolle che ho mangiato a cena». “Le cipolle, sempre le solite, maledette, cipolle” pensò Mario. Ingrid scostò la sedia impagliata, che fece un rumore come di gatto che stava per essere scorticato e si sedette. O meglio si lasciò cadere, tanto che la sedia gemette. Prese il bicchiere, rimasto dopo la bevuta di Franz. Agguantò il fiasco di vino con la mano sinistra. “La mano del diavolo” pensò Mario. Si riempì il calice e, guardandolo: «Per chi ci vuole male!» esclamò alzando il braccio sinistro a mo’ di brindisi. Mario si versò il vino e fece tintinnare i vetri senza pronunciare parola. Non aveva nulla da festeggiare, ma non era sua abitudine portare rancore gratuito verso il prossimo.
Sorseggiando il suo nettare preferito, Mario si soffermò a guardare Ingrid che non dimostrava i suoi 60 anni. Il viso rotondo portava segni del tempo, ma le gote rosso le conferivano un’aria sbarazzina. Gli occhi erano azzurri, di una tale profondità che, fissandoli, ti trasportavano in una dimensione non ben definita. I capelli erano corti e di un biondo intenso. La statura era media e l’aspetto era rimasto longilineo, come ai tempi della scuola. Accorgendosi che Mario la stava osservando: «Che cosa hai da guardare?» lo apostrofò acidamente «non ha mai visto una donna bere?» «Calmati! Stavo solamente pensando che sei ancora bella come ai tempi delle medie» disse Mario sorridendo e alzando le spalle. Il materiale inerte, di cui era composto il cuore di Ingrid, iniziò ad impastarsi con il collante dei sentimenti e: «Scusami, non volevo offenderti, ma tu… tu…» rispose con la voce irriconoscibile ed abbassando gli occhi. «Io cosa!» «Tu… io… noi…» chiedendo aiuto. «Vuoi riare la grammatica?» sghignazzò Mario. Ingrid non rispose. Due lacrime grandi come olive e dure come la pietra, gli stavano calando sul viso, ancora di più . Mario prendendo il fazzoletto-lenzuolo, le alzò delicatamente il volto, devastato dai ricordi, le asciugò gli occhi e: «Perdonami! Volevo solo scherzare un po’. Non avevo intenzione di prenderti in giro, sai che non lo farei mai». Ingrid smise di singhiozzare, guardò il suo interlocutore e un sorriso ristoratore le illuminò il viso. «Lo so Mario, ti conosco. Non faresti male ad una mosca, ma a me … a me… ne hai fatto tanto». Mario sobbalzò sulla sedia senza muoversi. Rimase muto ed immobile pensando alle affermazioni di Ingrid e: «Scusami! Se stai ancora pensando alla rana che ti avevo messo nel cestino della merenda, sappi che mi sono subito pentito, appena ti sei messa a piangere».
«Stupido che non sei altro, mi riferivo alla storia di noi due». «O … ma quando…» «Esattamente 46 anni e cinque mesi fa» lo apostrofò Ingrid. «Sessanta meno quarantasei… avevamo 14 anni!» esclamò Mario sempre più incredulo e sbalordito. «Esatto!» «Ma… ora ricordo… era sul finire della scuola, quando stavamo studiando per gli esami di terza media, vero?» «Bravo!» «Sì… è stato un bel periodo, a parte gli esami». «Bel periodo, solamente?» gli fece eco Ingrid. «Volevo dire... che è stata una bella esperienza» ribatté Mario, in evidente imbarazzo. «Solo una bell’esperienza?» incalzò Ingrid, come il gatto che incita la preda a muoversi, per poi agguantarla di nuovo. Mario la guardò a lungo, intensamente. I sentimenti, come sempre nascosti all’interno del suo iceberg, avevano bisogno di tempo e di calore per essere liberati, potendo così affiorare a livello cosciente. Prese con delicatezza le mani di lei fra le sue, fino a farle scomparire. Ingrid avverti l’energia positiva trasferirsi dentro di lei, come la linfa che a dalle foglie fino al cuore del tronco. Poi, dopo alcuni istanti di silenzio, con gli occhi persi nel bicchiere vuoto, riprese: «Quando ti vedevo arrivare a scuola, con quelle trecce bionde e il viso lentigginoso, il cuore mi batteva a mille. Mia madre si stupiva del fatto che non facevo più storie per lavarmi e non doveva più disperarsi per farmi alzare dal letto. Mi ricordo che coglievo ogni occasione per starti vicino, per parlarti e
questo mi sembrava strano perché non eri un maschio. Ti ricordi che belle eggiate facevamo insieme nel bosco?» «E mi tenevi la mano, tutto tremante e con lo sguardo basso». «Già… quanto parlavamo, ehh? Del tempo, dei fiori, delle escursioni in montagna, di cosa avremmo fatto da grandi, di …» «Di noi» lo interruppe Ingrid. A vederli da lontano, sembravano due calamite che, pur essendo vicine, si respingevano, non avendo trovato il giusto polo di attrazione. Mario si bloccò. Il colloquio stava deviando dalle premesse. L’interazione con la ragazza di un tempo, gli aveva fatto venire in mente che non era riuscito a dare a quel sentimento una precisa collocazione. Era una sensazione nuova, sconosciuta, che i grandi, seppe poi, chiamavano amore. Lui voleva un bene profondo a sua madre, al nonno e quello stato nuovo della coscienza lo aveva caldamente avvolto, come una coperta di lana in pieno inverno, ma una volta svanito il sogno, ora si chiedeva il motivo per cui la cosa strana capitatagli non aveva lasciato in lui la benché minima traccia. Tutto era ritornato come prima. L’odiata scuola, i compagni noiosi e la natura, sempre presente. Il problema attuale da contrastare, invece, era costituito dal fatto che la parte emersa dell’iceberg si stava sciogliendo sempre più rapidamente e il calore generato da quel momento stava intaccando quella più nascosta, sommersa da anni di menzogne. Quei pochi punti fermi della sua vita si stavano sbriciolando. La via, lasciata aperta dai ghiacci scioltisi, non prometteva nulla di buono, così almeno consigliava il suo ego. “Presto, presto” si disse “bisogna correre ai ripari. Non cadere di nuovo in trappola. Non hai bisogno di nessuno. Te la sei cavata sempre da solo. Che cosa sono ora questi pensieri? Stai diventando vecchio, eh? Cerchi una spalla sui cui piangere? Confessa! Suvvia, non lasciare che ti portino via quella libertà che ti sei conquistato con tante battaglie. Parola d’ordine: congelamento!” «Noi? Ma se eravamo solo dei ragazzi che stavano bene insieme e che sognavano di diventare grandi più velocemente possibile!» ribatté duro Mario. «Ma… ma… le eggiate mano nella mano… il cuore che…» balbettò Ingrid.
«Tutta acqua ata, cose di tanti anni fa quando non sapevamo cosa ci stesse accadendo, roba da principianti durata un paio di mesi, situazione morta e sepolta, cancellata dalla memoria» continuò con atteggiamento ancora più sprezzante l’omone, guardandola fisso negli occhi. Ingrid impietrita dalla reazione di Mario, non disse nulla. Si alzò, rimise a posto con cura la sedia e con la testa china si diresse verso l’uscita mentre faceva ingresso nella sala Franz. «Mi sono perso qualche cosa? Mario?» da buon oste aveva capito con uno sguardo la situazione che si era creata tra i due. «Niente! Cose che si lavano con una buona bevuta. Vieni che facciamo un altro giro» rispose con un tono stranamente sarcastico. Franz si avvicinò e per la seconda volta nella serata, si sedette al tavolo, prese la caraffa del vino, si riempi il bicchiere, ne sorseggiò il sapore, poi: «Mi spieghi cosa diavolo è successo tra voi? Ingrid è andata via come se avesse bevuto aceto o dovesse avere un incontro con la morte, più avanti, nel vicolo! Eh? Non sei altro che un brutto, vecchio, insensibile pachiderma. Non capisco perché devi sempre trattare le persone, che cercano di avvicinarsi a te, come zerbini su cui ti pulisci quella tua anima annerita!» iniziò a martellare Franz. Mario ascoltava, incapace di replicare all’amico. «Cosa ti avrà fatto mai per essere trattata a quel modo?» «Ma cosa ho detto di male? Mi sono limitato ad impedire che una donna di una certa età si mettesse in testa strane idee sull’amore». Franz lo guardò con occhio indagatore e: «Sei incorreggibile! Quel pezzo di ghiaccio che hai intorno al cuore non riesce proprio a sciogliersi, eh! Ma lo sai che Ingrid è ancora innamorata di te?» «Di me? Come fai a saperlo?» ribatté Mario. «Si è confessata con Emma, un giorno che era molto depressa». «La nostra è stata solamente una cotta giovanile presa all’età di 14 anni! Non eravamo minimamente coscienti di quanto ci stava accadendo. Poi… dai… è
successo tanti di quegli anni fa che tutto ha perso di consistenza». «I sentimenti, caro mio, sono come l’edera che avvolge giorno dopo giorno la casa accanto alla quale era stata piantata da piccola. L’amore ti ghermisce e anche se non te ne accorgi, s’insinua e rimane lì per anni e tu, pur non rendendotene conto, sei soggetto al suo potere. Cosa credi che il tuo cuore non abbia abbastanza spazio anche per gli altri?» «Come sei poetico stasera Franz. Sarà il vino?» lo schernì Mario. «Prendimi pure in giro. Il tempo mi darà ragione, vedrai». «Per ora ti dico che l’unica cosa che sento è che mi è venuta una gran voglia di dolce. Posso avere una fetta di strudel o dobbiamo parlare di piante, di vino, di …» «Sei veramente un uomo tremendo, non ti smuove nemmeno un vento di tramontana a 300 chilometri l’ora». «Neanche a te! Vedo che sei ancora qui!» Franz non pronunciò parola. Si alzò e si diresse verso la cucina saltellando più del solito. Prima di entrare si girò ed alzando il dito indice: «Vedrai …» disse. “Brutto uccello del malaugurio. Vuole vedermi proprio sistemato… per le feste” pensò Mario. Il freezer interno stava lavorando alla perfezione. La breve interruzione d’energia, causata da un piccolo incidente tecnico, era stata subito superata. «Ecco il tuo dolce» pronunciò Emma uscendo dalla cucina. «Ohh» esclamò «per fortuna tu. Franz sta facendo di tutto per redimermi. Non capisce che è tutto tempo sprecato con un vecchio solitario come me. Per tutta la sera non ha fatto altro che portarmi ad esempio quei due» disse, indicando con il ditone la coppia di ragazzi. «Guarda che teneri… come mai non ti sei sposato… e menate del genere. Diglielo anche tu che sono un caso disperato. Poi… io sto bene così!» Emma posò il vassoio con il dolce sul tavolo, scostò la sedia, si mise seduta e,
con calma disarmante: «Conosci il lupo tu?» «Chi? Antonio?» «Non fare lo sciocco! Mi riferisco all’animale…» «Perché Antonio non è un animale? Guarda come mangia!» la interruppe sogghignando. «Smettila! Quando fai così... ti prenderei a schiaffi» rispose indignata. «Va bene, ascolterò la favola del lupo e…» s’interruppe. Erano in arrivo due frecciate che scagliate con maestria stavano andavano diritto al centro di controllo. «Posso andare avanti o hai ancora altre stupidaggini da dire?» Mario non disse nulla e si affrettò ad alzare le mani in segno di resa. «Dicevo… che essendo un montanaro, come me…» «Certo» rispose Mario con finta serietà. «Bene. Ti sei mai chiesto come mai, se non in pochi casi, se ne trova uno da solo?» «Un lupo solitario!» esclamò l’omone. «Marioo!» disse spazientita Emma. «Va bene, faccio il serio» «Il lupo… dicevo…» ricominciò Emma guardando di sottecchi Mario «è un essere vivente come noi, ma quello che interessa è il suo comportamento. Avrai visto come va a caccia di selvaggina e …» «Un sacco di volte e …» «… dicevo» riprese con aria spazientita la signora «che per mangiare si mette insieme con altri perché ha capito che, così facendo, riesce a procurarsi il cibo più facilmente. Ma non è solo per questo che vive in branco. Lo fa anche per
allevare i piccoli, per difendersi dal freddo, per aiutarsi a vicenda. In poche parole, il suo istinto gli consiglia di stare insieme con gli altri per tutte le ragioni poc’anzi dette e noi, caro mio, siamo un po’ come loro». «Siamo dei lupi?» esclamò Mario con aria irriverente. «Cosa hai capito, testone che non sei altro! Fin dai tempi antichi l’uomo ha sempre cercato di riunirsi con gli altri della sua specie e tu… tu…» s’interruppe, mordendosi il labbro inferiore. «Cosa ti è successo, sei “occupata”?» sghignazzò l’uomo. «No, caro mio!» rispose spazientita Emma. Poi, calmandosi: «Possibile che non riesci a comprendere quello che ti voglio dire? Non arrivi proprio a capire che non è vita quella che stai facendo? Guardati intorno! Sei l’unico in paese che non ha nessuno con cui condividere le gioie ed i dolori. Te ne stai sempre in solitario e quando qualcuno di veramente speciale ti si avvicina, reagisci con tanta cattiveria che fatico a riconoscerti». Mario taceva. Le stalattiti e le stalagmiti, su cui scorrevano con difficoltà i sentimenti, stavano di nuovo smussando le punte permettendo loro di arrivare a livello cosciente. «Ti riferisci, per caso ad Ingrid? Basta, per pietà! Vi siete messi d’accordo tu e tuo marito per farmi fidanzare questa sera stessa? Volete capirlo che io mi basto! La vita mi ha riservato questo? Vada così! Questo sarà il mio destino e …» «Ma cosa stai dicendo?» l’interruppe Emma «Davvero credi che lo stare da solo sia dovuto al fatto che qualcuno abbia il potere di scrivere per ciascuno di noi lo svolgimento della nostra vita? Comodo sarebbe se fosse così! Ognuno avrebbe l’alibi per dire: “io sono la vittima, non è colpa mia se sono ridotto così, come posso io fare diversamente se tutto era stato già assegnato per lo svolgimento di questa vita terrena”. Ma tutte le situazioni, compresa la tua, ciascuno se la crea a proprio piacimento, non vi è niente di prestabilito. Il nostro futuro lo possiamo controllare e stabilire solo noi. Siamo noi che facendo delle scelte indirizziamo la nostra vita in un senso piuttosto che nell’altro. Diffida di chi ti dice il contrario, perché sono coloro che, non avendo avuto il coraggio di scegliere, credono di essere stati traditi dalla vita. Non hanno capito che sono stati loro che hanno tradito la più bella cosa che appartiene al genere umano: la facoltà di
scelta. Un animale non ha la possibilità di indirizzare il proprio cammino, ma l’uomo, essere pensante, crea le situazioni che preferisce, potendo incidere non sul percorso naturale, bensì su quello razionale, che gli è proprio. Quindi, se ti trovi in questa situazione, vedi di non dare la colpa a nessun altro che non sia tu. Capito?» Detto questo, si alzò, rimise a posto con cura la sedia e si diresse verso la cucina senza dare a Mario la possibilità di ribattere, qualora ne avesse avuto voglia. «Ma…» provò a replicare. «Pensa ad Ingrid!» lo interruppe Emma senza girarsi ed alzando l’indice della mano destra verso il cielo. “Sempre quel maledetto dito, come suo marito. Prima o poi prendo delle tenaglie e li taglio ad entrambi” pensò con rabbia Mario “Tutta colpa di quei due polipi. Non potevano starsene ognuno con i propri genitori senza complicarsi la vita? Che bisogno c’era di avere una famiglia, dei figli? Per poi ottenere in cambio solo liti, pensieri, preoccupazioni. Invece, guarda me: libero!” Quando s’impegnava era capace di distruggere tutto e tutti. D’altronde, veniva da anni e anni d’allenamento. «Basta, mi hanno fatto are l’appetito con tutti quei sensi di colpa che mi hanno vomitato addosso» disse rabbrividendo e allontanando il piatto di dolce appena assaggiato. Si alzò, prese il bicchiere, non dopo aver badato a riempirlo fino all’orlo, si mise la sedia in spalla e si diresse verso il grande camino che riempiva quasi un’intera parete del locale. I due ragazzi lo guardarono muoversi con quel bizzarro fardello e si gettarono uno sguardo d’intesa come a dire: “chissà se ai suoi anni saremo anche noi ridotti così?” Arrivato, accomodò la sedia all’interno del focolare, si lasciò cadere su di essa ed iniziò a sorseggiare il prezioso nettare, guardando il grosso ceppo . «Si sentirà solo anche lui? Chissà se gli farà piacere scaldare gli altri dopo un’esistenza trascorsa in solitudine, anche se in mezzo a tanti suoi simili. Che cosa vai a pensare, vecchio rimbambito che non sei altro. E’ solo un pezzo d’albero, legno che ha adempiuto fino in fondo il compito che gli era stato affidato dalla natura. Forse sarà così, ma buttato lì, dimenticato da tutti … che
tristezza» sussurrò. I suoi cattivi pensieri furono interrotti dal fuoco che emise un forte rumore tanto da farlo sobbalzare. I crepitii aumentarono fino a diventare assordanti, poi a mano a mano scemarono, lasciando il posto a sottili fili di fumo che salivano fino alla cappa, nera come la pece. Lentamente, a fatica, la lingua di fuoco si fece strada fra la brace ed iniziò a danzare sinuosa davanti ai suoi occhi. “Sembra una sirena” pensò “che mi vuole attirare a sé”. E lì, in quel mondo fantastico, i pensieri erano liberi di scorrazzare nella sua mente senza nessun vincolo o costrizione. Quello che amava di più era quando, rapito totalmente, proiettato nel mondo fantastico del “nulla”, riusciva a non pensare. Lui s’immaginava di essere su di una distesa ghiacciata infinita, con il sole alto nel cielo terso. Poteva camminare o riposare. Dirigersi in una direzione o in un’altra. Il tutto a suo piacimento, traendo un senso di benessere totale. Si sentiva appagato anche se, ad occhi esterni, poteva sembrare una contraddizione il fatto che soffrisse per lo stare solo, ma che, allo stesso tempo, traesse da questa condizione, linfa vitale. Questa situazione era per lui fonte di giovamento, che curava gran parte delle sere invernali trascorse lontano dagli altri, rinchiuso in casa, davanti al camino, con in braccio il vecchio Leo. Amava molto quel modo di trascorrere la fine della giornata. Lui, il fuoco e la bestiola, rigorosamente seduta sulle sue gambe che, coccolata, iniziava a ronfare, come un trattore che sforza in salita. Il gatto era l’animale preferito da Mario, il suo unico amore, perché era un essere solitario, non rispettava logiche di comodo, non doveva rendere conto a nessuno ed era in grado di indirizzare i suoi interessi dove più gli aggradava. Un rumore improvviso proveniente dal camino lo destò dal suo pensare. Era il grosso ceppo che, rotolando fino al bordo, aveva rischiato di uscire. Lo rimise a posto e fissò la fiamma.
IX - LA RAGAZZA
«Mario! Mario! Ti devo sempre chiamare come quando avevi 10 anni? Pensavo che arrivato a 18 avessi imparato a gestirti da solo! Mi sbagliavo… ed eccomi qui ha tentare di farti alzare dal quel letto che ami più di te stesso. Sbaglio, per caso?» disse la madre con tono rassegnato. Esasperata, spalancò con un gesto improvviso le persiane ed un raggio di sole penetrò nella stanza che s’illuminò, come una notte limpida squarciata da un fulmine improvviso. «Mamma! Ti sembra questo il modo di svegliare una persona che deve andare a lavorare?» biascicò Mario, mettendosi il cuscino sopra la faccia per proteggersi dai pericolosi raggi cosmici. Incredula, tirò via il guanciale con forza e lo usò come una clava su quella testa, dura come il marmo. «Alzati immediatamente, altrimenti …» Non riuscì a finire la frase perché Mario con un gesto improvviso tirò via le coperte e si mise seduto sul letto. Era già vestito con indosso i calzini e la tuta da lavoro. «Visto? Cosa ti dicevo! Eccomi pronto!» esclamò alzandosi e aprendo le braccia, come un acrobata del circo che ha appena compiuto l’esercizio «Mamma! tu hai poca fiducia nei miei mezzi. Ti prego non mi chiamare così presto». «Brutto pelandrone! Sbrigati o…» In un secondo, Mario era già arrivato in bagno, chiuso la porta e: «Tanto non mi prendi» si mise a ripetere fino alla nausea, così da indurre la madre a mettersi l’indice della mano destra sulla tempia, tamburellandoci sopra. Lei gli perdonava tutto, o quasi, come a cercare di compensare quello che la vita gli aveva negato. Lui, di contro, si era abituato ad avere solo lei come unico punto di riferimento tanto che non notava più la differenza con gli altri ragazzi del paese che godevano, senza apprezzare come avrebbero dovuto, la fortuna di
avere entrambi i genitori. Mario aveva una madre dolcissima e severa nello stesso tempo e un nonno che suppliva benissimo alla mancanza del padre dando indicazioni ed esempi tipici del “sesso forte”. «Sbrigati che la colazione si raffredda» urlò da basso la madre. Dopo due minuti ecco una valanga, che di caratteristico aveva solo il rumore, scendere le scale, fermarsi davanti ad una tazza fumante di latte e caffè, imburrare il pane fatto in casa, spalmare la marmellata di lamponi, divorare, bere e precipitarsi fuori saltando a pie pari i tre gradini di casa. Non proseguì oltre, bloccandosi come se lo avesse morso una tarantola. Ritornò sui suoi i e con delicatezza schioccò un bacio sulla guancia sinistra della madre mentre, con la mano destra, le sfilò dalla tasca del grembiule un cioccolatino al latte e lei, come sempre, fece finta di sorprendersi. Un piccolo dono, ma grande per entrambi. Fin da piccolo la madre lo aveva abituato, tanto per alleviare il reciproco distacco, ad avere un dolce da concedere per le grandi occasioni e la sua partenza mattutina era una di quelle. «Brutto monello birichino!» Non fece in tempo a dire altro. Mario aveva già caricato il pranzo sul portapacchi anteriore della bici, di cui veramente si vergognava un po’, essendo un cestino di vimini tipicamente femminile. Imbracciato il manubrio si avviò, saltando sul sellino come un autentico professionista. Iniziato a pedalare, anche se non vi era minimamente necessità essendo la strada in discesa, come ogni mattina si girò per salutare la madre, piantata sull’uscio di casa. «Ciao mamma, ci vediamo questa sera» urlò. «Vedi di non fare tardi, come il tuo solito» anche se sapeva benissimo che erano parole gettate al vento. «Va bene, mammina». Usava sempre questo vezzeggiativo quando voleva ricreare quell’intimità che si tende a perdere con il are del tempo, essendosi accorto che per le mamme i figli non crescono mai o meglio vorrebbero che fosse così. La madre non rispose, fece un o indietro, richiuse l’uscio avanti a sé ed un
sorriso gli illuminò il volto. Dal canto suo, Mario era già impegnato nella discesa. Superata la chiesa rallentava sempre fino quasi a fermarsi. Da quel punto s’iniziava a vedere la vallata sottostante che d’estate era un enorme, infinito, prato verde. Ai lati, contrafforti dei monti, con i boschi cedui che proseguivano con le maestose montagne. Per finire, le vette rocciose coperte di neve durante tutto l’anno. Questo era lo spettacolo che preferiva e di cui non poteva farne a meno. Arrivato nella falegnameria dove lavorava, non senza aver rischiato di finire dentro i vari fossi che costeggiavano la strada, lanciava la bici contro lo steccato che delimitava la fabbrica ed entrava nel capannone salutando uno per uno i suoi colleghi. Il suo posto di lavoro era sotto una tettoia da cui, manco a dirlo, era possibile vedere parte della vallata e dei monti che circondavano il paese. Questo aggio della lavorazione era uno dei più faticosi ed impegnativi, ma lui non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo. L’unico problema era dato dal fatto che lì arrivavano i tronchi puliti dei soli rami e questo lo rattristava un po’ in quanto gli apparivano come degli esseri mutilati. Per non parlare poi di quando, dopo essere stati scaricati dai camion, li doveva inserire nella macchina che toglieva loro la corteccia. Le grida stridule che emettevano, gli congestionavo il cuore, tanto da costringerlo a mettersi, oltre alle normali cuffie di protezione, dei tappi nelle orecchie talmente efficaci che se lo volevi chiamare, anche a motori spenti, dovevi toccarlo. Il contatto innaturale con quegli esseri viventi gli pesava molto. Stravolgere l’intimità del bosco per fini di lucro lo faceva stare male. Capiva, però, che l’uomo, almeno dalle sue parti, prendeva il necessario, preoccupandosi della rinascita. Una mattina di fine ottobre, mentre era impegnato nel lavoro, si accorse che la temperatura si andava abbassando repentinamente. Il cielo limpido della mattina si stava ricoprendo di nuvole grigie, mentre un sottile vento di tramontana gli asciugava la faccia. «Eccoci» disse sottovoce inspirando a pieni polmoni «le condizioni per nevicare ci sono tutte. Giusto che sia così». Detto fatto. Iniziarono a vedersi i primi sparuti fiocchi, poi sempre più decisi e fitti. Il vento si era calmato e la neve ora cadeva copiosa uniformando colori e
rumori, quasi che volesse rallentare il tempo di cadenza delle cose e delle persone. «Mario» urlò Pietro da sopra un camion che stava caricando «Mario» continuò a squarciagola «Ah, che scemo, i tappi! E’ poi, quando è rapito dallo spettacolo messo in scena da madre natura, nulla lo può distogliere». Suonata la sirena di mezzogiorno, tutto si quietò. Le macchine, gli uomini e i tronchi: erano finite le ostilità. «Mario» disse Pietro mentre erano seduti in mensa «oggi vieni al campo dietro la chiesa?» «Perché? cosa si fa di bello?» «Secondo te cosa si può fare con la neve che viene giù da questa mattina? brutto zuccone che non sei altro!» «Andare a sciare?» rispose ingenuamente. «Ma cosa stai dicendo! Gli impianti sono ancora chiusi! Andiamo tutti a prenderci a palle di neve! Dai vieni, ci divertiremo un mondo e poi … sai… ci saranno anche le ragazze» disse abbassando il tono della voce. Mario lo guardò. Per quei luoghi Pietro appariva, a prima vista, essere fuori posto. Aveva la sua età, era alto un metro e sessanta, i capelli ricci e neri come la pece, gli occhi marroni e leggermente tarchiato, tanto che i ragazzi del paese lo avevano soprannominato “il moro”. Era uno dei pochi esseri umani cui Mario permetteva di entrare nel suo mondo. Pietro lo aveva capito e faceva di tutto per tentare di essergli amico. «Oh» esclamò Mario «ma io avrei da …» «Dai, lo so benissimo che non hai nulla da fare. Basta scuse!» «Davvero! Io… non so se…» «Niente “ma” e niente “se”. Si va e basta!» Era questo l’unico modo che aveva Pietro di trascinarlo a prendere contatti con
gli altri. «Ascolta il piano strategico che ho preparato. Mandiamo Gino ad avvertire tua madre che ritardi, tanto a da quelle parti per tornare a casa e poi…» «Ma, i vestiti, i guanti, gli …» «Stammi a sentire, ho previsto tutto. Ci mettiamo due tute indosso, prendiamo i guanti da lavoro e gli stivali che usiamo per pulire la fabbrica. Vedi che abbiamo tutto?» «Va bene» disse arrendendosi «ma se poi prendo un malanno sarà tutta colpa tua!» «Dai, non fare storie, stai tutto il giorno all’aria aperta, cosa vuoi che ti faccia un po’ d’acqua ghiacciata!» «E va bene» rispose con tono dimesso. Pietro sapeva benissimo da quell’affermazione che Mario aveva abbassato la guardia e tolto la corazza che si frapponeva tra lui ed il mondo degli uomini. «Benissimo! Al fischio della sirena andiamo nello spogliatoio, prendiamo tutto il necessario e… via a divertirci». Mario annuì senza dire nulla. Le sorprese non lo facevano sentire a suo agio. Gli creavano una situazione d’imbarazzo essendo abituato ad avere sempre il pieno controllo dello svolgimento della sua vita. Sapeva bene di mentire a se stesso, ma era l’unico mezzo che conosceva per sfuggire alle emozioni del momento, quando si fossero affacciate. Da qui discendeva la sua filosofia di vita: niente sentimenti, nessun dolore. Terminato il lavoro, Pietro si precipitò verso lo spogliatoio seguito da Mario che non mostrava il suo stesso entusiasmo. «Dai muoviti, non essere sempre il solito orso». «Va bene, eccomi» rispose riluttante. Si vestirono di tutto punto e si avviarono verso il “campo di battaglia”. Al loro arrivo era già in corso un furibondo scontro a suon di pallate. Le ragazze da una
parte ed i ragazzi dall’altra che, se pur inferiori di numero, riuscivano a tenere testa alla miriade d’oggetti gelati scagliati contro e alle grida che nulla avevano d’umano. Dopo circa cinque secondi di tale soave visione, gli occhi di Pietro s’illuminarono e: «Eccomi ragazzi, tenete duro, sto arrivando». Poi, girandosi verso Mario: «Dai, vieni! I “nostri” hanno bisogno di aiuto. Non vorrai mica far vincere le femminucce? Eh?» «Vai avanti, io… controllo la situazione e ti raggiungo». «Va bene! Vado». Detto questo si gettò nella mischia come un vero condottiero, dando disposizioni al suo “esercito” su come schierarsi e la tattica da adottare. Appena iniziato a dare indicazioni, i “proiettili” e le grida dello scontro diminuirono. Le ragazze si riunirono in un concistoro sotto l’egida della solita Petra, che era “l’alter ego” di Pietro nel campo avverso. Dopo pochi secondi di conciliabolo, i tiri ricominciarono, ma questa volta tutti indirizzati nei confronti del capo. Sorpreso e sbigottito da tanto accanimento nei suoi confronti, Pietro fu costretto ad una ritirata per nulla gloriosa in mezzo alle sue truppe o, per meglio dire, dietro. Di fronte a tale scena, Mario non seppe contenere un tenero sorriso, mentre il suo sguardo si abbassava. Contemporaneamente, a circa venti metri da lui, una fragorosa risata lo costrinse a voltarsi. Relativamente vicino, era stata posta, da non si sa quale divinità, l’essere più bello che avesse mai visto. Capelli lunghi e biondi, occhi azzurri, lineamenti talmente regolari che sembravano essere stati scolpiti da un’artista. Vestita, per il suo metro e ottanta d’altezza, con un completo rosa, guanti neri e colbacco bianchissimo. Mario restò ad ammirarla, estasiato. Le grida erano scomparse e la battaglia aveva perso i suoi interessanti connotati. Il mondo degli umani si era per lui fermato ed aveva, per quel poco che contava, cessato definitivamente di esistere. Era lei, solo e soltanto lei che faceva girare l’universo conosciuto.
Quest’insistente guardare non ò inosservato alla “venere bionda” che accortasi delle attenzioni si girò verso il giovanotto, mettendo in mostra i suoi denti bianchissimi. Mario, visto che le sue attenzioni erano state scoperte, distolse lo sguardo per rivolgerlo al motivo della loro presenza in quel luogo terreno, fingendo un discreto interesse per le sorti del combattimento. Non fece in tempo a riprendersi, che gli arrivò in pieno orecchio sinistro una palla di neve così ben compressa che lo sbilanciò, facendolo cadere. Restò immobile sdraiato in terra per alcuni secondi non sapendo se gli fe più male la parte anatomica o quell’eterea. La ragazza, spaventata dalla mancanza di reazione si precipitò verso di lui. «Ti sei fatto male? Eh? Rispondi! Scusa! Non volevo…» esordì, tempestandolo di domande e affermazioni. Mario era in totale confusione. «No… non preoccuparti» balbettò «sto bene! Volevo solo riposarmi un po’… sai, dopo il lavoro…» rispose mettendosi seduto e togliendosi la neve dalla faccia e dai vestiti. Lei lo guardò stupita. Gli sfuggiva l’ironia della battuta, ma quel ragazzone con gli occhi azzurri e dolci, vestito con due tute da lavoro, con ai piedi stivali di gomma lo incuriosiva come tutte le cose lontane dal suo mondo. «Ah è così? Allora mi siedo con te e ti faccio compagnia. Contento?» Mario distolse i suoi occhi per un attimo dagli avvenimenti del campo per controllare se tutto quello che avevano sentito le sue orecchie potesse essere reale o se fosse stato solo il frutto della sua immaginazione. La vide lì, a meno di un braccio di distanza. Il suo cuore già in fermento iniziò a battere così rumorosamente che ebbe paura che lei lo sentisse. In meno di un attimo si rimise in posizione di spettatore e dopo alcuni secondi, che gli sembrarono eterni, rispose: «Sssì» ma con voce talmente flebile che la ragazza non riuscì a sentirlo, visto anche le grida sguaiate dei contendenti. «Allora, mi rispondi?» disse avvicinandosi all’orecchio gelato.
Mario, costretto a voltarsi di nuovo, la vide ad un palmo dal suo naso con quell’aria impertinente di chi sa essere in posizione di vantaggio. «Tutto bene» bofonchiò tra i denti. «Ok!» rispose alzando il dito indice destro. “Ok? ma cosa avrà voluto dire! Mah, visto che è ancora seduta vorrà rimanere qui” disse tra se Mario. «Uh, uh. Forza, dai, colpite quello con il cappello rosso. No, ora tirate allo spilungone. Via, via al riparo» iniziò a gridare e a gesticolare la ragazza, tanto che da sola riusciva a fare un baccano tale da sembrare un’intera squadra di er. Mario, dal canto suo, non riusciva ad immedesimarsi nella bolgia bianca che rivestiva il campetto. Era invece affascinato da quell’essere, così lontano dal suo mondo, seduto a fianco. Ogni tanto si girava verso di lei e abbassando la testa la guardava di sottecchi attraverso l’apertura che si era creata tenendo le gambe attirate a sé e le braccia unite. “Perché sarà qui? Come si chiamerà? Com’è bella” pensava. La ragazza accortasi delle attenzioni di Mario, pur partecipando attivamente alle sorti della battaglia, sorrideva sardonica, volgendo lievemente lo sguardo nei suoi confronti e: “Come sono buffi questi montanari” pensò. «Come ti chiami?» sbottò d’improvviso. «Chi io?» «No tuo nonno!» rispose spazientita. «Perché vuoi sapere come si chiama… ah … mi chiamo Mario». «Mmh… Mario… che bel nome. Un po’ comune, ma interessante». “Comune? Interessante? Ma come parla questa” pensò. «Non capisco!» rispose.
«Ma sì... dai! In Italia quasi tutti si chiamano Mario! Io ne ho conosciuto uno che era veramente speciale, in America» rispose non aria di sufficienza la tizia. «Sei stata in America?» domandò, con gli occhi che gli uscivano dalle orbite. «Certo! Ci sono stata lo scorso anno con mio padre che era andato per lavoro». Padre? Lavoro? Parole affascinanti, che solleticavano la sua fantasia nostalgica. D’improvviso, riuscì a guardare negli occhi la ragazza vicino a lui. Finalmente capì come si sarebbe dovuto comportare un ragazzo di 18 anni: «Basta parlare di me, dimmi qualche cosa di te» esclamò Mario perentorio e sicuro di sé. «Miriam, mi chiamo Miriam» si affrettò a rispondere con tono incredulo per l’istantanea metamorfosi. «Miriam… che buffo nome». «Era il nome di mia madre». «Era?» «Sì, lei è morta quando io sono nata e non l’ho mai conosciuta… se non in fotografia o attraverso i racconti di mio padre» rispose sommessamente. «Mi dispiace… io… io non volevo… non sapevo… scusami!» «Non ti preoccupare, oramai ci sono abituata» disse riprendendosi da quell’attimo di smarrimento «in fin dei conti» continuò «era solamente una donna che compiva il suo dovere naturale di riproduzione. L’affetto è qualche cosa che si conquista e non è per nulla automatico. Non credi?» “Riproduzione? Automatico? Da quale parte del mondo viene questa” pensò stupito, incredulo. Il gergo usato dalla tizia non gli apparteneva fino in fondo pur essendo coetanei. Le montagne che circondavano la valle pareva che avessero creato una barriera insormontabile con il resto del mondo. La natura selvaggia dei luoghi aveva agito da guscio protettore per la piccola comunità montana. «Allora? Non mi rispondi? Lo fai apposta o ci sei!»
«Ci sono cosa?» «Mi ascolti quando parlo o fai solo finta» «Ah… no… ssì … scusa, ma è solo che mi confondi così tanto che ho bisogno di prendere tempo» esclamò Mario imbarazzato. Man mano che il colloquio s’intensificava, era sempre più perplesso riguardo alle sue capacità di tenere testa ad un soggetto dell’altro sesso e, per di più, estraneo. «Dicevo…» s’interruppe con aria seccata «dicevo… non credi che l’affetto per una persona sia qualche cosa che vuoi tu e non ciò che ti è imposto dal vincolo di parentela?» «Non capisco cosa vuoi dire! Io voglio un bene dell’anima a mia madre e soffro da morire per non aver più mio padre e tu… tu… tratti in questo modo tua madre che ha sacrificato la sua vita per donarla a te? Ma cosa hai al posto del cuore! Una pietra di granito?» s’interruppe per riprendere fiato. Miriam taceva. «Oh, capisco! Sei arrabbiata con lei perché ti ha lasciato sola, perché non è qui per vederti come sei vestita, perché …» «Lasciamo stare! vedo che non comprendi quello che intendo dire. D’altronde voi montanari…» «Noi montanari… cosa!» «Niente… dicevo così… per dire». «Ah, ora ho capito! Ti riferisci al fatto che vivendo sempre in mezzo alle montagne non riusciamo a comprendere come va il mondo? Eh? Invece voi di città? sapete tutto… capite tutto. Vi credete più avanti di noi nella comprensione delle cose umane! Dico bene?» Miriam lo guardò senza dire nulla per alcuni secondi, poi: «Che lavoro fai?» Mario strabuzzò gli occhi. «Come?»
«Ecco che ricominci! Ho detto: c o s a f a i p e r v i v e r e?» «Ma tu guarda… sei un bel tipo!» disse Mario scrutandola come se fosse l’unico essere vivente al mondo «io ti parlo seriamente e tu mi prendi in giro?» «Nemmeno per sogno! Io mi annoio molto facilmente, sai!» «Annoiare? Non conosco il senso di questa parola. Io mi alzo la mattina presto per andare in fabbrica…» «A far cosa?» «Indovina?» Miriam lo guardò torva. «Calma! Lavoro il legno con…» «Sei uno scultore?» «Vuoi lasciarmi finire, o no?» «Va bene. Non parlo più» e fece il gesto di cucire le labbra. «Guarda che sei proprio strana!» Miriam lo guardò con occhi supplichevoli. «Lasciamo perdere. Dunque… dicevo… vado in segheria, dove lavoro come operaio addetto alla scortecciatura dei tronchi d’albero. Finito, ritorno a casa e aiuto mia madre ad accudire il bestiame che abbiamo dietro casa. Taglio la legna per il camino, coltivo l’orto, …» «Basta, basta. Ho capito! Ma con tutta questa neve, perché non diventi maestro di sci?» «Cosa?» «Ma sì, dai. Non capisci che il futuro della valle sta nel turismo. Potresti stare in mezzo alla gente, immerso nella natura. Cosa ne dici?»
«Ma… io… non ci avevo mai pensato… non so…» «Potresti conoscere molte ragazze…» insistette Miriam, ammiccando. «Ma a me non piacciono le ragazze!» «Non ti piacciono?» «No… sì… no…» «Sì o no?» «Aspetta! Parli così in fretta che mi confondi. Volevo dire che le ragazze m’interessano, ma in questo momento devo prendermi cura di mia madre, che non ha altri che me». «Oh, che bravo ragazzo!» Mario la guardò con rimprovero. «Non credo che tu capisca» rispose abbassando e scuotendo la testa. «Ma sì che capisco, dai! Stavo solo scherzando. Volevo dire che potresti vivere una vita diversa… più emozionante». «Mm» mugugnò Mario «e poi in estate cosa faccio?» «Cosa ne so! Fammi pensare… ma sì! Potresti gestire un maneggio per cavalli, eh…cosa ne pensi?» «Sì… forse…» «E poi…» lunga pausa «potresti aiutare economicamente tua madre ed avere più tempo da dedicare a te. Non ti pare?» Il ragazzo tacque perplesso. Le indicazioni date da quella sconosciuta venuta dal nulla, lo avevano sconvolto. Le sue certezze erano andate a farsi friggere in una padella, riempita con un olio così denso da non poter vedere il fondo. Le novità, così come i rapporti con gli altri esseri umani, lo sconvolgevano e si trincerò dietro un laconico: «Ci penserò».
«Bravo! Così mi piaci! Deciso!» poi, dopo un breve pausa: «Di sicuro nella vita c’è la nascita e la morte, tutto il resto è da riempire». Mario la guardò con occhi indagatori. Era incerto sul fatto se veramente era interessata al suo futuro o se lo stesse prendendo in giro. «Ma tu cosa fai qui?» sbottò cambiando discorso. «Eravamo diretti in Austria, io e mio padre, quando l’auto ha iniziato a dare dei problemi e abbiamo pensato di farla riparare dal meccanico che c’è in paese. A proposito…» si girò dall’altra parte «Quando arriva! Le mie amiche mi staranno già aspettando per andare a farci belle. Ci aspetta una serata in discoteca» continuò imperterrita, agitandosi come se fosse seduta sui carboni ardenti. Mario notò la metamorfosi che era in atto in quell’essere biondo. Lo aveva tartassato per tutto il tempo e poi, d’improvviso, le sue attenzioni si erano rivolte a temi diametralmente opposti. I suoi problemi erano sempre in primo piano. Tutto, o quasi, sembrava annoiarla, visto che i suoi interessi duravano meno di un battito di ciglia. «Ah, ecco mio padre. Ciao papà, sono qui, yuhu». Salita si affacciò dal finestrino e: «Tanto so già che tu non lo farai!» «Come?» «Ti dico che non diventerai mai maestro di sci, te lo leggo negli occhi» urlò a squarciagola mentre l’auto si allontanava con cautela sulla strada innevata. «Vedrai che lo farò» urlò, ma la voce gli si strozzò in gola «vedrai… vedremo chi ha ragione… vedremo» disse sempre più sommessamente.
X - LA CITTA'
«Vedremo chi ha ragione! Visto!» disse Mario a voce così alta che tutti si girarono a guardarlo. «Avuto ragione di cosa?» esordì Franz, uscendo dalla cucina con Emma. Ritornato dal luogo in cui era stato relegato dall’onda dei ricordi, prese l’attizzatoio ed iniziò ad incidere sul fuoco che stava languendo: “Come la mia vita” pensò. Poi, con noncuranza, rispose: «Niente, nulla d’interessante … ripensavo a quando ero giovane… della vita in valle…» «Bravo, era proprio questo che volevamo chiederti». «Chiedermi cosa?» «Dunque…» iniziò Franz. Prese una sedia per Emma ed entrambi si accomodarono di fronte a Mario. «Io ed Emma stavamo pensando di trasferirci in città…» «In città?» «Aspetta, fammi finire. C’è venuto il dubbio se non fosse il caso di cambiare posto in cui vivere». «A cosa ti riferisci?» «Alla città! Io ci sono nato e vissuto prima di venire qua e mi sono trovato molto bene. Lì ci sono molte comodità. Non devi sempre preoccuparti del tempo che come qui ti condiziona l’esistenza. Puoi fare due i in mezzo alla gente. Ognuno si fa gli affari suoi e non conosci niente degli altri finché le rispettive strade non s’incontrano» disse girando la testa verso la consorte. Emma, con un entusiasmo che non gli era proprio, continuò con gli occhi
illuminati di gioia. «Quella volta che ci sono andata con Franz a conoscere i suoi genitori tutto era così bello, magico. Le vie illuminate a giorno. Ovunque ti giravi… gente a destra e a sinistra, che sembrava saper esattamente dove andare. Ovunque volgevi lo sguardo… negozi con vetrine sfavillanti… magazzini d’abbigliamento infiniti… supermercati grandi quanto il nostro paese. Tutto sapeva di nuovo… di moderno. Ti rendevi conto che il tempo non si era fermato. E poi tante infinite opportunità che non attendono altro che essere colte. Non ti pare, Mario?» L’omone li scrutò entrambi con molta calma, senza dire nulla. Franz, conoscendolo bene pensò: “eccolo che esplode”. Schiarendosi la voce esordì: «Ma per caso vi siete cucinati anche il cervello questa sera?» «Ma…» «Il tempo che scorre di solito porta saggezza a chi ha la fortuna di poterlo e saperlo sfruttare, mentre su di voi… vedo che ha avuto l’effetto contrario. L’uomo quando è giovane percepisce solo le cose molto vicine. Più maturo, riesce a vedere anche quelle più lontane. Da vecchio non è in grado di notare più nulla e voi…» esclamò indicando alternativamente entrambi «voi… non credo che siate arrivati all’ultima fase! Sbaglio forse?» Entrambi i coniugi tacquero e si guardarono come ad interrogarsi sul significato delle affermazioni del loro amico. «Capisco dalle vostre facce che non mi sono spiegato» continuò con tono di chi non ammetteva repliche «Siete davvero sicuri che questa sia la soluzione giusta per voi?». Poi, puntando il ditone verso Franz: «Ti ricordi che non vedevi l’ora di trasferirti qui da noi perché non ne potevi più dei ritmi frenetici che “il mostro”, così avevi soprannominato la tua città, ti costringeva a fare? Alzarti alle sei di mattina. Salire in auto ed andare in stazione per prendere un treno, ripieno come uno strudel. Viaggiare in piedi per circa mezz’ora con chi ti spintonava a destra e a sinistra. Prendere, infine, l’autobus fino alla fabbrica dove lavoravi per otto lunghe ed interminabili ore. Terminato il turno, ripetevi a ritroso il percorso del mattino per arrivare a casa alle sette di sera, distrutto e svuotato d’ogni energia».
Tacque. «E tu?» continuò, indicando Emma «Tu non ti ricordi cosa mi hai detto quando sei ritornata da quel viaggio? “Quelli sono tutti matti! Non fanno altro che correre tutto il giorno. C’è un tale frastuono che durante la notte ancora mi sembra di sentire il rombo delle auto, lo sferragliare dei tram, la voce della folla. Persone che continuavano a parlarsi pur non capendosi, perse nei loro pensieri”». I due tacquero incapaci di ribattere. Franz tamburellava nervoso sul braccio della sedia, toccandosi, di tanto in tanto, la gamba inferma e stropicciandosi l’occhio malato. Emma si lisciava i biondi capelli, come se non li avesse pettinati la mattina e guardava nervosamente il locale, cercando un avventore che avesse bisogno di lei. Entrambi, però, evitavano di guardare il loro interlocutore. Mario li esaminò uno per volta. Resosi conto che era stato troppo aspro nell’esposizione dei suoi concetti, cambiò tono e la voce diventò dolce, prerogativa dei veri amici. «Scusatemi se sono stato un po’ brusco, ma voi sapete come sono fatto. Quando m’interessa quello che dico, il mio brutto carattere viene a galla». I due, al suono di queste parole, rivolsero lo sguardo verso il loro amico, che continuò: «Ragionate! Quello che vi promette la città è soltanto un modo per attirarvi tra le sue grinfie, per ghermirvi e soggiogarvi alle regole che “essa” ha scritto per voi». «Non capisco cosa vuoi dire» lo interruppe Emma. «Dico… che quella cosa infima che voi chiamate “città” non è altro che uno “specchietto per le allodole” per il genere umano. Vai lì convinto di averla in pugno, ma è “essa” che ti fa agire a proprio piacimento, che t’inserisce nel vortice del consumismo, che fa sembrare necessario anche ciò che non lo è. Di conseguenza, devi lavorare di più per mantenere quello stile di vita che hai con fatica ottenuto, per poi renderti conto che…» «Che…» lo incalzò Franz. «… che avresti potuto benissimo accontentarti di meno. In questo modo, non avresti permesso alla “sanguisuga” di succhiarti la voglia di vivere, che è
fortissima dentro ognuno di noi, lasciandoti come avanzo quella scoria che gli uomini moderni chiamano “stress”. Forse non vi rendete conto» continuò infervorato «quanto sia dannosa questa condizione di frustrazione per l’organismo umano che si ribella ed ecco… gli stati di malessere generale… le paranoie… per arrivare alla morte, per fortuna non sempre irreversibile, dell’anima». Poi, diminuendo l’intensità: «Il fatto è che noi esseri umani non siamo mai contenti della nostra condizione, sia essa fisica, economica o sociale. Credendo di essere arrivati, ecco che internamente inizia ad insinuarsi un tarlo che attacca la situazione che ci siamo creati. Ci sentiamo insoddisfatti anche se l’abbiamo conquistata con enormi fatiche». Tacque per alcuni secondi, ravvivando il fuoco. «Comunque, anche se la penso diversamente, credo che sia opportuno che voi facciate ciò che vi sembra giusto. Prima che decidiate, però, devo dirvi due cose. La prima. Vi chiedo di ammirare ancora una volta il paesaggio che ci circonda. I monti… le valli… il cielo… la gente del paese. La seconda… la seconda… è che… che mi manchereste da morire» disse rivolgendo gli occhi verso il focolare. Franz ed Emma tacquero. Conoscendo da tempo Mario, non l’avevano mai visto mostrare così i suoi sentimenti. Franz, sentendo che il momento d’imbarazzo aveva coinvolto tutti i protagonisti: «Oh… eh… scusate... mi... mi sono dimenticato dell’arrosto che avevo in messo in forno. Torno subito» e via di corsa in cucina. Emma rimase perplessa. “Non c’è niente in cottura” pensò. Il suo smarrimento, in ogni caso, durò solo un attimo. «Ti vengo ad aiutare» e si alzò più velocemente dei pensieri che gli avano per la mente. “In due per un vassoio? Soggetti strani” pensò Mario. «Sono proprio bizzarri quei due» sussurrò. «Ciao Mario» esordì Ernest, facendo entrare una ventata d’aria fresca dalla porta. Mario guardò il nuovo avventore ed annuì con la testa.
«Buonasera a tutti» continuò sogghignando. Era uno dei maestri di sci che abitava proprio dietro la taverna. Nella stagione estiva lavorava alla vecchia segheria, teatro di tante angosce giovanili di Mario. In quella invernale, dalla mattina presto fino la sera tardi, era sui campi da sci ad insegnare “il più bello sport del mondo”, come amava definire lo scivolare sulla neve con ai piedi due pezzi di legno ricurvi sulla punta. Ernest era un giovanotto di 32 anni, alto un metro e 80, asciutto come un vento di tramontana, due occhi che gli uscivano dalle orbite, sbiancato come un cencio appena lavato. Visto così non rappresentava proprio lo stereotipo del maestro di sci, come inteso dall’immaginario collettivo. D’inverno, al contrario, riusciva a mascherare il suo aspetto con indosso la tuta rossa e bianca da maestro e la faccia di colore mogano. «Ciao Ernest. Cosa ti porta da queste parti?» rispose Franz, uscito dalla cucina avendo sentitolo arrivare. «Niente. Sono venuto a bere il solito bicchierino prima di andare a dormire. Ma, a proposito… ho saputo di quei due sposini…» «Shh» lo interruppe Franz mettendosi l’indice perpendicolarmente alle labbra ed ammiccando alla sua destra. Lo spilungone si voltò e i suoi occhi incrociarono quelli dei due ragazzi, che si stavano gustando la scena, accennando un sorriso. «Buonasera». «Sera» risposero all’unisono le anime gemelle. Mario scosse la testa. «Sarà meglio che vada, si è fatto tardi» affrettandosi a dribblare la figuraccia che aveva appena fatto. «Il bicchierino?» disse Franz. «Oh… non fa nulla… mi sono ricordato che devo sbrigare una faccenda urgente. Arrivederci a tutti» ripeté sommessamente, mentre usciva più velocemente di un
topo inseguito dal gatto. «Il solito» disse a voce alta Mario. Ernest non ribatté e, volgendo lo sguardo verso l’omone, s’incamminò a i veloci verso la porta. “Maestro? Di cosa! Non certo di vita” pensò Mario vedendolo uscire.
XI - LO SCI
Era un pomeriggio di fine estate. Mario, rientrato dal lavoro, si mise seduto sui gradini della veranda a contemplare il cielo, di un azzurro intenso. Ogni tanto ava una nuvola che copriva il sole creando una serie di chiaroscuro che modificava i contorni di ciò che gli occhi potevano vedere. “Strano” pensò “come una sorgente luminosa che cambia ti possa fa vedere le cose in modo diverso. Loro sono sempre lì, le stesse di un secondo prima, ma completamente differenti. Il nonno ha ragione: mai fidarsi delle apparenze, altrimenti rischi di sottovalutare o sopravalutare ciò che ti circonda”. «Oh, guarda quella nuvola, che bella! Sembra… sembra… un guerriero antico. E quella… quella… assomiglia ad un vaso per tenere l’olio» esclamò sempre più entusiasta. Le bianche nuvole toglievano e ridavano spazio all’azzurro, quasi che fosse una lotta interna fra i poteri della natura, ma lui sapeva benissimo che non era così. Il cielo terso non appagava il suo animo. Troppo spazio da riempire. Le nuvole, invece, gli davano la sensazione di essere cullato da quell’andirivieni di forme. Tutto sembrava smorzato, rallentato. Amava particolarmente quell’ammasso di vapore acqueo condensato quando ricopriva di un sottile velo la volta celeste, dando l’impressione che tutto avesse una fine. Mario era capace di stare ore e ore in contemplazione di quella che lui chiamava “lontana”, per differirla da quella “vicina” che poteva toccare o annusare. «Mario, Mario» gridò la madre da dietro la casa «sei lì?» «Sì mamma». «Mi vieni ad aiutare o vuoi restare tutta la sera con il naso all’insù?» «Eccomi! Arrivo!» Così dicendo si alzò, scese i tre scalini della veranda e si diresse verso il piccolo
pezzo di terra coltivato che avevano, non senza fatica, strappato alla montagna. «Pronto!» La madre si alzò sbuffando dalla posizione chinata toccandosi i reni ed allontanandosi una ciocca di capelli che le coprivano parzialmente la fronte ed il viso con il dorso della mano. Mario la osservò. Era tutta sudata e non aveva una bella cera. «Mamma! Cosa…» «Niente, nulla, non ti preoccupare, sono solo un po’ stanca. Ecco» disse «prendi la zappa e continua tu. Io mi siedo sotto il pino e bevo un bicchiere d’acqua. Vedrai che starò subito meglio». Mario, per nulla rassicurato, iniziò a togliere le erbacce nate vicino alle patate e creò un solco per piantare della lattuga. Lavorando, però, non perdeva l’occasione per guardare la madre che, dopo qualche minuto, aveva ripreso il suo normale aspetto. Tranquillizzato, iniziò a zappare di buona lena quando: «Mamma!» «Dimmi, Mario». «Senti… stavo pensando… l’anno scorso… ricordi che ti avevo parlato di una ragazza, un po’ strana, conosciuta all’inizio dell’inverno?» «Mmh… ah sì, quella pazza scatenata». «Brava, proprio lei». «Allora?» «Allora… mi ha fatto riflettere sul fatto che, nella vita, si deve sempre andare avanti… cercare con ogni mezzo di avere il meglio per se stessi…» Un sudore, freddo questa volta, percorse tutta la schiena della signora. «Quindi?» lo incalzò. «Di conseguenza… vorrei…»
«Vorresti?» Mario tacque. «Mi dici, o no, cosa ti a per la testa?» lo aggredì la madre. Il ragazzo la guardò imbarazzato, non essendo abituato a sentire la madre rivolgersi a lui con quel tono brusco. «Ecco… voglio diventare maestro di sci!» Il viso della signora si distese. Il freddo artico che le aveva attanagliato l’anima, lasciò il posto ad un caldo tepore. La ione smise di condizionarle l’intelletto e un dolce sorriso le illuminò il volto. Si alzò e, ancora incerta sulle gambe, si diresse verso il figlio. Il ragazzo era a capo chino, appoggiato con entrambe le mani sulla vanga, usata a mo’ di sostegno. Arrivata vicino, gli accarezzò capelli e prese il mento del suo ragazzo tra il pollice e l’indice della mano destra. Gli alzò dolcemente il viso, fino a che i loro occhi non si livellarono. Poi, dopo un attimo di silenzio, con voce di madre: «Sciocco che sei! Il maestro di sci! Mi hai fatto prendere un bello spavento» toccandosi con il palmo della mano sinistra il petto e respirando profondamente. Il cuore di Mario ricominciò a battere in modo regolare, senza darlo a vedere. «Perché ti sei spaventata, mamma! Cosa credevi che io volessi fare!» «Niente… niente… non ti preoccupare… sai come sono le mamme… per loro i figli non crescono mai». «Non capisco». «Vorrebbero sempre avere il controllo su di loro per impedirgli di compiere i falsi o la frequentazione di cattive compagnie. Sono sempre in attenta sorveglianza per ciò che accade, pronte a scagliarsi contro di chiunque possa far loro del male». Mario tacque. Il fervore con cui la madre aveva pronunciato quelle parole, lo
avevano disorientato. Immaginarla aggressiva lo sorprendeva, lui che l’aveva sempre vista con un carattere mite e piena d’attenzioni. Notare in lei questo modo d’essere lo incuriosiva e, nel frattempo, gli creava tensione. La signora, che si era accorta della perplessità del figlio, si affrettò a riacquistare la sua solita apparenza e: «Quando pensi di iniziare?» Pausa. «Io... io... pensavo di andare a sentire il maestro Jacob domenica, dopo la messa. Se sei d’accordo?» si affrettò a puntualizzare. «Per me va bene! Ricordati, però, i consigli che davano i nostri nonni: “Mai lasciare la strada vecchia per quella nuova”». «Vero mamma, ma dicevano anche: “Chi non risica… non rosica”». La madre scoppiò a ridere, cosa che non gli accadeva spesso, da non riuscire più a smettere. «Mamma! Smettila! Mi fai sentire a disagio!» «Scusami caro, non voglio offenderti» rispose continuando a sogghignare «è che sono contenta che tu abbia trovato la tua strada, quello che vuoi fare da grande, anche se...» «Se?» «… è un lavoro del tutto diverso da quello che fai adesso e inserito in un mondo che non conosci. In ogni caso, se questo è quello che vuoi, hai la mia approvazione» concluse, riprendendo definitivamente il controllo di se stessa. Mario distese i muscoli del viso e un sorriso, appena abbozzato, gli illuminò il volto, indurito dalle giornate trascorse all’aperto. «Grazie mamma! Oggi è uno dei giorni più belli della mia vita» e, mentre pronunciava queste parole, iniziò a saltellare prendendo la madre per le mani e trascinandola in un gaio girotondo. «Basta! Smettila! Mi fai girare la testa».
Il ragazzo, però, non riusciva a fermarsi, preso com’era dall’euforia del momento. «Ti prego! Basta!» disse, buttandosi in terra esausta. Mario, capito la situazione, smise immediatamente e si gettò anche lui vicino alla madre che ansimava come un mulo carico su di una strada in salita. ato il momento d’euforia, entrambi rimasero seduti, l’una accanto all’altro a fissare il vuoto, ognuno perso nei propri pensieri. D’improvviso: «Mamma!» esclamò Mario, facendola sobbalzare «mi accompagni domenica mattina?» La signora lo guardò incredula. «Se ti fa piacere! Ma cosa diranno i ragazzi del paese se ti vedono accompagnato dalla “mammina”!» «Non m’interessa cosa ne pensano loro. Io sono solo contento che questo mio momento possa condividerlo con te» disse abbassando lo sguardo. Ester non rispose. Lo guardò teneramente e, mentre ritornava ad accarezzargli i lunghi capelli, due piccole gocce di rugiada si fecero strada fra le ciglia ed arrivarono fino ai contorni inferiori del viso. «Basta lavorare per questa sera mamma?» si affrettò a dire Mario. La madre fece un cenno d’assenso con il capo e, mentre si asciugava il volto, si rimise in piedi, aiutata premurosamente dal figlio. Rientrati in casa, dopo essersi tolti di dosso tutta la terra accumulata, cenarono, scambiandosi solo alcune parole di routine giornaliera: «mi i il sale, buono quest’arrosto, domani forse pioverà» persi com’erano nelle diverse chiavi di lettura degli ultimi avvenimenti. «Buona notte mamma». «Grazie tesoro, anche a te».
I sonni di Mario, di solito lineari e profondi, in quelle notti di fine estate vennero turbati da sogni che avevano come comune denominatore la sua vita futura. L’euforia per la nuova avventura si scontrava con la paura dell’incognito. Si vedeva primo nelle gare di tutte le specialità, circondato da belle ragazze attirate dal fascino del campione. Altre volte era relegato a vivere ai margini della società avendo fallito lo scopo che si era prefisso. La domenica mattina del gran giorno Mario si svegliò, con sua somma sorpresa, di buon mattino. Si alzò in punta di piedi, non volendo svegliare la madre. Scese al piano di sotto e preparò in silenzio il caffè, tostò il pane, lo imburrò e vi stese sopra un velo di marmellata di more fatta in casa. Mise sul fuoco il latte fresco, prese un vassoio che era sulla credenza del soggiorno e ritornato in cucina vi mise sopra tutto quello che aveva preparato. Salì al piano di sopra. Entrò nella camera della madre e si mise delicatamente seduto sul “lettone”, in religioso silenzio. La signora, dopo qualche minuto di quella presenza estranea, percepì il buon odore emanato dalla colazione ed iniziò a scuotersi. Nel dormiveglia non riuscì a distinguere con esattezza cosa arrivava al suo olfatto e si alzò così d’improvviso che le ciotole tintinnarono pericolosamente, rischiando di saziare il letto piuttosto che il suo stomaco. «Mario! Mi hai fatto prendere uno spavento… ma cosa…» esordì incredula alla vista di quell’insolita situazione. «Niente di speciale mamma. Volevo solo ricambiare quello che fai per me tutti i giorni dell’anno e visto che questo è uno speciale… per noi due…» Tacque. «Certo Mario, hai detto bene “noi due”» rispose mettendosi seduta sul letto e tirando a se il vassoio. Mangiò di buon gusto. Tra un boccone e un sorso di caffè latte non perdeva occasione di fare cenni d’intesa al figlio, con un sorriso. «Aspettami di sotto, mi vesto ed andiamo» disse. «Eccomi, sono pronta! Siamo in ritardo?»
«No mamma, sono le otto e dieci». «Cosa? Le otto e… ma l’appuntamento è alle 11,00!» «Scusami. Non volevo fare tardi» rispose ingenuamente il ragazzo. «Sei incorreggibile! Quando si tratta di andare a lavorare non riesco a farti alzare, invece oggi…» Mario sorrise. «Visto che mi sono alzata e che oggi è una bellissima giornata, tanto vale che c’incamminiamo ando per la Streda de Sopra». Usciti che furono, la eggiata iniziò a i misurati. Il sole non aveva ancora scavalcato le alte montagne che circondavano il paese, ma era solo questione di minuti e sarebbe arrivato con tutta la sua potenza e bellezza. Il paesaggio cambiava a mano a mano che avanzavano verso la comune meta. Prima le case, così strette tra loro come se volessero ripararsi dal freddo l’una con l’altra. Poi il bosco, con tutto il rigoglio proprio della stagione ancora in pieno svolgimento. In ultimo il pianoro, da dove partivano sentieri e piste che arrivavano fino sotto le imponenti cime. Lo spettacolo che si presentava loro, seppur visto innumerevoli volte, non finiva mai di sorprenderli, tante erano le variabili che influivano di volta in volta. Una nuvola birichina, che si divertiva ad oscurare il sole. Una limpida giornata. Uno stato d’animo diverso. Arrivati al campo scuola, si diressero verso l’angolo a nord dove, sotto uno sperone roccioso, era situata la baita Cielo Blu, gestita da Jacob insieme alla moglie Nina. «Ciao Jacob! Sempre a lavorare?» esclamò Ester con voce leggermente occlusa dall’affanno procurato dalla salita. Il maestro si voltò sorpreso. Interruppe la riparazione di un asse di legno del pavimento della veranda e: «Ciao Ester» rispose alzandosi «non ti aspettavo così presto».
“Ester? Conosce così bene mia madre? Ma se…”. «Ciao Mario! Sei talmente cresciuto che quasi non ti riconoscevo. Tutto suo padre» terminò la frase rivolgendosi verso la signora. «Buongiorno Maestro… signor Jacob…» rispose impacciato. «Buongiorno a te Mario e… ti prego… chiamami solamente Jacob e dammi del “tu”, altrimenti mi fai sentire vecchio». «Come vuole… ehm… come vuoi Jacob» rispose titubante. «Bene!» Posati gli attrezzi estivi, si diresse verso una panca che era al servizio di un tavolo di legno posto appena fuori la costruzione. «Prego, accomodatevi. Credo che siate stanchi ed affamati dopo quella bella camminata che avete fatto. Vado a prendere il necessario per una buona colazione. Voi intanto... riposatevi». I due annuirono e il maestro scomparve dentro la baita. «Mamma!» esclamò con così tanta veemenza Mario, da far sussultare la signora. «Conosci il Maestro Jacob e non me lo avevi detto?» «Volevo farti una sorpresa». «Ci sei riuscita! Eccome!» «Ti spaventa la cosa?» «No, per nulla, ma da quanto tempo lo …». «Siamo nati tutti qui in paese. Io, il papà, Jacob ed abbiamo frequentato le stesse classi, i medesimi amici, la …». «Ester» la apostrofò Mario, con quella sfrontata confidenza cui ricorreva quando si sentiva in trappola «tu non mi stai dicendo la verità! Ho visto come ti ha guardato quando siamo arrivati. Sembrava che avesse visto un raggio di sole dopo mesi di pioggia in pieno inverno». La madre abbassò lo sguardo e con un filo di voce: «Siamo stati fidanzati prima
che io sposassi tuo padre». «Noo!» esclamò Mario. La madre confermò annuendo. «Poi, la “neve turistica” lo ha preso nel suo vortice e non lo ha più lasciato, accompagnandolo nell’inseguimento del sogno di diventare maestro di sci. Io in principio ero favorevole al fatto che ognuno deve cercare di realizzarsi nella vita, ma Jacob voleva di più. Amava la libertà. Faceva di tutto per essere al centro della sua attenzione, perso in quel mondo nuovo e luccicante. Soldi, considerazione, signore annoiate, ragazze esuberanti. Tutto gli ruotava intorno. Lui, da ragazzo di paese com’era, non fu abbastanza forte da resistere alle tentazioni terrene e, con mio gran dispiacere, mi lasciò per rincorrere quelli che sarebbero diventati, in futuro, i suoi fantasmi». Suo figlio la stava a sentire incredulo. “La mamma che si raccontava! Mai sentito cose del genere” pensava. «Forse è stato meglio così perché ho avuto modo di apprezzare tuo padre, anche se… per un tempo troppo breve». Tacque, condizionata dai ricordi. Mario, visto la situazione d’estremo disagio in cui era caduta la madre, s’affrettò a rimettere in carreggiata il filo dei buoni sentimenti. «Dai mamma, il peggio è ato. Ora ci sono io e non ti lascerò, per nulla al mondo». Così dicendo le accarezzò delicatamente il volto intristito. Ester si riprese e abbozzò un rassicurante sorriso al suo ragazzo per dimostrare che tutto era ato, o quasi. «Eccomi qua! Pronti per la colazione?» esclamò Jacob, fermo sulla porta dello chalet con in mano un piatto di legno, colmo di affettati e formaggi. Uscito fuori, li posò sul tavolo. «Torno subito. Scusatemi, ma ho solo due mani» disse servizievole. Ritornò con piatti, forchette, coltelli, bicchieri e una brocca di vino, quello buono.
«Prego servitevi pure, senza ritegno». «Tua moglie?» domandò Ester. «Lei ha già mangiato quando si è alzata questa mattina e come tutte le cittadine non ha l’abitudine di fare merenda a metà mattinata». Madre e figlio si guardarono ed un sorriso di complicità illuminò i loro volti. Iniziarono a mangiare di buona lena sorseggiando, di quando in quando, l’ottimo vino rigorosamente rosso. Verso la fine, quando i dettami dello stomaco furono ati in secondo piano rispetto a quelli della mente, Jacob esordì: «Allora ragazzo, sei contento di diventare maestro di sci?» Mario finì di deglutire: «Certo signore… Jacob… non vedo l’ora di iniziare. Spero solo di riuscirci, altrimenti…» «Non dire così!» esclamò interrompendolo «Quando prendi una strada devi essere sicuro di arrivare fino in fondo, altrimenti non t’incamminare nemmeno. Capito?» Mario, sorpreso da quella reazione inaspettata, annuì senza pronunciare parola, non avendo compreso fino in fondo il senso di quell’affermazione. «Bene! Vedo che ci capiamo al volo. Quanto sei bravo con gli sci?» «Be… diciamo che…» «Che…?» «Che ho provato a sciare dietro il campo della chiesa aiutato dal mio amico Bruno, ma…» «Quel campo? Ma quello è piano come un campo di patate!» Mario non proferì parola o fece cenni. Era rimasto ammutolito dall’irruenza di Jacob. Aveva fatto sogni bellissimi su quell’incontro e sul suo futuro, ma nel giro di pochi minuti tutto il castello che aveva costruito con la fantasia, era crollato con un frastuono assordante.
«Ho capito! Dobbiamo iniziare tutto da capo. Prometto comunque a tua madre che diventerai maestro di sci, un buon maestro». «Ti ringrazio, Jacob! Per mio figlio sarebbe molto importante riuscirci. Sai, la vita non è stata proprio tenera con lui» disse con voce bassa Ester. «Tranquilla! Vedrai che ci riusciremo. Vero Mario?» Il ragazzo, ripresosi dallo sconforto grazie all’intervento della madre, fece segno di sì con la testa. «Bene!» disse Jacob, alzandosi dalla panca. Poi, rivolgendosi a Mario: «Noi due ci vediamo sabato alle otto al Sentiero Scuro per fare un po’ di corsa. Sii puntuale!» Detto questo, abbandonò i commensali e ricomincio a lavorare sull’asse di prima. Per incanto, comparve da dietro la baita Nina che, salutando con il capo ò davanti a loro diretta verso la legnaia. Mario e sua madre si guardarono. Ester fece un cenno al figlio come per dire: “lascia stare, sono tipi strani quando sono insieme”. Iniziata la discesa, Mario, di solito loquace, ora era chiuso in un silenzio tombale. La sua allegria contagiosa, almeno con la madre, sembrava scomparsa, dileguata. Ester, che aveva capito l’imbarazzo del figlio, esordì: «Mario, allora... sei contento di iniziare questa nuova avventura?» «Be… sì… credo… forse». «Ehi! Dove è andato a finire il tuo entusiasmo?» «No mamma! Davvero... sono contento, ma…» «Ti ha spaventato Jacob. L’ho capito, sai! Non ti preoccupare. Da quando lo conosco si comporta sempre in questo modo. Vedrai che con lui ti troverai bene, anche se le prime volte…»
«Le prime volte?» «…sarà duro da digerire il suo comportamento un po’ rude e scostante. Credimi però che da lui imparerai moltissimo». Mario tacque riflettendo su quanto detto dalla madre. “La vita… quando credi d’averla in pugno… lei te lo restituisce… in faccia!” pensò.
XII - JACOB
«Mario! Vedo che sei puntuale!» esclamò Jacob. «Buongiorno. Potrei non esserlo?» La delusione subita pochi giorni prima bruciava ancora il suo giovane spirito, privo ancora di corazze che solo il tempo avrebbe forgiato, ma il maestro non capì la sottile ironia e si limitò ad un semplice: «Bene. Iniziamo!» Dapprima percorsero un breve tratto ad andamento lento, tanto per sciogliersi i muscoli. Arrivati all’inizio del bosco, con un cenno d’intesa, si avviarono sul ripido sentiero con sempre maggiore lena. Jacob iniziava ad affaticarsi ed un sottile perverso sorriso illuminò il volto di Mario. La sua non era cattiveria, quanto piuttosto una moneta di scambio per la delusione ricevuta. Mario correva ora spedito verso la meta, convinto che una volta arrivato lo avrebbe aspettato la giusta ricompensa. Nulla di più sbagliato. Giunto al punto prestabilito, vide l’enorme pietra posta nel mezzo di una piccola radura che si stagliava contro un cielo azzurrissimo. Vi salì sopra ed iniziò ad alzare le mani e a fare inchini in tutte le direzioni, come aveva visto fare in televisione, nel bar in paese, al momento delle premiazioni delle gare. Stanco di quelle pantomime che si perdevano nella calma del bosco, si mise seduto ed iniziò a fischiettare. ati alcuni minuti, ecco arrivare il maestro ansimante, ma con un o ancora ben deciso. «Ehi, ben arrivato! Torniamo indietro, ora?» «No, proseguiamo» rispose Jacob senza fermarsi. Incredulo, Mario saltò giù dalla roccia ed iniziò ad arrancare dietro quel “vecchio”. Raggiuntolo, si mise al suo fianco riprendendo il ritmo con tutte le cautele del caso. Ripreso vigore, aiutato anche dalla voce ansimante proveniente dall’uomo, il ragazzo accelerò di poco, costantemente, fino a prendergli una certa distanza. Arrivato stremato ad un bivio del sentiero, si lasciò cadere su di
un sedile naturale posto sulla riva di un piccolo ruscello che lambiva un ramo della biforcazione. Riuscito a calmare il respiro, tanta era l’aria che si accalcava ad uscire ed entrare, si mise ad ascoltare le voci del bosco come suo nonno, tanti anni prima, gli aveva insegnato. La quiete di quel luogo, per lui fantastica ed irrinunciabile, fu interrotta dal rumore stonato della fatica di Jacob. Giunto nei pressi di Mario, abbozzò un sorriso e senza proferire parola continuò con il solito o, lasciando dietro di sé lo stridio fastidioso dell’aria che si affollava in gola nel percorso da e per i polmoni. Il ragazzo, sempre più sorpreso, si alzò in piedi e sgranchendosi i muscoli intorpiditi delle gambe, ricominciò a correre con un entusiasmo che andava, o dopo o, diminuendo vertiginosamente. Questa volta, nonostante la sua età, non riusciva a raggiungere quell’essere strano che riusciva a distanziarlo senza apparente fatica. Il sentiero s’inerpicava attraverso alberi maestosi che lasciavo intravedere, di tanto in tanto, panorami mozzafiato delle vallate sottostanti e delle alte vette. Purtroppo, Mario, impegnato com’era nella salita, riusciva a dare solo uno sguardo fugace a quelle meraviglie che la natura aveva riservato al genere umano. Anzi, il contrasto non faceva altro che aumentare il suo disagio. Essere nell’elemento a lui più adatto e non poterne trarre fino in fondo sensazioni per lui vitali. Stremato per la fatica e abbattuto moralmente, stava per crollare quando, dietro una curva molto stretta, vide Jacob seduto placidamente che contemplava attraverso uno scorcio di veduta il cielo limpido. «Ehi Mario! Tutto bene?» proferì con aria indagatrice e sincera. Il giovane atleta non rispose. Arrivatogli vicino si lasciò cadere su di uno spiazzo erboso, distrutto dalla fatica e dalla figuraccia fatta nei confronti di chi credeva inferiore. Dopo alcuni attimi di silenzio, rotto di tanto in tanto dalle voci del bosco, Mario si mise seduto e: «Sì Jacob, grazie» rispose ansimando. «Bene! Credo che tu oggi abbia appreso la tua prima lezione». Il ragazzo lo guardò incredulo. «Lezione? Quale lezione! Abbiamo solo corso un po’».
«Vedo che hai molto da imparare…» lo apostrofò il maestro con aria di sufficienza e muovendo il dito indice della mano destra, come una bacchetta di un direttore d’orchestra. Pausa. «… e non solo da un punto di vista fisico». Mario lo fissò più incredulo che mai. Il tale seduto vicino a lui non finiva di stupirlo, minuto dopo minuto che avano insieme. «Quante ore corri ogni giorno?» l’interruppe Jacob. «Ma… io… veramente… eggio quando posso in montagna, ma correre…» «Come immaginavo! Sei uguale a tutti gli altri». «Cosa?» «Tutti credono che sciare sia solo divertimento, dimenticando una cosa fondamentale che lo sci è uno sport e come tale va affrontato». Mario taceva. «Come tutti gli sport» continuò «lo sci ha bisogno d’allenamento, tecnico e fisico, per evitare che, come accade a molti sciatori “della domenica”» rimarcò ironico «ci si rompa gambe e braccia, non avendo coltivato la necessaria preparazione atletica. Dico bene?» «Ma… non so…» rispose perplesso Mario. «Pensaci! Ora andiamo!» Mario tremò. Aveva esaurito tutte le energie. Il suo orgoglio ferito però gli impediva di ammetterlo. Si alzò titubante volgendosi verso la salita ed iniziò a stirarsi i muscoli intorpiditi. «Vieni! Per oggi credo che sia abbastanza». Non avendo compreso il senso della frase, annebbiato com’era dalla stanchezza, restò immobile.
«Allora! Vuoi stare qui tutto il giorno o andare a fare una doccia?» «Scusami... non continuiamo?» Jacob lo guardò con aria severa ed iniziò la discesa, questa volta a i lenti, cadenzati. Mario capì in ritardo che era andato oltre. La sua voglia di rivincita lo aveva portato a superare quella sottile soglia che separa l’allievo dal maestro. Mestamente, s’ incamminò e come il cane che segue da lontano il padrone, avendo avuto riscontri diretti della sua furia, così Mario, senza più identità, rimase defilato. «Ragazzo! Che cosa fai lì dietro!» esordì d’improvviso Jacob, senza girarsi. Mario alzò la testa e il suo spirito si liberò almeno in parte di ciò che contrastava la libertà dei movimenti della coscienza. Affrettando il o riuscì a raggiungerlo non avendo, però, ancora il coraggio di guardarlo in faccia. «Allora! Vedo che oggi hai imparato anche la seconda lezione». L’affermazione costrinse Mario a guardarlo. Un beffardo sorriso illuminò il volto di Jacob. «Non capisco! Io so soltanto che ho fatto una brutta figuraccia. Credevo che non mi avresti raggiunto… ed invece…» «Appunto! Dicevo… non si deve mai sottovalutare il tuo avversario. Credevi di aver capito una cosa ed invece la realtà ti ha smentito. Ricorda quindi quello che hai imparato oggi. Ti sarà utile per il futuro, qualsiasi cosa tu faccia nella vita» rispose con aria seria Jacob. Mario, durante il cammino di ritorno, ebbe tempo di meditare su quanto gli era accaduto quella mattina. Il suo atteggiamento di superiorità lo aveva reso ridicolo di fronte a chi credeva, a torto, inferiore. L’aver assistito ad una lezione al di fuori delle aule scolastiche, lo aveva convinto sulla bontà della decisione di abbandonare la scuola molto presto. Ma si era persuaso che, come un’atleta avesse bisogno d’allenamento, così la mente, allo stesso modo, doveva essere abituata a ragionare. Solo facendo lavorare il cervello, alla stregua di un qualsiasi altro muscolo, poteva sperare di comprendere meglio il mondo che
circondava l’essere umano. «Scusami Jacob! Tu che scuola hai frequentato?» «Solo quella che dovevo. Mi piaceva stare a sentire gli insegnanti che raccontavano cose nuove per me, ma non sopportavo rimanere rinchiuso tutte quelle ore in mezzo a quattro mura. Meglio stare all’aria aperta, in mezzo alla natura». Gli occhi di Mario luccicarono. Poi, riprendendosi: «Ma… come hai imparato tutte le cose che sai?» «La gente, caro mio. Ogni persona che ho incontrato mi ha lasciato un pezzetto di sé. Importante è capire cosa devi tenere e quello che puoi buttare». «Ohoo!» esclamò il ragazzo. Jacob non rispose, ma non poté fare a meno di provare un sottile piacere che, nonostante il are degli anni, provava sempre nel trasmettere ad altri quello che aveva imparato. «Allora Mario! Contento di aver iniziato questa nuova esperienza?» «Oggi non sono in grado di pensare... molto. Comunque…mmh… sì… credo di sì». «Bene! L’entusiasmo nei giovani è quello che ci vuole per riuscire ad affermarsi nella vita. Ci vediamo mercoledì pomeriggio alle quattro vicino…» «Scusami Jacob» l’interruppe Mario «non posso a quell’ora». «Perché? Ah, scusa. Dimenticavo. Tu lavori alla segheria. Vedrai però che tra un po’ non dovrai più farlo». «Non dovrò più lavorare?» «Aspetta. Volevo dire che ti guadagnerai da vivere in modo diverso. Farai quello che ti piace e ti pagheranno anche! Cosa vuoi di più dalla vita!» «Ooh!» esclamò Mario «Mica avevo pensato a questa cosa» disse pensieroso.
Jacob sorrise. «Vedrai quanto ti divertirai. Altro che stare tutto il giorno in mezzo alla polvere ed al rumore, con un padrone che ti comanda! Quattro soldi di paga e devi essere anche contento. Nel nostro mestiere, caro mio, non sono gli altri che ti dicono quello che devi fare. Sei tu che dirigi il gioco. Tutti penderanno dalle tue labbra per sentire un consiglio su come fare questo o quello. Faranno la fila per invitarti a pranzo o a cena, perché sarà un onore averti al loro tavolo. “Stasera viene il maestro”, diranno. “Presto prepariamoci, non possiamo fare brutta figura. Sai cara, ieri sera ho avuto a cena Mario. Brava persona. Che fascino. Tutto abbronzato. Abbiamo mangiato a lume di candela, eggiato sulla neve al chiaro di luna. Poi siamo andati a ballare e poi…”» Mario ascoltava silenzioso. Le affermazioni di Jacob la avevano fatto ritornare con il pensiero a quanto detto da sua madre riguardo l’intenzione di iniziare un nuovo lavoro. Per lui tutto era iniziato come una scommessa con se stesso. Sfida che si era lanciato senza valutare appieno tutte le implicazioni che necessariamente ne sarebbero scaturite. Solo molto tempo dopo, si sarebbe chiesto se quella scelta di vita fosse stata per lui la più adatta. Domanda a cui non riuscì mai a dare una risposta convincente, come capita, d’altronde, a gran parte del genere umano. «Mamma, mamma!» «Sono qui Mario, nell’orto» «Oh, mamma. Avevi ragione. Jacob è una brava persona. Lo conosco solo da oggi e mi ha insegnato un sacco di cose. Domani vado dal nonno e gli racconto di questo nuovo incontro». «Sono contenta per te». Durante la cena Mario raccontò alla madre, con un entusiasmo da fare invidia anche alle persone più motivate, gli avvenimenti del giorno e i suoi sogni per il futuro. Ester lo stava a sentire, meravigliata dalla metamorfosi del figlio. Vederlo così interessato alle sue sorti, la inebriava. Si sentiva, cosa che non le accadeva da molto tempo, adeguata al suo ruolo di genitore, riscontro di quanto investito. Per tutta l’estate continuarono gli allenamenti. Le chiacchierate si fecero sempre
più intense, aiutate anche dal fatto che Jacob non aveva figli e Mario il padre. La fatica doppia, cui era sottoposto, non pesava al ragazzo. Le battute che i compagni di lavoro gli rivolgevano, non riuscivano a scalfire la sua determinazione. Solo Pietro, artefice involontario del suo nuovo percorso di vita non solo lavorativo, lo incoraggiava, sperando così di fargli cambiare idea riguardo al genere umano. Arrivato finalmente l’inverno, Jacob diede appuntamento a Mario al ritrovo del campo scuola, luogo d’origine della sua seconda vita. Il maestro era lì ritto sulla veranda della sua baita, vestito con la divisa della scuola d’appartenenza. Giacca a vento rossa con strisce grigio argento sulle maniche e sul petto, pantaloni rossi con le stesse bande colorate ai lati e cappello rosso. La sua altezza gli conferiva un aspetto fiero ed imponente, neanche fosse stato Ercole a bada delle sue colonne. Il viso, già di colore mogano, faceva risaltare i suoi occhi azzurri, circondati da una chioma biondissima. Mario nel suo timoroso avvicinamento, rimase abbagliato più che dalla figura nel suo complesso, da quel piccolo scudetto che Jacob portava sulla parte anteriore sinistra della blusa. Man mano che si avvicinava, quella piccola aquila nera stilizzata, sormontata da una scritta, lo costringeva a non distogliere lo sguardo. Il potere attrattivo di quel simbolo lo aveva ipnotizzato a tal punto che, arrivatogli a circa due metri, si piantò come una statua di bronzo, incapace di proferire parola. «Ciao Mario. Tutto bene?» «Eh? Come? Sì… sì…» riprendendosi «Scusami Jacob, ma quel… quel…» indicando la causa del suo imbarazzo. «Ti riferisci al distintivo di maestro di sci?» rispose indicando, non senza una punta d’orgoglio, l’oggetto di tanto interesse. Mario annuì, incapace di rispondere. Distogliere poi lo sguardo da quell’oggetto? Nemmeno a parlarne. «Presto ne avrai anche tu uno così!» «Ohh!»
«Andiamo? O vuoi restare tutto il giorno in contemplazione?» sbottò Jacob. Mario si riprese e svegliatosi dallo stato di catalessi in cui era caduto: «Certo. Subito. Scusami». «Non ti devi mai scusare! Scusarsi è sintomo d’inferiorità! Mai... mai... scusarsi!» esclamò Jacob agitando le mani in tutte le direzioni. L’uomo che aveva davanti a non finiva mai di stupirlo. Quelle affermazioni che non appartenevano al suo modo d’essere, gli riuscivano incomprensibili. Mario restò inebetito all’affermazione, ma non volendo turbare ulteriormente il maestro si limitò a mostrare i suoi attrezzi del futuro mestiere che teneva nella mano destra. «E li chiami sci? Quelli sono solamente due pezzi di legno ricurvi! Questi sono sci!» disse mostrandone un paio appoggiati alla balaustra. Mario li guardò esterrefatto. Erano una meraviglia. Nuovi, lucidi, di un colore rosso fuoco. Sembrava fossero stati messi lì apposta per essere indossati. «Io ho solo questi» rispose ingenuamente. «Non fa nulla. Per oggi andranno bene. Ora andiamo!» lo apostrofò Jacob con aria severa. Detto questo prese gli sci e dopo averli appoggiati delicatamente sul tappeto bianco, l’indossò con una delicatezza e maestria disarmante. Mario, non avendo particolare dimestichezza, rischiò due volte di cadere ed inforcò l’attacco sinistro fuori sede che si chiuse lasciando lo scarpone libero di avanzare fino alla punta. Appena fu pronto, un sorriso di compiacimento misto a felicità, illuminò il suo volto di ragazzo. Quell’attimo durò il tempo di volgere lo sguardo verso Jacob. Un’occhiata truce lo gelò ben più in profondità che non l’aria circostante. «Dobbiamo stare ancora qui per molto?» «Sono pronto!» «Era ora!» Con scioltezza il primo, con estrema difficoltà il secondo, arrivarono alla base
degli impianti di risalita. «Hai mai preso uno di questi?» disse Jacob indicando un vecchio ski-lift. «No». «Be, c’è sempre una prima volta». Il cuore di Mario era in tumulto. Visto da lontano quello strano oggetto non aveva sortito alcun effetto su di lui. Ora però che i loro destini si sarebbero incrociati, non avrebbe potuto far finta di niente. “Forza” si disse “il tuo futuro a anche per quest’arnese infernale”. Jacob prese il gancio che l’addetto gli forniva e con noncuranza l’infilò fra le gambe, la corda si tese e iniziò la salita. Appena partito, si volse verso Mario. Un sorriso beffardo appena percettibile spuntò sul suo volto. L’allievo era giunto al punto di non ritorno. La fila dietro di lui si stava ingrossando e lo spingeva inesorabilmente verso il suo destino. L’incaricato vide Mario che con fatica era arrivato alla fase dell’attacco completamente stravolto e, mosso dalla comione o dal compito cui era destinato, lasciò are il primo gancio troppo complicato da prendere. «Ascolta ragazzo! Prendo io l’attacco. Tu mettiti in posizione di partenza e mi raccomando tieni il peso su entrambi gli sci e stai attento a non sederti altrimenti… In ogni modo anche se cadi non preoccuparti, non sei stato il primo e non sarai certo l’ultimo». Mario lo guardò diritto negli occhi. Era il vecchio guardiano della segheria che ora lavorava per la ditta gestore degli impianti. Per un istante, la paura concesse al suo sangue la possibilità di continuare a scorrere nelle vene. Il secondo gancio o lentamente a fianco dei due soggetti. Il terzo arrivò a tiro. La mano di Mario si tese verso quella del suo angelo custode. Guardò il vecchio. Un cenno con il capo diede fiducia al ragazzo che come un automa inforcò il malefico attrezzo. Traballando riuscì a fatica a inforcarlo. Tre, due, uno… la fune si tirò d’improvviso. «Stai avanti con il busto!» gridò l’addetto.
Consiglio che non fu mai tanto apprezzato. Prima con difficoltà, poi con celata tranquillità, iniziò la sua salita verso quella che sarebbe stata una giornata da segnare nel calendario della vita. Durante il percorso non staccò mai gli occhi dalla punta degli sci. Le gambe gli dolevano, tanto erano tese. Il braccio destro, che teneva il gancio, si era intorpidito. Il cappello, in quelle fasi concitate della partenza, gli si era quasi tolto dal capo. “Tutto relativo” pensò “importante è arrivare”. Come per tutte le cose il tempo non ha valore o significato in sé, ma rispetto a qualcosa o a qualcuno, così per Mario quel breve tratto di risalita si allungò a dismisura. Finalmente, dopo minuti di angoscia allo stato puro l’agognata meta era in vista. Tranquillo? Nemmeno per sogno. Il distacco da quell’attrezzo, cui era rimasto aggrappato come il naufrago al suo pezzo di legno galleggiante, fu tutt’altro che facile ed indolore. Arrivato al segnale “STACCARSI”, concentrato com’era a non cadere, non vi fece caso. Un urlo disumano lo risvegliò dallo stato d’incoscienza in cui era caduto fin dal momento dell’aggancio. Era Jacob che lo attendeva in cima: «Staccatiii!» urlò. Mario reagì d’istinto. Troppo tardi. Finì la sua corsa su di una montagnetta di neve fresca, messa lì a protezione della grande ruota dove si riavvolgeva il cavo. Rimase con gli sci infilzati fino agli scarponi per non si sa quanti secondi. Poi, rivolgendosi verso il maestro: «Scu… arrivo subito» si affrettò a dribblare Mario. Jacob lo guardò con aria truce. Nei momenti d’allenamento non era la solita persona con cui il ragazzo poteva parlare e confidarsi, ma solo e soltanto un aguzzino che sembrava provare piacere dall’infierire sull’allievo. «Dai andiamo!» disse severo. Mario si districò a fatica da quella neve che sembrava volerlo ghermire con le sue spire malefiche, sensazione comune a gran parte dei principianti. Appena vi riuscì, si diresse imbarazzato e confuso verso il punto dove Jacob lo attendeva immobile. «Finalmente! Credevo di stare qui tutto il giorno!» Mario non rispose. Troppo mortificato e stanco per reagire.
«Forza! Iniziamo!» «Cosa devo fare?» «Parti e fammi vedere cosa sai fare, anche se visto la salita presumo che…» Il ragazzo iniziò titubante la discesa mettendo gli sci verso valle. Dapprima piano poi sempre più velocemente scivolò sul manto nevoso. Mario tentò di controllare i suoi attrezzi. Un capitombolo vertiginoso interessò tutta la sua persona compresi sci e bastoncini. Un nuvolone gelato lo avvolse, riparandolo dagli sguardi curiosi dei presenti. Appena la gran quantità di neve polverizzata dalla caduta si dissolse, uno spettacolo esilarante si mostrò con tutta la sua drammaticità. La gamba destra era sopra il braccio sinistro. Una racchetta si era infilata dentro la manica sinistra della giacca a vento. Il cappello gli si era calato totalmente sugli occhi. La faccia era diventata parte integrante della pista. Resosi conto del suo stato fisico ebbe un attimo di smarrimento e, più veloce di quanto era caduto, si rimise in piedi. Una sonora risata echeggiò nella valle. Jacob, piegato sui bastoncini, rideva a crepapelle. «Ah, ah, ah. Mi sembravi un uomo delle nevi che cercava di mimetizzarsi» disse il maestro. Mario abbozzò un timido sorriso continuando a togliersi di dosso la neve rimasta attaccata come l’edera ai suoi vestiti. «Pronto!» esclamò appena rimessosi in sesto. «Aspetta! Non partire! Ti faccio vedere io». Iniziò la discesa mostrando all’allievo i movimenti da fare e le accortezze da tenere. Dopo molti “forza”, “alzati”, “no, non così”, “più piegato sulle ginocchia”, “busto a valle”, interrotti dalle otto ore di lavoro in fabbrica e dai restanti lavoretti di casa, arrivò il fatidico giorno dell’esame. Mario la notte precedente non riuscì a riposare. I ricordi dei mesi trascorsi con Jacob, rielaborati, prendevano il posto a scenari della sua vita futura così come se l’era immaginata. La madre, il nonno, Miriam, la ragazza causa del suo
destino. Tutti che avevano qualche cosa da dire, da fare, da consigliare. «Mario. Mario!» In un salto fu giù dal letto, già semivestito. «Eccomi mamma!» «Ma…? Ah, già, dimenticavo, il solito trucco. Hai molta fame?» «Questa mattina non molta». «Capisco». Durante la colazione il ragazzo era stranamente silenzioso. Quegli esseri eterei che la notte lo avevano angustiato, sembravano voler rimanere in quel non posto. «Mario!» disse la madre rassettando la cucina «dai, sbrigati, altrimenti arriviamo in ritardo». «Mamma! Pensi che stia facendo la cosa giusta?» La signora smise di lavorare e sedendosi accanto al figlio gli accarezzò i capelli. Prese entrambe le mani fra le sue e, con tutta la tenerezza che solo chi ha prole sa dispensare, rispose: «Io non ho studiato però la vita mi ha insegnato che quando senti che devi fare una cosa devi farla, prima che sia troppo tardi. Solo così potrai sentirti appagato. Solo così potrai cancellare, con un colpo solo, tutti i “se” che si affacceranno alla parete dei ricordi. Li potrai annientare con la forza della consapevolezza di aver fatto ciò che ritenevi giusto, indipendentemente dal risultato». Mario la guardò intensamente. La sua adolescenza non gli permetteva, ancora, di comprendere fino in fondo quelle affermazioni, ma avendola imparata a conoscere in fretta sapeva che poteva fidarsi. Un abbraccio seguì alle parole. «Grazie mamma!» La madre sorrise senza darlo a vedere, nascosta com’era da quel naturale gesto d’affetto. Poi, staccandosi a fatica: «Dai… andiamo!»
Al campo scuola, sede del ritrovo, videro Jacob con il solito codazzo di allievi, genitori ed accompagnatori vari. Appena li vide, il maestro andò loro incontro, liberandosi a fatica da quel fastidioso incomodo. «Ben arrivati! Ciao Ester. Ciao Mario. Come ti senti! Ti tremano le gambe?» Il ragazzo non rispose, limitandosi ad ondulare la mano destra. «Ho capito! Non preoccuparti, succede a tutti. Al mio esame non riuscivo nemmeno a mettermi gli sci!» Mario non rispose. Le rassicurazioni di Jacob lo avevano colto di sorpresa. “Forse sarà per la presenza di mia madre” pensò. «Scusatemi. Ora devo andare. Con te Mario ci vediamo tra dieci minuti al solito posto». «Mamma! Hai sentito Jacob! In questi mesi non ha fatto altro che strillare e rimproverarmi. Ora, invece…» «Ti ricordi cosa dissi di lui quando lo hai conosciuto?» «Che era un po’ strano?» «Anche. Io però mi riferivo al fatto che non ti avrebbe mai ingannato. Non sarebbe mai venuto meno all’affetto e all’amicizia che prova nei tuoi confronti». «Ma…» «Quello che tu hai creduto fosse un atteggiamento di ostilità, era solamente un metodo d’insegnamento. Capito?» «Ma… io…» «Jacob ogni settimana veniva ad informarmi dei tuoi progressi e di come si era affezionato a te. Gli piaceva particolarmente la tua voglia di arrivare, la determinazione nel raggiungere quello che ti eri promesso di fare. Sei diventato per lui un surrogato del figlio che non ha mai avuto». Mario non rispose. Quanto detto da sua madre lo colpì in profondità. “Allora è
vero che gli affetti si possono sostituire o riparare, come se fossero stati piatti di un servizio da cucina! Non vi è nulla d’insostituibile, a condizione però che tutto ruoti intorno a te” pensò Mario. «Ho capito! Ora vado» disse. «Bene, caro. Io farò il tifo per te». Vedendolo andare via così determinato, senza averle dato il “bacio per la distanza”, come lo aveva soprannominato Mario, un dubbio fugace oscurò il cuore di Ester. “Sarà solo preoccupato per l’esame” pensò. Quel giorno tutto filò liscio. La prima prova fu la discesa libera. La seconda lo slalom gigante. La terza lo speciale. Tra una dimostrazione e l’altra delle proprie attitudini Mario rimaneva in disparte. Solo un fugace sguardo d’intesa con la madre, ricambiato da un sorriso, dimostrava il suo interesse per gli altri. Di contro, gli altri aspiranti maestri, attorniati da parenti ed amici, commentavano a gran voce le sensazioni e le difficoltà incontrate nell’espletamento delle prove. Quel dubbio birichino si riaffacciò alla mente di Ester, ma non volendo disturbare il figlio con quelle che credeva essere paranoie materne, si limitò a stare defilata, in silenzio. Consegnati i diplomi e il tanto sospirato distintivo, Mario si diresse verso la madre che lo attendeva a braccia aperte. Quel gesto d’affetto riuscì a dire più di quanto le parole, di solito, non fanno. Ancora in pieno scambio, Mario vide attraverso i capelli di sua madre che Jacob si stava avvicinando ed iniziò a staccarsi, lentamente. «Maestro». «Bravo ragazzo! Visto che tutto è andato bene?» «Ho avuto un ottimo insegnante» rispose Mario guardando la madre. Jacob sorrise, ma non ebbe il tempo di replicare che dal gruppo misto si staccò un allievo appena diplomato e arrivato nei pressi del trio: «Vieni a festeggiare
con noi? Andiamo tutti alla Taverna del Gallo». «No, grazie. Questa sera ho da fare» rispose Mario con tono risentito. «Ma… va bene. Ciao». «Ciao». Allontanatosi il ragazzo Ester sbottò: «Mario!» esclamò esterrefatta «Perché non vai con loro?» «Mi sembra tempo sprecato. Cosa ci sarà mai poi da festeggiare? Abbiamo ottenuto solo ciò che volevamo. Allora?» Jacob si allontanò in silenzio salutandoli con la mano. «Maestro» disse. «Maestro» rispose Mario. «Si può sapere cosa ti prende!» «Niente mamma. Perché?» «Ma come “perché”! Alla tua età… con quanto hai sudato per arrivare fino a qui non senti il bisogno di sfogarti, di far partecipare gli altri al tuo successo? Scusa… ma io non capisco!» «Vedi mamma, il fatto è che non ho bisogno degli altri. Io ho te, il nonno, la montagna» ribatté indicando il panorama che si stendeva sotto i loro occhi. «Ho già tutto quello che mi serve. E poi… per quale motivo devo trasmettere ad estranei quello che provo! Chi sono gli altri per me! La montagna… quei paesaggi di fine ottobre… la natura che si riappropria di se stessa… quei silenzi che ti permettono di sentirti fino nel profondo… quell’aria tranquilla di quella pioggerellina che sembra lavare delicatamente l’aria, depurandola da tutte quelle scorie che l’uomo gli ha scaricato dentro. Avere la possibilità di perdersi tra i pensieri, cullato da quella dolce tristezza che ti permette, come se fosse sciolina, di arrivare fino in fondo all’anima. Tutto questo è quello che voglio, che mi fa sentire bene, in pace con me stesso». Ester ascoltava in un turbato silenzio. Quel bambino, cresciuto troppo in fretta, stava sfuggendo al suo controllo materno. Mario non dipendeva più da lei. La
vita lo aveva trascinato nel vortice senza ritorno degli adulti. Ciò che la spaventava non era il fatto il suo ragazzo amasse restare solo, quanto la pericolosità insita in quella situazione d’isolamento voluto. “Su Ester, ma cosa vai a pensare! Dove ti sta portando il tuo amore di madre! Sì… ma…”. «Allora andiamo!» esordì d’improvviso Mario. «Certo. Scusami» rispose sobbalzando «Ero distratta. Sei sicuro che tu non voglia andare con loro? Non t’interessa cosa diranno di te?» «Non m’importa cosa pensano. Per me conta solamente cosa penso io degli altri». «Non capisco!» «Vedi mamma, ognuno ha le sue opinioni riguardo alle persone, le situazioni, le emozioni che la vita gli presenta». La signora tacque e s’incamminò, evitando accuratamente di volgersi indietro. Mario, sorpreso, si mise in spalla gli sci ed iniziò il ritorno verso casa. «Mamma. Mamma!»
XIII - PETER
«Mamma! Mam…» «Oh, Mario! Mi hai fatto prendere uno spavento!» disse Peter appena entrato nel locale. Mario, risvegliatosi da quello stato che durante la serata gli stava creando diversi problemi, rispose: «Ciao Peter. Scusami. Oggi più del solito mi capita di perdermi nei ricordi. Sarà il cibo di Franz?» concluse sorridendo. Il gentiluomo rispose al sorriso. Peter aveva lavorato come Carabiniere al valico di frontiera della vicina Austria, finché ve ne fu la necessità. Con il suo pizzetto, la divisa sempre a puntino e l’aspetto fiero era stato per molto tempo l’unico punto di riferimento statale del paese. Per una convinzione personale o un problema di applicazione della legge in generale, si sforzava di mediare i differenti punti di vista agendo non d’autorità, ma con autorevolezza. Faceva tutto questo anche quando non gli competeva perché credeva fermamente nella “missione” che si era scelto. Convinto che l’abito indossato non gli fosse stato dato per gratificare se stesso, per esercitare un “potere”, bensì per essere al totale servizio della comunità. Questa dedizione spontanea aveva creato intorno a lui un’aura di ammirazione e rispetto tanto che gli abitanti del paese contraccambiavano con piccoli doni le varie richieste di assistenza. Una gallina, delle uova, una caciotta di formaggio. Oggetti sobri, ma carichi di affetto. Lui ogni volta cercava invano di rifiutare trincerandosi dietro sinceri “non importa”, “non dovevi”, “non era necessario”. Poi, data l’insistenza e la misera paga, accettava con dignità disarmante ringraziando infinite volte. La sua disponibilità, in ogni caso, non doveva essere scambiata per voglia di favoritismi. Il servizio che concedeva fuori orario di lavoro, ricambiato qualche volta con quei piccoli doni, non autorizzava nessuno a credere che si potesse derogare alle regole che era chiamato a far rispettare. Quella volta che uno dei suoi paesani, preso nell’atto di commettere un reato, si era permesso di
ricordargli non l’amicizia che li legava, ma il dono recapitato per un interessamento precedente, Peter era andato su tutte le furie. Colpito duro nel profondo, aveva applicato la giusta sanzione. La sera stessa si era recato allo spaccio del paese e comperato un’intera forma di formaggio, dello stesso tipo di quella ricevuta. Aveva preparato un biglietto contenente la frase “la dignità della persona non ha prezzo” e l’aveva fatta recapitare a “quell’individuo ripugnante”, come lo aveva soprannominato dopo lo spiacevole incidente. Questo era Peter, il vecchio Peter. Il nuovo aveva imparato a convivere con le mutate regole sociali. La costruzione in paese della caserma del “Corpo”, aveva mutato gli equilibri creatisi da anni di rispetto reciproco. Tutto era diventato asettico. Il calore che “l’uomo” Peter dava e riceveva era rimasto solo un ricordo, una dolce appartenenza alla memoria. Quel sentimento era stato sostituito da un atteggiamento d’indifferenza, se non addirittura di ostilità, dettata dalla parte più odiosa dell’animo umano. Per la gran parte delle persone, la divisa era ora considerata come un mezzo di sopruso, un alibi per mascherare la voglia di potere. Peter, avendo avvertito il mutato ordine delle cose, compiva il suo dovere come aveva sempre fatto anche se il compito iniziava a essere gravoso, alleggerito com’era dal sentimento, la parte più pesante delle cose umane. «Non ti preoccupare Mario. Dopo anni di questo lavoro mi sono abituato a tutto e a tutti». «Hai ragione Peter. Dimentico sempre che uomo sei». «Ciao caro!» disse l’oste uscendo dalla cucina. Franz, come sempre, aveva un sesto senso per le persone che si apprestavano ad entrare nella sua taverna e puntualmente era presente per l’ingresso definitivo dell’ospite. «Ciao Franz!» «Il solito?» «Sì, grazie. Oggi credo di essermelo meritato proprio».
«Perché? Cosa avrai mai fatto di così diverso!» incalzò con curiosità propria della sua categoria Franz. «Sai che farei di tutto per aiutare gli altri, ma quel genere di cose, da vecchio militare quale sono, avrei preferito non farle». «Dai dimmi» lo incalzò Franz sempre più ansioso e con gli occhi fuori delle orbite. Mario sorrise. “Sempre il solito” pensò. Peter titubava. Parlare del suo lavoro lo metteva sempre a disagio non che vi fosse nulla da nascondere, se non in determinati casi. Il suo imbarazzo derivava dal fatto che riteneva “naturali”, insite nel ruolo che ricopriva, esplicare quelle attività che invece per gli altri significavano coraggio ed altruismo. «Ecco…» «Dai non farti pregare» disse Franz mordicchiandosi il labbro inferiore. «Ho…» «Hai?» «Ho… ho fatto nascere un bambino». In un solo istante Franz appagò la sua curiosità e il sorriso di Mario sparì. «Tutto qui?» esclamò deluso l’oste. «Cosa ti aspettavi! Credevi che fossero sbarcati sulla terra gli alieni? E’ soltanto un altro sventurato che viene ad ingrossare le file dei disperati» ribatté Mario inacidito. «Non dite così!» li apostrofò risentito Peter con voce ferma e tranquilla. «Tu Franz non credi che nella nascita di un essere vivente vi sia qualche cosa di straordinario?» «Sì… ma…» «E tu?» disse rivolgendosi a Mario «tu cosa credi che il dono di creare la vita
venga dato a tutti? Solo i più fortunati lo hanno avuto anche se non so chi debbano ringraziare». Franz tacque. Lui non era stato inserito, nel grande libro della vita, come destinato alla riproduzione. Mario, dal canto suo, si trincerò dietro uno stringato: «Sarà come dici tu». «Posso avere il mio aperitivo?» disse bruscamente Peter rivolgendosi a Franz. «Certo. Subito. Scusami. Ecco qua». Peter bevve la bevanda tutta di un fiato e quando fece per pagare, Franz disse: «Oggi offre la casa». Il militare lo guardò bieco. Lasciò sul bancone il corrispondente in denaro e si diresse verso l’uscita. Aprì la porta, ma prima di varcare la soglia si voltò: «Ciao Mario. Ti saluto Franz. Riflettete bene su quanto avete detto!» ed uscì, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé. Franz frastornato ritornò nelle cucine. “Questi militari” pensò Mario. “Sono abituati, per mestiere, ad avere una dura scorza esterna eppure in alcuni trovi un modo d’essere sensibile ed interessato. I militari… già i militari...”
XIV - IL SERVIZIO MILITARE
«Mamma, mamma! Sono a casa» urlò Mario aprendo la porta, verso l’ora di pranzo. Silenzio. «Mamma!» continuò guardando in tutte le stanze. Nulla. “Dove mai sarà andata?” pensò. «Ah, che sciocco» disse ad alta voce. «Sarà sicuramente nell’orto. Orto? Ma se siamo a dicembre!» Allarmato, non preoccupato, si limitò ad accudire il paio di sci nuovi fiammanti, regalati da sua madre per la nomina a maestro. Dopo pochi minuti, l’allarme cessò. La chiave girò nella toppa della porta ed ecco comparire Ester, pallida in volto. Stringeva una lettera semiaperta tenuta a mezz'aria, a mo' di stendardo. Mario, sentendola arrivare, uscì dal ripostiglio. Vedendola ferma accanto all’uscio, in quella strana posizione, esplose: «Mamma! Stai male?» disse preoccupato. «No, io no» rispose come un automa. «Si sente male il nonno?» La madre non rispose. Indicò con l’altra mano, quella con la posizione naturale, la busta e senza dire nulla si mise seduta, appoggiando sul tavolo quell’oggetto, causa della sua disperazione. «Mamma, cosa ti prende oggi!» «Leggi» esclamò con un filo di voce.
Mario prese delicatamente quella busta di colore verde, lesse il mittente “Ministero della Difesa”, tirò fuori la lettera e: «La Signoria Vostra è pregata di presentarsi il giorno 27 dicembre presso la Caserma La Marmora… per l’espletamento del servizio obbligatorio di leva» lesse tutto di un fiato. I due si guardarono, ammutoliti. Dopo qualche istante, Mario ebbe la forza di dire: «Devo arrivare fino a lì? Non potevano mandarmi più vicino?» A quel tempo le distanze erano percepite diversamente da quanto accade oggi. «Domani andremo a valle dal Maresciallo dei Carabinieri. Lui sicuramente troverà il modo per non farti partire» esordì d’improvviso Ester. Mario la guardò. Non era più la madre premurosa e piena di attenzioni, ma un soggetto determinato a raggiungere uno scopo ben preciso. I suoi occhi, la faccia, lasciavano trasparire le intenzioni bellicose del particolare momento. «Credi che possa servire a qualche cosa?» «Penso che il servizio militare non sia utile, così come si pretende di farlo fare ai nostri ragazzi. Poi… “tentar non nuoce”, come dicevano i vecchi» disse alzando le spalle. La sera trascorse stranamente in un silenzio carico di interrogativi. I due erano concentrati, ognuno per proprio conto, su quanto stava loro accadendo. Ester, sulla strategia da tenere e su quello da dire. Mario, rifletteva sul fatto che doveva lasciare la madre sola per un intero anno e che la propria vita sarebbe stata inevitabilmente stravolta. L’indomani, arrivati in caserma, chiesero di farsi annunciare al Maresciallo. «Avete un appuntamento?» domandò il Piantone. «No! Non lo abbiamo! Ma è una faccenda della massima importanza» ribatté seria Ester. «Un attimo». Dopo pochi minuti fu di ritorno. «Il Maresciallo vi attende». Così detto, li
accompagnò alla stanza del sottufficiale che li attendeva sulla porta. «Ester? Qual buon vento ti porta fin quaggiù!» esordì l’uomo in divisa, facendo segno di entrare e di sedersi. “Ester?” Si domandò Mario, sempre più incredulo. “Conosce anche il Maresciallo?” «Buongiorno signor Mario. Posso rubarle qualche minuto del suo prezioso tempo?» “Si chiama come me?” «Certo Ester, dimmi pure». «Questo» disse indicando Mario «è il mio ragazzo». «Che ha il mio stesso nome, se non sbaglio». «Proprio così». «Piacere» disse allungando la mano destra. «Piacere mio, Maresciallo» rispose Mario. «Orbene Ester, cosa posso fare per te?» chiese il sottufficiale appena si furono seduti. «Non sono sicura che lei abbia la possibilità d’intervenire in mio aiuto, ma io come madre devo tentare di tutto» disse tirando fuori la lettera dalla borsa. Dopo averla letta attentamente, il Maresciallo la depose delicatamente sulla scrivania avanti a lui, si tolse gli occhiali e li appoggiò sopra di essa. Alzò lo sguardo, incrociò le mani e dopo averli guardati entrambi esordì: «Ho capito tutto! Mi dispiace. Io non posso farci nulla». Madre e figlio tacquero. «Scusi Mario. Non conta nulla che mio marito sia morto e che sia lui l’unico maschio della famiglia?»
«Purtroppo… no Ester. Se tu non avessi lavorato, lui poteva diventare capofamiglia e così non sarebbe stato costretto a partire». «Ho capito! Volete portarmi via anche lui». «Su Ester, non dire così. Vedrai che sarà una bell’esperienza e poi… è solo per un anno». «Un anno? Bella esperienza? Forse per lei Maresciallo che ha fatto della vita militare una missione. Questi poveri ragazzi, invece, strappati dalle loro famiglie, dagli affetti e messi lì senza fare nulla, senza imparare niente e soprattutto senza che lo abbiano chiesto. Non è giusto! Mi scusi, ma non lo ritengo corretto» esplose Ester. «Capisco. Ti chiedo di scusa. Io parlo qualche volta a sproposito». «Non è vero Maresciallo! Lei non ha colpe e non si deve scusare. Io credo che sia una persona giusta. Il sistema genera certe situazioni per il bene della collettività, anche se spesso contrastano con quelle dei singoli». «Forse… tra qualche anno... si capirà, grazie anche alle persone come te, che il sacrificio chiesto agli individui maschi di questo paese è sproporzionato rispetto all’utilità» disse il militare. «Speriamo» concluse sommessamente Ester. Altro attimo di silenzio. «Grazie in ogni caso del tempo che ci ha concesso. Ora togliamo il disturbo» disse Ester. «Di nulla. Per me è sempre un piacere vederti. Tempo permettendo, prometti di venire a trovarci? Mirna e i ragazzi saranno contenti di rivederti». «La ringrazio. Farò il possibile». Ester si alzò. Il Maresciallo scattò in piedi, come se a pungerlo fosse stato uno scorpione, seguito da Mario. Il sottufficiale li accompagnò personalmente fino al portone
della caserma. Nessuno parlava, ciascuno perso nei propri pensieri. L’uno per non essere riuscito a risolvere un problema. Gli altri per l’ineluttabilità del loro comune destino. Con un cenno di saluto si lasciarono. Svoltato l’angolo, Mario prese la parola: «Grazie mamma per quello che stai facendo. Ho però una domanda da farti…» «Come mai conosco il Maresciallo?» «Sì… proprio quello» rispose sorpreso. «Non ti preoccupare. Non è stato un altro Jacob. Io ho lavorato per lui come donna di servizio quando tu eri ancora molto piccolo». «Capisco. Quello però che più mi sorprende è che tu conosca un sacco di gente, sai molte cose e non mi dici nulla di tutto ciò» continuò il ragazzo con aria indispettita. «Vedi Mario, il compito dei tuoi… dei genitori è quello di proteggere i figli vigilando ed insegnando loro i modi di comportarsi. Tu non ti accorgi, ma io sono sempre con te anche quando non mi vedi fisicamente. Ricordati di questo ed insegnalo ai tuoi figli, se né avrai». «Perché dici questo, mamma?» «Niente. Non ti preoccupare». Mario non insistette. I pochi anni di ragionevolezza accumulati, non gli permettevano, ancora, di rendersi pienamente conto delle regole non scritte della vita. Ester invece, come madre, temeva che il desiderio d’isolarsi, avvertito in Mario al momento della nomina a maestro di sci, potesse prendere il sopravvento. Il cielo durante il cammino di ritorno diventò sempre più scuro, quasi volesse condividere, od influenzare, la situazione particolare che i due stavano vivendo. Arrivati a casa mentre la signora indossava l’abito delle faccende domestiche, Mario disse: «Mamma, ti dispiace se vado a trovare il nonno? Voglio raccontargli della lettera, del Maresciallo…».
«Vai pure. L’importante è che ritorni per il pranzo». «Va bene». «Ah, Mario, senti se vuole mangiare con noi questa sera. Oggi non lavoro e posso preparare la cena anche per lui». «Consideralo già fatto». Ester sorrise. “Per fortuna che ci sono i figli” pensò. Il ragazzo prese la bicicletta che anche in pieno inverno teneva appoggiata alle scale di casa ed iniziò, di buona lena, a pedalare verso l’abitazione di suo nonno, il genitore di suo padre. «Nonno, nonno, dove sei?» «Qui Mario, nella legnaia». «Cosa stai facendo?» «Taglio delle travi che ho preso in segheria. Sono degli scarti, ma per il camino andranno benissimo» rispose ansimando. «Perché non mi hai chiamato! Potevo farlo io!» «Ora che sei qui…» disse sorridendo porgendo la sega. Mario prese in mano le redini del gioco ed iniziò a tagliare ed ammucchiare in buon ordine tutti i pezzi di legno strappati alla discarica. L’uomo non più giovane, vedendo lavorare il nipote, ripensava ai tempi in cui anche lui riusciva a fare senza dover ricorrere ad aiuti esterni e ciò gli creava una certa nostalgia. Terminato, il ragazzo si asciugò quel poco sudore accumulato sulla fronte, si tirò giù le maniche della camicia, soffiò il naso e si sedette. «Sai nonno, ieri mi è arrivata una lettera». «Cosa diceva?»
«Che mi devo presentare, alla fine di questo mese, in caserma per…» «Per fare il militare». «Come fai a saperlo!» «Non ci vuole mica molto. Hai 19 anni, non stai studiando, tua madre lavora, quindi…» Mario tacque. Era la seconda volta quel giorno che gli altri capivano in anticipo le situazioni che lo riguardavano e questo lo metteva in agitazione. “Sembra che tutti sappiano cosa mi aspetta ed io non ci riesco” si chiese in silenzio. «Il tempo, Mario. Il tempo!» «Il tempo?» rispose il ragazzo sempre più sorpreso. «Proprio così! Il tempo. L’uomo crede di saperlo gestire e sbaglia. Non si rende conto che se non riesce a farselo alleato, a capire le indicazioni che giorno per giorno gli fornisce, rischia prevaricazioni irreversibili. Il tempo è un tappeto sul quale scorre di tutto. La vita, le ioni, i pensieri. Il tempo è un concetto legato in maniera invisibile allo stato d’animo umano. Sempre presente, eppure grande assente. Lo cerchi e non lo hai, ne disponi e non lo sai sfruttare». Ancora una volta il nonno sembrava aver letto nei suoi pensieri. “E tre”, pensò. «Non ti stupire! La vita insegna e se tu hai la capacità di imparare, riuscirai un giorno ad usarla, anche se non sempre, a tuo vantaggio». Mario continuava a rimanere in uno stato di semi-incoscienza. Non riusciva ancora a rendersi conto del perché un portatore d’anni, senza aver studiato, che stava seduto per la maggior parte del giorno su di una sedia, riuscisse a sapere di tutto e ad essere così reattivo al momento giusto. «Queste cose che ti sto dicendo le ho imparate» continuò il nonno «da un professore di Lettere che era venuto, tanti anni fa, in valle. Voleva compiere il giro delle nostre montagne e mi chiese di accompagnarlo per una settimana, senza fare mai ritorno a casa. Dormivamo all’aperto, mangiavamo quello che la natura ci offriva, camminavamo e parlavamo, parlavamo e camminavamo. Un giorno gli chiesi: “Professore, posso farle una domanda”.
“Certo Bartolomeo”, mi rispose. “Lei che ha studiato tanto, che ora ha tutto a disposizione e senza fatica, viene tra questi monti sperduti a sudare e fare sacrifici per mangiare, quando potrebbe starsene in santa pace, fra i suoi simili, a bere caffè e a conversare! Come mai?” “Vedi Bartolomeo è proprio per questo che sono qui”. “Scusi professore. Non capisco!” “Io ho ato un’intera vita sopra i libri, scorso migliaia di pagine, letto così tanto che il cervello sembrava mi prendesse fuoco. Ora basta, voglio riprendere il contatto con la natura che mi è mancato in questi anni. Voglio sentire il caldo abbraccio dello stare all’aria aperta e dimenticare la fredda e solitaria carta stampata”. “Capisco professore. Le mie montagne sono la cosa che non abbandonerei mai, perché mi rendono felice di essere”. “Bravo Bartolomeo, non cambiare”. “Sicuro! Come il sole che sorge. Quello che, però, io le invidio è la sua intelligenza, il sapere tante cose”. “Bartolomeo” mi disse “io non sono una persona intelligente”. “Coomee!” risposi incredulo. “Hai capito bene. L’intelligenza è qualche cosa di diverso rispetto alla conoscenza. Un conto è sapere delle cose, altro è sapersi adattare al mondo che ti circonda ed essere bravi ad adattarlo a se. Io in fondo so fare bene solo una cosa: studiare. Tu invece conosci il linguaggio del bosco, sai modellare il legno, hai costruito la tua casa e qualunque cosa, anche la più strana che ti chiedo di fare, riesci a metterla in pratica. Capisci!” «Io rimasi in silenzio per molto tempo. Una persona come lui dava dell’intelligente a me, che avevo frequentato solo la quinta elementare!» Mario, rimasto a bocca aperta, rifletteva sul fatto che il nonno non finiva mai di sorprenderlo.
«Tornando a noi» continuò Bartolomeo «Quando parti?» «Il 27 di questo mese mi devo presentare in caserma». «Ah!» «Sai nonno, questa mattina io e la mamma siamo andati dal Maresciallo dei Carabinieri…» «Ebbene?» «Non può farci niente». «Immaginavo! La macchina burocratica, quando si mette in moto, non la ferma più nessuno, neppure le cannonate!» Tacque. «Già, le cannonate» riprese «quelli sì che erano botti, altro che i fuochi d’artificio che fanno in paese per la festa del patrono!» tacque perso. «Nonno? Nonno!» «Scusa. I ricordi di un certo tipo mi sconquassano la mente, riportandomi a quelle situazioni che non vorrei aver mai vissuto. Certe volte quando mi capita di ripensarci stento a credere che quella sia stata la mia vita. Mi sembra di essere vissuto in un sogno, un incubo dove spero che, svegliandomi, tutto sia stato frutto di fantasie dovute, magari, ad un bicchiere di vino di troppo o ad un cibo con molta cipolla che ha faticato ad andare giù». «E’ molto brutta la guerra, nonno?» disse Mario, i cui entusiasmi andavano man mano scemando. Bartolomeo lo guardò intensamente, poi: «Brutta è un aggettivo che non rende minimamente idea di cosa sia. Io la definirei “la cosa più orrenda che l’uomo abbia mai potuto inventare”. Non esiste sistema più barbaro per risolvere le questioni del genere umano. I soldati sono costretti a togliere ad altri la cosa più bella che natura ti ha dato, senza sapere neppure quali siano i motivi, le ragioni, se mai alcune possano giustificare il ricorso all’omicidio. La guerra ti autorizza ad ammazzare l’uomo che hai di fronte per il solo fatto che porta una diversa divisa. L’aspetto cromatico, un colore, decide se devi vivere o morire! Non sei d’accordo?»
Mario rimase perplesso. La visione sulla guerra data dal nonno non corrispondeva per nulla a quella che lui per gioco aveva affrontato con gli altri ragazzi del paese. «Vedi Mario» continuò Bartolomeo «il potere d’attrazione di quella “orribile creatura”, non ha confini. I popoli della terra, indipendentemente dal colore della pelle, la venerano. Tutti gli esseri umani sacrificati, la sofferenza che si trascina dietro, per i soldati e i civili, non ha insegnato niente negli anni. Ogni occasione è buona per mostrare agli altri, con le armi, la propria forza. Il dialogo e la comprensione fra i popoli di diverse culture sembra che siano cose impossibili da attuare. Perché non riusciamo a capire che le diversità non dividono, ma costituiscono una grande occasione per una crescita reciproca! Questa... questa... sarà la vera svolta per l’umanità!» Il ragazzo ascoltava come sempre sbalordito. Non esisteva situazione, cosa o fatto della vita che il nonno non sapesse navigare. «Nonno!» esclamò Mario facendo sussultare Bartolomeo che si era smarrito nei meandri dei ricordi. «Sì Mario?» «Non vedo l’ora di sapere tante cose come te». L’uomo vissuto lo guardò, poi sorridendo: «Non aver fretta però». Dopo un attimo di silenzio, continuò «Ora vai, altrimenti tua madre si arrabbia se il pranzo sì raffredda». «Va bene nonno, vado». «Scrivimi! Ti aiuterà a sentirti meno solo. A me è servito moltissimo». «Stai tranquillo! Lo farò». Detto questo s’incamminò. Fatti pochi i, si girò e disse: «Ah, la mamma dice se vuoi venire a cena da noi stasera». «Vengo volentieri. Così potremo ancora parlare. Parlare mi piace… quasi quanto il tacere».
Mario sorrise e si diresse verso casa. L’entusiasmo generato dalla sua età si sposava splendidamente con fascino dell’ignoto. Entrambi gli davano una carica d’incoscienza necessaria ad affrontare le sfide iniziali della vita. La serata trascorse in allegria come sempre, d’altronde, quando puoi far partecipare anche gli altri alla miriade di idee e sentimenti che si affollano nella tua testa. Venne il giorno della partenza. Ad accompagnare Mario alla stazione del treno c’erano sua madre, il nonno e l’immancabile Pietro, l’amico di sempre. I minuti di attesa trascorrevano diversi, smarriti nell’anima di ognuno. Angoscia che faceva dissolvere il tempo, per la signora. Perso nella sua memoria dove il tempo si dilatava a dismisura, Bartolomeo. Incoscienza nella quale il tempo non rivestiva importanza, per l’amico. Mario era euforico come poche volte gli capitava di essere. Quel misto tra eccitazione e la mancanza di consapevolezza delle proprie azioni, lo trasportavano in quel mondo che l’uomo è destinato a perdere mano a mano che il tempo scorre. Un universo fatto di sogni, di ambizioni, di pericolose tentazioni e proprio per questo affascinante, ammaliatore. L’altoparlante annunciò l’imminente arrivo del treno. Visto arrivare, il lungo convoglio dava l’impressione di provenire da un’altra dimensione temporale. Piccolo in lontananza, diveniva sempre più presente quasi che volesse inserirsi a tutti i costi nella vita delle persone che lo attendevano. Una protuberanza dell’incognito che ti rapiva per portarti con se lungo i binari della tua nuova vita. Il momento dei saluti fu pieno di raccomandazioni, di sguardi bassi, di occhi inumiditi… per il freddo, ovviamente. Salito sulla carrozza, Mario si sporse dal finestrino. I suoi agitavano dalla banchina le mani, come a voler scacciare gli “spiriti maligni” presenti ad ogni addio. Acquistata velocità il ragazzo chiuse il vetro, mise nella rastrelliera il suo bagaglio e si sistemò sul sedile di legno, scomodo quanto una verità non voluta sentire. L’ammasso di ferro scorrendo lungo il tempo, emetteva un frastuono insopportabile per le sue orecchie. Istintivamente si portò le mani nelle tasche per cercare le cuffie usate in fabbrica. «Che sciocco» sussurrò «sono mesi che non le uso!»
Lentamente si abituò al nuovo rumore e la sua attenzione fu richiamata dal paesaggio che cambiava man mano che andava incontro al suo destino. I monti lasciavano il o alle colline che a loro volta si appiattivano fino a scomparire. La pianura sembrava un enorme gelato verde che riscaldato dal sole si adattava al contenitore nel quale era stato adagiato. Mario, accortosi della metamorfosi del terreno, raschiava con il mento il vetro del finestrino, rivolto verso il luogo di partenza. Le alte cime, i fitti boschi, i verdi prati non erano più con lui. Solo in quel momento realizzò quanto gli stava accadendo e una forza invisibile gli strinse la gola costringendolo a fissare il sedile vuoto di fronte a lui. «Anche tu vai a fare il servizio militare?» disse una voce sottile. Mario si destò. Chi aveva parlato! Voltatosi verso quella fonte sonora non vide nessuno. “Sarà stata la mia immaginazione” pensò. «Ehi, dico a te! Sei sordo per caso?» questa volta alle parole seguirono i fatti e dal sedile appena avanti alla sua destra, apparve una figura tanto esile da sembrare una giovane quercia piegata dal vento. Mario lo guardò. Era altissimo, molto più di lui. Magro, da aver paura che si potesse rompere in qualsiasi momento. La faccia piccola ed irregolare. Il naso pronunciato. I capelli, poi, erano rossi e tutti scompigliati, con due occhi neri che sembrava volessero venire espulsi dalle orbite, tanto erano sporgenti. «Hai la lingua o ti è stata mangiata dal gatto!» Mario si riprese. «Sì… no…». «Sì, no, cosa!» «Ho la lingua e mi chiamo Mario» disse tutto di un fiato. «Oh, ora cominciamo a ragionare» detto questo fece un balzo sopra la spalliera dei sedili e gli si mise a sedere di fronte. Mario lo guardò attentamente. «Ma… ma…» iniziò a balbettare e ad indicare alternativamente il compagno di viaggio ed il luogo dove era seduto.
«Ma cosa!» ribatté prontamente lo sconosciuto «Ah, ho capito ti riferisci all’altezza! Ero in piedi sul sedile!» Mario scoppiò a ridere, seguito, dopo un attimo d’imbarazzo, solo un attimo, da quello che sembrava lo sciagurato di turno. I due continuarono per qualche minuto, incapaci di controllarsi. Allorché i muscoli dell’addome non riuscirono più a sostenere quella scenata d’ilarità, i due si calmarono gradatamente, insieme. «Io mi chiamo Luigi». «Io…». «Mario! Lo hai già detto» Il ragazzo di montagna sorrise. Contrariamente al suo modo di essere quel soggetto incontrato sul treno sembrava avere il dono della comunicazione. Senza remore si era calato nella vita altrui, non curandosi delle reazioni che inevitabilmente vengono a crearsi in situazioni del genere. «Sai che sei un bel tipo, tu!» esclamò. «Certo che lo so! Me lo dicono tutti!» rispose scoppiando a ridere e trascinando con se anche il compagno di viaggio. ata la seconda ondata, d’improvviso Luigi esordì: «Dove ti hanno assegnato?» «Alla caserma “La Marmora” di…» «Noo! Pure io!» disse Luigi iniziando a scuotere la testa e a battere le mani. «Bellissimo! Vedrai che ci divertiremo un mondo». Mario lo guardò. La presenza di quello strano tipo, tanto distante da lui, lo inquietava, ma allo stesso tempo capiva che poteva costituire un valido appoggio per la fase d’ambientamento. “Meglio essere in due” pensò. «Da dove vieni» disse Luigi quando ebbe terminato di dimenarsi. «Da un paesino sotto il Monte Grosso che…»
«Ma no! Dai! Io abito dall’altra parte del monte… e non ci siamo mai incontrati? Com’è possibile questo!» Mario alzò le spalle. «Forse perché io non mi sono mai allontanato dal quel posto dove sono nato e…». «Io, invece» l’interruppe Luigi «ho girato in bici tutte le valli lì intorno. Vedessi che belle!» «Immagino anche se…». «Che lavoro fai per vivere?» Mario non rispose. Quel vulcano sempre in eruzione lo metteva a disagio. Aveva sempre la battuta pronta, tanto che sembrava aver vissuto il doppio dei suoi anni e il suo modo di fare si accostava a quello della ragazza incontrata l’anno precedente. «Sono un maestro di sci» rispose serio. Luigi questa volta tacque. La sua voglia di vivere, di essere, lo portava a saltare le giuste fasi della vita. Era come una folata di vento che portava con se tutto quello che incontrava, senza chiedersi il perché delle cose. Preso nell’assecondare questo suo entusiasmo, macinava la vita senza tenerne i pezzi migliori. «Hai capito?» ribatté Mario. «Sìì… sì…» «Cosa ti prende?» «Nulla. Nulla» continuò a testa bassa. Tutta l’esaltazione che fino al quel momento aveva messo nel suo modo di esprimersi e di relazionarsi, ebbe una brusca battuta d’arresto. Mario non comprese fino in fondo i motivi di quella strana reazione, ma intuendo che la sua affermazione aveva per qualche strano motivo causato
turbamento al suo nuovo amico, si affrettò ad interrompere lo stallo che si era creato fra di loro. «Comunque... nulla di eccezionale. Tu, invece, cosa fai?» continuò Mario. «Io… io…» «Tu?» «Io… faccio il fornaio» rispose, ritornando ad abbassare gli occhi. «Oh! Bel lavoro, sai che mangiate di pane e dolci. Immagino però che ti dovrai alzare molto presto!» Luigi alzò lentamente lo sguardo. La cima gettata dal quel ragazzone per nulla propenso alla comunicazione, fu presa al volo. «Sì, ma non mi pesa molto e poi ho tutto il pomeriggio e la sera liberi» rispose con enfasi. Era ritornato il ragazzo di prima. Il viaggio continuò e dopo due ore di risate e toni seri il treno si fermò con uno stridio di freni. Li attendeva un mondo nuovo, sconosciuto. Il silenzio delle loro valli lasciava il posto al frastuono della vita di città. Appena scesi furono presi ed inseriti in un vortice umano che li costrinse a dirigersi verso l’uscita della stazione, annientando le loro personalità. Vomitati fuori, i due rimasero sul marciapiede che si affacciava sulla strada asfaltata, immobili. Un mondo di suoni e di colori diversi si presentava ai loro occhi di montanari. Dopo un comprensibile attimo di smarrimento Luigi prese in mano le redini del gioco e si diresse, tirando per la manica Mario, verso un angolo del parcheggio dove sostava un autobus militare con due soldati che fumavano accanto alla portiera. «Salve» disse Luigi. «Salve a voi» rispose uno di loro. «Noi dovremmo andare alla Caserma La Marmora, sapreste indicarci la strada?» «Sei arrivato, caro. Noi stiamo qui ad attendere quelli come voi. Alle sei partiamo e gli altri che arriveranno dopo… si arrangeranno». Detto questo
riprese a fumare e a conversare con l’altro. I due ragazzi si sedettero su di un muretto lì accanto, tirarono fuori dei panini ed iniziarono a mangiare, in silenzio. Con il trascorrere del tempo altri sventurati arrivarono e si sedettero vicino a loro dopo un breve cenno d’intesa. Alle sei in punto, i militari spensero le sigarette e uno di loro disse: «Tutti a bordo, si parte». I dodici ragazzi muti si misero in fila e salirono mestamente quei gradini, consapevoli che li avrebbero portati verso situazioni ignote. Dopo mezz’ora di viaggio, trascorsa in un rigoroso silenzio, rotto solo dalle risa sguaiate dei due soldati, arrivarono a destinazione. La caserma era situata al centro di una pianura, circondata da mura enormi. Davanti al portone d’ingresso l’autista abbassò il finestrino e: «Apri che abbiamo carne fresca per il sergente» disse sghignazzando, seguito dall’altro compare. I ragazzi si guardarono smarriti. Dopo pochi secondi, dal fondo di quello sgangherato autobus partì una pernacchia talmente sonora che avrebbe fatto invidia anche ad un attore navigato di cabaret. Un boato di risate seguì il gesto irriverente. I due smisero di sorridere e si girarono verso i ragazzi. «Chi è stato!» disse l’autista. Silenzio. «Chi è stato!» continuò con voce alterata dall’ira. Muti. Visto che non otteneva il risultato auspicato, l’autista ingranò rabbiosamente la prima marcia. Il cambio assecondò la leva emettendo un suono rauco e l’autobus si mosse lentamente. Arrivati nei pressi di una bassa costruzione il soldato rimasto in piedi disse: «Tutti fuori! Vedrete che domani vi sarà ata la voglia di scherzare». I ragazzi scesero silenziosi dirigendosi verso un’entrata indicata dal soldato accompagnatore. Espletati i controlli di rito fu loro consegnato il vestiario ed assegnato il posto per dormire.
L’indomani mattina la sveglia fu data alle sei da uno squillo di tromba, seguito dall’istantanea accesa delle luci e dalle grida sguaiate degli istruttori. Tutto doveva essere fatto di corsa. Lavarsi, vestirsi, mangiare, trasferirsi. Effettuato l’addestramento mattutino, la giornata procedeva nella noia più assoluta all’interno della caserma. Mario e Luigi approfittavano di questi momenti per stare insieme e discutere su come difendersi dai “nonni”. Gli scherzi più stupidi e senza senso erano all’ordine del giorno. Mario non gradiva tale genere di comportamento, basato solo sull’arroganza e sulla prevaricazione fornita dallo scorrere del tempo. Arrivato il suo turno, l’educazione ricevuta gli impedì di approfittarsi di quelle “perverse prerogative” in cui non credeva. Luigi invece si buttava a corpo morto nelle imprese che riteneva essere un suo diritto ricambiare, anche se i protagonisti non erano i soggetti attivi di allora. Mario, di contro, preferiva, nei lunghi momenti di tempo libero, scrivere alla mamma, al nonno e a Pietro. Raccontava i lati buoni di quella vita e tralasciava quelli meno interessanti, per non far preoccupare invano i suoi cari. Nelle giornate di brutto tempo, amava particolarmente recarsi su di una vecchia postazione di guardia, posta al lato nord della caserma da cui poteva vedere una lontana catena montuosa. Le alte nuvole facevano da cappello alle cime e lasciavano cadere una dolce pioggerellina che lavava via, dolcemente, tutte le scorie accumulate dal suo animo. Nelle giornate calde d’estate, invece, prendeva una vecchia bicicletta abbandonata in mensa e arrivava fino al fiume, che scorreva a pochi chilometri, dall’edificio militare. Si stendeva sotto un boschetto di abeti e ascoltava i suoni e annusava la natura. Tutto però sapeva di surrogato. Non era il suo cielo, quello che sapeva coccolargli l’anima. Arrivato il sospirato congedo, i vecchi ragazzi salutarono l’uscita dalla caserma con grida e salti di gioia che durarono fino al loro arrivo in stazione. Mario e Luigi fecero il viaggio di ritorno assieme. Quell’aria di complicità che li aveva accomunati all’andata, non era più presente fra loro. L’esperienza li aveva cambiati rendendoli più autonomi, ma aveva anche accentuato le loro differenze. Mario sempre più convinto che lo stare solo con se stessi fosse l’unico modo per sopportare le sfide della vita. Luigi, dal canto suo, aveva trovato negli altri il materiale cui attingere per vivere un’esistenza degna di questo nome.
Al momento dei saluti i due si abbracciarono promettendosi di vedersi spesso, ma non fu così. Il treno era entrato nella natia vallata. Il distacco forzato, durato diversi mesi, sembrava non essere mai avvenuto. Tutto ritornava al suo posto anche se visto con occhi diversi. Alla stazione l’aspettavano i tre che lo avevano lasciato tempo prima. Appena sceso si precipitò verso sua madre sollevandola e riempiendola di baci e, mentre la teneva stretta con un braccio, con l’altro abbracciò il nonno e Pietro. Nel viaggio fino a casa, non perse mai il contatto fisico con la madre ripetendole continuamente: «Ora che ti ho con me, non ti lascerò mai più».
XV - LA MADRE
«Franz? Franz! Dove sei?» urlò il piccolo Kurt appena entrato nel locale. Sentendosi chiamare l’oste usci dalla cucina, asciugandosi le mani sullo straccio che teneva infilato al lato sinistro del grembiule. «Ehi! Cosa fai tu qui a quest’ora! E… dove è tua madre?» rispose guardandosi intorno per cercare ciò che non c’era. Non ebbe il tempo di dire altro che Judith, la mamma di Kurt, arrivò trafelata nel locale, non dopo aver fatto sbattere la porta d’ingresso, rischiando di mandare in frantumi il vetro della parte superiore. «Brutto monello che non sei altro!» esclamò attirandosi l’attenzione dei presenti, compreso Mario «Perché scappi sempre e non mi aspetti! Lo sai che ho paura se di notte vai in giro da solo!» continuò. «Dai mamma. Non mi scocciare. Sono venuto solamente qui da Franz a prendere il latte per domani mattina. Non volevi questo?» rispose indispettito il ragazzino. «Certo, ma ti avevo anche detto di andare insieme!» «Uffa, quanto sei noiosa. Sempre a dirmi cosa devo fare. Lo sai che ho otto anni!» Judith si rese conto che era in casa altrui e: «Chiedo scusa a tutti. Non volevamo disturbare. E’ questo... questo discolo che è difficile da trattare!» Kurt alzò le spalle. Avvicinatasi al bancone, la signora prese la bottiglia di latte fresco, che nel frattempo Franz aveva preso dal frigorifero, pagò e fece per afferrare la mano di quella peste quando, divincolandosi: «Lasciami stare. Non voglio venire a casa. Voglio rimanere qui!» «Dai andiamo! non vedi che stiamo disturbando. Non è un posto dove i bambini dovrebbero stare dopo una certa ora. Vero?» disse strizzando l’occhio a Franz.
«Proprio così! Vedi forse altri ragazzi, Kurt?» Il ragazzino li guardò entrambi poi: «Non mi convincete. Vi siete messi d’accordo per farmi fare ciò che non voglio» esordì, iniziando a sbattere i piedi in terra, incrociando le braccia ed imbronciandosi in volto. Mario, ritornato dal suo vagabondare nella memoria, non poté fare a meno di sorridere, nascosto com’era, dalla sua fluente barba. Judith, disperata, tentò di giocare l’ultima carta a disposizione del suo mazzo. Quel sentimento che costituisce il termine ultimo prima della tragedia. «Ti prego Kurt, andiamo. Se vuoi bene alla mamma, ora è il momento di andare». Silenzio. «Non mi vuoi più bene? Eh?» Oblio. «Kurt? Kurt!» continuò implorando Judith, con voce sempre più flebile. «Uffa, che barba che sei!» continuò il ragazzino senza cambiare posizione. La signora si guardò intorno, disperata. «Vi chiedo scusa di nuovo. Da quando è morto suo padre…» La sua dignità di donna e di madre stava vacillando, privata di ogni energia dalla perdita del compagno e dalla convinzione di non essere una valida guida per il giovane uomo. «Ehi, tu!» Tutti gli avventori, meno uno, si voltarono verso il luogo di provenienza di quell’affermazione che aveva tagliato l’aria come un coltello caldo nel burro. «Ehi, dico a te! Sei sordo, o ci fai?» insistette. Un rumore assordante squarciò quel silenzio carico d’imbarazzo per la situazione d’impotenza che si era venuta a creare. Tutti sobbalzarono, anche il ragazzo, che non poté fare a meno questa volta di piegare lo sguardo.
Mario, alzatosi in piedi, aveva sbattuto violentemente la paletta del camino sul pavimento, creando una risonanza tale da far tremare anche i bicchieri posti in bella vista sulla mensola dietro il bancone. «Finalmente ho la tua attenzione» disse con quel vocione che per i più era sintomo di preoccupazione. «Cosa vuoi!» rispose con aria insolente Kurt. «Preferisci venire qua a parlare con me o debbo portarti a casa prendendoti per un orecchio?» esordì non dopo aver dato un cenno d’intesa a Judith che ringraziò con gli occhi. «Allora?» una volta giunto svogliatamente nei pressi di Mario. «Vieni, siediti qui, accanto a me» rispose l’omone, prendendolo delicatamente per la mano destra, che scomparve completamente nella sua. Kurt seppure riluttante si fece trascinare, convinto più che dalla forza di persuasione delle parole dalla mole di quel signore barbuto. «Cosa avete da guardare voi!» esclamò nei confronti dei curiosi. Ritornato il solito brusio di taverna, Mario si rivolse con tutta la dolcezza di cui si credeva capace al ragazzo che si ostinava a restare piantato innanzi al camino. «Coraggio! Non ti mangio mica! Io ho già cenato!» Kurt lo guardò negli occhi per la prima volta nella serata. La sua voglia di scoprire cosa si nascondeva dietro quell’uomo, così grande e grosso, sovrastava il timore fisico che affiorava nel suo cuore imberbe. Mario fece il primo o e si accomodò facendo scricchiolare la sedia di vimini, ma anche in questa posizione restava pur sempre ben sopra la testa del ragazzo. Kurt con un guizzo improvviso prese uno sgabello di legno vicino al bancone, lo mise all’interno del grande camino e vi si appollaiò. Un sorriso beffardo illuminò il suo volto essendo di 10 centimetri più alto. «Cosa mi volevi dire?» esordì. Mario sorpreso dall’intraprendenza del ragazzino ebbe un attimo di smarrimento.
Come al solito le situazioni che non riusciva a controllare lo mettevano in imbarazzo, solo un attimo. Poi, schiarendosi la voce: «Ero qui vicino al camino e…» «Lo sapevo!» «Bene. Dicevo… che ti ho visto arrivare…» «Allora?» «Mi fai parlare!» aumentando di poco il volume la voce. «Parla!» «Dicevo… che da quando sei entrato non hai fatto altro che trattare male tua madre. Perché fai così? Forse non le vuoi bene?» «Cosa c’entra lei con questa storia?» Mario, spazientito: «Perché fai arrabbiare tua madre?» «Io non la faccio arrabbiare! E’ lei che non capisce quello che voglio». «Tu cosa vuoi, allora!» «Cosa ne so io di quello che voglio. Io so solo che mi piace fare tutto quello che mi a per la testa. Capito!» «Ma tu sei ancora piccolo. Cosa ne vuoi sapere di come va il mondo». Kurt lo guardò dubbioso e poi: «Tu hai capito sempre tutto?» Mario tacque. Quel piccolo demonio aveva un sesto senso o si era trattato solo di sfacciataggine? «Non parliamo di me» s’affrettò a dire «dimmi, piuttosto, vuoi bene a tua madre, sì o no?» «Certo che le voglio bene!» «A me sembra che non sia così visto il modo come la tratti» disse con aria greve Mario.
«Io non lo faccio apposta. Mi viene da fare in questo modo da quando…» «Da quando?» «Da quando… non ho più… non ho più… il papà» rispose Kurt abbassando lo sguardo e tirando su con il naso due lacrime interne. L’uomo, visto che i sentimenti avevano quella sera libertà di movimento, fu assalito da un’angoscia che sembrava scomparsa nel suo animo. Si guardò intorno. I presenti erano dedicati ai fatti normali della vita. Toccava a lui affrontare i penosi ricordi e schiarendosi la voce, iniziò. «Lo sai che anche io ho perso mio padre quando avevo quasi la tua età?» Il ragazzo lo guardò, dopo essersi asciugato il naso con il dorso della mano destra. Quella montagna umana che sembrava inattaccabile, era di fronte a lui e si stava aprendo come una rosa al sentire della rugiada. «E allora?» «Allora… sono cresciuto senza di lui e… guarda dove sono arrivato» disse recuperando il suo sangue freddo. Kurt tacque pensieroso. «Quello che voglio dire» continuò Mario «è che se perdi anche tua madre… cosa ti rimane?» «Ma lei è ancora li!» rispose il ragazzo indicandola. «Lo so! Io volevo dire che se tu non dimostri il bene che le vuoi, ti lascerà e non potrai più riaverla. Ricordati sempre che le mamme danno tutto quello che possono senza pretendere nulla in cambio, solo il tuo amore. Se perdi anche quello… cosa ti resterà? Nulla, niente» concluse con la gola ingombra, senza poterlo dare troppo a vedere. Il ragazzo notò l’imbarazzo dell’omone seduto di fronte a lui e: «Dove è andata tua madre?» disse a bruciapelo. «Mia madre non è più con noi».
«Dov’è, allora!» continuò Kurt, volgendo lo sguardo all’interno del locale. «Ora è in un posto… qui» disse indicando il cuore «ma vorrei che fosse lì, come tua madre». «Ti ha lasciato?» «Sì, ma non avrebbe voluto». «Sei stato cattivo anche tu?» «No, Kurt, almeno spero. Io credo di essere stato per lei un buon figlio anche se non ho mai trovato le parole, o il tempo, per chiederglielo». «Si può sapere, allora, dove è adesso?» «E’ insieme a tuo padre». «Oh! In paradiso?» «Questo non posso dirlo. Io so soltanto che mi manca molto». «Anche se sei così grande?» «Certo Kurt. Il bene che vuoi ad una persona non diminuisce con il are degli anni o perché non la puoi più vedere. Anzi quest’amore rimarrà per sempre nel tuo cuore. La cicatrice che si forma, dopo la partenza da questo mondo delle persone a cui vuoi bene, si riaprirà ogni volta che ripenserai ai giorni ati con loro. Quello che sembrava dimenticato ti si ripresenterà chiedendoti il conto. Sembra quasi che dobbiamo farci perdonare il fatto di averle lasciate andare da sole, di non averle potute accompagnare in quell’ultimo definitivo viaggio». La voce di Mario era andata crescendo man mano che l’intensità dei ricordi aumentava, avendo toccato i punti vitali che ognuno di noi ha più o meno in profondità. I presenti si voltarono senza darlo troppo a vedere. Sfuggito il senso dell’intero discorso, quelle ultime affermazioni erano bastate, alla maggior parte di loro, per sondare i ricordi di quelle persone care che non erano più percepibili fisicamente.
Mario resosi conto di aver di nuovo attirato l’attenzione di gran parte dei presenti, si schiarì la voce, bevve un sorso di vino dal calice che aveva appoggiato sul camino e guardando Kurt: «Capito cosa voglio dire?» Il ragazzo rimase in silenzio. Più che le parole dette da quel grosso sconosciuto, lo aveva colpito la voce non proveniente dalla gola e la sensazione di disagio che aveva percepito lo fece piangere. Due grosse gocce di salutare acqua salina gli discesero le gote seguite, subito dopo, da altre simili, incapaci di essere trattenute per un tempo più lungo. «Mamma! Mamma!» urlò disperato, dirigendosi di corsa verso Judith. La donna, accortasi delle grida del figlio, si girò spaventata. Poi guardò Mario cercando di capire la situazione che si era venuta a creare tra i due. L’omone non fece in tempo a dire nulla perché il ragazzo, arrivato nel frattempo alla meta, fece cenno alla madre di abbassarsi. «Mi sei mancata» le sussurrò nell’orecchio destro, abbracciandola. La signora si girò nuovamente in direzione dell’uomo e, con tutta la riconoscenza che le fu possibile disse dolcemente: «Grazie!» Mario, non volendo interrompere quel momento magico, si limitò ad alzare il bicchiere, semivuoto. Terminato il gesto d’affetto, Kurt si staccò dalla madre e disse: «Andiamo a casa ora, mamma?» «Certo! Arrivederci a tutti» disse prendendo la mano destra del ragazzo e dirigendosi verso l’uscita. ando vicino a Mario, questi apostrofò il ragazzo: «Mi raccomando! Ricordati quello che…» ma non ebbe modo di proseguire. Il ragazzo tirò a sé la madre. «Vedo che hai capito» continuò con voce seria.
Usciti i due, l’atmosfera della taverna riprese il suo corso normale. I padroni entravano e uscivano dal retro. I due ragazzi continuavano a scambiarsi tenerezze mentre gli altri avventori bevevano e discutevano di tutto e di tutti. Franz da buon oste quale era non si lasciò sfuggire, tra un servizio e l’altro, l’occasione di andare a sondare il terreno reso fertile dagli ultimi avvenimenti. «Allora Mario! Cosa mi racconti?» disse con gli occhi che gli luccicavano curiosi. «Cosa vuoi sapere?» «Come cosa! Dimmi... com’è andata con il ragazzo! Cosa vi siete detti?» «Niente di cui tu non abbia mai sentito parlare come l’amore… il rispetto… le solite cose». Franz lo guardò esterrefatto: «Sei incorreggibile!» Mario tacque per un istante e abbassando gli occhi: «Questa volta è diverso Franz». Silenzio. «Allora?» lo incalzò l’amico. Nessun effetto. «Allora?» ripeté l’oste bramoso di conoscere le ultime novità, come il ragno che si precipita per vedere quale nuova preda sia finita nella sua ragnatela. Mario, seppur restio a confessioni dell’ultimo minuto: «Potevo avere anche io un figlio, se non avessi avuto…» «Coomee!!!»
XVI - COLUI CHE PUO' NON E'
«Hai capito bene! Avrei potuto avere un figlio se non fossi stato…» «Egoista?» l’interruppe Franz. Mario lo guardò fisso, come per interrogarsi sui propri pensieri. «Forse sarà come dici tu! In quel momento decisivo ho avuto paura di...» «Paura di cosa!» «Non lo so! Non lo so!» urlò disperato Mario, tanto che per l’ennesima volta gli avventori si girarono. Pronunciando quelle grida d’aiuto si teneva il volto chiuso fra le mani come a voler stritolare gli spiriti maligni che vi alloggiavano da tempo, da troppo tempo oramai. Franz avendo percepito il travaglio interiore dell’amico, gli posò la mano sulla spalla sinistra e disse: «Ne vuoi parlare con me? Ti farà bene!» L’omone annuì poi disse: «E’ una lunga storia» si giustificò. «Non ti preoccupare per questo». Delicatamente Franz prese per mano quel disperato, privo d’ogni forza interiore e lo condusse verso le scale che conducevano al suo appartamento, sopra la taverna. «Vado un attimo in casa» urlò alla moglie. Emma si girò di scatto, come se fosse stata colpita da una tarantola conoscendo “il trucco” del suo sposo per dileguarsi, ma vedendo quella strana coppia di uomini adulti tenersi per mano, la faccia di Mario e l’occhietto di Franz, si rilassò. Arrivati di sopra: «Siediti lì» disse il padrone di casa, indicando una poltrona
posta di fronte al grande camino «Prendo una bottiglia di grappa che tengo per le grandi occasioni». «Non so se ho voglia di bere». «Silenzio! Un buon bicchiere qualche volta, fa più effetto di una medicina» e strizzò nuovamente l’occhio sano. Incapace di ribattere Mario si lasciò cadere di peso sul morbido sedile, come un sacco di patate sulla basculla prima di essere pesato. Franz al ritorno riempì due bicchieri. Mario prese controvoglia quel nettare bianco, che in molte, troppe occasioni, lo aveva tolto dall’impaccio momentaneo. Iniziandolo a sorseggiare pensò: “Buffo! Qualche cosa che metti dentro ti aiuta a tirare fuori quello che hai di più nascosto”. Terminato di bere posò il bicchiere sul bracciolo della poltrona, si appoggiò allo schienale e iniziò a fissare un grosso ceppo che ardeva dentro il camino. Franz nel frattempo era andato in cucina per prendere dei biscotti preparati da sua moglie, utili in quelle occasioni. Rientrato nel soggiorno visto che la grappa non riempiva più il contenitore nella quale era stata versata, si precipitò a colmarlo di nuovo. «Fraanz!» «Shh. Bevi! Ti fa bene». Detto questo, si mise seduto su di una poltrona alla sinistra di Mario e poggiò il vassoio con i dolci alla base superiore del camino. Prese il suo bicchiere e dopo averne assaggiato il contenuto ed essersi complimentato per l’ottima scelta, si schiarì la voce e: «Ora possiamo iniziare». «Sei sicuro di volerla proprio sentire? A me fa male anche se solo provo a sfiorarla e non voglio che tu soffra». «Ricominci! Scusami... ma tu non lo faresti per me?» «Sicuro, come il sole che tramonta!»
«Vedi! Su non farti ancora del male. Inizia!» sentenziò Franz che, contrariamente dal solito, non aveva quella curiosità morbosa di sentire una storia frivola, da poter rivendere gratis. Questa volta era in gioco la vita presente e futura di chi lo aveva salvato da una morte certa. Il compito lo spaventava non essendo convinto fino in fondo di poter essere all’altezza della situazione. Lui, un povero oste di montagna. “Dai” pensò “non metterti strane idee in testa. Mario ha bisogno di te, non puoi tirarti indietro”. I due si guardarono in silenzio per qualche attimo, poi Mario con voce e testa bassa iniziò il suo desolante racconto. «Tutto è iniziato quindici anni fa, poco prima che tu sposassi Emma. Era un lunedì e la scuola mi aveva preso un appuntamento, per una lezione singola, alle due del pomeriggio… “Ciao Mario” disse Olga, la segretaria di allora, vedendomi entrare. “Ciao” risposi “cosa mi aspetta oggi? Il solito signore premuroso di far bene? Allora cosa ci vengono a fare a scuola! Noo?” “No caro! Oggi ti ho prenotato due ore con una signora inglese che…” “Ho capito! La solita lezione di routine del principiante”. “No caro! questa signora dovrebbe essere abbastanza brava, così almeno mi ha detto”. “Sarà! Io comunque sono sempre scettico finché non li vedo. In Inghilterra? Dove mai andranno a sciare, sulle Highland Scozzesi?” esclamai ridendo. “Non so cosa dirti. Non l’ho mica mai vista sciare! caro. Io sono sempre qui, tappata in questa tana”. “Dai, non ti lamentare sempre” risposi. “Guarda! Una di queste sere… ti porto a cena fuori, contenta?” “Davvero?” disse sorpresa. “No! Stavo scherzando” risposi ridendo.
“Ma va in …” “Non essere volgare” l’interruppi. “Io non lo sono! Sei tu che mi prendi sempre in giro!” “Scusami, non volevo. Devo cambiare l’olio motore al fuoristrada e pensavo di farlo oggi e… dai… dimmi qualche cosa di più su di lei”. “Che cosa vuoi che ne sappia io” rispose sdegnata. “Voi donne sapete sempre tutto di tutti” replicai. Gli occhi di Olga luccicarono. “Dai!” insistetti. “So soltanto che è la moglie di un conte, che ha 10 anni più di lei e che…” “Che?” “…che ha un sacco di soldi, ecco!” “Oh, vedi che cominciamo a ragionare. E dimmi… quanti anni avrà? Immagino che sia la classica signora inglese. Abbondante, capelli rossi ricci, smorta e…” Olga sorrise. “Dai… non farti pregare” insistetti. “Non ti meriti niente” mi rispose indispettita. “Ho capito! Oggi non è aria”. “Comunque…” ribatté Olga. “Alloora?” Un sorriso ironico illuminò il volto di quella donna. “Comunque… potrai vederla con i tuoi occhi. Sta entrando in questo momento” disse velocemente. Mi voltai all’improvviso. Lei era proprio dietro di me. Alta un metro e ottanta,
capelli biondi, visino da fata delle fiabe, longilinea, dall’età apparente di 35 anni. Indossava un completo rosa, con una fascia dello stesso colore che le copriva le orecchie che alzandole i capelli metteva in mostra due stupendi occhi azzurri. In una parola… la copia autentica di Miriam, la ragazza che ha dato una svolta alla mia vita, ma tu non l’hai conosciuta. “Good afternoon” esordì l’angelo appena entrato. “Buon pomeriggio” si corresse parlando un italiano quasi perfetto. “Buon pomeriggio a lei” rispose Olga. Io, credimi, avevo perso completamente la parola. La visione che mi si era presenta davanti era lontana anni luce da ciò che mi ero immaginato e in meno di un secondo la mia mente ritornò indietro di 25 anni. Il cuore iniziò ad andarmi in fibrillazione, tanto che ebbi paura che si potesse vedere o sentire al di fuori della tuta. “Strano”, riuscì a fatica a pensare, “come le situazioni si possano ripetere nel tempo. Stati d’animo che si credono morti e sepolti ritornano a livello cosciente, come se non fossero mai stati archiviati”. «Eh! Io lo so come siete voi maestri di sci. Tutta vita!» l’interruppe Franz. Mario sorrise e poi continuò deciso, non volendo far allontanare dal suo animo quel momento. «Dicevo… stati d’animo che credevo di aver dimenticato, mi si ripresentavano con tutta la loro carica emozionale. Incapace di proferire parola, Olga mi venne in aiuto. “Questo” disse indicandomi “è il suo maestro”. “Pleasure to meet you” disse, ma visto la mia inattività si corresse: “Piacere di conoscere lei” ed allungò la mano destra verso di me. Io rimasi ancora fermo, inebetito. “Mario!” esclamò la segretaria. Sobbalzai e resomi conto della situazione d’imbarazzo nella quale ero caduto, mi riebbi da quello stato d’incoscienza ed allungai la mia dicendo: “Piacere mio, signora”.
Le nostre mani si toccarono. La mia, grande e forte. La sua, piccola e delicata. Il contatto durò un istante, ma fu sufficiente a lasciar are una sensazione di benessere a me sconosciuta. Non capivo bene in quel momento cosa mi stesse accadendo. Di solito il contatto con gente dell’altro sesso era stato sempre molto freddo e distaccato, volto solamente a soddisfare il mio istinto d’uomo, capisci?» «Certo che capisco» rispose Franz «Eccome!» «Non mi fraintendere! Io ho sempre rispettato le donne con cui sono stato, dicendo loro che non mi volevo impegnare fino in fondo. Loro apprezzavano e contraccambiavano con quanto bastava ad entrambi. Questa volta... questa volta tutto era diverso. Il contatto aveva fatto scaturire in me la necessità impellente, inderogabile, di far parte della vita di quell’essere meraviglioso che era comparso di fronte a me. La signora ritirò delicatamente la mano che io mi ostinavo, inconsapevolmente, a tenere stretta, abbozzando un dolce sorriso con quei suoi denti bianchissimi. Olga, che si era accorta del mio imbarazzo, sorrideva silenziosa. Ancora una volta lei mi venne in aiuto, non per riguardo nei miei confronti, s’intende, ma per il buon nome della scuola e disse con tono canzonatorio: “Maestro, vuole rimanere tutto il giorno qui con me o iniziare la lezione con la signora?” Colpito nel mio orgoglio, mi diedi due ceffoni interni e ripresomi dissi: “Certo! Sicuro!”. Prima di uscire, avendo riacquistato la sola dignità professionale mi fermai davanti alla porta, la aprii e dissi: “Prego signora” indicando con la mano sinistra il percorso. La signora si avviò, sorpresa da quel gesto di cortesia. Varcata la soglia, si girò verso di me e, con un sorriso disse: “Thank you”. Io annuii, uscii dietro di lei e mi girai. Olga si teneva la pancia dal ridere e: “Non lo cambi più l’olio oggi? Eh caro” continuava a ripetere». Franz questa volta tacque. Lo attendeva un duro compito ed iniziavano a mostrarsi i primi sintomi di quello che aveva temuto. Mario continuò.
«Sarei voluto tornare indietro e strozzarla, metaforicamente s’intende, ma in fin dei conti me lo ero meritato. Uscito indossai il amontagna e guardai l’ora: le due meno dieci. La signora aveva già preso in mano gli sci e li aveva appoggiati alla rastrelliera, accanto ai miei. La osservai di nuovo, estasiato. Stava guardando il panorama che si prospettava ai nostri occhi. Era una giornata di inizio marzo. Il sole splendeva su di un cielo terso, privo di nuvole. La temperatura era gradevole, appena sopra lo zero. La neve era perfetta, visto la nevicata di due giorni prima e le successive notti ate a gelare. Lei si girò, abbozzando un sorriso. Era una veduta mozzafiato stagliata fra il cielo, la neve, le montagne. “Pronta per andare” disse con quel suo accento inglese. “Andiamo!” risposi solamente. La mia mente era offuscata e i muscoli intorpiditi, come quando si beve un bicchiere di troppo. Impacciato, inforcai gli sci e riuscì a pronunciare, con molta fatica: “Dobbiamo prendere quella risalita laggiù, vede?” dissi indicando lo ski-lift maledetto». «Come maledetto?» chiese Franz. «Sì… dai… ah… scusa, non sai la storia. E’ stato il primo impianto che ho preso quando ho iniziato a sciare. Ancora mi ricordo la brutta figuraccia che ho fatto con il maestro Jacob. Ti ricordi di lui?» «Sì! Come no. Il vecchio… che abita di fianco alla chiesa». «Proprio lui». «Strano, non mi sembrava che fosse stato un maestro». «Sai Franz… certe persone riescono a mantenere la propria dignità anche dopo aver terminato, per così dire, la vita attiva. Altre la perdono immediatamente dopo e altre ancora non l’hanno mai avuta». “Ancora”, pensò Franz. «Comunque, ti dicevo, dopo aver preso anche le racchette, la guardai mettere i
suoi sci. Aveva un’eleganza unica, una leggerezza dei movimenti affascinante. “Pronta!” mi disse “Andiamo?” “Certo” risposi “Vada avanti lei, così mi regolo sul suo stato di preparazione e…”. “What’s - Cosa?” esclamò. Avevo parlato troppo in fretta e con espressioni a lei non familiari. “Mi scusi” mi affrettai a dire “mi dimentico che lei non è italiana”. Sorrise. Poi: “Lei maestro non parla neanche un poco inglese?” “No! Non ne ho mai avuto bisogno. Sono sempre stato tra queste valli, che di stranieri ne hanno sempre visti molto pochi e…” Lei mi guardava fisso, con la testa leggermente piegata a sinistra. Mi fermai. “Chiedo scusa” dissi facendo cenno con la mano. Sorrise di nuovo, poi: “Mi insegna anche a parlare meglio italiano?” Sorpreso, annuì. Lei continuò: “Io, se va bene, insegnerò a parlare un poco inglese. Ok?” Ok? Le situazioni di ripetevano. Il tempo sembrava riproporre le cose ate, non averle cancellate, come di regola accade». «Non capisco!» esclamò Franz. «Lascia stare. Un ricordo di quando ero ragazzo. Non vale la pena parlarne». Pausa. Sorso. «Visto! Ti avevo detto che era una lunga storia!» proseguì Mario. «Non ti preoccupare. Vai avanti!» rispose Franz, che per meglio comprendere le esternazioni del suo amico si era staccato dalla spalliera della poltrona e ora teneva i gomiti appoggiati sulle gambe e le mani a sorreggere il volto, come a ricercare la massima concentrazione possibile.
Mario si era completamente adagiato sulla comoda sedia imbottita e iniziava a sentirsi meglio. “La cura di Franz sembra funzionare, almeno per ora”, pensò. Prese di nuovo il bicchiere, ma notò che il colore era diverso e ne era rimasto il solo profumo. Franz, accortosi di quanto stava accadendo, scattò in piedi come una molla, prese l’intera bottiglia lasciata sul tavolo della cucina, riempì il bicchiere dell’amico ed anche il suo visto che era semivuoto. Durante il giorno compiva questo gesto come un automa. Quella sera, no! Tutto era diverso. Il luogo, Mario, la situazione particolare. «Questa la lascio qui» disse indicando la bottiglia, che trovò posto sul tavolino accanto al camino «non si sa mai… in caso di necessità…» e strizzò l’occhio, quello buono. Mario abbozzò un sorriso, sorseggiò il liquore e riprese. «Restammo in silenzio per alcuni secondi. Poi lei mi indicò la pista più vicina a noi e si gettò su di essa, muovendosi armonicamente. “Non male” pensai. “Ci sarà un po’ da lavorare...” Arrivata in fondo alla discesa, si fermò facendo sollevare una nuvola di neve che la nascose al mio sguardo. Appena la potei rivedere mi accorsi che era rivolta verso di me. A mia volta iniziai la discesa con tutta la maestria di cui ero capace, effettuando tutti i movimenti alla perfezione, così come mi erano stati insegnati. Le arrivai vicino, delicatamente. “Brava! Molto bene, ma bisogna migliorare le curve a sinistra perché…”. Mi fermai. Lei mi fissava con i suoi occhi blu, in cui io mi perdevo… come su di una strada senza ritorno. “Sono andata bene?” chiese. Rimasi muto. “Ho sbagliato... cosa?” continuò.
“Le curve a sinistra”, dissi mimando il gesto. Lei comprese e annui dicendosi a voce alta: “Left Miriam, left”. “Left” mi dissi “Sinistra, certo vuol dire sinistra. E destra? Come si dirà destra? “Scusi signora. Sinistra si dice left e destra?” “Right” rispose. “Right?” “Yes – Sì”. “E… mi scusi se sono impertinente” continuai mentre lei mi guardava fisso “ma… ma” dissi mentre il cuore mi batteva a mille “ma lei si chiama Miriam?” “Sì!” rispose sorpresa. Miriam! Capisci Franz! Miriam!» «No, Mario. Chi è questa Miriam di cui parli? Qui in paese non mi sembra che ci sia una signora con questo nome. Sbaglio?» «No Franz, non sbagli. Scusami. Miriam era il nome della ragazza che avevo conosciuto quando avevo 17/18 anni e cui ti accennavo prima. Capisci! La signora inglese… aveva… aveva lo stesso nome di quella ragazza che mi ha spinto a diventare maestro di sci. Non ti sembra buffo?» disse Mario alzando il vocione fino a far tremare la fiamma del camino. «Ooh» esclamò Franz colpito solo superficialmente da quel caso d’omonimia. «Ma guarda che strano! Eh Mario?» continuò. Mario non rispose limitandosi a scuotere il suo testone barbuto. Con lo scorrere del tempo si era sempre più convinto che le cose, i fatti della vita che avevano lui come protagonista, accadevano indipendentemente dalla sua volontà. «Un attimo di silenzio e poi scoppiai a ridere. La signora mi guardò perplessa e: “Non piace a lei mio nome?” disse. “Sì… no… sì” risposi impacciato.
“Allora mio nome è… come sì dice… fa ridere?” “No… no, non volevo dire questo. E’ che ho conosciuto, tanto tempo fa una ragazza italiana che si chiamava come lei, capisce?” Velocemente gli spiegai tutta la storia. Finito, lei iniziò a ridere dicendo: “Meraviglioso”. Ridemmo per alcuni secondi, poi le feci cenno di prendere lo ski-lift. Tutta l’ora la ammo come una normale lezione di sci. Io indicavo le correzioni da applicare alle varie figure, lei s’impegnava al massimo per correggere i suoi difetti tecnici e, come da promesse reciproche, io le insegnavo parole in italiano e lei alcune in inglese. Il tempo ò talmente veloce che mi sorpresi quando lei me lo fece notare. “Il tempo è… finito!” “Ha ragione signora. Lei è un allieva talmente brava che l’ora è volata” dissi. Non rispose. Mi guardava interrogandosi… Continuai: “Sì, abbiamo finito la lezione” risposi scandendo bene le parole. “All right” confermò. Non capii quel termine, ma intuì che aveva capito che io ero d’accordo. “Bye bye – Arrivederci” disse rivolgendosi a me agitando dolcemente la mano destra. “Arrivederci” risposi. Scendemmo per strade diverse fino al ritrovo del campo scuola. Arrivati, si tolse gli sci, slacciò gli scarponi, mise gli attrezzi in spalla e si diresse verso un’auto grande e nera che l’attendeva. Un soggetto maschile le andò incontro. Le prese gli sci e la baciò sulla guancia destra. Durante l’operazione di carico sul tetto dell’auto, ebbi modo di guardarlo meglio. Era un bell’uomo, dell’apparente età di 50 anni, capelli brizzolati, viso regolare e abbronzato.
Vedendola andare via con quel soggetto, completamente diverso da come me lo ero immaginato, ne rimasi mortificato a livelli indescrivibili». «Mario!» l’interruppe Franz «Dovresti saperlo che non si devono importunare le donne sposate! Non è corretto, sai?» «L’ho sempre saputo! Poi… con tutte quelle altre libere!» Franz sorrise «Già! Perché mettersi nei guai quando non è strettamente necessario?» Risero entrambi di buon gusto. Poi, Mario continuò serioso. Quell’insieme agitato di sentimenti, che volevano a tutti i costi essere resi coscienti, non si placavano. «Vedi Franz, la mia parte razionale si rendeva conto che stavo sbagliando. Con tutte le donne che potevo avere a disposizione, come mai mi stavo invaghendo di una già legata ad un altro? Io che avevo sempre cercato di restare fuori da tutte le relazioni personali impegnative, mi ritrovavo, almeno per quanto mi riguardava, in questa situazione spiacevole di contrasto interno. Amare o non amare?» Franz taceva, non riuscendo fino in fondo ad immedesimarsi nel travaglio interiore che aveva investito l’amico. «Io so solo che stavi sbagliando» si limitò a dire. Mario ritenne di non doversi prolungare oltre. Capiva benissimo lo sforzo che stava facendo Franz per seguirlo in quell’intricato dedalo di sentimenti che si aggrovigliavano nel suo animo. Non volendo caricarlo di problemi, più di quanto stesse già facendo, si limitò a rispondere: «Hai ragione! Stavo commettendo il più grosso errore della mia vita». L’amico sorrise ed annuì, riprendendo la posizione di riposo con la schiena appoggiata alla spalliera della poltrona, fiero di essere riuscito a contribuire, almeno in parte, al colloquio della serata. «Dove eravamo? Ah, sì» disse Mario. «Il ritorno verso casa, visto che era la mia ultima lezione per quel pomeriggio, non fu dei migliori. Nella mia mente si offuscavano pensieri contrastanti. Per
tentare di quietare le voci, che provenivano dalla parte più profonda di me, mi fermai lungo la strada, all’osteria di Arturo. Entrai, mi diressi verso il bancone e chiesi una grappa. Il liquore andò giù bagnando lo stomaco, ma i pensieri rimasero perfettamente a galla. Ne ingerii un altro, nessun effetto. Al quinto, quei maledetti iniziarono finalmente ad imbarcare acqua. Ora tentavano disperatamente di aggrapparsi a qualche pezzo di sentimento residuo che, non avendo le stesse barbare caratteristiche, solcava quel mare di liquore. All’ottavo erano definitivamente naufragati in quell’oceano di liquido alcolico. Mi stavo lentamente riprendendo dallo sconquasso interno quando entrò Renato, il titolare dell’officina, di ritorno da una riparazione sul posto ad un turista cui non ripartiva l’auto. “Mario!” esclamò appena mi vide “sei in ritardo. Ti ho aspettato fino alle quattro. Non ti ricordi che dovevi venire a cambiare l’olio del furgone?” Mi ci vollero diversi secondi per inquadrare il problema, trovare la soluzione e biascicare: “Hai ragione! Me ne ero completamente dimenticato. Oggi, ad ogni modo, ho altre cose da cambiare. Me stesso!” dissi. L’oste ed il nuovo arrivato si guardarono, interrogandosi a vicenda, senza dire nulla. Pagai il conto e prima di uscire mi rivolsi al meccanico e dissi: “Stai tranquillo! Appena posso… hic… scusate… vengo in officina”. Renato mi fece cenno con il capo che aveva capito la faccenda dell’olio, ovviamente. Uscito, respirai due o tre volte a pieni polmoni e mi accorsi che il gradito liquore aveva acquietato anche i miei più elementari pensieri. Guidai a fatica fino a casa. La cena e la notte furono tutt’altro che lineari. La prima trovava ostruzione a livello della gola. Riguardo la seconda, chiamarla movimentata sarebbe stato dire poco. Per tutta la notte sognai Miriam e la nostra improbabile storia d’amore. Alle tre ancora non riuscivo a prendere le distanze da quella storia assurda. Poi, d’improvviso, mi venne il dubbio risolutivo: “Ma a lei, di me, importerà qualche cosa?” sussurrai. Tutto si placò. D’incanto, tutte le caselle nella mia testa ripresero il posto che di solito occupavano e nel giro di pochi minuti mi addormentai». «Oh!» esclamò Franz «Anche io, quando non riesco a dormire, penso alle cose belle che mi sono capitate e mi faccio cullare».
Mario sorrise. L’amico aveva proprio ragione. Ripercorrere le tappe della sua vita lo faceva sentire proprio meglio. “D’altronde,” pensò, “qualche cosa di buono l’avrò fatto anche io. O no?” «La mattina dopo» continuò Mario mettendo un altro pezzo di legno sul fuoco, che crepitò tutto contento «mi svegliai con un terribile mal di testa» «Capita anche a me» disse Franz. «In un primo momento il mio cervello non riusciva a capire in quale parte dello spazio e del tempo era stato collocato. Piano, molto piano, riuscì a capacitarmi del mio essere e mi alzai, delicatamente, mettendomi seduto sul letto. La testa mi girava e le gambe non volevano saperne di aiutare il corpo ad iniziare la giornata. A fatica arrivai in bagno, sostenuto dalle pareti che sembravano allontanarsi al mio aggio. Mi lavai ripetutamente il viso e rimasi per lunghi secondi appoggiato con le mani al lavandino, guardando la mia faccia gocciolante ancora di liquore. “Miriam!” esclamai e tutte quelle immagini create dalla fantasia si ripresentarono in meno di un secondo, come se il tempo non fosse scorso. La sua presenza incombeva su di me, inquietante. Dovevo fare qualche cosa, ma cosa! Continuando a rimanere con le mani aggrappate al lavabo e la testa chiusa: “Olga” dissi a voce alta. “Certo! Solo lei mi può aiutare”. Dopo essermi rasato, mi vestii, presi gli attrezzi del mestiere ed uscii da casa. Il cielo quella mattina si andava addensando di nuvole bianchissime ed un vento gelido mi colpì in faccia appena aperto l’uscio di casa. La bellissima giornata appena trascorsa, aveva lasciato spazio a quella che sembrava essere la peggiore dell’anno». Franz lo guardava perplesso. «Sì, dai» continuò Mario «Quando le nuvole ed il vento arrivano dalla direzione del Picco dell’Aquila, stanno a significare che è in arrivo una bufera. Non ti ricordi come funziona?» «Ah, sì!» rispose l’amico, mettendosi l’indice della mano destra sulla tempia. «Dicevo… anche la natura, forse inconsapevolmente, sembrava voler ostacolare il raggiungimento della mia meta. Il giorno precedente sole e Miriam. Oggi nuvole e… strano, no Franz? Le cose della vita possono cambiare nel giro di un minuto, cosa dico, un secondo. In un battito di ciglia tutto può essere diverso da
quello che era prima». L’amico taceva. Il sottile esame del tempo fatto da Mario non gli era comprensibile, per fortuna. «Arrivato al parcheggio scesi dal furgone dimenticandomi di tirare il freno a mano. Dopo alcuni istanti il veicolo iniziò ad indietreggiare. Non essendomi allontanato di molto, come un gatto quando vede la preda, saltai riuscendo a bloccarlo». Franz si fregava le mani, impaziente di sentire l’epilogo di quella storia intrigante. «Ti annoio, vero?» esordì Mario, dopo essersi concesso un attimo di pausa, sorseggiato la grappa e spalmato sulla poltrona. «No! Per niente» rispose sobbalzando Franz, ritornato da quello stato di estasi nella quale si era adagiato. In fin dei conti non era lui ad essere in subbuglio interiore e questo lo rassicurava. Solo una sana curiosità, legata al compito che si era dato, agitava il suo animo. Durante la confessione di Mario, si chiedeva spesso come si sarebbe comportato se si fosse trovato nelle stesse situazioni descritte dall’amico. La risposta che si diede fu un “no” categorico. Di sicuro non si sarebbe mai andato a cacciare in quelle situazioni per lui così lontane. «Bene» riprese Mario. «Salito il gradino della veranda, mi pulii gli scarponi dalla neve e, al momento di aprire la porta, vidi Olga che mi fissava da sopra gli occhiali da vista. Il suo viso s’illuminò di un sorriso maligno. In un primo momento non riuscivo a capire il perché di quell’atteggiamento. Poi, d’improvviso, mi ricordai, fra le varie problematiche presenti nel mio cervello, della scaramuccia avuta il giorno prima. Quello che mi spaventava di più, dopo aver realizzato la situazione, era che mi sfuggiva come avesse fatto a capire il mio stato d’animo. Sarà stata la mia faccia o tutto derivava dal quel sesto senso che sembra essere una caratteristica tutta femminile?» «Tutte e due le cose! Emma con un’occhiata riesce a leggermi dentro. Forse sarà perché la mia pelle è di carta velina?» confermò sorridendo Franz. Mario abbozzò un sorriso.
«Rimasi per alcuni secondi aggrappato alla maniglia, come un pezzo di carne alla graticola. Facendo tutti gli sforzi in mio potere, non riuscivo a proseguire oltre. Quella porta sembrava essere la linea di confine fra il mondo conosciuto e quello ignoto. Una semplice costruzione, un oggetto di legno e vetro, costituiva un limite e, nello stesso tempo, una speranza per la mia vita futura. Inaspettatamente, mentre ero ancora in piena crisi mentale, Olga mi venne in aiuto. Si alzò dalla sedia, si diresse lentamente verso di me, prese la maniglia dall’interno e, delicatamente, iniziò la spinta verso il basso. Durante il movimento di quel pezzo di ottone, sentivo aumentare la tensione fin sulla sommità». «Scusami? Non capisco!» «Dove risiedono i mali umani!» Silenzio. «Dai! La testa!» rispose bruscamente Mario. «Ooh!» esclamò Franz. Poi, abbassando il capo «Perdonami Mario, non volevo farti arrabbiare. Tu, qualche volta, parli con frasi e parole che non capisco!» A quella reazione così calma ed indifesa, il nostro travagliato cantastorie non poté fare a meno di sentirsi in colpa. Non solo stava scaricando su di un estraneo le sue problematiche, ma addirittura era contrariato del fatto che il malcapitato interlocutore non riuscisse a stargli dietro nei ragionamenti. “Strano” pensò “come noi esseri umani derelitti crediamo e vogliamo essere sempre in primo piano rispetto agli altri. I nostri problemi devono obbligatoriamente diventare un loro problema e guai a chi non capisce o non riesce ad aiutarti, rischiano la dannazione eterna”. «Perdonami Franz. Sono io che devo scusarmi con te per come ti sto maltrattando». «Non preoccuparti, Mario. Altrimenti… gli amici… cosa ci stanno a fare?» rispose inorgoglito Franz, alzando le spalle e piegando la testa verso destra. L’omone tacque. Aveva paura che quelle gocce di rugiada, che si creano sugli occhi di chi soffre o di chi è felice, potessero condensarsi tutte insieme e calarsi
fino alla laringe procurando così un fastidioso, stupendo per certi versi, squilibrio della voce. «Dai Mario, non ti preoccupare. Io questa sera sarò il tuo punching ball! Contento?» «Punching ball?» «Sì, dai! Quella sacca che usano i pugili per allenarsi! Cosa credi: solo tu sai delle parole difficili?» Mario lo guardò. Un attimo di silenzio e poi entrambi scoppiarono a ridere, come due bambini alla vista del loro cartone animato preferito. Risero così a lungo che entrambi rischiarono di rimanere a bocca aperta, visto il blocco mascellare imminente. Ripreso a fatica, tra uno sbuffo e l’altro, il tono semiserio della serata, Mario riempì il suo bicchiere e quello di Franz. Sorseggiato quel sublime nettare, la conversazione riprese. «Come ti dicevo» proseguì Mario «mentre la serratura lasciava libera la porta di muoversi, tutto era fuori posto. “Buongiorno caro”, disse Olga. “Ciao” risposi tenendo gli occhi puntati leggermente alla sinistra dei suoi. “Qual buon vento ti porta la mattina presto da queste parti” continuò gongolando. Questa volta la guardai fisso. La sua espressione lasciava trasparire un’aria di rivincita che anche il più ignaro e non coinvolto soggetto avrebbe percepito. Era talmente impaziente di vendicarsi dell’affronto subito il giorno prima che prese subito l’iniziativa. “Cerchi per caso la signora inglese?” esordì d’improvviso. “Chi io? Come mai dici così? Io… io sono venuto a vedere se c’è qualche appuntamento per la mattinata. In caso contrario… volevo…volevo andare a cambiare l’olio al fuoristrada. Sai… l’olio del motore”.
Silenzio. “Guarda caro! Non sono mica scema. Ho visto come ieri la guardavi e la figura barbina che hai fatto. Mi sembravi Alice nel paese delle meraviglie, perso com’eri in quel mondo fantastico ed irreale”. Io ti confesso non sapevo cosa fare, cosa dire. Ti giuro Franz, era la prima volta nella mia vita che mi trovavo in una situazione tale da non vedere la soluzione del problema. Capisci! Un soggetto dell’altro sesso che aveva provocato in me sensazioni bellissime che arrivavano fino in profondità e a cui stranamente non riuscivo a dare spiegazione razionale» «L’amore, caro mio. L’amore…» intervenne Franz, con aria di chi sapeva come trattare l’argomento «quella strana cosa a cui nessuno riesce a resistere. Così infiammabile che devi stare attento nel maneggiarla. Così delicata che rischi in ogni momento di romperla. Così nascosta che non crederesti mai possa capitarti di trovarla». Mario fissava incredulo l’amico. «Quando penso all’amore» continuò Franz guardando il soffitto e mimando quanto stava per dire «me lo immagino come una vetta altissima che, inconsapevolmente e fuori dal tempo, tu inizi a scalare stando molto attento a non cadere giù. Il percorso è difficilissimo, ma se riesci ad arrivare ti si aprono orizzonti immensi e non intraprendi la discesa, ma inizi a camminare in mezzo ad un prato fiorito, infinito». Mario era sempre più sorpreso. Per qualche istante, aveva temuto che Franz non potesse seguirlo, fino alla parte più profonda di se stesso. Ora, invece, dimostrava una proprietà di linguaggio e un esame delle cose sbalorditivo. Franz si era accorto delle perplessità dell’amico e: «Non spaventanti Mario. Questa fatto dell’amore me l’ha detta un professore di Lettere, che scrive anche poesie, quando è venuto a trascorrere da noi alcuni giorni di vacanza. Era così bella questa frase detta dal professore che ho subito preso carta e penna ed ho iniziato a scriverla. Ora la tengo nel cassetto del comodino e di tanto in tanto la rileggo per confermarmi se quanto ho vissuto corrisponde realmente a quello inciso in quel pezzo di carta, con l’inchiostro oramai consumato». Mario sorrise e riprese.
“Olga… hai ragione! Questa notte non sono riuscito a riposare, cosa veramente strana per me. Mi potresti aiutare?” dissi con gli occhi bassi e la voce sottile. Olga, visto che eravamo ancora attaccati entrambi alla maniglia, si staccò, mi fece cenno di entrare e di sedermi. Schiarendosi la voce disse: “Tu, caro, sei proprio un bel tipo. Grande e grosso sembri sempre così sicuro di te e ti fai spaventare dalla cosa più bella e naturale che possa accaderci». Franz strizzò l’occhio, quello buono. «Un attimo d’imbarazzo, poi ripresi il controllo di me stesso e dissi: “Hai ragione. Non so cosa mi stia accadendo. Sono attraversato da scariche di un’energia che mi è completamente ignota. Mi puoi aiutare?” dissi con tono implorante. Dopo alcuni secondi di silenzio, come per raccogliere le idee, Olga mi rispose: “Guarda Mario, la signora che t’interessa così tanto non ha preso altri appuntamenti e io non conosco nemmeno in quale albergo risiede. Stai tranquillo, appena avrò delle novità te le farò sapere. Noi donne, sai, siamo esperte in questo campo. Contento, caro?” Nel rialzarmi dalla sedia facevo fatica a tenermi in piedi. Arrivato alla porta mi volsi verso di lei, abbozzai un sorriso e dissi a bassa voce: “Grazie”. Lei rispose: “Di nulla, caro” e subito si attaccò con bramosia al telefono. Chiusi lentamente la porta dietro di me. Arrivato al mio fuoristrada, non riuscivo a trovare le chiavi… le avevo lasciate nel cruscotto! Avviato il motore sbagliai ad inserire la marcia e rischiai di finire nuovamente nella scarpata. Non sapevo dove andare. Ero completamente svuotato, incapace di volere. Bloccai l’auto in mezzo alla strada, mi diedi uno schiaffo in faccia e dissi ad alta voce: “Basta Mario! Ricominciamo a vivere! Su, dai, ripartiamo dalle cose semplici che fanno parte della tua giornata. Dai, cosa dovevi fare oggi? Ah, si! Cambiare l’olio al furgone. Forza, dai, andiamo” Soddisfatto dall’essermi ritrovato, almeno in parte, mi concentrai sulla guida e quel povero mezzo meccanico me né fu veramente grato, smettendo di lamentarsi». Franz sorrise.
«Renato! Esclamai appena entrato in officina. Eccomi qua, pronto per cambiare l’olio. “Mario” rispose sorpreso “non ti aspettavo così presto!” “Questa mattina non ho lezioni e sono venuto da te, contento?” Avevo ritrovato la mia solita verve e …» «Cosa avevi trovato?» l’interruppe Franz. «Ero ritornato ad essere ciò che ero sempre stato». «Ah, ho capito». «Renato disse: “Mi puoi attendere un minuto, Mario. Finisco di riparare questa gomma e ti cambio subito l’olio” “Non preoccuparti” risposi “come ti ho detto ho tutta la mattina libera”. Mentre aspettavo, fischiettando la mia canzone preferita sul bordo della porta dell’officina, ecco che il telefono prese a squillare. Una, due, tre… alla sesta dissi a Renato: “Perché non rispondi?” “Ah… il telefono… scusa… potresti farlo tu. Ho tutte le mani sporche e…” “Sicuro!” Risposi e mi avvicinai a quell’attrezzo che con i suoi trilli, mi stava facendo venire il mal di testa. “Pronto… questa è l’officina di Renato. Io sono il suo segretario. Può dire tutto a me, prego”. “Sei tu caro” disse una voce femminile dall’altro capo. “Olga!” esclamai. “Ma come hai fatto a…” “Noi donne, caro, abbiamo sempre le risposte a tutte le domande”, disse esplodendo in una risata fragorosa, tanto che dovetti allontanare la cornetta dall’orecchio. “Dai Mario sto scherzando” continuò. “Mi sono solo ricordata che ieri avevi accennato al cambio dell’olio e…” si fermò. “Io non riuscivo a tenere la cornetta attaccata all’orecchio, tanto era la quantità
di sangue che affluiva nella mia testa. “E?” continuai io. “E…” disse lei “devi iniziare una lezione alle dieci”. “Alle dieci? Ma… Olga… sono le nove e cinquanta! Non ti sei accorta?” “Certo, caro che lo so! Ma se non t’interessa, chiamerò qualcun altro. Anche se…” “Anche se?” insistetti. “Anche se la signora inglese ha chiesto espressamente di te “Potrei avere maestro di ieri. Quello che sembrava un po’… come sì dice… strano?” Non potevi essere che tu, caro”. Io non sapevo cosa dire, cosa fare, cosa pensare. “Ma… ma…” continuavo ripetere. “La smetti di balbettare e vieni di corsa? Non t’interessa, forse? Caro”. “Sì… no… sì… vengo subito! Falla aspettare” dissi riprendendo il filo delle mie idee. Mi girai di scatto. Renato aveva già alzato la parte anteriore del furgone, ma il cuore non se ne accorse. Salii al posto di guida, accesi il motore, ingranai la retromarcia, lasciai la frizione. Le ruote posteriori fischiarono, l’auto scese dal cric con un sobbalzo, Renato si girò di scatto. Io ero già fuori l’officina con quel povero cristo che continuava a ripetere: “L’olio Mario, l’oliooo…» Franz sorrise al pensiero di quella buffa scena e come per altri casi che avevano visto come protagonista il suo amico, avrebbe voluto esserci stato. «Il furgone ricominciò a lamentarsi, le gomme stridevano e la strada sembrava essersi dilatata all’infinito. Quelle curve, a me così care, sembravano volessero allontanarmi dalla mia meta. Serpenti neri che si arrotolavano a dismisura allungando il senso del tempo percepito. Finalmente, arrivai alla spianata del ritrovo del campo scuola. Guardai l’orologio: “Le 9 e 58. Vai!” sussurrai “sono
arrivato in tempo”. Lei era già lì. Avvolta da un completo azzurro, come il sorriso di un bambino. In testa aveva un cappello rosa, intonato con dei guanti dello stesso colore. Gli sci erano appoggiati alla spalla destra. Credimi Franz… quanto avrei voluto essere al loro posto!» Tacque. «Quando mi vide fece un cenno con la mano. Ricambiai, dirigendomi verso la costruzione dove mi aspettava Olga. Dovevo pur darmi una parvenza di professionalità. Che diamine!» «Giusto» confermò Franz. «Non era vero, amico mio. Mi comportavo in quel modo per mascherare la mia inquietudine. Capisci! Era in gioco la mia stessa esistenza, o almeno la sentivo come tale. Abituato a gestire tutto e tutti mi ritrovavo indifeso, come un pettirosso all’arrivo dell’inverno. Entrato nell’ufficio, non ebbi modo di fare o dire nulla che Olga mi prese per un braccio ed iniziò a spingermi dicendo: “Ancora qui? Dai, corri, non è bello far attendere le signore, caro”. Uscito, mi schiarii la voce e: “Scusi per il ritardo, ma… sa… l’olio…” dissi indicando il furgone. Lei mi guardò stupita, non riuscendo a capire la seconda parte della frase. “No… no… chiedo perdono! L’olio non c’entra nulla” m’affrettai a chiarire. Silenzio dall’altro lato del mondo. Mi schiarii la voce e dissi con l’ultimo sprazzo di lucidità che mi restava: “Vogliamo iniziare la lezione?” Lei mi guardò in profondità, scosse la testa guardando in basso. Rialzò gli occhi e disse: “Let’s go! – Andiamo!” Dopo aver messo gli sci ai piedi, un momento prima d’iniziare a scivolare sul manto bianco dell’inverno, si voltò verso di me e disse: “Le donne fanno sempre a lei questo… effetto?”
“No signora, solo lei” risposi tutto di un fiato» «Noo!» esclamò Franz. «Sì, ti giuro! Non so cosa mi avesse preso. Io non riuscivo a credere a quanto avevo appena detto. Forse sarà stata la necessità di liberarmi di un peso che mi opprimeva l’anima e m’impediva di pensare. Quelle parole mi uscirono così all’improvviso che non ebbi modo di fermarle. Mi sentivo uno sciocco, un pazzo sciocco». I due amici tacquero persi, ognuno per proprio conto, in quella zona d’ombra che ognuno di noi ha e in cui solo i sentimenti, agitati dagli eventi, ti permettono di entrare. «Sorry! Mi precipitai a dire. Mi scusi. Non so cosa mi sia preso. Chiedo perdono. Lei mi guardò perplessa, poi scoppiò a ridere e: “Ah, voi italiani! Sempre così… come sì dice… galanti?” Io rimasi muto. La brutta figura che avevo fatto di fronte ad una cliente mi bruciava più del vento sul viso. Miriam, resasi conto del mio imbarazzo, mi venne di nuovo in aiuto ripetendo: “Andiamo?” “Certo!” risposi e c’incamminammo verso le risalite. Rincuorato dal fatto che la signora avesse preso quella frase, venuta dal caldo del mio cuore, come un’affermazione del solito maschio italiano, presi un lungo respiro ed iniziammo la lezione. I giorni avano veloci, fra gli insegnamenti sciistici, di lingua parlata… e il mio crescente dibattito interiore. Un giorno lei mi disse a bruciapelo, mentre io mi stavo sistemando lo scarpone sinistro che mi dava dei problemi: “Tu Mario… sei interessato a me?” Rimasi bloccato in quella posizione.
Dopo un attimo? …un … non so quanto… dissi: “Mi sei entrata dentro così in profondità che senza di te la vita mi sembra non avere un inizio, ma una fine”. Lei mi guardò, sorrise con gli occhi e mi baciò. Da quel momento l’aria, le montagne, la neve, il fuoristrada, Olga… fu tutto diverso. Ogni cosa sembrava aver preso un’angolatura diversa. Giorno e notte sembravano confondersi e…» «Ma… il marito?» l’interruppe Franz. «Era ritornato in Inghilterra per ragioni di lavoro e l’aveva abbandonata… in montagna». «Oh! E Allora? Vai avanti, dai!» «Cosa vuoi che ti dica! Hai presente quei due polipi che ci sono di sotto?» «Polipi?» «Sì, dai! I due sposini!» «Ah, loro!» «Bravo! La nostra storia fu così intensa che il non vederci, anche per un’ora, era una sofferenza estrema per entrambi». Tacque turbato. «Mario?» «Sì Franz, sono qui» disse, raschiando via la saliva che si era addensata in gola, come le nuvole in cima ad una montagna prima della pioggia. Tacque di nuovo. La sua anima, o quello che restava, era in totale ebollizione. Sembrava una pentola piena di polenta dove tutte le parti di farina nonostante l’azione del mestolo, si ostinavano a ritornare a galla, spinte dal fuoco della ione. «Amico!»
Nulla, solo imbarazzato silenzio. «Ehi, Stai bene?» l’incalzò Franz. Mario, ritornando dal fondo del pentolone e con parole che con non avrebbe voluto mai sentirsi dire, riprese riluttante. «Una mattina, verso le 9 e 30, la vidi uscire dall’albergo dove dormiva, a volte, bellissima come sempre, ma il suo viso sembrava coperto da una nuvola. “Stai bene?” le chiesi. Non mi rispose. Si limitò ad ondulare la mano sinistra e la sensazione di benessere che di solito ricevevo alla sola sua vista, si tramutò in preoccupazione. “Cosa hai” insistetti. Lei mi guardò e disse avvicinandosi al mio orecchio destro: “I am pregnant sono incinta!” Gelo nell’etere. “Come… quando” balbettai incredulo. “Mario” disse sorridendo “la mamma ha… insegnato niente sulle… api… the flowers - i fiori…” Lei era stata spiritosa, ma io non avevo voglia di ridere. In testa mi si erano addensati pensieri che nulla avevano di umano. La paura era arrivata fino alle mie ossa saltando a pie pari la pelle ed i muscoli. Un’angoscia strana, mai sentita prima d’ora, si era impossessata di me e la mia anima aveva iniziato a rumoreggiare cupamente. Capisci?» Franz non rispose, poi: «No, Mario! Non ti capisco! Una cosa bella come quella che ti stava capitando…» rispose duro. Mario guardò il suo amico, tacque un istante e rispose: «Facile dare giudizi quando non sei interessato da scuotimenti interni. Anche io ora vedo la cosa come la vedi tu, ma…»
«Mario!» l’interruppe serio Franz «Posso solo immaginare lo stato d’animo di quei momenti, ma non capisco quello che ti spaventava. In ogni uomo» continuò con tono quieto «ci devono essere dei punti fermi che non possono essere modificati, neppure in quelle situazioni più… catastrofiche. Hai capito?» Mario non osò controbattere perché il suo amico aveva centrato il problema. Principi non scritti, non catalogati, ma una volta traditi ti condizionano l’esistenza terrena, forse anche quella successiva e annuì, ricambiato da Franz. «Come ti dicevo» continuò a fatica «mi ero completamente imballato, come un motore quando gli va giù troppa benzina». Franz sorrise serio. «“Mario! Mario!” ripeté Miriam con la sua voce dal sapore di zucchero, tentando di ridestarmi. “Mario?” continuò accarezzandomi la guancia destra. Mi ripresi dallo stordimento ed iniziai a balbettare sillabe, congiunzioni, aggettivi, avverbi… insomma tutta la grammatica possibile, ma priva di contenuto. “Mario” insistette l’angelo “io non capisco… I don’t understand what… non capisco cosa dici!” disse preoccupata. Al mio secondo mutismo si convinse che c’era qualche cosa che non andava e: “I love you - Ti amo” disse con voce dolce, accarezzandomi la guancia destra. Continuai a rimanere muto. “Capito! Tu volevi solo parte di me, quella che più faceva comodo!” disse con tono sprezzante. Quella frase arrivò diretta al mio interno, come una lama di gelida tramontana. Resomi conto che iniziavo a sanguinare, mi affrettai a tappare la falla e dissi: “Guarda Miriam, io sono… sono… non so… è che…” “Mario” urlò una voce maschile da lontano. “Mario” ripeté ancora più forte ed ansimante. Era Alfonso, la guida alpina che stava venendo verso di me correndo. “Mario” ripete appena arrivato nei pressi “sapevo di trovarti qui”.
Rimasi sbalordito. “Good morning - buon giorno signora” disse rivolto a Miriam, che ricambiò con un cenno del capo. “Mario” continuò “non hai sentito nulla?” “No! cosa dovevo sentire?”. “Dai! Davvero? Non ci credo! Una mezz’ora fa!” Come a il tempo, pensai. “Nulla, ti giuro! Non so nulla” Io sentivo solo i battiti isolati del mio cuore!”. “Dimmi, piuttosto, cosa è questa storia?” “Il Picco dell’Aquila, sai quello…” “Sì, certo che lo conosco, vai avanti!” risposi spazientito. “Una valanga… due persone disperse…” “Come fai a saperlo?” “Sono riuscito ad entrare in contatto radio con uno di loro. Poi la conversazione si è interrotta e…” “Ho capito” risposi risoluto “arrivo!”. Poi, rivolgendomi a Miriam, anch’essa preoccupata: “Scusi signora, oggi non possiamo avere lezione” dissi con il tono più distaccato che riuscì a proferire. Lei mi guardò sorpresa e capendo la situazione s’affrettò a rispondere: “Va bene maestro! Ci sentiamo questa sera?” Io annuii e preso sottobraccio Anselmo c’incamminammo verso il suo fuoristrada lasciato poco distante. In quel breve percorso non potei fare a meno di girarmi senza farmi troppo notare. Era ancora ferma dove l’avevo lasciata, che mi guardava andare via. Alzai il braccio destro in segno di saluto e lei mi rispose
dolcemente. “Siete una bella coppia, sai Mario!” esordì la guida. Lo guardai incredulo, sbalordito e: “Cosa dici?” “Dai Mario, lo sa tutto il paese che voi due state insieme. Cosa credi che hanno inventato quel detto sui piccoli centri abitati per caso? In ogni modo, sono contento che anche tu abbia trovato una donna con cui stai bene… a lungo” precisò. “Te lo meriti!” Lo guardai. Anselmo era un brav’uomo, uno di quelli che io ammiravo. Sposato, due figli, una casa sua, un lavoro che amava. Un’esistenza completa. Lui sorrise e mi strinse ancora più forte il braccio».
XVII - COLUI CHE E' NON SARA'
«“Ti piace proprio, eh?” esordì Anselmo dopo che io avevo ripreso la giusta direzione riguardo alla meta che mi attendeva. “Hai ragione! Non avrei mai creduto di lasciarmi così coinvolgere, io che…” “L’amore, caro mio, l’amore” disse interrompendomi». «Vedi! Cosa ti sto dicendo da tutta la serata» esclamò baldanzoso Franz «L’amore!» annuì sorridendo ed allargando le braccia. Altro attimo di silenzio, ognuno immerso nei privati pensieri. «Continuammo in silenzio fino al ritrovo delle Guide Alpine e trovammo già quasi tutti pronti. I professionisti e i volontari stavano preparando l’attrezzatura, che rispondeva con un allegro tintinnio. A quei tempi si faceva affidamento solo sulla forza delle gambe e sul nostro intuito, il tutto legato alla perfetta conoscenza della montagna. “Salve a tutti” dissi appena arrivato. Alcuni si voltarono e ricambiarono. Anselmo ed io ci dirigemmo verso i nostri armadietti, prendemmo l’attrezzatura e ci recammo al punto esterno di ritrovo. Il capo spedizione, come nelle precedenti situazioni, sul muretto che delimitava la costruzione, esordì: “Allora, ragazzi! Il fatto è grave. Quei poveri disgraziati sono andati fuori con questo rialzo della temperatura, dopo due giorni di nevicata, verso…” “Il Picco dell’Aquila” l’interruppi. “Ah, Mario” esclamò “ci sei anche tu! Pensavo che fossi con la signora in…” si fermò bloccato da un brusio ilare, arrivato dalla bocca dei presenti, ma nessuno continuò il concetto. Io capì al volo la per nulla sottile ironia e non risposi. Erano altre le situazioni che in quei momenti m’interessavano». «Lo credo bene!» disse Franz, sorseggiando la grappa e annuendo «altrimenti… sai che polverone!» disse sogghignando.
Mario sorrise. «“Allora, ragazzi” ricominciò il caposquadra “come potete immaginare, quei due alpinisti della domenica, nonostante gli avvisi del pericolo, si sono avventurati in alta montagna. Abbiamo ricevuto un loro messaggio di aiuto, poi più nulla”. “Come quello di Mario” pensò Franz sorridendo. «Cosa c’è?» chiese l’omone. «Nulla, nulla. Pensavo a quello che dicevi». «Bene!» proseguì Mario, non avendo compreso. «“Faremo tre squadre. La prima la guiderò io, la seconda Anselmo e la terza Mario”. Io annuii. “La mia” prosegui “prenderà il Sentiero del Mulo. Anselmo andrà per la Strada della Civetta. Mario, con la sua partirà, da dove hanno lasciato l’auto. Capito tutti?” chiese ad alta voce. Un brusio misto di gesti e di suoni accompagnò la fine del discorso. “Bene! Forza! Andiamo! E ricordatevi che la loro vita futura dipende da voi, non deludeteli”. “Come hai ragione” pensai. Al mio ritorno mi sarebbe toccato affrontare un’analoga situazione di cui io ero stato il solo e diretto artefice. Strano, ehh Franz, come all’improvviso sei consapevole che tutti contano su di te, che sei tu il padrone del loro destino» continuò Mario, rigirando e fissando il bicchiere vuoto tra le mani. «Io non ho mai avuto grandi situazioni da affrontare. So solo che non mi sono mai tirato indietro quando c’era da assumermi le mie responsabilità. Nel mio piccolo ho fatto sempre quello che gli altri si aspettavano da me, quello che era giusto fare» rispose orgoglioso Franz. «Già! Beato te che ci sei sempre riuscito! Ora andiamo avanti, altrimenti non la finiamo più questa sera» disse Mario con tono spazientito. «Come ti dicevo… salutai gli altri, caricai l’attrezzatura, feci salire i membri del mio gruppo, quattro in tutto, sul cassone del mio furgone e partimmo. La strada, durante il percorso d’avvicinamento, era stata interrotta da una massa di neve che si era staccata da un costone posto a perpendicolo. Iniziamo bene, pensai.
“Ragazzi” dissi “scendete! Si continua a piedi”. “Ma… Mario! Saranno più di cinque chilometri solo per arrivare al punto prestabilito e poi?” esclamò uno dei soccorritori. “Ho capito” risposi “Voi cercate di crearvi un o, io intanto mi avvio per la scorciatoia che a dietro la Casa dello Zio. Controllo se per caso lì intorno c’è traccia di quegli sventurati e poi ci vediamo al punto di ritrovo”. Non molto convinti sulla bontà delle mie intenzioni, i compagni di ricerca mi lasciarono andare, sapendo che era inutile tentare di farmi cambiare idea». «Lo so bene anche io» l’interruppe Franz ridendo. «Hai ragione! Sono un gran testone, quando mi ci metto. In ogni modo, presi la mia attrezzatura e m’incamminai su per il costone che tagliava in due il comprensorio. La bella giornata di sole splendente, si andava velocemente rovinando. Un vento gelido si annunciò all’improvviso. Raffiche violente si erano alzate da non so dove e in pochi minuti vi era in giro talmente tanta neve che si faceva fatica a vedere la punta dei guanti. Strano come le cose belle faticano ad arrivare ai nostri sensi. Al contrario quelle brutte ti piombano addosso anche se non fai nulla per cercarle. Deve essere proprio una legge fisica, sai?» «Confermo!» disse Franz, facendo dondolare la testa «la fortuna non ha occhi che per pochi, ma le disgrazie godono dei favori del loro dio». Mario lo guardò perplesso. Quella sera, il suo amico continuava a stupirlo, piacevolmente. «Dicevo…» continuò «che la situazione era diventata critica, anche per un uomo dei ghiacci come me» sorrise. «Andare avanti era veramente difficile. L’aria ti gelava anche i pensieri. Presi la radio era muta. Al diavolo, pensai. Gli altri si arrangino io vado per la mia strada. Il sentiero, già difficile in piena estate, era scomparso. Ogni o mi costava notevole fatica, visto la neve che si era addensata lungo il percorso. Dopo quattro ore di cammino in quelle condizioni ero esausto, ma continuai. Dopo un’altra ora di sofferenze, con il viso paralizzato, le mani ed i piedi che
sarebbero voluti partire per un paradiso tropicale, mi resi conto che la notte mi stava per nascondere agli occhi dei terrestri. In montagna, ti ricordi» continuò Mario indicando Franz «il buio non è proprio la condizione migliore per eggiare nemmeno in primavera, immagina in pieno inverno, con una tempesta di neve!» «Sicuro che mi ricordo! Ancora sarei lì, se il mio migliore amico non mi fosse venuto in aiuto» rispose l’oste con la gola commossa. Mario sorrise e mostrò al suo interlocutore il bicchiere vuoto. Franz prese la bottiglia poggiata sul camino e riempì fino all’orlo il calice, facendo altrettanto con il suo. Bevuto un sorso, Mario, dopo essersi schiarito la voce, riprese dal punto preciso dove era arrivato. «Forza, coraggio mi dissi dandomi due ceffoni interni. La Baita dello Zio non dovrebbe essere lontana. Se riesci ad arrivarci sei salvo. Mi dispiaceva molto per i due sventurati, che seppi poi essere stati salvati dalla squadra di Anselmo, ma in quel momento anche io ero in pericolo e dovevo pensare a me stesso. La mia testardaggine di fare sempre tutto da solo rischiava di costarmi cara. Il rischio di rimanere per sempre fra le mie montagne, incastonato fra le rocce come una stella alpina, era tutt’altro che campato in aria». Sorrisero entrambi. «Ancora uno sforzo… dai… mi ripetei e finalmente vidi quella piccola costruzione, per metà sommersa dalla neve. Vedi Franz cosa vuol dire essere previdenti! Quattro pezzi di legno, che durante la bella stagione fanno da semplice cornice allo spettacolo della natura, d’inverno riescono a dividere la vita dalla morte, la fine dall’inizio». «Proprio vero!» annuì l’amico sorseggiando il liquore. «Dopo aver liberato la porta, entrai. Il locale, composto da un’unica stanza, era come l’avevamo lasciato in autunno. Il tavolo con due sedie, al centro. La
cassapanca con la legna da ardere, accanto al camino e su di un lato la credenza, spoglia di qualsiasi suppellettile. Tremando come una foglia immersa in una cascata di un torrente di montagna, misi la legna nel camino, presi della carta di giornale ed accesi il fuoco. La fiamma non voleva saperne di liberarsi nell’aria gelida e dovetti faticare per la buona riuscita. Lentamente, ilfuoco illuminò l’ambiente. “E’ fatta” dissi a voce alta. “Domani, con il fare del giorno, tornerò in paese. Ora prepariamoci per la cena e la notte. Cena? Quattro gallette e una scatoletta di carne, ecco il mio pasto. Su, su, non fare il difficile. Non sei contento di restare ancora un poco su questa terra?” Ripensandoci, quella volta me la ero veramente vista brutta. Solamente la preparazione e la cocciutaggine che mi caratterizzava, che era poi la stessa che mi aveva portato in quella situazione, mi avevano salvato da una brutta fine. Dopo quella lauta cena… misi altra legna sul fuoco. L’ambiente si era riscaldato e provai una gradevole sensazione nello stare lì, da solo, a contemplare la fiamma che scoppiettava tutta contenta. Dopo alcuni minuti, quando il canticchiare della legna fu cessato, ascoltai il vento che aveva finito di tormentare la natura. Guardai l’orologio che segnava le nove. “Chissà Miriam cosa starà facendo e…?” sussurrai, ma per impedirmi di pensare oltre, aprii la porta e uscii. Come avevo capito il vento, dopo aver portato neve e desolazione, era ritornato nelle sue stanze ed aveva lasciato il posto ad una bellissima serata. La luna si era impossessata della volta celeste. Le stelle brillavano come in una competizione eterna fra di loro. La montagna era immersa nel suo silenzio. Rimasi ad ammirare, annusare, ascoltare quello spettacolo, ma la voglia di tornare subito indietro mi colmò la testa. “Su, via” mi dissi “adesso calmati. Rientriamo”. Mesto ritornai sui miei i, chiusi la porta dietro di me, presi l’altra sedia e vi misi sopra le gambe. Il fuoco notturno riusciva a riscaldare l’involucro esterno, ma il contenitore che racchiude tutti i nostri sentimenti non era interessato al fenomeno fisico e il pensiero ritornava insistentemente a Miriam.
Ora con tutto il tempo che avevo a disposizione sarei dovuto riuscire, o almeno tentare, di focalizzare il problema che mi si sarebbe presentato al momento del mio rientro. Un figlio! Ti rendi conto Franz? Un pezzo di Mario al suo esterno! Che cosa avrei potuto insegnargli! Che cosa avrei potuto trasmettergli! Cosa!» urlò disperato Mario, prendendosi la testa fra le mani. «Io che fino a quel momento non ero stato capace nemmeno di badare a me stesso, come avrei potuto occuparmi anche degli altri! Io che trascinavo la mia vita alla deriva, vivendo giorno per giorno, sarei stato capace di costruire un futuro insieme? Io che stavo così bene con me stesso! Che dovevo rendere conto solo a Mario, “Il Maestro di Sci”. Io che ero il solo ed unico al centro della mia attenzione avrei dovuto condividere con altri la restante parte della mia vita? Capisci?» «No!» «Come no!» «Capisco che eri spaventato, ma…» tacque, non volendo infierire ulteriormente Mario si staccò le mani dalla faccia, che lasciarono il segno delle dieci dita impresso e guardò, in un silenzio che avrebbe fatto paura anche al peggiore dei delinquenti, il fuoco del camino. La fiamma crepitava tutta contenta di essere lì in quel momento, tanto che sembrava stesse bruciando per empatia, ma si sbagliava. Mario avrebbe volentieri cambiato il suo posto con il pezzo di legno. Sicuramente il dolore sarebbe stato meno intenso e tutto sarebbe terminato a breve, solo questione di tempo. «Forse sarà la pena che devo espiare» disse ad alta voce, facendo sobbalzare l’amico «per la cosa aberrante che ho commesso». «Come Mario?» «Il dolore illimitato che mi porto dentro…» Pausa per entrambi. «Sì! Deve essere proprio così. Ne sono sicuro! E’ quello che merito!»
Tacque. «Potevo raggiungere l’immortalità, o meglio, quello che più gli si avvicinava, ma non ho saputo vedere con gli stessi lunghi occhi delle persone che calpestano questa terra». Silenzio. Le mani, le braccia, il tronco… tutto insomma di Mario, aveva ripreso a tormentare il volto, come se si volessero approfittare del fatto che non si potesse difendere. Franz, dopo alcuni istanti di perplessità, si alzò lentamente, si sedette sul bracciolo della poltrona, cinse a fatica l’omone e: «Su… dai… non fare così. Sai che mi fai stare male da morire vederti in questo stato. Soffrire non potrà riportarti indietro. Dai… finisci di raccontarmi la storia. Cerca di svuotarti da tutto il male che hai accumulato». Mario smise di graffiarsi la coscienza, tanto era fatica sprecata. Anni d’isolamento avevano creato uno spesso strato di dolore, che la sola consapevolezza della situazione non riusciva nemmeno a scalfire. Gocce, sciolte dalla sofferenza, iniziarono a scendere lungo le sue gote. Gocce infuocate che, mischiate alle lacrime, riuscivano solo a riscaldargli la pelle. Guardò con aria triste il suo amico. I loro occhi s’incrociarono, rimanendo in quella strana posizione per un tempo indefinito. Poi Mario tirò fuori il lenzuolo che usava a mo’ di fazzoletto e si soffiò rumorosamente il naso. Finito, si schiarì la voce, bevve un lungo sorso di grappa, si appoggiò allo schienale lasciato libero da Franz e riprese «Che buffo, Franz» disse scuotendo la testa. «Cosa Mario?» «Il tempo… il tempo che scorre lascia salire dal di dentro cose che, fino a pochi istanti prima, non credevi potessero arrivare fino a lì. Buffa cosa il tempo! Non credi?» Franz lo guardò fisso. Gli riusciva difficile, come aveva immaginato,
immedesimarsi in tutte le situazioni prospettate dal suo amico. «Certo Mario, sono d’accordo con te! Vai avanti!» rispose. «La notte ò abbastanza velocemente, facendo lo slalom fra le sofferenze fisiche e quelle mentali. Il mattino dopo mi preparai per la discesa. Indossata l’attrezzatura, m’incamminai lungo il sentiero. La neve, gelata dal sereno notturno, splendeva sotto la luce del sole, come gli occhi di Miriam quando s’incrociavano con i miei, se non altro fino al giorno prima!» Franz sorrise. «Arrivato a fatica fino al mio fuoristrada, lo accesi ed arrivai in paese. Al punto di ritrovo tutti erano indaffarati nella preparazione della mia ricerca. Arrivato nei pressi mi attaccai al clacson, facendo sobbalzare i più vicini. Tutti si girarono e nel vedermi rimasero così stupiti da restare immobili, come statue di ghiaccio al termine della notte. Dopo alcuni attimi di puro stupore, Anselmo si diresse verso di me. Abbassai il finestrino e dissi: “Ciao amico. Stupito di vedermi?” “Ci hai fatto venire un colpo” rispose. “Ma con chi credete di avere a che fare. Queste sono le mie montagne, questa è la mia neve e questo, dissi indicando il panorama, sono io…” Anselmo sorrise e disse: “Sei il solito!” Mi affacciai dallo sportello e dissi: “Grazie a tutti per quello che avete fatto o che volevate fare. Scusate. Ora ho da fare.” Chiusi il finestrino e mentre mi dirigevo verso l’hotel dove alloggiava l’altra parte di me, guardai il retrovisore. Erano rimasti tutti immobili nel guardarmi andare via così, come se nulla fosse stato. Arrivato all’hotel della mia Miriam, parcheggiai il mezzo al solito posto, dietro la facciata principale, di lato all’uscita di sicurezza. Bussai e mi venne ad aprire l’assonnato custode. Era l’unico che, pur avendo capito la situazione, sembrava non esserne minimamente interessato. “Ciao Mario” mi disse “la signora ancora dorme. Devo andare a svegliarla?”
“No” risposi “vado io. Voglio farle una sorpresa” ma le mie parole non erano in sintonia con quanto sentivo dentro. Entrai di soppiatto, come se il calpestio dei tappeti mi potesse annunciare alla mia amata. Ero talmente teso che, arrivato davanti alla porta della camera, non avevo più aria nei polmoni. Avrei voluto camminare sospeso nell’aria per non rischiare di farmi sentire e…» «E?» «…e dover affrontare l’argomento che m’incideva l’anima, più del freddo sentito nei miei lunghi giorni di lezioni all’aperto. Come si sarebbe svolta la conversazione interrotta dal precipitare degli eventi? Come affrontare quel fatto così delicato, io che mi muovevo come un elefante in un negozio di cristalleria! Come risolvere quella situazione che avrebbe cambiato per sempre la mia vita? Bussai delicatamente e rimasi immobile di fronte alla porta, piantato come un abete in cima ad una collina arsa dal vento e dal freddo. Un leggero cigolio annunciò l’inizio della fine e il mio cuore fu colto da una violenta fibrillazione, tanto che sembrava volersene uscire per migrare in un altro corpo, sicuramente più tranquillo. Miriam alzò la testa alla vista dei miei freddi scarponi a pochi centimetri dalla porta che, fino a pochi istanti prima, ci divideva. Le nostre pupille si livellarono sulla stessa linea, obliqua. Un istante di sbalordimento e Miriam esclamò: “Mario!” Gettandosi sopra di me fino a farmi cadere. Il pavimento di legno attutì il peso dei nostri corpi. “Mario!” Ripeté stringendomi fino a farmi mancare il respiro. “Mario!” Continuò con la gola bagnata. “Sì Miriam, sono io” dissi sicuro. Lei mi rimase ancora alcuni secondi avvinghiata, incapace di esprimere, almeno con parole, la gioia che provava nel rivedermi. Lentamente, asciugandosi gli occhi, si staccò dal mio petto, si mise in ginocchio e, con lo sguardo d’angelo che aveva, mi disse: “Mi hai fatto prendere uno… uno spavento grandissimo. Io ho avuto tanta paura di perdere te. Sai?” “Ti chiedo scusa, cara. La neve mi ha colto di sorpresa e… non potevo fare altrimenti. In ogni modo, eccomi qua! Contenta?”
“Certamente che sono contenta! Contentissima di vederti!” Dicendo così, arricciò ancora di più il nasino che già si rivolgeva verso il cielo. Era il suo modo di trasmettere all’esterno la sua felicità. “Vieni” disse prendendomi per un braccio e tentando di rialzarmi. A fatica mi misi in piedi, ma devo dirti, caro Franz, che quello che più ostacolava questa manovra non era la stanchezza o i miei anni ati, bensì il terrore di quello che sarebbe capitato lì a poco». «Non capisco» rispose l’amico. «Come ti dicevo… aspetta e vedrai. Rimessomi in piedi, iniziò a tirarmi delicatamente, come si fa ad un bambino che ha paura di andare dal medico. Entrati, ci accomodammo sul letto. Ci guardammo a lungo, muti nei nostri pensieri, come ad aver paura di rivelarli, non solo agli altri. “Stai bene?” le chiesi, tanto per tentare d’incrinare quel sottile velo di cristallo che ci divideva. “Io mi sento very well - molto bene, anche se questa mattina ho… come sì dice…” e fece il verso con la mano destra del percorso inverso del cibo. “Vomitare!” dissi, ripetendo il gesto. “Yes” rispose annuendo. “E’ normale… nelle tue condizioni!” esclamai. Lei non rispose. In compenso, mi abbagliò con uno dei suoi sorrisi che mi aprivano in due longitudinalmente». Franz lo guardò perplesso. «Così, dall’alto in basso» mimò Mario. «Ah… sì… come quando si apre una mucca al macello». «Proprio in quel modo. I suoi occhi, dicevo, mi arrivarono talmente dentro, che sembravano essere una montagna d’acqua mentre rompe una diga di cemento
armato. “Senti Miriam” dissi abbassando lo sguardo e respirando lentamente come ad aver timore anche dell’aria… sai come quando esci di casa dopo una lunga influenza ed hai paura ti possa riprendere subito la febbre». L’amico confermò l’intendimento con il solito gesto muto della testa. «“Senti Miriam” ripetei lentamente “riguardo al discorso che avevamo iniziato ieri mattina, io… io…” “Dimmi Mario” rispose prendendomi entrambe le mani. “Ecco io… questa notte… ho pensato molto alla bella storia tra noi due, ma ora? Come sarà da ora in poi! Il paese… tuo marito… la nostra vita futura… in quale modo riusciremo a gestire tutta questa situazione!” “Io ti voglio bene - I love you” rispose con voce supplicante. “Sì… lo so… anche io te ne voglio, ma… tutte queste situazioni come…” Lei taceva. Alzai lo sguardo. I suoi occhi avevano smesso di emanare energia buona e si erano ricoperti di uno strato di consapevolezza della situazione. “Capito” disse sprezzante “tu non vuoi bambino. “Tu” continuò lasciandomi le mani e puntandomi il dito indice della mano sinistra “non ami tutta Miriam, solo il … il corpo!” Rimasi pietrificato. “No problem - Non c’è problema” continuò “cosa vuoi fare?” Tacqui in preda alla confusione più assoluta. “Capito!” continuò mettendosi di fronte alla finestra: “You want me to abort!” “Come? Non ho…” Si voltò. La sua immagine era in chiaroscuro, illuminata alle spalle dal sole che entrava nella stanza.
“Tu vuoi che io… butti via bambino!” Tradusse, mentre due grosse gocce iniziavano a scendere da quegli occhi color del cielo sereno. Era quello che io volevo senza avere il coraggio di confessarmelo, ma detto in quel modo, dalla persona che amavo più di me stesso, in quella fredda stanza d’albergo, credimi, mi fece arrestare, per un attimo, tutte le funzioni vitali». Mario si bloccò. «Sai Franz» continuò quando le reazioni emotive si furono attenuate «quello che mi faceva star male veramente era che quell’atmosfera magica, irreale, che si era creata tra noi, si stava dissolvendo, come nuvole basse che, riscaldate dal sole, si mescolano all’aria. Ora non eravamo un unico essere, ma due entità distinte per ruoli e per sesso. Ora non avevamo più una visione della vita comune, ma due modi di rapportarsi completamente diversi. In sostanza, eravamo ritornati ad essere due individui pensanti». Pausa. «“Io… io… non… non” balbettai, colpito a morte da quell’affermazione così diretta al nocciolo del problema da non poter essere fraintesa. “Vai a prendere pick-up, andiamo in città” disse ferocemente. Restai alcuni attimi in attesa che il mio cervello mi dicesse quello che dovevo fare, ma niente, nessuna attività. “Mario!” sibilò “mi metto giacca a vento e spetto te alla hall. Move!” Detto questo, ò velocemente vicino al letto dove ero ancora seduto. Prese dall’armadio la giacca a vento e, dopo avermi dato un’ultima truce occhiata, s’incamminò lungo il corridoio. Attesi alcuni attimi, incapace di comprendere appieno la situazione reale esistente in quel momento. Poi, come un automa mi alzai, guardai la stanza vuota, uscii e richiusi la porta delicatamente dietro di me. Lei già mi attendeva seduta su di una poltrona vicino all’uscita. Al mio arrivo non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Uscendo ai davanti al portiere che accennò un breve saluto, nulla più.
Raggiunto il furgone, lo accesi e mi fermai davanti all’ingresso principale. La vidi uscire, tirarsi su il bavero e, senza pronunciare sillaba, sedersi al posto del eggero e dire: “Let’s go! – vai!” “Dove devo andare?” chiesi con un filo di voce. “Vai!” ripeté stizzita senza voltarsi. Ingranai grattando la prima marcia e lentamente iniziai la discesa verso la città. Per tutto il percorso tentai d’incrociare i nostri occhi, ma niente da fare. I suoi erano attirati dal parabrezza anteriore, come un ago dalla calamita. Arrivati davanti alla struttura ospedaliera disse, continuando a non guardarmi: “Wait here - aspetta qui” mimando il pensiero. Non risposi, spensi il motore e attesi in silenzio mentale. Non mi ricordo quante ore arono, tanto che il tempo sembrava essere scomparso. Il tempo... eh Franz... il tempo… D’improvviso lo sportello si aprì, mi girai. Era lei, pallida come un cadavere di fresca nomina. “Go!” disse con un tono che non ammetteva repliche o fraintendimenti. Il percorso di ritorno fu la copia del primo. Arrivati davanti all’hotel, lei fece per scendere quando io abbozzai un: “Miriam…” “Shh!” disse mettendosi l’indice sinistro trasversalmente alle labbra. Scese senza dire una parola, senza guardarmi e richiuse sbattendo con tale violenza lo sportello che credevo si staccasse. La seguii con lo sguardo mentre a fatica saliva le scale dell’hotel. Scomparsa, ripartii, annientato dagli eventi che mi avevano completamente travolto, come fa un torrente di montagna al momento del disgelo della neve con tutto quello che incontra. Il percorso fino a casa fu interminabile, come se il furgone avesse più peso di quando era partito. Completamente in balia degli eventi, arrivato lasciai cadere la tuta che avevo indosso dal giorno prima, mi buttai sul letto e cercai di riposare, ma senza successo. Gli avvenimenti di quei due giorni si erano talmente attaccati a me che non volevano lasciarmi andare. Ovviamente la parte da padrone la
faceva il piccolo Mario!» «Il piccolo Mario?» esclamò Franz. «Era il nome che in sogno avevo dato a quel mucchietto di cellule! Riuscivo a vederlo nascere, crescere e…» Lacrime. «Vedevo Miriam raggiante che tenendo per la mano il nostro bambino, veniva a trovarmi sulle piste di sci dopo il termine delle lezioni e…» Singhiozzi. «Miriam era una signora bellissima, ammirata da tutti. Nei momenti liberi, tenendoci a braccetto, andavamo in giro, per il paese e tutti si giravano per guardare il suo pancione, la nostra unione e…» Rantoli. Mario riprese la testa fra le mani. Chinato su se stesso, non riusciva a fermare il fiume interno dei sentimenti che privi della naturale protezione della coscienza, andavano a mischiarsi con la polvere del pavimento di legno. Per la seconda volta Franz si alzò dalla sua postazione, prese il fazzolettone, lo porse a Mario e riempì, per ben tre volte, il bicchiere di grappa. «Dai Mario, non ti annientare così. Fatti forza! Tutto è ato. Dai…» andava ripetendo Franz con l’unico mezzo a sua disposizione. L’omone lentamente riprese il controllo. Si soffiò il naso, si asciugò il viso, si appoggiò alla spalliera e disse: «Scusami Franz! Non so cosa mi sia preso questa sera». «Te la senti di continuare?» rispose l’oste «Credo che tu sia alla fine del tuo racconto e…» «Hai ragione! Mai lasciare le cose a metà». Franz sorrise, si versò l’ennesimo bicchiere di grappa e, guardando la bottiglia, si rese conto che l’aria aveva preso quasi totalmente il posto del liquido.
«Urca!» esclamò. Mario accennò un velato sorriso e, raschiando la gola, si affrettò ad arrivare alla fine di quella tortura che, diversamente dalle premesse, si stava rivelando poco salutare. «Il mattino successivo mi svegliai stanco e confuso. A fatica mi preparai ed uscii. Il cielo era privo di nuvole. La brutta giornata ata aveva cambiato il suo vestito con uno completamente diverso. Finalmente, pensai, anche il tempo si è reso conto che oggi dovrà essere clemente con noi miseri mortali. Sorridendo, accesi il furgone che si diresse, manco a dirlo, all’albergo di Miriam. Non avevo minimamente idea di cosa dire o fare una volta che l’avessi incontrata. “Basta!” dissi a voce alta “ciò che conta è rivederla e tutto si sistemerà”. Ma durante tutto il percorso questo dubbio mi fece sempre compagnia. Arrivato di fronte all’hotel, posteggiai il mio automezzo dinanzi all’ingresso principale. Nella hall incontrai Kurt, il portiere, intento a scrivere. “Buongiorno” dissi. “Ciao Mario” rispose alzando appena gli occhi. “Se cerchi la signora inglese non la troverai. E’ partita questa mattina presto… molto presto”. Un attimo di silenzio, poi: “Come… dove… quando” balbettai. “Mario! Sei sordo? Ti sto dicendo che non è più qui, se né andata e non chiedermi dove” tagliò corto. Rimasi con il piede sinistro incollato al primo gradino delle scale che portavano alle camere ripetendo: “Ma… come… perché…” e così via. Dopo secondi d’indiscutibile caos mentale, riuscii a comprendere che quella che io ancora consideravo l’altra parte di me non esisteva più, non era più con me, vicino a me, dentro di me». Tacque. «Scusami Mario, sarò cattivo… ma davvero credevi che lei sarebbe rimasta lì, ad
aspettarti, dopo il male che le avevi fatto?» esplose Franz. «Ma io… veramente… pensavo…» «Mariooo!» lo redarguì severo Franz «Eri convinto di poter cancellare le cose cattive con un sorriso? Forse se il fatto fosse stato meno grave… si poteva anche rimediare, come accade in tutte le coppie. Questa volta però…» «Hai ragione Franz» rispose Mario, ritornando ad abbassare lo sguardo per l’ennesima volta «il mio… io mi sono portato via… tutto» confermò distrutto. Tacque di nuovo. Le parole erano terminate, la grappa quasi, le emozioni... infinite.
XVIII - COLORO CHE SARANNO
Entrambi i protagonisti di quel particolare teatrino tacevano, riflettendo sulle parole dette, pensate o solamente sul solo fatto di essersi trovati lì, in quella fredda notte autunnale, a dividere le gioie e le ioni. Il fuoco bruciava stanco, non riuscendo più a risvegliare le coscienze che, adattatesi alle mutate condizioni climatiche, si erano sopite dopo essere arse ininterrottamente per tutta la serata. Un brivido venuto dal profondo risvegliò Mario dallo stato di coma emotivo in cui era caduto. Si guardò intorno. Niente sembrava essere allo stesso posto come ad inizio serata. Più ruotava lo sguardo, più era frastornato dalla situazione finale e le buone intenzioni di Franz non sembravano aver avuto l’effetto sperato. La sua mente era talmente offuscata da quel rimescolarsi di sentimenti e di turbamenti, che gli sembrava di essere un povero cristo, seduto a metà sulla sua bicicletta, in mezzo ad una pianura piena di nebbia, incerto su quale strada prendere. «Mario!» esclamò Franz, facendolo sobbalzare «Mario!» dovette ripetere. Al terzo “Mario”, l’amico lo guardò fisso, incapace realizzare situazioni o linguaggi di qualsiasi tipo. «Sì Franz, sono qui con te» rispose mesto «anche se in questo momento mi sono perso e non riesco a ritrovarmi». «Io sono qui per questo! Cosa credi che ti lasci affogare in te? Bell’amico che sarei!» Mario sorrise pensando al fatto che l’oste fe battute che non ti saresti mai aspettato. «Dai!» continuò Franz con la lingua ingrossata dall’alcool «Finiamo la grappa, altrimenti evapora» disse alzando la voce.
Riempito che ebbe i bicchieri, con quelle ultime gocce rimaste, si sedette sulla solita spalliera, guardò l’omone perso, e facendo tintinnare i calici: «Brindo all’uomo che questa sera ha capito finalmente… spero… che...» tacque, non per una pausa riflessiva, bensì per effetto diretto del liquore stava ripresentandosi «… che…» continuò «… evviva gli sposiii» esclamò, alzando verso un punto del salone il contenitore trasparente e bevendone senza respiro il contenuto. Mario, dopo un istante di comprensiva sorpresa, l’imitò tracannando il compagno liquido della serata. «Evviva!» disse ad alta voce ed esplodendo in una sonora risata liberatoria. Si guardarono per un attimo, poi entrambi si alzarono ed iniziarono a ballare, tenendosi a braccetto. Dopo alcuni minuti di frastuono assordante, un grido di una voce femminile li riportò entrambi, alla realtà. «Ma siete diventati matti! Fate un tale baccano, che tutti di sotto si stanno chiedendo se è iniziata la festa del Santo Patrono nel mio appartamento!» gridò Emma apparsa sulla porta del tinello. I due, sorpresi come bambini a rubare marmellata, s’interruppero di colpo, raschiando le rispettive gole. La signora, ora che la baraonda si era arrestata, notò le strane facce dei protagonisti. Quella di Franz bagnata dal liquore. La corrispondente di Mario talmente inondata dai ricordi da sembrare una zattera alla deriva nel mare della vita. «Ciao Emma» biascicò Franz, salutando la moglie con un gesto della mano, non riuscendoci con l’occhio buono «Non ti preoccupare! Qui stiamo bene, tutti bene» disse lasciandosi cadere come un sacco di patate su una delle poltrone. «Scusami! La colpa è solo mia. Ho trascinato io Franz in questa situazione e me ne dispiace» rispose Mario sommessamente. La signora quietò il suo impeto. Il tempo ato insieme si era stampato sulla loro faccia, come l’inchiostro sulle rotative. Un secondo sguardo, unito ad un’annusata dell’aria, bastò ad Emma per catalogare la situazione esistente.
«Non ti preoccupare. In casa nostra sei sempre il benvenuto, ma tu» sibilò rivolta verso il consorte «smettila di bere! Non vedi come ti sei ridotto?» «Ridotto?» Franz si guardò interrogativo «Ma se sono sempre della stessa misura!» e scoppiò a ridere, trascinando l’amico e anche la signora. Finito a sprazzi, Emma si rivolse verso quello dei due che sembrava meno brillo e disse: «Vieni Mario! Lasciamo che il liquore se ne vada via». Mario la seguì poi, arrivato alla porta, si volto verso il suo amico che aveva assunto una strana posizione. La gamba destra era a cavallo del bracciolo dello stesso verso. Quella sinistra, leggermente piegata, appoggiava in terra e sembrava reggere tutto il peso, attirato in basso dalla forza di gravità. La mano destra abbracciava la spalliera, quasi a voler aiutare la gamba opposta. Il braccio sinistro era supino, come se volesse prepararsi ad un’iniezione… “Di vita?” pensò. La testa, poi, pendeva in direzione del pavimento, tanto che sembrava volesse tirare fuori tutto quanto aveva dovuto ingerire, suo malgrado. Dall’occhio destro, quello buono, iniziava a scendere una lacrima che si andava, a mano a mano, ingrossando fino che, colma di liquore e di dolore, cadde sul pavimento, lasciando una piccola chiazza opaca, che sarebbe rimasta per il tempo a venire. «Grazie amico mio» sussurrò, mentre lasciava quella stanza che riempita dalle sue sofferenze emanava un odore ripugnante. Arrivati di sotto, si diressero senza degnare di uno sguardo gli avventori, verso l’uscita. Mario aprì la porta, fece un o verso l’ignoto quando Emma: «Fino a quando puoi sentire il mare… fino a quando puoi toccare il vento… fino a quando puoi annusare il sole: VIVI!» Mario restò sbalordito e, per alcuni istanti, fu incapace di reagire, poi: «Scusami, ma credo di non aver capito cosa…» «Hai capito bene, invece! La vuoi smettere di vivere nel ato! Quella è roba morta e sepolta! Hai ancora anni da are su questa terra, vedi di non rovinarteli vivendo solo in funzione dei ricordi. Potevo far così… dovevo essere cosà… e via di questo o. Capito?» terminò con tono energico. «Grazie Emma, me ne ricorderò» rispose abbassando gli occhi e rivolgendosi
verso l’uscita: «Ringrazia Franz per la bella serata». «Va bene! Però ricordati quello che ti ho detto!» Mario non rispose, limitandosi a salutare con il braccio destro messo sopra la testa. Fatti pochi i indossò il giaccone e si mise il berretto, che aveva raccolto, ma non si ricordava quando, prima di uscire dalla taverna. “Tutti filosofi questa sera” pensò mentre s’incamminava verso il furgone. “Hanno sempre la risposta immediata per tutte le situazioni, beati loro! Vivere! Puah, più facile a dirsi che a farsi”. «Mario!» esclamò una voce femminile, dopo che ebbe percorso una cinquantina di metri. L’omone si girò alla sua sinistra. «Mario!» continuò la voce. «Chi sei?» chiese, dirigendosi verso la fonte del suono. «Sono io! Non mi riconosci!» «Ingrid? Cosa dia… cosa ci fai, qui, a quest’ora, tutta sola!» esclamò sorpreso. «Aspettavo te» rispose a bassa voce. Mario, che nel frattempo era arrivato nei pressi, vide Ingrid, raggomitolata su se stessa, seduta al centro di una panchina. Aveva una cuffia di lana calata sulla testa, il cappotto che la copriva interamente, le gambe e le braccia conserte al corpo e il capo abbassato. «Aspettavi me? Per fare cosa!» rispose sorpreso. «Volevo… volevo rivederti, per continuare la conversazione di questa sera. Vuoi?» disse con un tono così supplichevole che nessun essere umano dovrebbe usare per esprimersi. Mario rimase in piedi dinanzi a lei, incapace di realizzare pensieri e predisporre comandi appropriati alla situazione. «Vuoi sederti?» chiese di nuovo Ingrid, mimando il gesto e mettendosi di lato sul
sedile, già di per se ampio per due persone. «Vuoi?» continuò dolcemente. Mario, dopo un lungo attimo di stupore, misto a curiosità, si sedette a debita distanza dall’ennesima interlocutrice della serata. Da buon montanaro com’era gli era vietato lasciare un essere vivente senza aiuto, sulle alte vette. Dopo attimi d’imbarazzo per entrambi, fu Ingrid soffiare sul sottile, ma denso, strato di nebbia che li divideva: «Come è andata la serata?» esordì. «Abbastanza movimentata. Sembrava che alla taverna di Franz si fossero dati appuntamento tutti gli abitanti del paese, nessuno escluso!» La signora abbassò gli occhi. «Escluso te, naturalmente!» si affrettò a correggere. Voleva aiutare la ragazza di un tempo ad uscire da quello stato di frustrazione nella quale sembrava essere caduta. Al momento, però, era lui che sentiva in pericolo la sua esistenza e questo gli impediva, come in altri casi, di pensare interamente all’altrui salute. Era stanco, provato dagli avvenimenti della serata e non vedeva l’ora di tornare a casa dove, di sicuro, la coscienza si sarebbe acquietata, permettendogli finalmente di riprendere la sua solita vita fatta di lavoro, casa, taverna. Il rispetto per gli altri, però, gli impediva di soprassedere a quel grido di aiuto che Ingrid gli aveva lanciato e, nonostante fosse in riserva di emozioni, disse: «Cosa fai di bello nella vita? Ho saputo che sei in pensione. Beata te! Io devo ancora lavorare, se voglio mantenermi e quei pochi risparmi che mi sono messo da parte mi aiutano solamente per le emergenze. In generale però… non mi lamento, anche se gli acciacchi della vecchiaia iniziano a farsi sentire». Ingrid guardò Mario in controluce della fioca luce della lampadina pubblica, ma la scarsa illuminazione non le impedì di afferrare quel salvagente. «Sei sempre il solito! Non perdi mai occasione per aiutare gli altri e questa è una delle cose che più mi piacciono di te. Hai ancora l’ingenuità di un bambino che crede in Babbo Natale. Ti prego... non cambiare mai» disse con un tono di voce che avrebbe fatto invidia a tutte quelle mamme che cercano di addormentare i piccoli.
Mario restò aggrappato a quelle parole dolcissime, dette a tarda sera, da una persona riapparsa sul palcoscenico della sua vita solamente da poche ore. Dopo un attimo d’imbarazzo l’omone rispose: «Mi hai guardato bene? Sono solo un acido ed intrattabile vecchio, senza più futuro, che vagabonda per vie oscure, incapace di trovare quella giusta». Tacque. Le emozioni, che per alcuni minuti si erano sopite, ripresero a borbottare, come una pentola piena d’acqua prima d’iniziare a bollire. «Ti sbagli!» se ne uscì con impeto Ingrid «Anche se non ce ne rendiamo conto» riprese poi con un tono dolcissimo «la “favola della vita”, che ci fa sognare dentro, non smette mai di essere tale». Mario la guardò. Il viso sembrava emanare una luce propria, irreale. O era soltanto il risultato che i suoi occhi si erano abituati all’oscurità? Ingrid continuò: «Andare indietro non si può, ma la strada è libera davanti a noi». Mario taceva, riflettendo sul fatto che, quella sera, tutte le persone importanti incontrate avevano dimostrato caratteristiche a lui prima sconosciute. «Vedi Ingrid, forse hai ragione a dire queste cose, ma con il are degli anni mi sembra di essere diventato un albero di pianura, sai quelli pieni di frutti maturi, che attendono solo d’essere mangiati». Ingrid annuì. «Liberandosene, si rilassano, sgranchendo i propri rami. Sembrano che vogliano dire “Abbiamo adempiuto al compito che madre natura ci ha affidato ed ora lasciateci godere la nostra esistenza ... in pace”. Ecco! Io mi sento come uno di loro, anche se purtroppo credo di non aver dato molti prodotti a questa terra» concluse mestamente, rivolgendo gli occhi verso le mani, che aveva iniziato a tormentare. Entrambi tacevano, turbati.
Raschiandosi la gola, Ingrid riprese il filo del discorso. «Sai Mario» disse appoggiando la mano destra su quelle di lui e ritirandola istantaneamente «io credo che non sia importante vivere come volevi, ma morire come avresti voluto». Pausa. «Nessuno è perfetto! Tutti noi, nel corso della nostra vita, commettiamo errori di cui ce ne rendiamo conto solo dopo che sono accaduti e allora? E’ nella natura di noi essere umani non essere perfetti. Hai mai visto nessuno non fare sbagli? No! E allora? La natura… la natura ci ha dato questo dono perché vuol farci provare emozioni anche dagli errori. Pensa Mario! Sai che noia ci sarebbe se tutti ci sentissimo pienamente realizzati! Saremmo tante macchine che andrebbero avanti immerse nell’oblio artificiale costruito dalla ragione. Devi farti trascinare dal fiume della vita, non tentando mai di risalirlo altrimenti rischi di essere travolto. Non ti pare?» Mario smise di straziarsi gli arti superiori. Guardò fisso Ingrid e poi: «Ciao. Si è fatto tardi. Devo andare» disse alzandosi. Fatti alcuni i verso il fuoristrada, una voce, rapidamente commossasi, esclamò: «Ricordati Mario che la solitudine non deve essere fine a se stessa, ma solo un mezzo per riappropriarsi... di se stessi!» Era Ingrid, che alzatasi in piedi, aveva lanciato il suo ultimo, disperato, grido. L’omone istintivamente si fermò e si girò guardandola in silenzio. «Possiamo fare l’ultimo pezzo di strada insieme?» continuò l’ultimo ospite della serata. «Ma se…» rispose Mario indicando il lato opposto al suo destino «…why not perché no!»
Ringraziamenti
a Patrizia, Riccardo e Andrea,
le altre parti di me