Riccardo Berardelli
L'angolo buio
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Indice
Citazioni Prologo Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16
Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Capitolo 20 Capitolo 21 Capitolo 22 Capitolo 23 Capitolo 24 Capitolo 25 Capitolo 26 Capitolo 27 Capitolo 28 Capitolo 29 Capitolo 30 Capitolo 31 Capitolo 32 Capitolo 33 Capitolo 34 Capitolo 35 Capitolo 36 Capitolo 37
Capitolo 38 Capitolo 39 Epilogo
Citazioni
“Eppure, guardando quella brutta immagine allo specchio, non provavo alcuna ripugnanza, ma un moto di soddisfazione. Anche questo ero io.” . Robert Louis Stevenson
“Ogni uomo nasce gemello, colui che è, e colui che crede di essere.” . Martin Kessel
“C'è un posto dentro te in cui fa freddo è il posto in cui nessuno è entrato mai.” . Luciano Ligabue
Prologo
L’alba vista dalla Torre era sempre qualcosa d’indescrivibile. Le grandi vetrate dello Skyline Dining and Conference Center incorniciavano lo spicchio di sole che affiorava dall’oceano, inondando di colore tutto il panorama. La cucina era chiusa, ma non erano lì per mangiare, c’era un cadavere, ed iniziare il turno così, per quanto fosse il fondamento del loro lavoro, non era mai di buon auspicio. Marcelo guardava i colori dello sfondo variare lentamente e cercava di immagazzinare almeno una piccola parte della tranquillità che quell’immagine trasmetteva. Fra poco l’indagine sarebbe entrata nel vivo e non avrebbe più avuto tempo di meditare, c’era un assassino da trovare, anche se non sembrava un grosso problema, non stavolta. La vittima era un certo Ivan Drakovic, serbo, regolarmente negli Stati Uniti da tre anni, lavorava come aiutante di cucina allo Skyline da tre mesi e, a detta dei colleghi, era una brava persona, un buon lavoratore, attento, veloce e sveglio, nulla di cui lamentarsi. Era stato trovato con la testa spaccata davanti all’ingresso di servizio del locale. Il suo aggressore lo aveva colpito da dietro con un oggetto pesante ma Ivan, prima di cadere, era riuscito a far scattare l’allarme, impedendo all’uomo di completare il suo lavoro. Le telecamere di sorveglianza avevano ripreso tutto ed ora bastava rivedere le immagini per identificare l’aggressore e portare a termine il loro compito. Sembrava facile, forse troppo, ma sapeva che l’impulso e la rabbia facevano commettere gravi errori e dimenticarsi delle immancabili telecamere era uno dei più frequenti. “Abbiamo i video” disse una voce alle sue spalle. Marcelo si voltò ed incontrò lo sguardo dolce di Elisabeth che lo fissava con un dvd in mano.
“Ottimo” rispose, “ci serve un lettore.” Elisabeth fece un cenno con la testa e si voltò, avviandosi verso l’ingresso. Marcelo la seguì, dando prima un’ultima occhiata al panorama. Lasciarono l’immensa vetrata e seguirono la linea retta fra i tavolini che, vuoi per le tovaglie nere con piccoli decori bianchi centrali, vuoi per le candele perfettamente allineate al centro di ogni tavolo, ricordavano a Marcelo la pista d’atterraggio dell’aeroporto Isla Grande, ricostruito per adattarsi a dei micro modelli d’aereo. Entrarono nel corridoio che ospitava l’ingresso degli spogliatoi e si diressero verso l’ufficio del responsabile. Raggiunsero una piccola stanza che non sembrava l’ufficio direttivo di un locale come quello e, in effetti, non lo era. Qui incontrarono McDolan, Ronald McDolan, nome volontariamente assonante con quello del suo ben più famoso concorrente. Roland era un ometto piccolo e grassoccio, più portato ad essere un cliente del suo quasi omonimo che non un rivale commerciale. Un ampio ciuffo di capelli biondi, spaventosamente finti, gli ricadeva sull’occhio destro rendendolo la parodia gastronomica di Capitan Harlock, ma il giallo intenso che esibivano, unito al rosso della divisa, lo riportava sulla strada intrapresa dal nome. “Signor McDolan, il detective Morales” disse Elisabeth. Marcelo lesse la targhetta col nome appuntata sul petto, poi tese la mano, ottenendo una flebile e umida risposta. Guardò la collega e, dallo sguardo, capì che aveva fatto mentalmente il suo stesso pensiero, ma non commentò, limitandosi ad un sottile quanto eloquente sorriso. “Lei è il direttore?” Chiese Marcelo. “Non proprio il dottore è a Miami per una conferenza e il signor Lexton, il suo vice, era fuori città per affari, ma sta tornando. Poi ci sarebbe il signor Wood, ma oggi è in malattia. Per il momento faccio io le sue veci.” Marcelo annui perplesso, non conosceva il signor McDolan, ma, per istinto, non gli avrebbe mai affidato le redini di un locale, specie se di quella portata. Lasciò da parte le sue opinioni personali e si riconcentrò sul caso. “Dovremmo visionare un dvd” chiese, mantenendo un tono cortese.
L’uomo indicò il computer e, senza dire una parola, si spostò di lato. Elisabeth si avvicinò, aprì lo sportellino ed infilò il disco. La procedura automatica propose l’avvio della riproduzione e lei accettò. Le immagini lasciavano poco spazio alla fantasia. Un uomo aveva raggiunto Ivan all’ingresso e si era intrattenuto con lui in una conversazione che era iniziata in modo tranquillo ma, rapidamente, aveva preso le sembianze d’una discussione, animandosi sempre di più. Improvvisamente Ivan aveva spinto lo sconosciuto, si era voltato e lo aveva abbandonato sul posto. L’uomo era scomparso dalle telecamere per riapparire pochi secondi dopo con un tubo fra le mani. Aveva raggiunto Ivan e lo aveva colpito. L’impatto era stato tremendo, ma aveva dato comunque il tempo alla vittima di premere sul telecomando il tasto antiaggressione, attivando l’allarme. L’assassino si era chinato su di lui e aveva frugato nelle tasche, poi, accortosi che il tempo non sarebbe bastato, aveva optato per la fuga, abbandonando tutto com’era, ma portando l’arma del delitto con sé. “Lo conosce?” Chiese Marcelo. L’uomo si avvicinò al monitor ed osservò il fermo immagine. La qualità era ottima, non poteva sbagliarsi. “Sì” disse, “è Goran Sevic.” Marcelo rimase in attesa del seguito, ma l’uomo non disse più nulla. “Cosa ci può dire di lui?” Chiese a quel punto. Il vice del vice del vice direttore rimase in silenzio, grattandosi la nuca, come se cercasse d’allontanare i cattivi pensieri. “Allora?” Lo incalzò Elisabeth. McDolan la osservò nervoso, ma non si sottrasse oltre. “È un connazionale di Ivan, è stato assunto dieci giorni fa, il direttore diceva che sembrava un tipo a posto ma, a quanto pare, si sbagliava.” “A quanto pare…” Sottolineò Marcelo.
“Cosa pensa possa essere successo?” Chiese Elisabeth. “Purtroppo penso si sia trattato di un piano organizzato da tempo. Il lunedì mattina nel ristorante abbiamo l’incasso di tutto il week end e sono parecchi soldi. Penso che Goran puntasse a quello. Forse lo aveva saputo da Ivan, forse erano d’accordo, ma qualcosa non ha funzionato.” “Ivan aveva le chiavi, è normale dopo solo tre mesi?” Chiese Elisabeth. “Ivan era un uomo onesto, almeno credo. Più volte aveva avuto occasione di arrotondare senza che nessuno se ne accorgesse, ma non lo aveva fatto, aveva sempre portato tutto al capo. Una volta si è presentato con un portafoglio contenente 1000 dollari dimenticato in sala, poteva tenerselo, avevamo già chiuso, il cliente avrebbe pensato d’averlo perso o che glielo avessero rubato, ma lui non aveva avuto esitazioni. Purtroppo ha incontrato Goran.” “Sa dove trovarlo?” Chiese Elisabeth. L’uomo estrasse dal cassetto una piccola rubrica e l'aprì in corrispondenza della lettera G. “L’indirizzo che mi ha dato è questo” disse, voltando il quaderno verso Elisabeth, “non so se sia vero.” Elisabeth lesse la via, tolse il dvd, lo ripose nella custodia e si avviò verso l’uscita: “Questo lo teniamo noi” disse, “lei non si allontani dalla città.” Ripercorsero il corridoio in direzione dell’uscita, controllando con la coda dell’occhio l’espressione indecifrabile dell’uomo in rosso. “Che si fa?” Chiese Elisabeth. “Direi di richiedere un mandato di cattura per Sevic e di tornare in centrale, magari facendo una piccola sosta per colazione” rispose Marcelo. “Direi che è un’ottima idea. Conosco un posticino sulla Prudential che sforna ciambelle favolose.” “La Prudential? Non è esattamente di strada” commentò Marcelo.
Elisabeth nascose un certo disappunto, mostrò il suo sorriso migliore e replicò: “Non te ne pentirai, te lo prometto.” Marcelo la guardò, valutò il percorso e si disse che, dopotutto, la Prudential non era poi così lontana e, in fin dei conti, non erano obbligati a rientrare immediatamente. “Vada per le ciambelle” disse. Elisabeth lo prese sottobraccio ed insieme si diressero agli ascensori. La discesa fu rapida e i 42 piani scivolarono via meglio di un foglio di carta da sotto un piatto. Uscirono dalla Barnett Center Tower, come si ostinavano a chiamarla quasi tutti gli abitanti della zona, che erano da poco ate le sette, raggiunsero l’auto e si avviarono verso il John T. Alsop jr. Bridge. Il traffico iniziava ad intensificarsi ma, per loro fortuna, la loro direzione era opposta a quella della gran massa di veicoli che imboccavano il ponte. S’infilarono sotto l’enorme struttura d’acciaio ed attraversarono il Saint Johns e, come preventivato, il viaggio non durò più di dieci minuti. Una volta usciti dalla Main street, imboccarono la Gulf life, raggiungendo in un attimo la Prudential drive. “Dove vado?” Chiese Marcelo. “Sempre dritto” rispose Elisabeth. Marcelo obbedì e, dopo venti metri, si ritrovò davanti alle insegne del BB’s Restaurant. “È qui!” disse Elisabeth. Marcelo entrò nel parcheggio e si fermò nell’unico posto libero. Entrarono nel locale e si sedettero al bancone. Si guardò attorno e valutò che, probabilmente, avrebbero perso più tempo del previsto, la clientela era piuttosto numerosa anche per quell’ora ed era, ovviamente, di buon auspicio. Le sue previsioni furono però smentite velocemente. L’ottima organizzazione, unita alla decennale esperienza, fecero si che le decantate ciambelle li raggiungessero in pochi minuti e così si presero qualche momento di pausa,
sfogliando le pagine del Florida Times senza troppo interesse e assaporando gli ultimi sorsi di caffè. Marcelo posò la tazza e guardò la collega che, senza bisogno di parole, lo imitò e si diresse verso l’uscita. Erano appena risaliti in auto, quando la radio irruppe fragorosamente: “A tutte le unità, è stato rinvenuto un cadavere al Hampton Inn, 1331 di Prudential drive!” Elisabeth anticipò Marcelo, alzò il ricevitore e premette il tasto di risposta: “Qui Wright e Morales, siamo a meno di un isolato dall’albergo, andiamo noi.” “Ricevuto” rispose la radio, “confermo alle altre unità, chiudo.” “Due omicidi in meno di due ore? Proprio un bel modo d’iniziare la settimana” commentò Marcelo e mise in moto. Costeggiò tutto lo stabile, rispettando il senso unico, attese all’incrocio per pochi istanti, poi attraversò, dirigendosi verso l’albergo che, come stimato, si trovava a poche centinaia di metri dal bar. L’imponente struttura di cinque piani, affiancata all’altrettanto importante complesso dell’Extended Stay, occupava l’intero isolato e si faceva apprezzare per la linea semplice ma elegante nel suo color nocciola neutro, né troppo pallido né troppo vistoso. Lasciarono l’auto col lampeggiante davanti all’ingresso principale e raggiunsero la hall. Un uomo alto, estremamente magro e abbigliato alla moda del maggiordomo della Regina Elisabetta, la prima, gli si fece incontro. “Meno male siete già qui” disse, “seguitemi.” “Lei è?” Chiese Marcelo. “Scusate” rispose l’uomo, “sono Archibald Stenton, direttore dell’albergo e vi sarei grato se poteste utilizzare la massima discrezione nelle indagini, i nostri clienti ci preferiscono anche per questo.” “Ha paura che un cadavere le rovini la reputazione?” Chiese sarcastico Marcelo.
L’uomo stava per rispondere, ma Marcelo si voltò, facendo un cenno con la mano che equivaleva ad un “lasci perdere.” Detestava quell’innata predisposizione umana che portava certi individui a porre il lavoro, la reputazione o, più cinicamente, il denaro davanti a qualsiasi cosa, anche ad una morte violenta e prematura, e non riusciva a nascondere il suo disappunto. Archibald lo superò e si mise a guidare il gruppo sino all’ascensore. Salirono al terzo piano senza dire una parola e si ritrovarono in un lungo corridoio con una moquette rosso scuro e delle pareti color albicocca. L’uomo li condusse verso l’ultima camera nel lato di destra, quello rivolto verso il fiume. Si fermò sulla porta e indicò la stanza. “Chi l’ha trovato?” Chiese Marcelo. “Io” rispose il direttore, “aveva chiesto la sveglia per le 7 di questa mattina e, dopo vari tentativi senza risposta, ho deciso di venire a controllare di persona. Non ricevendo risposta nemmeno dalla porta, ho aperto con la mia chiave e l’ho visto.” “Ha toccato qualcosa?” “Assolutamente no. Mi sono fermato sulla porta, non sono nemmeno entrato.” Marcelo infilò i guanti e superò la soglia, imitato dalla collega. Sul letto, ancora vestito, c’era un uomo. L’abito era elegante, da sera, una camicia rosa a trama lavorata abbinata ad una cravatta grigia leggermente allentata ed un completo grigio scuro apparentemente di ottima fattura. Non aveva le scarpe e le braccia erano alzate, legate alla spalliera del letto ad imitare una crocifissione. La testa era inclinata da un lato e la bocca era coperta con un bavaglio. La causa della morte pareva evidente. Sulla camicia, leggermente a sinistra, due chiazze di sangue rappreso indicavano chiaramente i fori d’entrata di due proiettili di buon calibro, forse di una 9 millimetri, e la colorazione, unita alla crosta ormai formatasi sulla stoffa, indicava che la morte era riconducibile ad almeno ventiquattrore prima. L’uomo era sulla quarantina abbondante, forse aveva già raggiunto i cinquanta, il taglio di capelli e l’abbigliamento suggerivano un personaggio attento alla sua immagine, ma non dava indicazioni precise. Marcelo si avvicinò per controllare meglio. La mano destra confermava l’ipotesi, nessun callo, unghie curate e un bel bracciale d’oro, importante ma discreto e di ottimo gusto. Si spostò verso la mano sinistra, quella che fin da subito aveva
attratto la sua attenzione. Al polso notò un cronografo svizzero che lui poteva solo ammirare nelle vetrine e le unghie delle quattro dita rimaste erano perfette, come nell’altra mano. L’anulare mancava, al suo posto era comparso un troncone ricoperto da sangue rappreso che aveva formato una colata lungo il palmo, finendo la sua corsa sulla moquette davanti al comodino. Marcelo si voltò verso Elisabeth. “Che ne pensi?” Chiese. “Non sembra una rapina, solo l’orologio varrà 5000 dollari” rispose la donna, “sembrerebbe più una questione personale.” Marcelo annuì e si mise ad ispezionare tutta la stanza, iniziando dal cadavere. Nella tasca esterna della giacca trovò le chiavi di una Corvette, le ripose e continuò. Nella tasca interna trovò il portafoglio, lo estrasse e controllò il contenuto. Come previsto, i soldi e le carte erano ancora presenti, così sfilò i documenti. La patente di guida era intestata ad un certo Russel Goldwin di Tampa. Rimise il tutto al proprio posto e cercò nella stanza un qualsiasi indizio potesse essergli utile. Restò sorpreso dalla pulizia complessiva. Era sicuramente un hotel di buon livello, doveva pur giustificare i 130 dollari a notte, ma la perfezione di quella stanza aveva qualcosa di strano, di anormale. Fece scorrere l’anta dell’armadio. Sul ripiano alto c’erano due coperte d’emergenza, in Florida non si usano spesso, sovrastate da un cuscino apparentemente nuovo. Non c’erano abiti appesi e i cassetti erano deserti come gli scaffali di un supermercato durante i saldi. A terra, accostata alla parete, c’era una valigetta di pelle nera, presumibilmente della vittima. La raccolse e la posò sul fondo del letto. Aprì il bagaglio dell’uomo, una ventiquattrore leggermente più alta del normale. All’interno trovò il classico equipaggiamento da viaggio breve, un piccolo necessaire, della biancheria intima, una camicia ed una confezione di profilattici (che non rientrerebbero nel concetto di “classico”, almeno non per tutti). Aprì la scatola, tolse il contenuto e lo ripose al proprio posto. Non ne mancava nessuno. Richiuse la valigia e la ripose accanto all’armadio. Guardò Elisabeth che, con una mimica facciale eloquente, confermò le sue perplessità.
Uscirono e si fermarono sulla soglia. “Lei lo conosceva?” Chiese Marcelo ad Archibald. “No, io no, non mi occupo direttamente della clientela, dovrebbe chiedere al portiere.” Marcelo stava per dire qualcos’altro ma, dal corridoio, giunse la voce del vecchio Geremia. Si voltarono tutti e, sentendosi osservato, Geremia smise di parlare. Li raggiunse in silenzio ed attese le presentazioni. “Questo è il dottor Kruner, il nostro medico legale, ed il suo assistente Braitner” disse Elisabeth, “si occuperanno di tutto, lei ci segua.” Archibald buttò uno sguardo preoccupato nella stanza, ma non obiettò. “Tranquillo” intervenne Marcelo, capendo il messaggio, “sarà veloce e discreto, domani riavrà la sua stanza come nuova. Certo, avrà dei grattacapi a pulirla, il sangue e la moquette non vanno molto d’accordo.” Si voltò e si diresse verso gli ascensori, seguito, dopo un momento di riflessione, dall’uomo. I tre tornarono nella hall, lasciando Geremia al suo lavoro. Archibald li condusse sino al banco della reception e chiamò il portiere. “Buongiorno, signori, come posso aiutarvi?” Chiese in tono molto professionale l’uomo. “Avremmo bisogno d’informazioni sull’inquilino della stanza 308, tutto quello che può dirci.” L’uomo prese i registri e controllò attentamente. “Si è registrato a nome Russel Goldwin, sabato mattina. Ha detto che si sarebbe fermato due notti, ha pagato in anticipo e in contanti.” “Era solo?” Chiese Marcelo. “Sì, quando si è registrato sì.”
“E quando l’ha visto l’ultima volta?” “Io non l’ho più rivisto, probabilmente ha incrociato il mio collega del turno notturno.” “Possiamo vederlo?” L‘uomo si voltò verso Archibald che intervenne: “Lo chiamo immediatamente.” Archibald si spostò dall’altro lato del bancone e sollevò il telefono. Nell’attesa Marcelo cercò di ottenere qualche altra informazione dal portiere diurno. “Lei non ha sentito nulla di strano in queste due notti?” Chiese, senza troppe speranze. “Io stacco alle 20 e mi ripresento solo la mattina seguente, non sono mai qui di notte” disse, come se fosse un alibi, il portiere. “E lei?” Chiese Marcelo, rivolto ad Archibald che, nel frattempo, aveva terminato la telefonata. “Nulla di anormale” rispose asciutto il direttore. Marcelo stava per esporre un nuovo quesito, quando la porta sul retro si aprì e un ometto piccolo, dai tratti somatici sudamericani fece capolino alle spalle del portiere. “Vieni avanti, Carlos, non temere” disse sorridendo Archibald. “Questo è Carlos, il nostro portiere notturno” disse rivolto ai poliziotti. Marcelo osservò lo sguardo impaurito del nuovo arrivato e, anziché a lui, si rivolse al direttore: “Come ha fatto ad arrivare così in fretta?” Colto di sorpresa, Archibald parve scosso, ma riprese immediatamente la sua
postura anglosassone. “Carlos è nuovo della città e, finché non trova una sistemazione adeguata, rimane ospite in una delle stanze del personale.” Aveva dato una risposta convincente, anzi, aveva mostrato anche la bontà d’animo dell’albergatore, poteva essere fiero di sé. Marcelo, però, non la vedeva allo stesso modo. Fissò Carlos per un po’ e dedusse che la sua ipotesi fosse più che plausibile. Mise una mano sulla spalla al messicano e cercò di tranquillizzarlo: “Senti Carlos, secondo me tu sei un clandestino e il Lord qui presente ti sfrutta fingendo di farti un favore, ma io sono della Omicidi, sono buono e, soprattutto, sono portoricano e perciò capisco alla perfezione la tua situazione, quindi, facciamo così, tu mi dici tutto quello che sai sull’uomo della 308 e io fingo di non averti mai visto, ti va?” Carlos fissò con disprezzo Archibald e con gratitudine Marcelo, strinse il cappello fra le mani ed iniziò a parlare: “L’uomo l’ho visto rientrare sabato notte, verso le due.” “Era solo?” “Si, ma non conta.” “Cosa intendi con non conta?” Carlos si voltò verso il direttore che annuì malvolentieri, invitandolo a proseguire. “Voglio dire che, in questo albergo, ai clienti che ne fanno richiesta, viene fornita la chiave dell’accesso laterale, quello che porta agli ascensori di servizio. Uno potrebbe entrare da solo e dare un party con duecento persone senza che nessuno noti nulla.” “E l’uomo della 308 era uno di quei clienti?” “Si. Sabato sera, quando è uscito poco dopo le 20, è ato di qui e mi ha detto che un amico gli aveva consigliato questo albergo anche per questi particolari
servizi. Io gli ho dato la chiave, come sempre.” “Mi perdoni” intervenne Elisabeth, “se il signor Goldwin è uscito alle 20 si suppone che sia prima rientrato. Per quale motivo lei non lo ha incrociato?” Chiese al portiere di giorno. L’uomo, colto di sorpresa, mostrò un certo nervosismo ma, in suo soccorso, intervenne il direttore: “Probabilmente aveva trattenuto la chiave della stanza dalla mattina e non è ato alla reception al suo rientro.” “Quasi sicuramente è così” aggiunse il portiere, grato per il salvataggio. “Sicuramente.” Commentò senza troppa convinzione Elisabeth. “Di conseguenza, tornando al rientro notturno, potrebbe essere salito in camera con chiunque, o sbaglio?” “Non sbaglia. Quando l’uomo è venuto al banco a prendere la chiave della camera era visibilmente eccitato.” “Ciò vuol dire che, alle 20, la chiave della camera l’aveva riconsegnata?” Chiese Marcelo. “Sì” rispose Carlos. Marcelo rimase in silenzio. Poteva non significare nulla, ma si annotò comunque la cosa. Ripose il blocco e si rivolse nuovamente allo staff dell’albergo. “Possiamo supporre che si sia diretto all’ingresso laterale ed abbia fatto entrare qualcuno, presumibilmente una donna” disse Marcelo. “Dopo d’allora l’avete più rivisto?” Il terzetto incrociò gli sguardi, ma tutti confermarono di non aver più avuto contatti col soggetto. Marcelo fece una panoramica della hall, come se cercasse qualcuno, poi guardò il direttore:
“Mi scusi, ma se questo è successo sabato notte, per quale motivo il cadavere è stato trovato solo stamattina?” L’uomo si spostò dietro al banco, aprì un cassetto e tolse una busta, che consegnò a Marcelo. All’interno c’era uno dei fogli da lettera dell’albergo con due righe scritte a mano: “Vi sarei grato sei domenica evitaste di pulire la mia camera, avrò molto da fare.” Marcelo voltò il registro dalla sua parte e confrontò la calligrafia con la firma, ad una prima analisi poteva trattarsi della stessa mano. “C’era solo questo?” Chiese. “Certo” rispose immediatamente Archibald. “In realtà c’era anche un pezzo da 100 dollari” disse sottovoce Carlos. Archibald arrossì, ma si limitò ad un’occhiataccia senza parole. “E quando lo avete avuto?” “Era sul bancone domenica mattina quando ho preso servizio” disse il portiere di giorno. “Perciò non avete visto chi lo ha consegnato, giusto?” “No.” “E non avete sentito proprio niente di strano? Un colpo di pistola non dovrebbe are inosservato, nemmeno se arrivasse dal terzo piano.” I tre erano convinti e si mostrarono fermi sulle loro dichiarazioni. “Ok” disse poco dopo Marcelo, “torno subito.” Si voltò e puntò verso l’uscita, Geremia stava scendendo col cadavere, voleva dei chiarimenti. S’incrociarono davanti alla porta girevole e il dottore si avvicinò. “Suppongo tu voglia delle informazioni” disse sorridendo.
“Nei limiti del poco tempo che hai avuto” rispose umilmente Marcelo. “Bene, ti posso dire che la morte è avvenuta fra 28 e 32 ore orsono. La causa della morte, quasi sicuramente, sono questi due colpi di pistola, quasi certamente calibro 9” disse, indicando la camicia, “l’amputazione del dito è avvenuta postmortem, ma risale a pochi istanti dopo la stessa. Come al solito, ti saprò dire di più dopo l’autopsia.” Marcelo lo guardò con gratitudine e sorrise: “Direi che già quello che mi hai detto è molto importante, comunque ci sentiamo più tardi.” Geremia mimò un pessimo saluto militare e spinse la lettiga oltre l’accesso laterale alla porta principale. Marcelo guardò la compagna e, sorridendo, sussurrò: “Diamo la brutta notizia al conte.” Elisabeth rispose al sorriso, lasciano intravedere parte del suo fascino. Si avvicinarono al banco, seguiti dagli sguardi attenti dei portieri. “Sono consapevole dell’ora e delle problematiche legate alla privacy, ma avremmo la necessità d’interrogare i vicini di stanza del signor Goldwin” disse Marcelo cercando di mantenere un tono dispiaciuto. “È proprio necessario?” Chiese senza speranze Stenton. “Ho paura di sì” rispose il poliziotto. “Posso avvisare prima telefonicamente? Non vorrei trovarmi in situazioni imbarazzanti.” “Faccia pure.” “Devo chiamare tutto il piano?” Chiese Stenton, cercando di guadagnare tempo. “Si, e si sbrighi” rispose Marcelo, consapevole del tentativo. Il direttore alzò la cornetta ed iniziò a contattare la prima camera mentre, con le
dita, indicava al portiere il numero della seconda stanza da chiamare. L’operazione combinata richiese pochi minuti dopo di ché, con un’espressione degna d’un reduce appena sopravvissuto ad una battaglia epica, si rivolse a Marcelo: “Tutti gli ospiti sono stati avvisati. Vi aspettano nelle loro stanze.” “Ottimo lavoro” sancì Marcelo. “Noi saliamo, preferisce seguirci o aspettarci qui?” Stenton meditò sul da farsi. Non presentarsi sarebbe stato comodo ma avrebbe danneggiato l’immagine dell’albergo, viceversa avrebbe mostrato l’impegno del personale ma, di contro, si sarebbe dovuto esporre alle domande e alle probabili lamentele. Senza molto entusiasmo si avviò verso gli ascensori, seguito da due agenti. Tornati al piano, si divisero le stanze ma Stenton intervenne: “Posso chiedervi di attendere che sia io a contattare i singoli ospiti?” Marcelo non capiva sino in fondo il motivo, ma ritenne la richiesta accettabile e quindi non si oppose. Stenton bussò alla prima stanza controllando prima il cognome su di un foglio che aveva compilato durante le chiamate telefoniche. “Sono il direttore Stenton, può aprire per cortesia?” Dopo pochi istanti la porta si aprì e un uomo alto con dei baffi da pittore se si presentò all’ingresso. “Buongiorno direttore, come posso aiutarla?” Chiese l’uomo molto formalmente. “Buongiorno signor Wallace, mi scusi il disturbo. Questo è l’ispettore Morales della polizia, dovrebbe farle alcune domande, se possibile.” “Certamente” rispose Wallace in tono cordiale. “Prego, ispettore. Io proseguo con la sua collega.”
Stenton si spostò verso la seconda stanza seguito da Elisabeth, mentre Marcelo tendeva la mano all’ospite della camera 301. “Mi scusi” esordì Marcelo, “ma questa mattina è stato trovato un cadavere nella stanza 308. Visto che si tratta certamente di un omicidio, vorrei sapere se, per caso, lei ha sentito qualche cosa questa notte o anche la precedente.” Wallace controllò la posizione del direttore poi, con voce leggermente più bassa, disse: “Se devo dire la verità, questa notte ero talmente sbronzo che non avrei sentito un attacco aereo e ieri notte non ero qui, mi dispiace.” “Non si preoccupi” disse Marcelo con finta comprensione, “capita a tutti di esagerare un poco.” Allungo la mano che Wallace strinse vigorosamente. “Grazie comunque e scusi il disturbo.” “Dovere” rispose l’uomo chiudendo la porta. Marcelo si allontanò in direzione di Stenton che, nel frattempo, aveva già allarmato la stanza 303. Il tour si snodò per tutto il piano con un ritmo cadenzato e senza sussulti sino al termine del corridoio. “Questa era l’ultima” disse sollevato Stenton. Marcelo guardò Elisabeth scoraggiato. “Io non ho niente, e tu?” Chiese alla collega. “Io molto meno. Oltre alla mancanza d’informazioni utili, mi sono dovuta sorbire dei rimproveri per l’ora e un paio di complimenti non proprio da gentleman.” “Direi che qui abbiamo finito” commentò deluso Marcelo, osservando il sorriso malcelato di Stenton, “possiamo scendere e fare un riepilogo di tutto quello che
sappiamo.” Il terzetto tornò verso gli ascensori controllando se, per puro caso, qualche porta non si riaprisse in cerca d’informazioni, ma non accadde. Tornarono nella hall e ritrovarono i due portieri ancora in attesa al banco. “Un’ultima cosa”, disse Marcelo, “non ho notato telecamere nell’albergo, non ce ne sono o avete sistemi di controllo celati?” “Non ce ne sono” rispose orgoglioso Stenton, “noi ci fidiamo dei nostri clienti e, come vi ho detto prima, la riservatezza è una delle nostre priorità!” Marcelo mostrò il suo miglior sorriso di circostanza, trattenendo a stento un commento maligno. “Signori” disse dopo un attimo, “noi abbiamo finito, per il momento, ma potremmo avere ancora bisogno di voi quindi, per cortesia, vi pregherei di non lasciare la città”. I due portinai si limitarono ad annuire, mentre il direttore tornò alla questione di massima importanza: “Per la camera?” Chiese ansioso. Marcelo lo fissò sconsolato ma, ancora una volta, evitò di esprimere il suo vero pensiero, limitandosi alle più neutrali frasi di rito: “Temo che dovrà aspettare l’autorizzazione della squadra della scientifica che sarà qui a momenti. Le diranno loro quando potrà riutilizzare la camera. Fino ad allora nessuno può accedere.” “Capisco” rispose deluso Stenton. “Se non c’è altro, noi andremmo” disse Marcelo. “Buona giornata e buon lavoro” riuscì a dire con un sussulto di professionalità il direttore. “Grazie, speriamo lo sia davvero” commentò Elisabeth voltandosi verso l’ingresso e precedendo il collega alla macchina.
Restarono fermi sotto il portico dell’albergo ed iniziarono a raccogliere le idee. Elisabeth lesse le informazioni che aveva raccolto mentre Marcelo interrogava i dipendenti: “Russel Goldwin, nato a Tampa nel 1960 e ancora residente in città. Sposato, con due figli grandi di 27 e 24 anni, era avvocato di un importante studio legale del posto, nulla in sospeso, conti in regola, lindo come un bimbo. Lo studio è ancora chiuso, vedrò di contattarlo prima possibile.” Marcelo controllò il suo notes e riassunse il tutto: “Abbiamo un uomo, uno stimabile avvocato, che a da noi per il week end, probabilmente non per lavoro. È la prima volta, per lo meno è la prima volta in questo albergo. Decide di sarsela per una sera, alla faccia del bravo padre di famiglia, esce a cena, trova compagnia e torna in albergo, ma qualcosa va storto. Dal tipo e dalle informazioni raccolte escluderei che fosse con una prostituta, almeno non una da strada, pertanto la domanda è, con chi era? Un incontro casuale o un appuntamento pianificato? E comunque, che fine ha fatto la donna?” Elisabeth espose il suo punto di vista: “L’uomo arriva, prende la chiave e va all’ingresso laterale. Fa entrare la donna, ammesso che donna fosse” disse, sorridendo maliziosamente, “perciò, se nessuno ha visto estranei entrare dall’ingresso principale, ci sono due ipotesi, la donna è l’assassina, banale ma coerente, oppure all’ingresso non era sola o, in alternativa, al suo posto si è presentata una persona diversa.” “Giusto” rispose Marcelo, “davanti ad un’arma l’uomo non avrebbe reagito, sarebbe salito in camera sperando d’uscirne vivo, ma come spieghi il biglietto?” “Forse l’assassino voleva avere più tempo per dileguarsi e l’ha obbligato a scrivere quel foglio.” “Giusto, rimane anomala l’immagine dell’uomo. Era senza scarpe e con la cravatta allentata, due indizi che dovrebbero testimoniare una certa rilassatezza. Se fosse salito con l’assassino, non si sarebbe certo messo comodo.” “Vero, quindi, o ripuntiamo sulla donna, apparentemente normale, tanto da indurlo ad iniziare un gioco erotico che lo mettesse, suo malgrado,
nell’impossibilità di reagire, oppure tutta quella messa in scena è stata creata per qualche scopo ben preciso che però, al momento, ci sfugge.” “Pertanto, a livello d’ipotesi, potremmo dire di avere una pazza che attira gli uomini in un albergo solo per ammazzarli oppure, quale seconda scelta, potrebbe trattarsi di un marito geloso che ha seguito la moglie e, una volta avuta la certezza del tradimento, è entrato in azione.” Elisabeth trafficò col cellulare. “Che fai?” Chiese Marcelo. “Analizzo la lista dei sospetti. Ci serve un uomo geloso, uno pronto ad uccidere se trovasse la moglie a letto con un altro. Partiamo dalla A?” Chiese, mostrando l’elenco telefonico della città. “In effetti” disse sommessamente Marcelo. “E il dito?” Chiese poco dopo. “Già, il dito” commentò Elisabeth, “l’amputazione di un dito, un anulare nello specifico, rende la cosa molto personale, è un messaggio forte, anche se mi sfugge il destinatario.” “In aggiunta, da quel che sembra, se lo è portato via.” “Sembrerebbe di sì, come se fosse un trofeo.” “I serial killer prendono trofei, ma non hanno motivazioni personali, credo.” “Perciò” disse Elisabeth, cercando di tirare delle conclusioni, “o è un serial killer, e in questo caso mi chiedo con quale criterio abbia scelto la sua vittima, oppure è un assassino occasionale, particolarmente arrabbiato con la sua vittima, e che vuole fingersi un serial killer per depistarci. In entrambi i casi dovremmo trovare il motivo che l’ha fatto incazzare così tanto.” “Direi che hai ragione. La scelta della vittima potrebbe essere stata casuale, ma il metodo denota premeditazione. L’assassino si era portato tutto l’occorrente, della corda, del nastro, presumo una cesoia e, soprattutto, un silenziatore. Aveva pianificato tutta l’operazione e Gideon insegna che queste sono caratteristiche di
un criminale organizzato e controllato, non uno psicopatico generico. Rimane da stabilire se a guidare la mano dell’assassino sia stato uno screzio personale o solo la follia di uno squilibrato ma, come dici tu, qualunque sia la strada, dobbiamo trovare la causa scatenante di tanta violenza.” “Chi sarebbe questo Gideon?” Chiese perplessa Elisabeth. Marcelo sorrise e cercò di spiegare: “Scusa, è un personaggio televisivo. Quando a casa mi annoio guardo dei telefilm sui serial killer, pensa in che condizioni sono messo.” “Ognuno si diverte come può, o come vuole” commentò Elisabeth senza particolare interesse, “comunque ho l’impressione che ci toccherà rivoltare la vita del signor Goldwin come un calzino e vedere se, oltre alle scappatelle, aveva qualche altro vizio poco educativo.” “Ho paura di sì” rispose laconico Marcelo. Mise in moto ed uscì lentamente dal parcheggio. Sarebbero tornati in centrale ed avrebbero atteso il referto dell’autopsia e le informazioni della Scientifica, forse avrebbero fatto un po’ di luce sulla cosa, ma una strana sensazione gli bloccò lo stomaco, un’improvvisa paura, un irragionevole attacco di pessimismo che gli strizzò le viscere. Non era finita, anzi, quello era solo l’inizio.
Capitolo 1
Elisabeth si accomodò alla sua scrivania e si mise a riordinare i documenti. Si era sistemata in quella nuova postazione da soli due mesi e non aveva ancora trovato la collocazione ideale per tutti le suppellettili che ingombravano il piccolo tavolo. In molti si erano chiesti perché avesse scelto di are dalla Buoncostume, settore non certo piacevole ma sicuramente meno violento, alla Omicidi, ma nessuno si era preso la briga di chiedere spiegazioni. Dal canto suo, Elisabeth si era tenuta ben stretta la motivazione e non credeva che, alla fine, interessasse poi molto. Si ricordava bene la scena, come se tutto fosse successo la mattina prima. Era entrata nell’ufficio del capitano Mullen e aveva estratto dal cilindro la sua espressione più indifesa e triste, lo aveva guardato negli occhi e aveva detto: “Capitano, mi aiuti.” L’uomo si era sciolto come neve al sole, l’aveva fatta accomodare e si era fatto raccontare tutto. L’esposizione era stata breve e incisiva, senza fronzoli e senza giri di parole. Al termine, Elisabeth si era appoggiata allo schienale della poltroncina e aveva atteso la risposta del suo comandante. Mullen aveva giocherellato con la penna, alternando lo sguardo fra il documento sulla scrivania e il viso triste della ragazza, poi l’aveva guardata per qualche istante, come un padre guarderebbe una figlia, e aveva detto: “Mi dispiace.” Elisabeth si era spenta, colpita e affondata. Mullen, accennando un lieve sorriso, aveva continuato la frase:
“Dicevo, mi dispiace perdere un ottimo elemento del tuo calibro, ma credo che le tue motivazioni siano più che valide e la tua professionalità meriti un premio.” Aveva avvicinato il foglio e firmato sul fondo, prima di posare la penna e tornare a guardare la ragazza. “Ti devo solo mettere in guardia, alla Omicidi sono tutti bravi ragazzi e ottimi poliziotti, ma sono maschi adulti e carichi di testosterone, vivono in un ambiente dove regna la legge del più forte, o del più cattivo, e dove il Maschio, nell’eccezione peggiore del termine, è l’assoluto dominatore. La sola vista di una donna scatena la gara fra quei presunti maschi alfa, se poi la donna ha le tue fattezze, beh, la curva di rischio s’impenna. Dovrai sopportare battute e allusioni continue e non sempre educate, preparati.” Elisabeth aveva sorriso. Sapeva, o quanto meno immaginava, quello che l’aspettava, ma non era un problema. Era in grado di trattare con gli uomini, anche i più esuberanti, se la sarebbe cavata. Era uscita sorridendo, tornando alla sua scrivania e, come prima cosa, aveva alzato il telefono e chiamato il suo parrucchiere, anche il look aveva la sua importanza e non voleva sottovalutarne il valore. Si era presentata il lunedì seguente, puntuale più di un banchiere svizzero. Aveva raggiunto il 501 di East Bay Street, accorgendosi solo dopo che, da quel lato, esisteva solo l’uscita del parcheggio sotterraneo così, per non perdere troppo tempo, si era fermata in uno dei posteggi sul lato della strada e si era avviata a piedi. Aveva percorso la scalinata del Police Memorial Building e si era presentata all’ingresso. “Sono l’ispettore Wright, prendo servizio da oggi” disse all’agente in guardiola. “Avviso subito il capitano Pennington” rispose la ragazza. Elisabeth si spostò di un paio di metri ed iniziò a giocherellare col portachiavi. Era nervosa come al primo appuntamento e non sapeva bene cosa dovesse fare, proprio come allora. Fortunatamente l’attesa durò pochi minuti poi, da una porta a vetri, comparve il capitano Pennington, impeccabile nella sua divisa, dava l’idea della perfezione, l’esempio vivente dello stereotipo del poliziotto americano, degno di un
manifesto pubblicitario. Ad Elisabeth ricordò immediatamente Tom Selleck nei panni del poliziotto irlandese di una famosa serie tv. Le si avvicinò, sorridendo, la mano tesa e una luce sfolgorante negli occhi. “Ispettore Wright, benvenuta.” Erano poche parole, ma la ricoprirono di tranquillità, si sentì improvvisamente a casa e tutti i suoi timori, immotivati, evaporarono, lasciando solo un senso di pace inspiegabile. Tese la mano e strinse con vigore quella del capitano, mostrando il suo splendido sorriso che, come sempre, non mancò di colpire l’uomo. “Mullen mi ha parlato molto di te” esordì Pennington. “Spero bene” rispose con finta apprensione Elisabeth. “Ovviamente, avrebbe potuto fare altrimenti?” Sorrisero insieme, c’era una particolare affinità fra loro, niente di fisico, Elisabeth poteva essere sua figlia, o forse anche sua nipote, ma un’energia simile a quella che pervade due persone che, anche se ancora non lo sanno, sono i due singoli di una coppia perfetta. “Ti faccio fare il giro turistico della centrale, giusto per rompere il ghiaccio ed iniziare a conoscere un po’ di colleghi.” “Certo” rispose Elisabeth. Si avviarono verso il lato opposto rispetto a quello dal quale era giunto il capitano, superarono la porta a vetri gemella e si ritrovarono in un lungo corridoio luminoso, ricco di stampe e di targhette commemorative. La parete alla loro sinistra era cosparsa di fotografie d’ogni dimensione e colore. Le tonalità variavano dal grigio delle vecchie stampe d’epoca al seppia delle ancor più vecchie immagini di fine ottocento, dai colori ormai sbiaditi degli anni settanta a quelli brillanti dell’ultimo decennio. Sulla destra si apriva la porta d’accesso alla sala riunioni. Il piccolo spiraglio
dimenticato aperto lasciava intravedere il modesto leggio, dove il sergente posava gli appunti con gli ordini del giorno, e la prima fila di seggiole, quelle classiche in legno con un bracciolo girevole che fungeva da o per i blocchi degli appunti. La seconda stanza, visto il frenetico andirivieni, doveva essere la sala comune e ad Elisabeth ricordò i vecchi alveari di suo nonno, con quel movimento tanto caotico quanto coordinato che faceva impallidire le compagnie del Bolshoi e la ipnotizzava ogni volta come se fosse la prima. “Vieni” disse Pennington, “ti presento alla truppa.” Entrarono nella stanza ed il ronzio di quelle strane api giganti blu si fermò improvvisamente. Tutti smisero di fare quello che stavano facendo e rimasero in ascolto. Elisabeth si stupì della reazione disinvolta dei nuovi colleghi, ma il comandante era fatto così, preferiva lasciare gli atteggiamenti ufficiali alle occasioni ufficiali e mantenere un rapporto più sciolto, come lo definiva lui, coi colleghi, privilegiando i risultati rispetto alla forma. “Signori” esordì Pennington, “vorrei presentarvi la nostra nuova compagna, il detective Elisabeth Wright. Da oggi fa parte della nostra famiglia, spero per molto tempo.” Elisabeth alzò una mano per salutare e tutti risposero con le più svariate quanto classiche frasi di benvenuto, senza farsi mancare le prime battute tanto banali quanto scontate. Il comandante volse uno sguardo di scusa alla ragazza che rispose con un sorriso ed un “tutto come previsto” a bassa voce. Tornarono nel corridoio e Pennington si rimise i panni del cicerone: “Rimane solo lo spogliatoio che, visto l’inizio, per oggi eviterei.” Si diresse verso la porta, l’aprì e attese il aggio di Elisabeth prima di seguirla. “L’atrio l’hai già visto” disse il comandante, poi, in un’imitazione pessima di Letterman, simulò la presentazione di una parata di ospiti importanti: “abbiamo, da destra a sinistra, l’angolo ristoro, con un brutto distributore che, però, fornisce prodotti pessimi, la guardiola con centralino e, per finire, l’ascensore e le scale
che portano al piano inferiore dove momentaneamente non andremo, visto che ci sono le celle, l’armeria e il deposito prove.” Evitò di guardare Elisabeth, permettendole di non esprimere un giudizio sul suo terribile tentativo d’imitazione, cosa di cui le fu molto grata. Si diresse verso la porta dalla quale era giunto e l’aprì, attendendo l’ingresso della ragazza. Entrarono in un corridoio fotocopia del precedente ma, ovviamente, speculare. Le aperture erano sul lato a sinistra e, a colpo d’occhio, sembravano il doppio delle precedenti. “Questi sono i nostri uffici. I primi quattro sono per i detective, gli ultimi due sono del capo.” “Uffici separati?” Chiese stupita Elisabeth. “Perché no?” Rispose il comandante, “ho pensato che meno distrazioni e meno rumore potessero migliorare la concentrazione e la comunicazione fra colleghi e, almeno per il momento, sembra avessi ragione.” “Approvo senza riserve” disse la ragazza sorridendo e ottenendo un sorriso raggiante come risposta. “Pensavo solo che non capita spesso di vedere una struttura con agenti e detective uniti, una sala relax per gli agenti e degli uffici singoli per i detective. È davvero una piacevole sorpresa.” “Vedi Elisabeth” disse il comandante, “quando sono diventato comandante di questo distretto, circa dodici anni orsono, lo stabile in cui ci troviamo era in condizioni pessime, ma nessuno sembrava preoccuparsene. L’anno successivo arrivò “Charlie” e ci diede il colpo di grazia. Il comando, non potendo fare diversamente, stanziò dei fondi per la ricostruzione e mi diedero carta bianca sui lavori, almeno per quel che riguardava la distribuzione degli spazi, così ripensai a cosa mi sarebbe piaciuto avere ai miei tempi e ho provato a regalarlo ai miei ragazzi.” “Mi sembra un’idea meravigliosa” commentò ammirata Elisabeth, “davvero splendida.” Oltrearono i primi due uffici, momentaneamente vuoti, e si avviarono verso l’ufficio con una sola targhetta all’esterno.
“Marcelo Morales” recitava la placca ottonata posta alla sinistra della porta. “Questo è il tuo ufficio e quel bell’uomo sarà il tuo partner.” Marcelo si alzò e tese la mano con un sorriso effettivamente stuzzicante: “Benvenuta” disse. Elisabeth rispose con le medesime armi e non mancò di centrare il bersaglio. “Direi che è il caso di lasciarvi soli” disse Pennington con un sorriso malizioso, “buona giornata e buon lavoro.” I due nuovi colleghi salutarono e rimasero alcuni istanti a guardarsi senza sapere esattamente cosa fare. “Abbiamo un nuovo caso” disse improvvisamente Marcelo, “ti aggiorno mentre andiamo.” Elisabeth lo seguì sollevata, preferiva di gran lunga conoscersi lavorando insieme sul campo, che non guardarsi imbarazzati dalla scrivania. Raggiunsero il parcheggio ando da una scala di servizio e percorrendo un lungo corridoio che costeggiava il deposito prove. Elisabeth fece molta attenzione al percorso, doveva memorizzare gli itinerari della sua nuova casa. Giunsero sulla Monroe Street in dieci minuti e si fermarono davanti alle vetrine della gioielleria. Il sergente Kovinsky gli si fece incontro: “Buongiorno, ispettore” disse. “Buongiorno Mike, questa è la mia nuova partner, l’ispettore Wright.” “Buongiorno” disse Elisabeth. “Buongiorno signora, piacere di conoscerla” rispose Kovinsky tendendo la mano. “Cosa abbiamo?” Chiese Marcelo, cercando di sottrarre Elisabeth allo sguardo del sergente.
Kovinsky lasciò malvolentieri gli occhi della ragazza e si voltò, dirigendosi verso il vicolo. “Abbiamo un cadavere. Maschio bianco sui 25, un colpo di pistola al torace. Soldi e oggetti, ammesso ce ne fossero, sembrano tutti scomparsi. Per ora nessun testimone.” “Devo prendere nota?” Chiese Elisabeth, timorosa come un bimbo il primo giorno di scuola. “No, non importa” rispose Marcelo, “sarà tutto sul rapporto del sergente.” Si avvicinarono al retro della gioielleria dove, disteso accanto alla ringhiera del magazzino sotterraneo, si trovava il corpo del ragazzo. Marcelo analizzò rapidamente l’abbigliamento e gli accessori e condivise le prime impressioni con la collega: “Abiti economici, orologio da bazar, poca cura di mani e capelli, segni di eccessi di fumo sul volto. Si tratta verosimilmente di uno sbandato che cercava fortuna a Downtown.” Elisabeth cercò con lo sguardo di verificare le annotazioni del partner e si accorse di quanto fosse poco attenta ai dettagli. Era un limite grave per un ispettore della Omicidi, avrebbe dovuto lavorarci, e lavorarci parecchio. Marcelo notò l’espressione della ragazza e cercò di tranquillizzarla: “Non preoccuparti, capita a tutti. All’inizio io non distinguevo un uomo da una donna, poi ho seguito il mio partner per mesi, studiando i suoi metodi e cercando, di volta in volta, di anticipare mentalmente le sue conclusioni. Ci vuole un po’ di tempo, ma ci si riesce.” Elisabeth si sentì sollevata. L’ordine e l’organizzazione non erano il suo forte, ma l’intuizione e la deduzione erano armi che conosceva bene. Doveva solo imparare ad aggiungere una buona visione dei particolari o, al limite, lavorare sempre con un partner molto attento ai dettagli. “Come procediamo?” Chiese. Marcelo controllò l’area fra i due edifici. Era un vicolo senza illuminazione e le
finestre che lo sovrastavano facevano parte della gioielleria, lo stabile dall’altro lato era basso e senza aperture, se non un’uscita di emergenza. Non c’erano appartamenti e di notte, ora probabile dell’omicidio, nessuno era presente nello stabile. Controllò la posizione delle telecamere e si voltò verso il sergente. “Ho già chiesto di recuperare i filmati” lo anticipò Kovinsky, “ma dall’angolazione direi che l’inquadratura punta solo sull’ingresso del garage e l’area di nostro interesse rimane buia.” “Ok” disse Marcelo, “non abbiamo testimoni ne immagini e dubito che un tipo come questo puntasse alla gioielleria, era un obiettivo fuori dalla sua portata. Direi che l’ipotesi più plausibile sia il classico scontro fra piccoli criminali, spacciatori probabilmente. Non ci resta che chiedere ai nostri informatori se sanno qualche cosa che ci possa essere utile.” “Io cosa posso fare?” Chiese il sergente. “Vedi se ci sono delle telecamere nella via che hanno ripreso l’uomo prima dell’omicidio. Non abbiamo un’ora precisa e ci vorrà del tempo, ma i ragazzi del laboratorio ti daranno una mano. Purtroppo non ci sono banche nelle vicinanze e il parco qui davanti non ci aiuta, ma dobbiamo comunque tentare.” Elisabeth lo osservò dubbiosa: “Non sembri molto sconfortato per la cosa. Non credi che meriti lo stesso impegno di altre vittime?” Chiese con un tono di rimprovero. “Assolutamente si. Una vittima rimane una vittima. Chi fosse o cosa fe non deve minimamente influire sul nostro lavoro, però, onestamente, non posso soffrire per lui come soffrirei per un uomo onesto” rispose imperturbabile Marcelo. In prima battuta, Elisabeth trovò il ragionamento terribile ma, conoscendo meglio Marcelo, capì che una parte di lui, quella dell’uomo integerrimo e rigido alle regole, disprezzava chi cercava di aggirare la legge o, ancor di più, chi viveva approfittando della fiducia ricevuta, ma l’altra parte, quella dell’uomo serio e professionale, non sarebbe mai arretrata di un o solo per un pregiudizio o un’opinione personale. Sembrava ato un secolo da quella mattina ma, in realtà, erano trascorsi solo
due mesi, eppure pensava di conoscerlo già molto bene. Aveva imparato molto da lui e, in cuor suo, sperava di essere riuscita ad insegnarli qualcosa o, più probabilmente, a riportare alla luce qualcosa che, per motivi ignoti, era stato sepolto molto in profondità. Erano stati due mesi intensi e le operazioni di riordino erano slittate dal giorno alla sera, poi al giorno seguente e via così, senza mai trovare il loro momento “opportuno.” Questa mattina sembrava diversa, anche se non avrebbe saputo dire in che modo. Il lavoro non mancava, anzi, due omicidi in tempo record non erano male, ma aveva quello che i colleghi chiamavano un “pozzo”, un modo di dire che lei non apprezzava particolarmente, forse perché non ne capiva il senso o non ne giustificava l’utilizzo, in altre parole, una situazione che non ti permette di fare altro se non aspettare che qualcuno ti tiri fuori o, nel caso specifico, che qualcuno ti fornisca degli elementi su cui lavorare. Oltre a questo, sentiva una strana energia interiore, una sorta di pulsazione stimolante che la rendeva attiva, quasi euforica. La cosa era inspiegabile ma altrettanto innegabile e, visti gli effetti, il motivo ava in secondo piano. Osservò il ripiano, cercando di valutare mentalmente gli spostamenti necessari per ottenere il massimo della praticità e dell’ordine. Rimase alcuni istanti in contemplazione poi, come se l’avessero punta, scattò in avanti, prese tutto il materiale e lo riversò sulla scrivania del collega. Controllò la superficie completamente sgombra e decise che necessitava d’una pulita così si diresse verso lo stanzino delle scope, entrò ed iniziò a scandagliare lo scaffale in cerca di un prodotto adatto alle sue esigenze. Un bel flacone arancione spiccava al centro della mensola. La scritta “Laminate cleaner” occupava tutto lo spazio disponibile e la fotografia di un improbabile arancia ne rappresentava il profumo. Lo prese e cercò nelle vicinanze un pezzo di stoffa, ma senza risultato. Uscì col flacone in mano ed entrò nei bagni attigui. Sfilò dal dispenser alcune salviettine di carta e rientrò in ufficio. Arrivò sulla soglia e vide Marcelo immobile davanti alla sua scrivania. Sentendola entrare, l’uomo voltò lo sguardo verso di lei e, già sapendo la risposta, chiese:
“Ti hanno mandato un pacco bomba silenzioso?” Elisabeth conosceva ormai bene il partner e non si scompose. Sorrise, e sarebbe bastato, ma diede comunque una spiegazione: “Avevo del tempo e, strano ma vero, anche la voglia di sistemare tutto, così ne ho approfittato. Adesso pulisco velocemente e ti libero la scrivania.” Marcelo si sedette, si appoggiò comodamente allo schienale e sorrise. “Che fai? Non siamo al cinema” disse Elisabeth chinandosi sul ripiano. “Mi godo lo spettacolo” rispose con tono divertito. “Almeno tu non scendere a certi livelli, per favore, non sei il tipo” disse in tono di rimprovero la ragazza. Marcelo capì l’equivoco e cercò di rimediare: “Scusa, ma mi riferivo al fatto di vederti fare ordine, non alla tua posizione, insomma non era una battuta a doppio senso, non credo…” “Ho capito, tranquillo” rispose sorridendo Elisabeth, notando l’impennata della colorazione del viso di Marcelo. Finì d’asciugare il ripiano e riprese pigramente tutti i suoi oggetti dalla scrivania del collega, riposizionandoli al meglio, il suo meglio, sulla sua. Era evidente che l’ordine, almeno negli oggetti, non era la sua qualità primaria ma, in suo favore, c’era l’innata capacità di ritrovare le cose, ovunque si fossero nascoste. Marcelo attese con calma che finisse il lavoro poi, cercando di non dare nell’occhio, riposizionò il suo portapenne e il planner che teneva davanti alla tastiera del computer. “Ora che facciamo?” Chiese Elisabeth, contenta d’aver terminato quello stressante compito. “Dubito che ci forniranno dei rapporti prima di pranzo” rispose Marcelo, “possiamo provare a ricontattare lo studio legale di Goldwin.”
“Ottima idea” disse Elisabeth alzando il ricevitore del suo telefono. Marcelo attese la fine della conversazione in silenzio, osservando la penna di Elisabeth comporre sul foglio strani geroglifici che lei chiamava appunti. La ragazza posò il telefono, scrisse ancora qualcosa sul blocco e poi si rivolse al collega: “Ho parlato con la signora Ferguson dello studio associato Rush-Ferguson & Goldwin. Non ha preso molto bene la notizia della morte di un suo socio, ma è riuscita comunque a rispondere alle mie domande.” “Dopotutto è avvocato” sottolineò sarcasticamente Marcelo. “Giusto” confermò Elisabeth, “ma in realtà non ha detto nulla che già non sapessimo. Il signor Russel era un ottimo avvocato, nessuna pendenza né penale né civile, nessun problema economico, ovviamente, e nemmeno personale o fisico. Lavoro, famiglia, salute, sembra che tutto girasse per il verso giusto.” “Sanno perché si trovava qui nel week end?” “Ufficialmente aveva una conferenza sabato pomeriggio, ma non era ben chiara la natura della convention.” “Quindi…” iniziò Marcelo “Scusa un attimo” lo interruppe Elisabeth estraendo il cellulare dalla tasca. “solo un istante, è mia madre.” Marcelo prese il blocco di Elisabeth cercando di tradurne il contenuto, ma senza molta fortuna. La ragazza, oltre a scrivere male le informazioni, riempiva ogni spazio disponibile con disegni e ghirigori d’ogni tipo. Più che un blocco per appunti sembrava un gioco di ricerca oggetti di quelli disponibili in internet. Fortunatamente Elisabeth terminò la comunicazione e tornò a tradurre i suoi dati. “Dicevamo” riprese Marcelo, “lo studio era al corrente del viaggio ma non del motivo e questo mi porta a pensare che la cosa fosse personale. Se così fosse, dovremmo supporre che l’appuntamento con la donna, per ora diremo così, era stato pianificato da tempo. Non sarebbe, perciò, un incontro occasionale, almeno
non nel vero senso del termine, e, di conseguenza, l’ipotesi del marito geloso guadagnerebbe delle posizioni.” “Spero che tu ti stia sbagliando. Non posso immaginare come deve sentirsi la moglie in questo momento.” “Lo sapremo presto, dovrebbe arrivare nel pomeriggio” disse Marcelo e, vedendo lo sguardo affranto della collega, cercò di addolcire la pillola: “Visto che non abbiamo né i rapporti e neppure delle persone da cui trarre informazioni, direi che possiamo andare a pranzo, che ne dici di fare un salto al Bay?” Elisabeth non sembrò molto convinta dell’offerta, quella situazione le aveva tolto l’appetito, ma non voleva offendere il compagno, così finse un minimo di entusiasmo: “Perché no, una buona insalata mi farà bene.” Marcelo si alzò, riposizionò la sedia e si diresse verso la porta. Elisabeth lasciò cadere il blocco sulla scrivania, proiettando la penna contro il monitor. La osservò, indecisa se sistemarla oppure no e, ovviamente, pensò che lo avrebbe fatto dopo. Prese la giacca e lo seguì.
Capitolo 2
Il dottor Kruner si avvicinò al tavolo autoptico ed osservò il corpo di Goldwin disteso sul freddo acciaio. Erano quasi quarant’anni che faceva autopsie e ne aveva visti di corpi su quel ripiano, uomini e donne, giovani e anziani, bambini. I bambini erano la sofferenza peggiore. A chi gli chiedeva se si fosse mai pentito della sua scelta lavorativa, rispondeva: “ogni volta che trovo sul mio tavolo un bambino.” I suoi professori lo avevano avvisato, avevano cercato di metterlo in guardia, di dissuaderlo. A volte aveva pensato che il loro scopo primario fosse quello di costringerlo ad abbandonare gli studi e dedicarsi ad altro e non se ne spiegava il motivo. In realtà il loro era un atto d’affetto, un gesto di bontà che mirava ad evitargli anni di sofferenza e di notti insonni, anni pervasi da incubi intervallati da sogni angoscianti. Volevano solo che quel terribile senso d’impotenza e di oppressione che permeava le loro vite non riempisse anche la sua. Volevano solo evitargli una vita di dolore ma lui, come tutti quelli prima di lui e, sicuramente, come tutti quelli dopo di lui, aveva voluto scegliere da solo, aveva voluto seguire la sua ione ed ora doveva convivere con quella sensazione ed era tardi per pentirsene. Molte volte aveva pensato di smettere, una volta aveva addirittura provato a farlo, ma non era servito. Gli incubi rimanevano, l’angoscia restava e non aveva nemmeno il conforto della “missione”, per usare un termine comune a molti. Così aveva deciso di rimettersi in gioco, ponendo come unico baluardo alla sua sanità mentale la ricerca della verità e, quindi, della giustizia. Lavorare su quei poveri corpi non era più una violazione della loro persona, ma diventava l’elevazione della scienza a braccio destro della giustizia e fare giustizia rimaneva, in quelle situazioni, l’unica cosa ormai possibile. “È tutto pronto dottore” disse Braitner, giungendo al suo fianco. Geremia nascose un sussulto e riuscì a mantenersi imibile.
“Ottimo Robert” disse con la solita calma, “possiamo iniziare.” Braitner si posizionò dal lato opposto del tavolo e preparò il carrello degli attrezzi, prese il bisturi e lo porse al dottore. Kruner fissava il corpo e rimase ancora un attimo affondato nei suoi pensieri. Robert non si scompose e restò col bisturi a mezz’aria sino a che il dottore non alzò lo sguardo. “Perché oggi non esegui tu l’autopsia?” Chiese all’assistente. Braitner sorrise compiaciuto. Sapeva che il aggio di consegne era dovuto al particolare stato emotivo del dottore, situazione rara ma non insolita, ma era un dettaglio trascurabile. L’unica cosa importante era la possibilità di fare pratica, e la fiducia concessagli dal titolare di ruolo restava comunque un premio d’indiscutibile valore. L’assistente, nell’occasione dottore, appoggiò il bisturi sulla spalla sinistra del cadavere, spinse delicatamente e sentì la carne lacerarsi sotto la pressione dell’affilatissima lama. Una volta giunto al limite di penetrazione, tirò il bisturi verso di sé e una sottile linea rossa comparve sul corpo pallido della vittima. Il tratto fu breve e la corsa si arrestò due centimetri prima di giungere al primo foro di proiettile. Braitner si fermò ed alzò lo sguardo verso il dottore. Kruner stava fissando la mano del collega, spostò la visuale, incrociando gli occhi ansiosi dell’assistente. Non disse nulla, bastò la sua espressione per confermare la propria approvazione e permettere al giovane praticante di continuare. Robert si esibì in un perfetto semicerchio che inglobava i due piccoli fori di proiettile e rientrò perfettamente allineato con la traccia iniziale. Estrasse il bisturi, controllò con le dita il punto adatto e lo affondò sulla spalla destra con precisione millimetrica. Percorse il breve tratto di torace, congiungendosi perfettamente all’incisione precedente, proprio all’estremità inferiore dello sterno. Alzò la testa e controllò la reazione del dottore che si esibì in un silenzioso applauso, più significativo d’ogni commento. Braitner si rivolse nuovamente al
cadavere, ma un sorriso di soddisfazione gli riempì il volto. Il bisturi riprese la sua marcia fra la molle carne sino all’altezza dell’ombelico, dove eseguì una deviazione simile alla precedente per rispettare il legamento rotondo del fegato, terminando la sua corsa all’altezza dell’osso pubico. Posò il bisturi ed iniziò a spostare la pelle della parte superiore del torace, rialzandola e tirandola sopra la faccia. I due lembi laterali della Y, costituiti dalla pelle del torace, vennero "scollati" attraverso l'utilizzo di un bisturi e un divaricatore e spostati lateralmente. L’immagine non era delle migliori e veniva da chiedersi cosa spingesse un giovane trentenne a dedicarsi a corpi come quelli anziché optare per una professione che prevedesse corpi più interessanti e, soprattutto, vivi, ma si sa, le ioni non hanno ragione e seguirle è l’unico modo di sentirsi realizzati. Così, mentre i suoi amici si muovevano nelle aule di un tribunale o nei laboratori di progettazione di qualche nuovo yacht, lui osservava un torace sanguinolento e un insieme di viscere violacee e maleodoranti. Posò il bisturi e prese un coltello affilato. Sollevò lo sterno e, aiutandosi col coltello, lo disarticolò dalla clavicola. Si voltò verso il carrello e prese il costotomo dal ripiano, soffermandosi un momento a controllare il resto dell’attrezzatura. Inalò un bel respiro e tornò nella posizione di lavoro. Avvicinò le forbici alla prima costola di destra, le fece scorrere sino all’estremità esterna della cartilagine costale e le chiuse con decisione. Lo schiocco secco ricordò a Robert il rumore delle ossa dei maiali durante la macellazione e gli fece scorrere un brivido che partì dal coccige e raggiunse la nuca, alzandogli la peluria del collo come una scarica elettrica. Kruger sorrise, osservando l’espressione di ribrezzo del suo assistente, ma rimase in disparte senza proferire parola. La mano si spostò sulla seconda costola e l’operazione venne ripetuta, partendo dal basso e risalendo verso l’articolazione sterno clavicolare. Sollevò il lembo caudale e recise le connessioni del diaframma e le pleure mediastiniche. Rimise il coltello sul carrello e si prese un attimo di pausa per regolarizzare il respiro e pianificare mentalmente le operazioni successive.
Quando si voltò, incrociò gli occhi del dottore, che si limitò ad un lieve sorriso ma, con lo sguardo, trasferì al giovane collaboratore la sua totale approvazione, ricaricandolo più di una bibita energetica. Robert si chinò sul corpo, afferrò con entrambe le mani la piastra sternale e la sollevò, esponendo alla vista tutti gli organi sottostanti. Ripose lo scheletro sul carrello e riprese il bisturi per recidere le connessioni dei vari organi, iniziando dal cuore. Ogni parte venne presa, pesata, fotografata, dissezionata e fotografata nuovamente. Solo allora il dottore decise di intervenire: “Lavoro straordinario” disse, “tecnicamente impeccabile e moralmente rispettoso della dignità umana.” Braitner esplose in un sorriso gigantesco che servì a scaricare tutta la tensione accumulata sino a quel momento. “Direi che non c’è molto da investigare” esordì Kruger. Prese il cuore, lo portò sotto la luce della lampada e lo mostrò al collega. “Come vedi, sono evidenti le due scanalature lasciate dai proiettili che, però, non sono nel corpo e i due fori nella schiena non lasciano spazio a dubbi. Non c’erano segni di polvere da sparo sui vestiti, almeno non evidenti, quindi la pistola era ad almeno un metro di distanza, ma non troppo oltre, la dimensione dei fori suggerisce un calibro 9 e da oltre due metri, considerando la massa incontrata, i proiettili si sarebbero fermati all’interno. Tutti gli organi, dal controllo visivo, non mostrano segni di malattie o traumi. Non sono presenti danni da malattie degenerative o tumorali. Un corpo in forma splendida.” “Un corpo che non dovrebbe trovarsi qui” disse con un certo rammarico Braitner. “Nessun corpo dovrebbe trovarsi qui” sottolineò sommessamente il dottore, “ma non siamo noi a deciderlo. Tutto quello che possiamo fare è fornire il massimo delle informazioni ai detective in modo che possano fare giustizia.” Uno strano silenzio calò sulla sala, una sorta di pausa meditativa simile a quelle religiose.
“Fratelli, per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati” pensò involontariamente Robert che, suo malgrado, rimase sorpreso da quella strana associazione d’idee. Stava ancora riflettendo sugli strani percorsi logici del suo cervello, quando lo squillo del telefono lo fece ripiombare nella cruda verità del laboratorio. Rimase a fissare il vuoto per alcuni istanti, come se si fosse appena svegliato da un incubo nel bel mezzo della notte e non sapesse esattamente dove si trovasse, poi reagì di scatto, correndo verso il telefono ed afferrandolo come un concorrente di rubabandiera. “Pronto” disse tra l’ansioso e il burbero. La voce dall’altro capo del telefono lo rese più malleabile, riportandolo sui suoi standard abituali. “Le o il dottore” disse all’interlocutore. Si voltò verso Kruger e, allungando il braccio, come se il medico potesse raggiungere la cornetta, disse: “È il tenente Stewart, della scientifica.” Il dottore lo raggiunse e prese il telefono. “Grazie, Robert.” L’assistente si spostò leggermente, ma rimase a portata d’udito. “Ciao Alvin, a cosa devo questa chiamata?” Esordì Kruger. Robert non sentì la risposta, così cercò di ricavarla dalle parole del dottore, ma con scarsa fortuna. “Certamente” disse Kruger, “ti faccio avere tutto appena ho finito gli esami.” Posò il telefono, lasciando Robert a bocca asciutta. “Vieni” disse subito dopo, “dobbiamo fare alcuni controlli.”
Dall’altro capo della linea il tenente Stewart riagganciò, raccolse la sua cartella con gli appunti e tornò nella stanza, dove Evans e Turner stavano analizzando gli abiti della vittima. “Che cosa abbiamo?” Chiese ai colleghi. Evans posò la lente d’ingrandimento sul tavolo e si spostò verso il tenente: “Definire gli abiti puliti è un eufemismo. Sembrano usciti dalla sartoria questa mattina. Non ci sono tracce biologiche o residui di alcun genere. I due fori sulla camicia non hanno segni di bruciatura e le tracce di polvere da sparo sono impercettibili. Direi che l’arma si trovava ad oltre un metro dal bersaglio. Le corde usate per legare i polsi sono cime ad uso nautico, piccole ma molto resistenti e, purtroppo, diffusissime in questa città. Anche queste non presentano tracce di alcun genere e i capi non sono stati recisi ma separati tramite calore, probabilmente con un piccolo saldatore. Il discorso vale anche per il nastro usato sulla bocca, troppo generico per permettere qualunque genere di confronto. In questo caso gli spezzoni sono stati ottenuti grazie ad una forbice, ma il taglio è netto, senza sbavature, impossibile abbinare un attrezzo specifico. I proiettili sono, scusa se mi ripeto, classici, calibro 9 Parabellum, tipici di una Glock o di una Beretta che, essendo le due armi in uso nelle nostre forze dell’ordine, sono presenti in misura esorbitante sul nostro territorio. Li abbiamo già controllati, l’arma risulta pulita.” Stewart assorbì l’ondata d’informazioni riversata da Sophie, cercando di non perdere nessun dettaglio ed evitando espressioni facciali compromettenti. Era un ottimo scienziato, una grande lavoratrice ed una splendida compagnia, ma la sua natura riduceva spesso le conversazioni a lunghi monologhi, dove l’intervento di una voce esterna richiedeva una scelta di tempo degna di un pilota di Nascar. Controllò il suo blocco in cerca di qualche dettaglio ma, non trovando alcun appiglio valido, si rivolse ancora alla collega: “Qualcosa di utile?” Chiese speranzoso. “Non saprei se definirlo utile” rispose Sophie, “sicuramente curioso. All’interno del nastro isolante abbiamo trovato dei numeri.” “Numeri?”
“Esatto. Una sequenza di numeri scritti a penna.” Sophie si spostò verso il tavolo, dove avevano raggruppato i documenti e prese il suo Pad. “La sequenza è questa” disse mostrando la schermata. Stewart guardò lo schermo. M527528532 Trascrisse il codice sul suo blocco e restò a fissarlo per qualche istante. “Hai mai pensato di procurarti uno di questi?” Chiese Sophie, alzando leggermente il Pad. “Più volte” rispose sorridendo Stewart, “ma la carta continua ad avere un’attrazione speciale. È qualche cosa d’indefinibile, come una simbiosi, un reciproco mutualismo” rispose con finta enfasi Stewart. “Idee?” Chiese subito dopo. “Molte” rispose Sophie, “ma valgono quanto una tessera del bingo. È possibile che si tratti di un codice d’accesso e, nel caso, le porte che sarebbe in grado d’aprire potrebbero essere infinite, da un sito web alla cassetta di sicurezza di una banca, ando per qualsiasi cosa usi una combinazione. Nel caso fosse un numero di matricola, di qualcosa o di qualcuno, non andrebbe meglio, anche qui le varianti si sprecherebbero. In alternativa, c’è la possibilità che quel numero abbia un senso solo per l’assassino e la cosa non ci aiuta di certo.” “Mi pare evidente che non si tratti di un omicidio casuale” commentò Stewart. Si avvicinò al tavolo con gli indumenti e ne fece una rapida panoramica prima di continuare: “Denota premeditazione, organizzazione, cura dei dettagli maniacale e, a mio avviso, lancia un chiaro messaggio di sfida. Scrivere quel numero sul nastro indica la volontà di comunicare con qualcuno quindi, o i destinatari siamo noi, oppure la sua prossima vittima. In entrambi i casi non si tratterà di un evento isolato e non aspetterà certo un nostro invito. Sarà opportuno sbrigarsi.”
“Come sempre” commentò Sophie, “purtroppo non abbiamo in mano nulla, per ora.” Stewart prese atto della considerazione e cercò una nuova via. “Tu che mi dici?” Chiese a Turner. Marcus si avvicinò al monitor principale, attivò il visualizzatore e si posizionò sulla prima fotografia. “Queste sono le corde che legavano il corpo” disse. “I nodi sono del tipo inglese, conosciuti anche come nodi del pescatore. Vengono usati per unire lenze da pesca e permettono di collegare cavi di misure diverse.” Al contrario di Sophie, Marcus era di poche parole, soppesate e valutate, così Stewart attese il seguito senza interferire. “Le impronte” riprese Marcus, cambiando l’immagine a video. “Le impronte sono solo della vittima, in tutta la stanza.” “Piuttosto anomalo” intervenne Sophie che fremeva nell’attesa di poter partecipare. “Non troppo” rispose il collega. “Ho chiesto in albergo e mi hanno confermato che tutto il personale indossa guanti regolarmente, sia il concierge che tutti gli operatori, compreso il personale delle pulizie. L’assassino ha fatto, ovviamente, la stessa scelta.” “Questo significa” aggiunse Sophie, “che le pulizie al cambio ospite sono state fatte in modo esemplare e che il personale si attiene scrupolosamente alla regola dei guanti. Tuttavia, mi sembra impossibile che la stanza sia stata ripulita così a fondo. Forse dovremmo ricercare impronte dove normalmente nessuno mette mano e dove, di conseguenza, nessuno pensa di pulire.” “Idea meritevole” subentrò Stewart, “ma, come hai detto, se nessuno mette mano e, in aggiunta, l’assassino aveva probabilmente i guanti, l’unica cosa che potremmo trovare sono le impronte di un ospite precedente e, perdonami, ma
non sarebbero di alcun aiuto.” “Touchet” rispose Sophie “ma…” “Ne parliamo dopo” la interruppe Stewart, “devo scappare.” Uscì, lasciando i colleghi interdetti, e si avvio verso l’uscita del laboratorio. “Cosa facciamo?” Chiese Turner. “Quello che sappiamo fare meglio, cerchiamo prove e indizi. Abbiamo analizzato i vestiti, le scarpe, le corde ed il nastro. Abbiamo controllato le impronte e cercato ogni forma di residuo. Non abbiamo riprese video ne testimoni, ma abbiamo una scena del crimine sigillata. Direi di tornare all’albergo e rivedere o per o tutto il protocollo, potrebbe esserci sfuggito qualcosa o, magari, potrebbe venirci qualche idea illuminante.” Turner non rispose, aprì la sua valigetta, controllò il contenuto e la richiuse. Guardò Sophie e si limitò ad un perentorio: “Andiamo!”
Capitolo 3
Lo squillo del telefono strappò il velo di silenzio che aveva ricoperto l’ufficio dopo la pausa pranzo, riportando gli astanti nel mondo reale. Marcelo sollevò la cornetta con calma. “Morales… arriviamo.” Guardò Elisabeth che, in quel momento, avrebbe desiderato trovarsi ovunque ma non lì. La ragazza cercò di scomparire, ma senza riuscirci così, rassegnata, si alzò e si avviò alla porta, preceduta dal collega. Raggiunsero l’atrio, dove una signora elegante nel suo completo blu aspettava davanti al distributore di bevande, in compagnia di un agente. “Signora Goldwin” disse Marcelo, tendendo la mano. La signora si voltò e la frangia che le copriva il viso si spostò di lato, lasciando intravedere un viso splendido solo leggermente segnato dal tempo ma, in maggior modo dal dolore. Gli occhi azzurri erano gonfi e umidi e solo la magia di un make-up waterproof evitava alla donna di presentarsi come una statua di cera nel sole di luglio. Con uno sforzo tese la mano, stringendo quella di Marcelo. “Detective Morales, la mia collega, ispettore Wright” disse Marcelo, “le nostre condoglianze.” “Grazie” rispose con un alito di voce la donna. “Gradisce qualcosa, del caffè, dell’acqua?” Chiese Marcelo tentando un approccio delicato.
“Dell’acqua andrà benissimo” rispose la vedova. Marcelo prese la chiave magnetica dalla tasca e la utilizzò per prelevare una bottiglia dal distributore. Si sollevò ed estrasse un bicchiere dal dispenser, porgendo il tutto alla signora. “Venga” disse, “ci spostiamo in una stanza più tranquilla.” La donna lo seguì, lasciando Elisabeth a chiudere la fila. Si avviarono verso gli uffici ma si fermarono nella stanza adiacente alla porta di vetro, quella normalmente utilizzata per gli interrogatori. Marcelo aprì la porta, lasciando entrare la signora e, vedendo lo sguardo perplesso, si sentì in dovere di fornire una spiegazione. “Ci scusi per la stanza” disse in tono accomodante, “non è certo il massimo, ma è insonorizzata e senza telefono, qui nessuno ci disturberà.” La signora entrò, già convinta che ci fosse più di quello che le avevano anticipato telefonicamente. “Prego, si accomodi.” Presero posto attorno al piccolo tavolo metallico e, per qualche istante, nessuno fece nulla. Elisabeth guardava attentamente un blocco per appunti che non conteneva nulla, in attesa che Marcelo rompesse il ghiaccio. “Signora Goldwin” disse Marcelo dopo un’eternità, “è già stata informata dell’accaduto?” “Il vostro incaricato mi ha detto che mio marito è stato trovato morto in un hotel del centro, ma non ha detto altro. Visto l’interessamento della squadra omicidi e la privacy che avete cercato di mantenere, devo supporre che sia qualcosa di più di un incidente.” “Ho paura di sì” rispose dispiaciuto Marcelo.
“Non si preoccupi” riprese la vedova, “qualunque cosa mi debba dire, lo faccia, senza remore, senza edulcorazioni, voglio la verità.” Il tono della signora Goldwin era improvvisamente diventato freddo, distaccato. Marcelo posò il faldone sul tavolo e vi appoggiò le mani sopra, cercando il modo migliore per esporre i fatti ma, inaspettatamente, la cosa sembrava diventata più semplice del previsto. “Le racconterò esattamente tutto quello che sappiamo” disse Marcelo, “iniziando dalla motivazione del viaggio di suo marito.” Guenda Goldwin non si scompose, rimanendo in attesa del seguito. “La signora Ferguson, socia di suo marito, ha dichiarato che, pur essendo a conoscenza del viaggio, non aveva idea delle motivazioni. Si presumeva si trattasse di un meeting di psicologia imprenditoriale, anche se non se ne spiegava il motivo. Il signor Goldwin, a suo parere, non aveva nessuna necessità di partecipare a corsi del genere anzi, avrebbe potuto esserne il relatore. Non siamo ancora riusciti a controllare se effettivamente suo marito abbia partecipato al congresso tenuto dal dottor De Breen, ma non crediamo che questo fosse il suo interesse principale e nemmeno che sia connesso con la sua morte.” Guenda continuava a fissare Marcelo senza battere ciglio, attendendo con calma la parte più tragica della spiegazione. “Veniamo al delitto” riprese Marcelo. “Suo marito è stato trovato morto in una camera del Hampton Inn. Gli hanno sparato due colpi in pieno petto.” Spostò il faldone verso la signora. “Non è un bello spettacolo” l’avvisò. Guenda allungò la mano e voltò il primo foglio. L’immagine era chiara quanto terribile. La donna richiuse il faldone e lo spinse verso Marcelo.
“Avete scoperto qualcosa?” Chiese senza guardarlo. “Sappiamo solo che la sera di sabato è uscito a cena ed è rientrato verso le due di notte, da solo. Il direttore ha scoperto il corpo solo questa mattina. Stiamo aspettando i rapporti del medico legale e della scientifica. Avremmo bisogno di qualche informazione per capire meglio suo marito, le abitudini, le frequentazioni, i vizi.” Lo sguardo di Guenda si sollevò dal tavolo e si piantò negli occhi di Marcelo come un dardo infuocato. La donna si trovava sull’orlo di un precipizio, una corda tesa fra due sponde, sospesa nel vuoto. Da un lato il dolore della perdita del marito, amato e considerato un uomo onesto, buon padre e compagno fedele, dall’altro la possibilità di scoprire che tutto quello in cui credeva fosse solo un’immagine costruita, uno specchietto per le allodole, un telo teso per coprire la vera natura dell’uomo. La voglia di scoprire la verità veniva soffocata dalla paura che la stessa fosse troppo brutta per poter essere accettata. Essere informata della morte di tuo marito era un dramma indescrivibile, ma scoprire che non era chi credevi che fosse, anzi, sospettare che dietro quella maschera si nascondesse un essere ignobile, se non peggio, rendeva l’ignoto un'inattesa quanto valida alternativa. Il suo cervello odiava suo marito per quello che, forse, aveva fatto, ma il suo cuore odiava quel poliziotto che, senza prove, accettava di percorrere la via del marito infedele o depravato, come se non esistessero alternative. Il suo stato d’animo era simile ad una pallina da ping-pong, sballottato da un’ipotesi all’altra, dall’innocenza assoluta alla colpa più infamante e l’atteggiamento rispecchiava pienamente questa situazione. Guenda era infuriata. Come si permetteva quello sconosciuto di fare simili insinuazioni su suo marito. Chi credeva di essere. Il suo distintivo non gli dava l’autorizzazione ad infangare la reputazione di un uomo onesto. Lo avrebbe urlato in faccia a quell’agente così insolente da permettersi delle simili affermazioni. Lo avrebbe certamente fatto. Se solo fosse stata certa che non avesse ragione lui, che, dopotutto, la sua non fosse solo un’attenta e incondizionata analisi dei fatti, impermeabile alle interferenze dettate dall’amore
e dalle decine di anni trascorsi insieme. Le fiamme si spensero e lo sguardo divenne remissivo, quasi rassegnato. “Ho conosciuto mio marito il 20 maggio 1988” disse atona. “Eravamo ad una festa di laurea di un amico comune. L’ho visto da lontano e ho pensato che quello sarebbe stato l’uomo della mia vita e, fino a questa mattina, avevo avuto ragione.” Fece una pausa, estraendo un fazzoletto dalla borsa e tamponandosi leggermente gli occhi per evitare di danneggiare il trucco. Elisabeth fece la stessa cosa, mantenendosi in un angolo per non dare nell’occhio. Marcelo versò dell’acqua e porse il bicchiere alla vedova che ne bevve un piccolo sorso prima di riprendere. “Suppongo che le informazioni di cui avete bisogno non siano queste” disse, accennando un sorriso. “Non si preoccupi” rispose Marcelo, “prosegua pure con calma, anche questo può essere utile.” Guenda apprezzò la gentilezza e si rimise a parlare. “Mio marito era abitudinario. Lavorava sempre dalle 8 di mattina alle 8 di sera, dal lunedì al venerdì. Il sabato pomeriggio era dedicato al golf e la domenica alla famiglia. Beveva moderatamente, soprattutto bourbon, anche se non disdegnava la birra e il vino. Non fumava quasi mai, a parte un sigaro dopo una vittoria in tribunale. Non giocava, non amava le scommesse. Diceva che devi scommettere solo se hai più della metà delle probabilità di vincere, altrimenti è meglio scommettere contro te stesso. Non aveva vizi particolari, che io sappia, ma amava i vestiti e le auto e, anche se non si faceva mancare nulla, riusciva a non esagerare mai.” Prese il bicchiere e vuotò il contenuto. Marcelo cercò la bottiglia, ma Guenda fece cenno che non serviva. “Non so se posso essere più dettagliata” disse, posando il contenitore sul tavolo.
Marcelo controllò il fascicolo, lo richiuse e guardò la donna. “Signora Goldwin, ora le devo fare alcune domande scomode, anche imbarazzanti, ma è la procedura. Se riuscisse a rispondere sarebbe di grande aiuto. Se la sente?” Chiese. “Farò il possibile” rispose Guenda. “Suo marito lavorava per un’importante studio legale. Le risulta che fra i suoi clienti ci fossero persone non troppo raccomandabili?” “Non parlava mai di lavoro con me, ma viste le parcelle che percepiva, suppongo di si.” “Ha mai fatto uso di droga?” “No, di certo. Mio marito era contrario persino all’erba al college e non era cambiato, almeno non in quello.” “C’è la possibilità che avesse un’amante?” “La possibilità c’è sempre, ma se così fosse, era abbastanza attento da non lasciare il minimo indizio.” “Pensa che ci fosse qualcuno pronto a fargli del male?” “Se sei un avvocato qualche nemico te lo fai. Se mandi in prigione qualcuno, i suoi parenti se la prenderanno con te, se fai assolvere qualcuno, lo faranno i parenti della vittima. In entrambi i casi ti sarai fatto dei nemici o, per non esagerare, delle persone ostili.” “Hai mai ricevuto minacce esplicite?” “No, direi di no. Molti insulti, sguardi taglienti, ma niente di più.” Marcelo scrisse un appunto sul suo blocco, lo chiuse e guardò la collega. Elisabeth sembrava un gattino appena tolto dall’acqua e bisognoso di tranquillità ed affetto, così decise di proseguire senza coinvolgerla. “Signora Goldwin, le spiego tutto quello che sappiamo sino ad ora.”
La donna fece un cenno d’assenso e un brivido la percorse per tutto il corpo. “Suo marito si è registrato in albergo sabato mattina. È uscito, probabilmente per recarsi al convegno, ed è tornato poco prima di cena. Poco dopo è uscito nuovamente per rientrare verso le due. In tutte queste occasioni si è sempre presentato da solo, ma, secondo le ipotesi dei portinai dell’albergo, potrebbe aver ricevuto compagnia da un ingresso secondario. Nel biglietto rinvenuto alla reception chiedeva di non essere disturbato per tutta la giornata di ieri e questo confermerebbe la necessità di mantenere nascosta una qualche attività svolta in camera. Non possiamo stabilire il genere d’attività, e nemmeno se il biglietto sia stato scritto volontariamente o meno, l’unica cosa certa, per ora, è la preparazione dell’omicidio. Non si è trattato di un incidente né di un eccesso di rabbia, era tutto pianificato tranne, forse, la vittima.” “Cosa intende esattamente?” Chiese stupita Glenda. “Non siamo certi che suo marito fosse la vittima designata. Potrebbe essere stato scelto all’ultimo istante per dei motivi che non conosciamo, magari solo per essere stato al posto giusto al momento della decisione.” “Quindi, tutto quello che mi ha chiesto sulla sua vita privata non avrebbe alcuna influenza sul caso, o sbaglio?” “Non esattamente” rispose Marcelo, “le probabilità che si sia trattata di una sfortunata coincidenza mi paiono remote. È più realistico pensare che sua marito sia stato scelto per qualcosa che ha fatto, magari ieri sera.” “Mi vuol far crede che un uomo potrebbe essere stato ucciso in questo modo solo per un comportamento particolare tenuto sabato sera?” Il tono di Guenda si era alzato e, negli occhi, erano riapparse le prime fiammelle. “Quello che cerco di dirle” replicò Marcelo, cercando di abbassare i toni,” è che il comportamento di suo marito potrebbe aver causato la reazione dell’assassino. Questo non significa necessariamente che suo marito abbia mantenuto un comportamento eccessivo, ma le possibilità che abbia superato un certo limite sono alte. Se, e ripeto se, come sostiene il personale della portineria dell’Hampton, è tornato in albergo in compagnia, qualcuno potrebbe essersela presa o, in linea teorica, poteva sfruttare la cosa grazie ad una complice,
ammesso che non si trattasse dell’assassino stesso. Se possiamo escludere la premeditazione legata alla sua vita privata o professionale, possiamo concentrare l’attenzione sul suo viaggio e sulle sue attività di sabato e questo ridurrebbe notevolmente il terreno di ricerca.” Guenda non rispose, cercando di riprendere la calma. Ancora una volta si ritrovò a dover scegliere fra la ricerca della verità e la salvaguardia dell’onore suo e di suo marito e, come fatto in precedenza, scelse la prima. “Capisco” disse nel suo tono pacato, “ma è difficile da accettare. Pensare che mio marito sia stato ucciso per il suo lavoro è terribile, ma farebbe di lui un martire, se mi a l’espressione, ma saperlo coinvolto in qualche torbida attività, rende la cosa ancor più terribile. D’altro canto se, come dice lei, la cosa fosse stata premeditata come evento, ma non come vittima, e non fosse minimamente legata alla sua vita privata o professionale, significherebbe che in giro c’è un serial killer e se io posso aiutarvi a fermarlo prima che commetta altri omicidi, penso che la questione non si ponga nemmeno. Mi chiedo solo cosa possa dirvi che già non sappiate.” “In realtà, più che delle sue informazioni, necessitiamo della sua autorizzazione a perquisire la casa e i suoi dispositivi elettronici, telefono, computer e qualsiasi altro apparecchio utilizzasse. Dovremo andare anche in ufficio, ma in questo caso dovrà intervenire il procuratore con un mandato.” “Visto come stanno le cose, fate pure, avete la mia autorizzazione.” “Grazie signora” disse Marcelo alzandosi. Guenda lo imitò e si avviò alla porta. “Un agente l’accompagnerà all’obitorio per il riconoscimento ufficiale” la informò Marcelo, “noi la terremo informata sugli sviluppi.” La donna strinse la mano ai due detective e si avviò all’uscita. Solo allora Elisabeth intervenne. “Noi cosa facciamo adesso?” Chiese titubante. “Il dottor De Breen è ancora in città, andiamo a trovarlo.”
“Pensi possa aiutarci?” “Non saprei, ma potrà confermare la partecipazione di Goldwin e, magari, darci qualche dritta su quello che potrebbe essere accaduto.” Elisabeth annuì convinta e si diresse all’auto. Uscirono dal distretto senza commentare e in pochi minuti arrivarono sul piazzale dell’Hyatt Regency. Lasciarono l’auto nel parcheggio destinato al carico e scarico dei veicoli e si avviarono verso la reception. Superate le porte, si ritrovarono in una hall grande quanto un campo da basket, con enormi colonne ricoperte di specchi ai lati ed immensi lampadari con decine di lampade ad osservarli dall’alto. Percorsero il corridoio centrale con un certo timore reverenziale, come se si trovassero alla Casa Bianca e stessero per incontrare il presidente. Giunsero al banco della reception e Marcelo si avvicinò senza mostrare il distintivo: “Mi scusi” chiese al portiere, “dove posso trovare il dottor De Breen?” Senza scomporsi il portiere si accostò al banco e gli sorrise. “Lo trova nella sala Platino, in fondo al corridoio, la porta centrale.” “Grazie” disse Marcelo, ricambiando il sorriso. Si avviò vero un altro corridoio poco più stretto del precedente, seguito da Elisabeth, ancora stordita da tutto quello sfarzo. Entrarono nella sala ed incrociarono un uomo elegante, in un completo grigio scuro più costoso dei loro stipendi sommati. “Mi scusi” chiese Marcelo, “mi saprebbe indicare il dottor De Breen?” “Certo” rispose l’uomo in grigio. “È quel signore in giacca bianca in quel gruppetto sotto al palco, ma siete in ritardo, il meeting è finito.”
“Grazie” rispose Marcelo allontanandosi, “ma non siamo qui per quello.” Percorsero il corridoio fra due file di poltrone bianche con schienale nocciola sino al palco, ammirando i due maxischermi posti ai lati sui quali giravano ancora dei filmati promozionali. Erano a pochi i dal gruppo quando De Breen si voltò verso di loro. “Vedete” disse ai suoi attenti interlocutori, “prendiamo come esempio questa ragazza. Dall’abbigliamento, dal taglio di capelli e dal trucco possiamo dedurre che è una donna molto sicura di sé, una donna che non vuole che la sua bellezza sia d’intralcio o d’aiuto, una donna senza fronzoli, tutta d’un pezzo, una che vuole farcela per quello che vale.” Elisabeth aveva raggiunto il gruppo, ma non disse nulla, lasciando continuare il dottore. “Dall’altra parte” proseguì De Breen, “abbiamo una donna incerta, che cammina dietro l’uomo, che tiene le braccia conserte come forma di difesa, che evita di guardare dritto negli occhi qualcuno che la intimorisce o la preoccupa. Quindi, in fin dei conti, una donna divisa in due parti, le due facce della stessa medaglia.” Il piccolo gruppetto si esibì in un applauso e in una serie di elogi ridondanti, mentre Marcelo si limitò ad estrarre il distintivo. “Dottor De Breen, sono il detective Morales, potrebbe dedicarmi due minuti?” Il dottore non sembrò sorpreso o lo nascose molto bene. “Certo, sempre a disposizione delle forze dell’ordine” disse. Marcelo estrasse una fotografia e la mostrò al dottore. “Conosce quest’uomo?” Chiese. De Breen osservò la fotografia senza mostrare la minima variazione d’espressione poi, guardando Marcelo, disse: “Mai visto prima.”
“Sabato ha partecipato alla sua conferenza, è sicuro di non ricordarlo?” insistette Marcelo. “Vede ispettore, da sabato ad oggi ho tenuto sei conferenze per un totale di duemila iscritti. Le assicuro che di tutti questi ne conosco l’uno per cento, ad essere ottimisti.” “Posso chiederle di cosa si tratta?” “Certo, non è un segreto. Io insegno alle persone a credere in loro stesse, a valorizzare le proprie capacità, riducendo al minimo l’influenza negativa dei loro difetti. Spiego come valutare le altre persone in base all’abbigliamento, alla postura, alla mimica facciale e alla scelta delle parole. Ne ha avuto un piccolo assaggio quando siete arrivati.” “I suoi clienti sono tutti manager?” Chiese, non molto convinto, Marcelo. “Assolutamente no. Ci sono manager, ovviamente, ma anche assicuratori, broker finanziari, venditori di ogni genere, capi d’impresa, e persino giocatori di poker. Tutte persone che ritengono fondamentale conoscere il proprio interlocutore per avere un vantaggio. Potrebbe essere utile anche a voi.” “Grazie, magari un’altra volta” rispose ancora scettico Marcelo. “Posso chiederle io di cosa si tratta?” Chiese De Breen. Marcelo valutò l’ipotesi di barricarsi dietro al segreto istruttorio, ma ritenne più utile informare il dottore, nella speranza di ottenere qualche informazione. “Quest’uomo è morto sabato sera, dopo essere venuto alla sua conferenza.” “Non vorrei sembrarle invadente, ma forse è il caso di controllare. Come le dicevo prima, ho tenuto sei conferenze, una al mattino e una al pomeriggio, ogni giorno. Forse quell’uomo è venuto da me al mattino e quindi dovreste scoprire dov’è stato al pomeriggio.” “È possibile sapere quando ha partecipato?” “Certo, ma devo sapere il nome.”
Marcelo voltò la fotografia, mostrando i dati scritti sul retro. De Breen estrasse il cellulare e chiamò la sua assistente. “Helena, mi sai dire quando aveva prenotato il signor Goldwin, Russel Goldwin?” Ci furono alcuni attimi di silenzio, poi la voce delicata della ragazza tornò a farsi sentire. “Ok, grazie” disse De Breen, poi, rivolgendosi a Marcelo, “Goldwin aveva prenotato per sabato mattina.” “Non è possibile che abbia cambiato idea e sia venuto nel pomeriggio o, magari, non sia venuto affatto?” “Assolutamente no. Deve sapere che i posti erano esauriti da tempo, non presentarsi significava perdere il diritto di partecipazione, oltre a cinquecento dollari, e doverci riprovare fra sei mesi, ma, per fugare ogni dubbio, mi hanno appena confermato che alla reception abbiamo il suo invito, riconsegnato al momento dell’arrivo.” Marcelo mostrò la maschera sconsolata tipica di chi si ritrova senza tracce e il dottore ne approfittò per mostrare un’altra delle sue doti, di certo meno professionale della precedente. “Non si abbatta, ispettore” disse, appoggiando una mano sulla spalla di Marcelo, “vedrà che troverà la pista giusta. Magari, mentre la cerca, può lasciare la sua collega qui con me, potrebbe imparare molto” aggiunse, guardando affascinato Elisabeth. Marcelo lanciò un’occhiata al dottore, tanto eloquente da non richiedere tecniche di comprensione, tese la mano ed attese. “Grazie per la collaborazione, dottore.” Deluso, ma imibile, De Breen salutò Marcelo e allungò la mano verso Elisabeth che, per tutta risposta, fece un cenno di commiato e si voltò, dirigendosi verso l’uscita.
Lasciarono l’albergo e risalirono in auto. “Come scopriamo dov’è stato?” Pensò ad alta voce Marcelo, cercando di stimolare la partecipazione della sua partner. “Forse ho un’idea” disse improvvisamente Elisabeth, “ci affidiamo alla tecnologia. Se può spendere cinquecento dollari per un meeting, non sarà certo rimasto al parco tutto il pomeriggio e, visto il tipo, non si sarà portato troppi contanti. Facciamo tracciare i movimenti tramite la carta di credito, potremmo avere un percorso da seguire.” “Giusto, e già che ci siamo” aggiunse il collega, “proviamo a tracciare le eventuali chiamate effettuate dal cellulare. Incrociando le due liste potremmo avere un’idea dei suoi movimenti.” “Senza dimenticarci il navigatore dell’auto” concluse Elisabeth. Sorrisero, anche se per motivi diversi, e si avviarono verso la centrale. Erano ancora sulla soglia quando l’agente in portineria li chiamò. Marcelo si avvicinò al banco “Ciao Cindy, urgenze?” Chiese con un sorriso. La ragazza estrasse due buste sigillate e gliele porse. “Le hanno portate dalla scientifica e dall’obitorio” disse, ricambiando il sorriso. “Ottimo, grazie.” Prese le buste e si diresse verso il suo ufficio. “Una per uno?” chiese ad Elisabeth. “Certo, se posso scegliere, vorrei quella della scientifica.” Marcelo lesse l’etichetta e consegnò la busta prescelta. Pr alcuni istanti lessero in silenzio, poi si guardarono ed Elisabeth prese l’iniziativa.
“Inizio io” disse. “Secondo il rapporto, lo sparo è avvenuto da oltre un metro, i vestiti sono puliti, così come la stanza. Nessun indizio, nessuna impronta, nessun reperto. Unica nota, un codice scritto all’interno del nastro che sigillava la bocca, ma non hanno idea di cosa possa essere. Stanno tornando all’albergo per ricontrollare.” “Bene” rispose sarcasticamente Marcelo. “A me non è andata meglio. Secondo Geremia, l’uomo è stato ucciso con due colpi al cuore. I test tossicologici non hanno rilevato tracce di droga e moderate tracce di alcool. Nessuna attività sessuale, almeno non recente. Nessuna lesione estranea, né da contatto né da difesa. Nello stomaco hanno trovato residui di scampi, mozzarelle di bufala e prosciutto crudo. Visto lo stato di decomposizione degli alimenti, dovrebbe essere morto non più di due ore dopo la cena.” “Scampi e prosciutto crudo?” Commentò Elisabeth. “Una cena di un certo livello. Vista la disponibilità economica ed il buon gusto dimostrato, direi che la cena è stata consumata in un ristorante con almeno quattro stelle. Quindi, se uniamo tutte le caratteristiche richieste otteniamo un solo nome, il Toscana, che, se non erro, è conosciuto per le sue specialità italiane e, oltre tutto, è sulla Hendricks Avenue, a meno di quindici minuti dall’Hampton. Direi che una vista è d’obbligo.” “Adesso?” Chiese Elisabeth timorosa. Marcello guardò l’orologio. Effettivamente era più tardi del previsto e, anche se lui non aveva una vita privata, altri non vedevano l’ora di tornare a casa, quindi la rassicurò. “No, direi di no. Andiamo domani mattina.” Elisabeth lo ringraziò con un sorriso e si alzò. “Ci vediamo domani” disse uscendo. “A domani” rispose Marcelo. Spostò la busta e prese quella della scientifica che Elisabeth aveva lasciato sulla sua scrivania.
Si appoggiò alla seggiola ed iniziò a leggere.
Capitolo 4
Chris osservava gli occhi terrorizzati dell’uomo e sorrideva, un sorriso macabro, a tratti spettrale. Era in piedi davanti a lui e ne sentiva tracimare la paura, il terrore puro che sgorgava come acqua da una sorgente. Vedeva il sudore imperlargli la fronte, scendere verso le guance, sfiorando le cicatrici del lifting, e ricadere sul colletto della camicia di Armani. La prima volta era successo tutto troppo in fretta e non aveva potuto godersi questo magnifico spettacolo, ma ora poteva apprezzarne l’intensità, poteva capirne la magnificenza e non aveva intenzione di rinunciarci. Prese le forbici e le alzò all’altezza del viso e notò, con non poca eccitazione, un sussulto di paura scuotere il suo “amico”, un’altra sferzata di adrenalina che non si era aggiunta la volta precedente, ma che ora si sommava per creare un’iperbole di piacere. Si avvicinò all’uomo e l’osservò ancora. Un bel completo su misura di taglio italiano, di un blu a metà tra il denim e il cobalto, come l’oceano dopo una mareggiata. Una camicia bianca, avorio per la precisione, coperta da un panciotto del colore dell’abito, ma arricchito di sottili linee più chiare, dal quale spuntava un altrettanto splendida cravatta di seta azzurra, leggermente allentata e decorata con piccoli disegni a fiori. Le scarpe, ordinatamente posate vicino al letto, davano un tocco di eccellenza ad un abbigliamento già di per sé sublime. Solo i capelli rovinavano il quadro d’insieme. Il bel ciuffo che c’era in precedenza si era trasformato in un ammasso di peli bagnati incollati alla fronte.
Chris posò le forbici e andò in bagno. Ne uscì poco dopo con un pettine, ma senza il suo sorriso terrificante. Si avvicinò al letto e, con calma, ò il pettine fra i capelli dell’uomo, cercando di ricomporre la pettinatura precedente, ma senza grossi risultati. Ritornò in bagno, fece scorrere dell’acqua sul pettine e gli versò sui denti un paio di gocce di sapone liquido, facendolo scivolare per tutta la lunghezza utilizzabile. Si ripresentò in camera, muovendosi con la solita, terrificante calma. Riprovò a pettinare l’uomo e, questa volta, ebbe più fortuna. I capelli rimasero in posizione e, anche se non avrebbe mai vinto il premio per la miglior piega dell’anno, Chris si sentì riempire di soddisfazione per il risultato raggiunto. Si spostò un o indietro, come un pittore con la sua tela, e ammirò l’opera con aria compiaciuta e, a modo suo, rassicurante. Rimase a lodare in silenzio il suo lavoro per alcuni minuti, minuti che alla sua vittima parvero secoli, poi, con fare molto rilassato, tornò a riporre il pettine e si ripresentò dopo pochi attimi, portando con sé l’immagine demoniaca che aveva abbandonato solo pochi minuti prima. Gli occhi dell’uomo non avevano perso quell’energia meravigliosa che, da sola, valeva l’intera serata e questo alimentò, ammesso ce ne fosse bisogno, la sua carica emotiva. Si avvicinò nuovamente al letto e controllò la tenuta dei nodi, sapendo che non sarebbe servito se non a prolungare di qualche istante quell’attimo di vero piacere. Riprese le forbici ma, anziché usarle, si sedette di fronte all’uomo ed iniziò a fissarlo. Trovava moralmente inaccettabile quello che aveva fatto e, non potendo confidare sulla legge, pensava che farsi giustizia fosse il solo modo per riequilibrare le cose. Non tutti sarebbero stati d’accordo, lo sapeva, ma non era necessario. La vera cosa fondamentale rimaneva il rapporto fra il reato e la sua punizione. Non c’era nulla di scritto, non esisteva documentazione, non era
presente nella letteratura giuridica, almeno non in quella penale, e quindi nessuno si era mai assunto la responsabilità di gettare le fondamenta di un nuovo articolo che trattasse il caso e, di conseguenza, nemmeno di deciderne la pena. Questa cosa doveva finire e, non potendo più aspettare, aveva deciso di occuparsene personalmente, avrebbe gestito la cosa a modo suo, avrebbe incarnato lo spirito del giudice, della giuria e, più di tutti, del carnefice. Avrebbe posto le basi per una variazione fondamentale del codice penale degli Stati Uniti, e tutti, alla fine, sarebbero stati d’accordo, tutti avrebbero apprezzato. Si alzò dalla seggiola ed il suo sorriso si ampliò ancora di più, i suoi occhi si accesero della lucentezza speciale che pervade un bambino davanti al buffet di dolci e i suoi lineamenti ripreso le forme di una maschera, raccapricciante nella sua bellezza. Si avvicinò al tavolo, posò le forbici e raccolse la sua Beretta. Estrasse il silenziatore e lo avvitò delicatamente sulla canna della pistola. Nuovamente si voltò verso l’uomo legato e sorrise, e ancora una volta ricevette in cambio quella smorfia terrorizzata che tanto amava. Raccolse le forbici con la mano destra, tenendo ben salda la pistola nella sinistra. L’uomo iniziò a dimenarsi, cercando di farsi sentire in ogni modo. Sollevò le gambe, lasciandole ricadere sul letto, si spinse contro la testata, sperando di urtare il muro e richiamare l’attenzione dei vicini, ma ogni suo tentativo sembrava risultare vano. Nessuno rispose. Nessuno lo poteva aiutare. Osservava Chris avanzare lentamente verso di lui. Vedeva le forbici e la pistola e sapeva come sarebbe finita. Non riusciva a distogliere lo sguardo, era come ipnotizzato, paralizzato dalla paura.
Con uno sforzo immane riuscì a voltare la testa e riprese a pensare. Esaminò tutta la stanza in cerca di una soluzione, una via di fuga, sapendo che sarebbe stato tutto inutile. Era immobilizzato e non avrebbe raggiunto nessun oggetto, nessuna arma. Poteva solo farsi sentire, ma il letto era un gioiello, non emetteva nessun cigolio, niente schiocchi e, anche se l’avesse fatto, sarebbe ato inosservato, almeno sino al giorno dopo, e allora sarebbe stato troppo tardi. Si rilassò, distendendo le gambe sul letto, come se avesse rinunciato, e riportò lo sguardo su Chris che, sino a quel momento, non aveva dato segno di nervosismo o irritazione, lo aveva lasciato sfogare, consapevole che non sarebbe giunto a nulla, se non stancarsi e sudare ancora di più. Chris non disse nulla, ma l’espressione degli occhi si addolcì, quasi a dimostrare comprensione per un simile atteggiamento. Si accostò al letto e alzò la pistola. Solo allora l’uomo scattò. Riunì tutte le sue forze in un unico e poderoso balzo, proiettando le gambe verso il volto di Chris, cercando di colpire con la massima forza possibile. I piedi partirono, come lanciati da una fionda e sferzarono l’aria, diretti come proiettili verso l’obiettivo. Erano veloci, potenti, ed erano a pochi centimetri dal bersaglio, poteva farcela. Avrebbe potuto farcela, ci credeva. Avrebbe potuto, se solo Chris non avesse compiuto una torsione veloce del busto, spostandosi verso destra e lasciando sfilare i piedi poco distanti dal suo viso. Le gambe dell’uomo ricaddero nel vuoto. La caviglia destra precipitò sul fondo del letto e rimbalzò sul materasso, mentre
la sinistra colpì il pomolo della pediera, una sfera di legno compatto, duro come il ferro. Il colpo centrò perfettamente il malleolo mediale, scaricando una fitta di dolore lungo tutta la gamba, sino al bacino. L’uomo emise un grugnito che sarebbe dovuto essere un grido di dolore e di frustrazione. Si era giocato l’unica possibilità e aveva perso. Non avrebbe avuto altre chance per salvarsi, non aveva più nemmeno la forza per provarci. Si afflosciò, come uno straccio gettato a terra, ed attese l’inevitabile. E l’inevitabile arrivò. Chris lo guardò e l’appagamento fu totale. Sperava in una reazione ma, vedendo l’uomo rassegnato al suo destino, la delusione si era fatta strada. Non che ci fosse possibilità di cambiare gli eventi, sia chiaro, ma la mancanza anche di un minimo di istinto di sopravvivenza era una vera tristezza, anche per un uomo come quello. L’improvviso scatto aveva ridato un minimo d’orgoglio alla sua vittima e reso molto più appagante l’esperienza, ma era giunta l’ora di porre fine al gioco. La mano sinistra di Chris si sollevò, mostrando l’arma alla vittima. La mano destra fece il medesimo movimento, lasciando che l’acciaio delle forbici luccicasse sotto la luce della lampada alogena che illuminava la camera. L’uomo non reagì, non più. Chiuse gli occhi e cercò di non pensare, lasciando uscire dalla sua bocca solo dei borbottii, suoni indecifrabili che Chris ascoltò attento. Non riusciva a capire le parole, ma l’intento era chiaro, stava pregando. Era normale, un classico. Quando sei alla fine cerchi il conforto di Dio, anche se,
al posto suo, non avrebbe accettato le suppliche di chi non ti considera per cinquant’anni e si ricorda di te solo nei momenti più tragici della sua vita, ma, si sa, Dio è buono e perdona tutti. Dio sì, Chris no. Puntò la pistola verso il petto, prese la mira e sparò. Due piccoli sibili risuonarono nella stanza, ma nessuno se ne accorse. Chris posò la pistola e si avvicinò alla spalliera del letto. Sollevò l’anulare della vittima e sistemò con cura le forbici alla base del dito poi, con un colpo deciso, lo tranciò di netto. Un piccolo rivolo di sangue uscì dal moncone rimasto, scivolando lungo il polso e ricadendo, gocciolando davanti al comodino. Chris aprì una piccola busta di plastica, vi sistemò il dito e ci aggiunse le forbici, chiuse la banda ermetica e ripose il tutto accanto alla pistola. Si guardò attorno e valutò le modalità di pulizia. Portò tutto il suo “bagaglio” all’ingresso, controllò di non aver dimenticato nulla e, solo dopo, iniziò ad eliminare le tracce della sua presenza. L’operazione fu minuziosa ed ogni punto della stanza venne controllato con una meticolosità impressionante, nulla venne lasciato al caso o dato per scontato. Chris ò dal bagno e lo ripulì come se fosse nuovo, uscì e chiuse la porta. Andò verso l’ingresso e si fermò a controllare il lavoro e, soprattutto, a compiacersi e rigustarsi l’emozione. Tirò un sospiro tra il soddisfatto e il dispiaciuto, si voltò ed uscì.
Capitolo 5
Elisabeth entrò alla centrale alle otto esatte ed incrociò Marcelo che arrivava dal suo ufficio. “Dall’espressione e dai vestiti potrei pensare che tu abbia dormito qui” disse con una certa sorpresa. “Esatto” rispose Marcelo, “e dalla tua direi che non hai dormito molto” aggiunse. “Esatto” confermò la ragazza, “cena abbondante e non esattamente leggera.” Senza dire altro si diressero ai distributori automatici e prelevarono due bicchieri di caffè dalla brocca perennemente calda, sperando che servissero a ricaricare il corpo e lo spirito. Il primo assaggio produsse una manifestazione di sollievo da parte della ragazza, contrapposta ad una smorfia di delusione del collega. “Non esagerare” disse, “non è poi così male.” “Non offenderti” rispose Marcelo, “ma mi sono abituato all’espresso del Casa Dora e, ti assicuro, sono due mondi completamente diversi, un giorno dobbiamo farci un giro.” “Volentieri” rispose Elisabeth, non troppo convinta. “Ragazzi!” La voce alle loro spalle richiamò la loro attenzione. Entrambi si voltarono e videro Heather fissarli con un foglio in mano. “Ho paura che ci siano guai” disse la ragazza alla coppia.
Si avvicinarono al banco e lessero l’indirizzo sul foglio: Crowne Plaza, 1201 Riverplace Boulevard “Hanno trovato un cadavere legato al letto” aggiunse l’agente. Marcelo prese il foglio e guardò Elisabeth ed entrambi pensarono la medesima cosa, ma nessuno dei due pronunciò parola, non volevano dare al caso la connotazione che davvero aveva, nessuno voleva essere il primo a nominare l’eventualità più temuta da qualunque detective, un serial killer. Restarono a fissarsi per qualche istante, poi gettarono i bicchieri nel cestino e si avviarono all’auto. Il Crowne Plaza era a meno di un miglio dall’Hampton Inn, forse una coincidenza, ma Marcelo non credeva molto alle coincidenze e, comunque, sembrava non essere l’unica. Raggiunsero l’Hotel in dieci minuti, il traffico era intenso ma scorrevole e non creò particolari problemi, almeno non più del solito. Si fermarono davanti all’imponente struttura di dieci piani, lasciando l’automobile nel primo parcheggio accanto all’ingresso. Una volante coi lampeggianti accesi era ferma sotto il portico che sovrastava la porta principale ed un agente gli si fece incontro. “Buongiorno Armando” disse Marcelo. “Buongiorno ragazzi” rispose il sergente. “Ho paura che il pazzo dell’Hampton si sia rifatto vivo” disse l’agente, annunciando a voce alta quello che loro avevano solo pensato. “Hai controllato la scena?” Chiese Marcelo. “Controllata e sigillata. Tutto come mi hai descritto l’ultima volta. Non sono un esperto, ma direi che le possibilità che sia un altro assassino sono davvero poche.” “Grazie, ora ci pensiamo noi.”
“Buona fortuna” disse il sergente e tornò alla sua auto. I detective entrarono nella hall si diressero verso il banco della reception. Un enorme modellino di veliero riempiva la parete di destra, ricoperta da decine di fotografie di navi antiche o solo vecchie. Una porta, a lato del veliero, mostrava una stanza nella quale s’intravedevano altri modelli di navi, probabilmente un museo o, quantomeno, una vasta raccolta. “È enorme” disse Marcelo, “c’eri mai stata?” Chiese alla collega. “L’ho sempre visto ando dal ponte” rispose Elisabeth, “troppo lontano dai miei standard.” Superarono l’esposizione e raggiunsero la postazione dei portieri, dove due grandi vasi di gardenie decoravano il banco principale. Accanto ad uno dei vasi, videro il secondo agente della volante parlare con un uomo piccoletto e grassottello, con piccoli baffetti modellati che facevano capolino da sotto il naso. Poirot, pensò Elisabeth sorridendo. Marcelo non si accorse e proseguì verso la coppia. “Detective, il signor Callen, direttore esecutivo dell’albergo” disse l’agente, vedendoli arrivare. Marcelo non estrasse nemmeno il distintivo e si limitò a porgere la mano al direttore. La stretta fu solida e sicura ed Elisabeth dovette ammettere che l’affinità fisica non era corrisposta da quella caratteriale. “Dovremmo salire alla camera” disse senza convenevoli Marcelo. “Seguitemi” rispose il direttore. Il piccolo gruppo si spostò verso gli ascensori, ricreando troppo presto una scena già vista. Salirono all’attico e si diressero verso la suite KB1.
Davanti alla porta notarono un altro agente che piantonava l’ingresso. Marcelo, non conoscendo l’uomo, mostrò il tesserino di riconoscimento. “Buongiorno” disse formale, leggendo velocemente il nome dell’uomo sulla targhetta di riconoscimento. “Possiamo entrare?” Chiese. “Certo detective” rispose la giovane recluta, “non ho fatto avvicinare nessuno, come da protocollo.” “Ottimo lavoro Jackson” commentò Marcelo, consapevole dell’importanza che poteva avere un complimento per un ragazzo alla sua prima esperienza in una situazione come quella. “Grazie signore” rispose sorridente l’agente, aprendo la porta ai colleghi. Entrarono e si fermarono subito dopo la soglia, infilandosi i guanti ed ispezionando visivamente la stanza. Era un unico locale, ma decisamente enorme e praticamente bicolore. Ad occhio e croce potevano essere cinquanta metri quadrati, più o meno come il suo appartamento, pensò Marcelo, ma decisamente arredato meglio. Certo, a casa sua non c’erano uomini morti legati al letto, ma questo era un dettaglio eccezionale, almeno lo era stato sino a pochi giorni prima. L’enorme vetrata a tutta parete illuminava la stanza e permetteva una vista unica sul St. Johns e sulla Torre. Le tende erano tirate, lasciando vedere fuori, ma permettendo, ovviamente, di vedere dentro e la cosa, a prima vista, non sembrò molto logica. La stanza era divisa da un mobile a semicerchio di rovere, della stessa tonalità del pavimento, con un ripiano in cristallo e quattro sportelli nel lato stondato. La parte diritta faceva da spalliera ad un divano a quattro posti di pelle bianca che osservava un enorme televisore appeso alla parete. Davanti al divano trovava posto un grande mobile bicolore dove, al rovere scuro della struttura, faceva da contralto il rovere chiaro dei frontali dei cassetti, solo due su due livelli, nonostante fosse lungo più di due metri. Un tavolino rotondo,
anch’esso in pelle bianca, faceva da divisore fra il mobile ed il divano e sopra, ancora intatta, c’era una bottiglia infilata in un secchio del ghiaccio. Un tavolo rotondo circondato da quattro poltrone, tutto rigorosamente in tinta, occupava l’area davanti alla vetrata. Un enorme letto, anch’esso color rovere, riempiva la parete alla loro sinistra. Sui comodini abbinati facevano da alfieri due lampade in acciaio a forma di trofeo, unici punti di colore estraneo al resto della stanza, se si escludeva il secchio del ghiaccio ed il televisore. Sulla coperta bianca, appoggiato alla spalliera, c’era un uomo in completo blu. Le braccia tese e legate all’altezza della testa, in una posizione che rispecchiava nel dettaglio quella già vista nell’omicidio precedente, le scarpe, allineate millimetricamente ai piedi del letto, e tutto in perfetto, maniacale ordine. Dalla loro posizione non potevano vedere bene la mano sinistra, ma il rosso che la copriva indicava chiaramente che la procedura era stata rispettata. Si mossero lentamente verso il centro della stanza, fermandosi davanti al corpo esamine. Il letto sfatto, i capelli incollati alla fronte, l’abito sgualcito, i segni delle abrasioni che s’intravedevano sotto le corde che bloccavano i polsi. Marcelo valutò il quadro d’insieme ed una cosa fu subito chiara, l’uomo aveva lottato, aveva cercato di liberarsi o, quantomeno, di difendersi, aveva avuto molto più tempo del suo predecessore, anche se, probabilmente, questo non era stato un vantaggio, anzi. Le corde che lo bloccavano erano dello stesso tipo e colore delle precedenti, così come il nastro adesivo che ricopriva la bocca. L’orologio era al suo posto e, presumibilmente, lo sarebbe stato anche il portafoglio. I due fori rossi sul petto erano poco diversi dai precedenti, come se fossero stati disegnati a mano anziché realizzati a distanza con una pistola. Marcelo si avvicinò ando alla sinistra del letto, prestando attenzione a dove metteva i piedi.
Scostò la giacca ed infilò la mano nella tasca interna, estraendo un astuccio di pelle nera morbidissima. Lo aprì ed una serie di carte di credito platino fece capolino da entrambi i lati. Ne sfilò una che riportava la fotografia del titolare e lesse le generalità. Walter Branagham recitava la scritta sotto l’immagine. Marcelo confrontò il volto riprodotto con quello reale e li trovò corrispondenti. Elisabeth si spostò verso l’armadio che affiancava la porta d’ingresso ed aprì le ante. Una serie di completi, tutti piuttosto scuri e di alta sartoria, riempiva la parte di destra mentre, sul lato opposto, erano state posate una sull’altra due grosse valige rigide. Ne sollevò una e si accorse che era vuota. Controllò anche l’altra con il medesimo risultato così richiuse l’armadio e si spostò verso il mobile dai lunghi cassetti. All’interno trovò, perfettamente disposte, parecchie camicie e cravatte e, nel cassetto sottostante, la biancheria intima, ma nulla che interessasse lo loro ricerca. “Elisabeth.” La voce alle sue spalle la estrasse dal quel senso di fastidio che tutto quell’ordine le provocava spesso, riportandola al centro della loro scena del crimine. “Sì” rispose a fatica. “Il direttore è ancora qui fuori?” Chiese Marcelo. Elisabeth andò verso l’ingresso e controllò il corridoio. “Direi di no” rispose. “È meglio se lo facciamo risalire.” Elisabeth si avvicinò al telefono sul comodino e premette il tasto 5 per parlare con la portineria.
“Sono il detective Wright, potreste dire al direttore di raggiungerci alla suite KB1? Grazie.” Posò il ricevitore e guardò Marcelo. “Sembra la fotocopia dell’altro” disse sottovoce. “Purtroppo sì” confermò Marcelo, “e questo ci porta, quasi inevitabilmente, sulla pista di un seriale.” Rimasero in un silenzio di riflessione sino all’arrivo del direttore, non avevano esperienza in casi come quelli e non volevano agire troppo in fretta rischiando di compromettere l’indagine. “Eccomi” disse Callen affacciandosi alla porta. Marcelo andò verso di lui ed uscì dalla camera. “Direttore, cosa ci può dire del signor Branagham.” “Era un cliente abituale da circa quattro anni. Si occupava di farmaci, più studio e creazione che non vendita. Veniva da noi ogni trimestre per confrontarsi con i finanziatori ed i medici che lavoravano per loro. Persona educata, generosa e molto intelligente.” “Particolari esigenze?” Chiese Marcelo senza troppi filtri. “Non ne sono a conoscenza” rispose, piuttosto seccato, Callen, “se aveva esigenze “particolari”, come le definisce lei, non me le ha comunicate”. “Qualcuno è in grado di dirci cosa ha fatto il signor Branagham ieri?” “Dubito che sia possibile. Ieri avevamo un convegno di dentisti che, tra una cosa e l’altra, si è protratto sino alle due di notte. Il movimento di persone era tale che non credo qualcuno possa aver notato il signor Branagham.” “Le camere su questo piano sono tutte occupate?” “Abbiamo il tutto esaurito, è il periodo dei congressi e dei simposi, abbiamo più movimento che in aeroporto.”
Marcelo annotò qualcosa sul suo taccuino, pensando a come procedere. “Direi che per ora è tutto” disse infine, “se avessimo bisogno di lei la richiameremo.” “Sempre a disposizione” rispose Callen, si voltò e si diresse verso gli ascensori. Marcelo lo seguì con lo sguardo sino alle porte argentate e lo vide incrociarsi con due uomini col distintivo. Li attese nel corridoio, raggiunto dopo poco da Elisabeth. L’uomo più anziano si avvicinò e tese la mano. “Tenente Stewart, Scientifica, il mio collega Turner.” Marcelo concluse le presentazioni. “Morales e Wright, Omicidi.” “È come sospettiamo?” Chiese il tenente. “Purtroppo sì. Tutto rispecchia nel dettaglio le modalità del precedente omicidio.” “Se è stato bravo come l’altra volta, sarà un altro buco nell’acqua. Dovremo superare noi stessi.” “Bravo?” Sottolineò Marcelo, “siete certi che sia un uomo?” “Non possiamo essere certi di nulla, per ora, ma visto che, statisticamente parlano, i criminali seriali uomini sono oltre l’ottanta per cento del totale, risulta automatico credere che si tratti di un uomo.” “Certo” concordò Marcelo, “fino a prova contraria, è meglio attenersi alle statistiche.” Stewart si affacciò alla porta, ma venne fermato da Marcelo. “Forse è meglio aspettare il medico legale, so che ci tiene ad entrare per primo.”
“Sì, lo so, grazie. Il dottor Kruner sta salendo dall’ascensore di servizio, la sua barella non ava da quelli per gli ospiti. Dovrebbe essere qui a momenti.” “Conosce Geremia?” “Da circa mezzo secolo” rispose sorridendo Stewart, “anno più anno meno. Se non lo aspetto potrei diventare il suo prossimo cliente e, sinceramente, ne sono piuttosto spaventato, mi fa quasi più paura di mia moglie.” Marcelo sorrise e si girò verso la collega. Elisabeth infilò una mano in tasca, estrasse il telefono e si voltò. “Scusate, mio marito.” Marcelo tornò a rivolgersi al tenente, ma entrambi furono richiamati dal rumore della lettiga di Geremia che raggiungeva il corridoio. Il medico e l’assistente raggiunsero gli altri, creando un sovraffollamento nel corridoio. “Buongiorno” disse Geremia, “aspettavate noi?” “Ovvio” disse Stewart, “non ci saremmo mai permessi di scavalcarti.” “Sai cosa rischi, vero?” Chiese Geremia, imitando maldestramente Marlon Brando. Il gruppetto si fece da parte, lasciando spazio al dottore che entrò nella stanza, seguito dall’assistente. Marcelo attese qualche istante, poi si congedò. “Noi scendiamo dal direttore, buon lavoro.” “Grazie, a dopo” rispose il tenente. I due detective si allontanarono e i due agenti rimasero in attesa del loro turno. Geremia si avvicinò al letto, controllò le mani della vittima, notando, oltre all’amputazione, le abrasioni sui polsi, poi si dedicò agli occhi, ma non trovò
nulla di anomalo, nessuna emorragia petecchiale, nessuna lesione. Sfilò dalla borsa il termometro e lo infilò nel fegato, rilevando la temperatura. Ripose lo strumento e controllò i due fori sul torace, riconoscendo a colpo d’occhio il calibro dei proiettili. “Direi che qui abbiamo finito” disse all’assistente. Braitner avvicinò la barella al letto e bloccò i freni. Si spostò verso il fondo e prese le caviglie del cadavere. Il dottore mise le mani sotto le spalle dell’uomo e fece cenno di essere pronto. Con estremo sincronismo, necessario per evitare danni, sollevarono il corpo, depositandolo sulla barella. Bloccarono le cinghie di contenimento e chio il sacco da trasporto. Si diressero verso la porta e uscirono lentamente, cercando di non urtare gli stipiti o il muro frontale. Una volta riallineata la barella con il corridoio, si avviarono verso l’ascensore di servizio. “È tutta vostra” disse Geremia. “Grazie, ci sentiamo dopo” rispose il tenente. Rimasti soli, i due agenti entrarono nella stanza ed iniziarono la loro ispezione, consci del fatto che sarebbe stato un lavoro lungo, faticoso e, probabilmente, inutile. Nello stesso momento, Marcelo, che si era trattenuto nella hall in attesa di Geremia, analizzava attentamente il modellino del veliero, ricordando con una certa malinconia le sue giornate in mare da novello pescatore. Quando vide arrivare il dottore, gli si fece incontro. “Tutto come l’altra volta?” Chiese preoccupato. “Direi di sì. Dovrebbe essere morto verso l’una di questa notte per colpa di due
proiettili nel petto.” “Ok, grazie, aspetto il rapporto.” Il dottore salutò e si diresse verso l’uscita. “Ore che facciamo?” Chiese Elisabeth. “Abbiamo in sospeso una gita al ristorante, a quest’ora saranno aperti.” “Vero, andiamo.” Tornarono all’auto e si rituffarono nel traffico, percorrendo la FL-13 per circa tre miglia, fino a raggiungere un piccolo centro commerciale con un wine bar, una griglieria, un centro medico, un corriere espresso e un ristorante italiano, con tanto di bandiera tricolore svolazzante esposta all’ingresso. Entrarono nel parcheggio semideserto, erano da poco ate le dieci e i due locali, non servendo colazioni, erano ancora chiusi al pubblico, così si fermarono esattamente davanti all’ingresso del Toscana. Si diressero verso l’entrata principale e notarono il cartello con gli orari d’apertura, ma provarono ugualmente a bussare. Non ricevendo risposta, costeggiarono tutto lo stabile sino all’entrata di servizio. Trovarono un pick-up nero con la sponda posteriore abbassata e ceste di verdura sul cassone. Un uomo sui quarant’anni, moro e abbronzato stava uscendo dal locale. Colto di sorpresa, scattò impaurito verso il muro. Marcelo mostrò il distintivo e si presentò. “Buongiorno, sono il detective Morales, posso farle qualche domanda?” L’uomo, superata la sorpresa, sorrise. “Mi scusi” disse, “non mi aspettavo nessuno, specialmente un uomo con una pistola.”
“Mi scusi lei” rispose Marcelo, “non intendevo spaventarla. Lei è il titolare?” “Sono il figlio, mio padre è dentro, prego, accomodatevi.” Lorenzo fece strada ai due agenti e li condusse verso la zona bar. “Papa” urlò, “cercano te.” Dalla cucina spuntò un uomo alto, di stazza importante, con una bandana in testa e la divisa da chef completa di grembiule. “Questi signori sono della polizia, devono farci delle domande.” Dante guardò il distintivo. “Omicidi?” Disse perplesso, “è successo qualcosa di grave?” Marcelo si affrettò a tranquillizzarlo. “No, nulla che vi coinvolga. Avremmo bisogno di alcune informazioni, se potete aiutarci.” Dante si rilassò e si mise a sedere. “Ditemi.” Marcelo tolse dalla tasca la fotografia di Goldwin e la mostrò al gestore. “Riconosce quest’uomo?” Chiese. I due controllarono attentamente, ma entrambi non giunsero ad una conclusione. “No, direi di no” disse Dante. “Dovremmo sapere se è stato qui sabato sera.” “Possiamo controllare le ricevute” intervenne Lorenzo, “se ha pagato con una carta, sarà di sicuro registrato.” Marcelo mostrò il nome all’uomo che si spostò verso la cassa ed aprì il cassetto sotto al registratore, da dove tolse una cartelletta verde gonfia. Ne estrasse una
busta trasparente con, all’interno, un pacchetto di ricevute bloccate da una clip. “Avete detto sabato sera?” Chiese per conferma. “Esattamente riteniamo fosse dopo la mezzanotte” precisò Marcelo. Lorenzo sfogliò le ricevute, cercando il nome di Goldwin. Il plico era notevole, confermando la buona fama del locale. “Eccolo” disse ad un certo punto. “Russel Goldwin, ha pagato una cena per due alle 00.19 di sabato, o meglio, di domenica mattina.” Marcelo controllò la ricevuta. “Posso averne una copia?” Chiese. “Subito” rispose Lorenzo e si diresse nel retro del locale. “Ci sono telecamere di sorveglianza?” Chiese a quel punto a Dante. “Noi non ne abbiamo, forse l’ufficio dell’UPS qui accanto.” Marcelo attese il ritorno di Lorenzo, cercando di riorganizzare le idee. “Agenti” disse il ristoratore, “la cucina è chiusa, ma la macchina del caffè è accesa, posso offrirvi una pausa? Sempre che non sia considerato tentativo di corruzione” aggiunse, ironicamente. “Espresso?” Domandò speranzoso Marcelo. “Ovviamente” “Per me, sicuramente, Elisabeth?” “Proviamo questo espresso, non sarà poi così terribile” rispose scettica la ragazza. “Se preferisce” ribatté Dante, “ho anche il classico caffè all’americana.” “No, non importa, prima o poi devo farlo contento.”
L’uomo si avvicinò alla macchina e preparò quattro caffè, in piccole tazzine di ceramica, con la crema densa che ricopriva la sommità del liquido. Al primo assaggio, l’espressione di Marcelo cambiò, ando dalla maschera seria e concentrata del poliziotto, a quella rilassata e appagata di chi, dopo ore trascorse in piedi, può finalmente sedersi su di una comoda poltrona e godersi un attimo di pace. L’opinione fu quasi unanime, solo Elisabeth, pur ammettendo la differenza, non apprezzò particolarmente l’eccessiva carica di sapore sprigionata da quella tazza così piccola. “Direi che dobbiamo andare” disse dispiaciuto Marcelo. Si alzarono e ringraziarono, non avevano scoperto l’identità dell’accompagnatrice, sempre ammesso che fosse una donna, ma avevano verificato la presenza di Goldwin in quel ristorante sabato sera e, di conseguenza, potevano immaginare la strada fatta per raggiungere l’albergo. Dovevano solo cercare eventuali riprese video, nel piazzale o lungo la strada, e poi sarebbero potuti tornare in centrale.
Capitolo 6
Sophie era china sul suo microscopio nella spasmodica ricerca di un indizio, una qualsiasi traccia potesse indicare la direzione da prendere. “Merde, merde, tout le temps merde.” “Dottoressa Evans, si contenga.” La voce la fece trasalire. Si voltò, convinta di dover dare spiegazioni sul suo linguaggio ma, ad attenderla, trovò Stewart. “Sei tu” disse sollevata, “per un attimo ho avuto paura.” “Capisco, e devo purtroppo dedurre che non hai novità.” “Esatto. Tutto pulito. Mai visto niente di simile.” “Concordo, ma ricordati che prima o poi una traccia la dimenticano o gli sfugge, dobbiamo solo aver pazienza.” “Ci credo, ma per noi il “poi” significa altri cadaveri, non è differenza da poco.” La porta si aprì e Marcus entrò nella stanza a o di carica. “Novità?” Chiese Stewart speranzoso. “Abbiamo un pelo” rispose, stringato come sempre, il ragazzo. “Quindi?” “Quindi niente. Devo analizzarlo.” Stewart rimase in silenzio e lasciò che Marcus procedesse con l’esame. Si
sistemò sullo sgabello accanto al grande tavolo d’analisi ed attese. Dalla sua postazione poteva vedere chiaramente tutte le fasi del processo e controllarne la qualità, non che ce ne fosse bisogno, ma ogni tanto preferiva rinfrescarsi la memoria con procedure che non praticava più di persona da anni. Vide Marcus aggiungere la soluzione idratante alla provetta contenente il pelo e portarla nella centrifuga. Attese pazientemente che la macchina finisse il suo ciclo, anche perché non riusciva ad avere un’idea alternativa valida. Marcus estrasse la provetta ed inserì il campione nel Codis, sperando nella buona sorte. Purtroppo, dopo alcuni minuti, il messaggio di risposta non fu quello atteso: Nessuna corrispondenza Un messaggio che indicava un altro buco nell’acqua. “Siamo al punto di partenza” disse laconico Stewart. “Forse non proprio” rispose Marcus. “Il pelo era senza follicolo” continuò, “quindi ho potuto estrarre solo il DNA mitocondriale e quello non è in archivio, però sappiamo che la madre del proprietario del pelo è ispanica. Non è molto, visto che siamo in Florida, ma è un inizio.” L’enormità di parole usate da Marcus per descrivere la situazione lasciò i suoi colleghi stupefatti. Aveva detto più lettere in una frase che in una normale giornata di lavoro, doveva essere euforico. “Dove l’hai trovato?” Chiese curiosa Sophie. “Era impigliato in una delle corde che legavano i polsi.” “Non potrebbe essere della vittima?” “No.”
“Allora, probabilmente, si è staccato quando ha stretto i nodi.” “Probabilmente.” Il brusco ritorno al regime telegrafico indicava che Marcus si era reso conto di quanto poco valesse la sua scoperta e di come avesse cercato d’amplificarne inutilmente il valore. In suo soccorso arrivò il tenente, in molti casi il fratello maggiore prima che il capo. “Ottimo lavoro” disse, “non sarà molto, ma ci da una pista e, soprattutto, dimostra che il nostro uomo non è infallibile e quindi può darci una mano. Questa volta ci ha fornito un indizio parziale, ma potrebbe migliorare e appena lo farà, noi lo beccheremo.” Marcus apprezzò il gesto, anche se non lo diede a vedere, e decise di abbandonare le recriminazioni e di continuare a lavorare, aveva un assassino da trovare. Ripose i risultati del test nella cartelletta con tutti i documenti del caso e decise d’iniziare un controllo a tappeto su tutti gli archivi contenenti DNA reperibili, iniziando da quello dell’immigrazione, se era di origine ispanica poteva non essere nata in America e, per legge, ogni persona che varca il confine e richiede asilo viene schedata, impronte digitali e DNA compresi. Stewart controllò la cartella con i rapporti. “Avete già inserito tutto?” Chiese ai colleghi. “Documenti, rapporti e considerazioni, è tutto nella cartella” rispose Sophie. Marcus si limitò ad annuire. Steward si diresse verso la porta, poi tornò sui suoi i. “Anche il nastro è come l’altro?”
Chiese. “Il nastro è identico, stessa marca, stesso tipo, persino la stessa lunghezza” rispose Sophie, “l’unica differenza è legata alla sequenza numerica scritta all’interno. La penna usata è la stessa, ma il codice diverso.” Portò un foglio verso il tenente, mostrandogli una copia del messaggio. HSB56829 “Idee?” Chiese, senza troppe aspettative, il tenete. “Negligeable, solo banalità” rispose Sophie, “hanno lo stesso criterio, ma il codice è più corto, potrebbero essere cinque numeri singoli o accoppiati, ma questo non ci aiuta.” “Siamo al punto di partenza” sottolineò sconsolato Stewart. Rimasero in silenzio alcuni istanti, cercando qualche cosa da dire per rianimare il gruppo, ma non era facile. Non si erano mai trovati con così pochi indizi dopo due omicidi. Non avevano assolutamente nulla, se non la presunta origine ispanica della madre, troppo poco anche per dei mastini come loro. Stewart ricontrollò la cartelletta poi, con un senso d’impotenza che non provava da tempo, salutò i colleghi. “Io vado a trovare i detective della Omicidi” disse sconfortato, “se vi servo, sapete dove trovarmi.” Lasciò il laboratorio e si diresse verso il 501 di East Bay Street, valutando la possibilità di una piccola deviazione verso il laboratorio del dottor Kruger, e considerando l’ipotesi attuabile, anzi, fondamentale. Raggiunse la Margaret street e si fermò davanti ad una lunghissima villetta di mattoni rossi, con venti finestre ed un unico ingresso, arricchito da un delizioso portico bianco. Un cartello stradale davanti all’ingresso riportava l’insegna dell’associazione: Southeastern Pathology Associates
nome poco originale, ma, non necessitando di pubblicità, anche poco importante. Si diresse verso la porta bianca, decorata con vetrate dipinte, richiamate da un arco di vetri che sovrastava l’ingresso, e pensò che porte così, esclusa quella, le aveva viste solo nelle chiese. Superò l’ingresso e si fermò al banco dell’accettazione. “Sono il tenete Stewart” disse, mostrando il distintivo all’impiegata, “dovrei vedere il dottor Kruger.” Lo fecero attendere solo pochi minuti, giusto il tempo di far risalire il dottore dalla catacomba che lui chiamava laboratorio e farlo tornare fra i vivi. “Robert” urlò Geremia, “a cosa devo il piacere?” Stewart sorrise, ma non rispose. “Dalla faccia” continuò il dottore, “forse non è proprio un piacere. Qualcosa non va?’” “Siamo messi male” commentò il tenente, “speravo di avere dell’appoggio morale da parte tua e, magari, delle buone notizie sul caso.” “Appoggio morale quanto ne vuoi, per le buone notizie, beh, su quelle non ci contare.” Lo sguardo di Stewart si fece ancora più preoccupato ed il vecchio amico intervenne. “Ho qualcosa che ti può tirare su il morale, seguimi.” Si avviarono verso il lungo corridoio, sino all’ultima porta, entrando nello studio del medico. “Accomodati” disse Geremia. Stewart si sedette sulla vecchia ma comodissima poltrona davanti alla scrivania ed attese. Geremia prese una chiave dalla tasca ed aprì un piccolo sportello nella parte alta
della sua libreria. Ne estrasse una bottiglia di Ebradour e due bicchieri. Li posò sulla scrivania e si spostò verso il frigorifero appoggiato sulla cassettiera accanto alla finestra. Prese una piccola ampolla di vetro, tolse il tappo e la riempì con dell’acqua. Richiuse, aggiungendo il contenitore alla preparazione. Prese la bottiglia e versò una modica quantità di whisky nei due bicchieri poi, molto delicatamente, aggiunse una piccola dose d’acqua, più o meno un cucchiaino da caffè. “Questa bottiglia me la manda un amico di Pitlochry nel Perthshire vicino ai monti Grampiani, un paesino al centro della Scozia. Viene dalla più piccola distilleria del paese ed è completamente artigianale.” Stewart allungò la mano verso il bicchiere. “Aspetta” lo fermò Geremia, “dagli alcuni minuti per ossigenarsi e amalgamarsi con l’acqua.” Il tenente obbedì, rispettoso del rituale, appoggiandosi allo schienale ed aspettando. “Dimmi tutto” disse, quasi sottovoce, il dottore. Stewart si ò una mano sul mento, come se volesse controllare la crescita della barba, poi sospirò. “Ho paura” disse a bassa voce, “questa volta ho paura di fallire. Non chiedermi perché, non è la prima volta che partiamo dal nulla e senza luce alla fine del tunnel, ma questa volta è diverso. Chiamalo istinto, chiamalo sesto senso o solo paranoia, il nome conta poco, il fatto importante è che questa sensazione non è mai stata così forte e così persistente.” Geremia prese un bicchiere e lo porse all’amico. “Ci sono motivi che ti facciano considerare questo caso diverso dagli altri?” “No, è questo il punto. Se ce ne fossero, sarebbe tutto più normale, ma non c’è nulla di strano, se non l’incredibile attenzione e meticolosità sfoggiata dall’assassino.”
“Forse ti ha riportato alla memoria un vecchio caso che ti aveva colpito particolarmente, oppure rimasto irrisolto.” “No, non mi risulta. È solo una maledetta sensazione che mi si è intrufolata in testa dal primo momento che ho messo piede in quell’albergo.” Stewart assaporò un piccolo sorso di whisky, lasciandolo circolare in bocca prima di deglutirlo. Il piacevole calore invase pacificamente le papille gustative e lasciò risalire i suoi profumi sino alle narici, un insieme molto complesso e fragrante con note fruttate e di sherry, con un pizzico di vaniglia, frutta e caramello. “Se posso darti un consiglio” disse Geremia, “non devi far altro che il tuo lavoro, quello che fai normalmente e che ha sempre dato ottimi risultati. A volte le sensazioni sono figlie di stati d’animo particolari, non necessariamente legati al contesto. Alcuni situazioni esterne ti potrebbero distrarre, ridurre la tua attenzione e la tua sensibilità verso i dettagli del caso, rendendolo più complesso di quello che è in realtà. Prenditi una breve pausa, fai una gita al mare, rilassati e poi riguarda tutto il materiale che hai a disposizione, vedrai che la luce sarà diversa.” Stewart bevve un altro sorso e sorrise. A volte un amico può dire cose che già sai, evidenti se non addirittura banali, ma, dette da lui, assumono una connotazione diversa, prendono potere, diventano verità. Vuotò il bicchiere e si alzò. “Grazie Geremia” disse con un tono già rigenerato, “sapevo di poter contare su di te.” “Per così poco?” Rispose il dottore. “Non è poi così poco.” “Allora, se le cose stanno così, ti dovrai sdebitare.” “Quello che vuoi, spara.”
Geremia aprì il cassetto ed estrasse una busta gialla, controllò il contenuto e la ò al tenente. “Quando vai alla Omicidi, perché sicuramente andrai a trovarli, portagli questa da parte mia.” Stewart prese la busta ed il sorriso, questa volta, assunse dimensioni accettabili. “Vieni, ti accompagno.” Ripercorsero a ritroso il corridoio sino alla porta con le vetrate e si salutarono. “Torna quando vuoi” disse il dottore. “Ci puoi giurare” rispose il tenente e risalì sull’auto con destinazione la centrale di polizia. Rimase col motore , senza muoversi, per alcuni minuti, ripensando alle parole dell’amico, poi decise d’iniziare da subito il nuovo percorso. Ingranò la marcia e si diresse verso la Riversade Ave, evitando la superstrada e costeggiando tutto il St. Johns, non era il mare ma, per iniziare, andava bene anche quello. Mantenne un’andatura da turista ed impiegò venti minuti, il doppio del normale, per raggiungere la sede della squadra Omicidi, ma, quando scese dall’auto, si sentiva già molto meglio. Raggiunse l’ingresso ed attese gli agenti. “Tenente” chiamò una voce da lontano. Stewart si voltò e vide Marcelo che gli faceva cenno d’avvicinarsi, così si diresse verso gli uffici. “Accomodati” disse Marcelo. “Grazie, vi ho portato i rapporti nostri e del medico legale, pensavo di leggerli insieme.” “Ottima idea.”
Marcelo spostò il telefono, sistemandolo accanto al monitor e lasciando spazio per distribuire le fotografie, imitato, a modo suo, da Elisabeth che spinse tutto quello che aveva sulla scrivania in direzione della finestra, creando un cumulo di materiale davanti al suo schermo. Stewart aprì la busta consegnatagli da Geremia e dispose le fotografie nello spazio lasciato libero. Nella prima si vedevano chiaramente i due fori lasciati dai proiettili sul torace della vittima. Nella seconda erano evidenti le escoriazioni sui polsi, causate dall’abrasione delle cime, tirate dai vani tentativi di fuga effettuati da Branagham. C’era una terza fotografia che mostrava la caviglia sinistra dell’uomo con una macchia viola in corrispondenza del malleolo mediale. “Facciamo il punto” esordì Stewart. “Come potete vedere, i colpi al torace, come molte altre cose, sono la fotocopia del caso precedente. Io mi concentrerei sulle differenze. I polsi mostrano abrasioni profonde, causate da violenti e continuati strappi. Lo stesso si può dire per la caviglia. Secondo la nostra ipotesi, l’uomo ha urtato violentemente contro il pomolo della pediera, abbastanza forte da procurarsi un ematoma enorme, ma talmente vicino al momento della morte da non dare tempo al sangue di raccogliersi nella zona dell’impatto. In base a queste informazioni, possiamo essere certi che l’uomo fosse sveglio e cosciente e abbia tentato di liberarsi.” Steward estrasse una quarta fotografia e l’aggiunse alle precedenti. “I capelli dell’uomo erano quasi incollati alla faccia. Ad un primo esame, sembrava un evento causato dal sudore, ma le analisi hanno evidenziato una presenza non indifferente di sapone, lo stesso tipo in dotazione nei bagni dell’albergo.” “Pensi che l’assassino l’abbia usato per pulirlo?” Chiese dubbioso Marcelo. “Penso lo volesse pettinare.” “Pettinare?” Ripeté Elisabeth.
“Abbiamo trovato tracce di sapone anche su di un pettine. È stato lavato, ma alcune particelle sono rimaste fra i vari denti.” “Perché mai avrebbe dovuto pettinarlo?” Chiese Marcelo. “È un fanatico dell’igiene e dell’ordine. Forse lo infastidivano i capelli sparpagliati” rispose il tenente. Rimasero tutti in silenzio per alcuni istanti, meditando sull’ultima frase. “Torniamo a noi” riprese Stewart. “Gli esami non hanno evidenziato droghe ed una modesta quantità d’alcool. Nello stomaco, i residui erano minimi, dalla cena alla morte sono ate almeno sei ore. Oltre a quelli delle fotografie, non ci sono altri traumi sul corpo. Questo è tutto quello che ci fornisce il medico legale.” Marcelo fece scorrere le fotografie in cerca di un’idea, ma non sembrava voler arrivare. “Voi cosa avete trovato?” Chiese a Stewart. “Qualcosa in più” rispose senza troppo slancio il tenente. “Abbiamo trovato un pelo incastrato fra le cime. Purtroppo è senza follicolo e ci dice solo che la madre dell’assassino è di origine ispanica. Il resto della stanza è pulito, per non dire sterilizzato.” Stewart aprì la sua busta ed estrasse un’unica fotografia. “Non ci resta che il mistero dei codici” disse, indicando le due sequenze elencate sulla stampa. I due detective osservarono il nuovo arrivato, cercando una chiave di lettura. “Ho la sensazione che sia più semplice di quel che sembra” disse Marcelo, “come se fosse una cosa già vista, già utilizzata in altri casi, ma non riesco a ricordarmi dove.” “Ho pensato la stessa cosa” aggiunse Stewart, “e mi è servito solo ad aumentare
la frustrazione.” “Ho un’idea” intervenne di slancio Elisabeth, “inseriamo nel computer i codici e li triangoliamo con tutti i casi di omicidio archiviati, se c’è una corrispondenza, la troveremo.” “Bello” commentò ironico Stewart, “se fossimo in una puntata di C.S.I. funzionerebbe di certo, purtroppo siamo in una vera centrale di polizia dell’East Coast, con due morti reali e un pericoloso serial killer in circolazione che potrebbe veramente uccidere ancora. Dobbiamo trovare un altro metodo.” Elisabeth abbassò lo sguardo e si sentì demoralizzata oltre che offesa. Ovviamente non credeva che tutto quello che facevano in televisione fosse realmente realizzabile, ma sperava che la tecnologia fosse abbastanza evoluta da raggiungere certi livelli ma, a quanto pare, si sbagliava. “Scusa, Wright” disse il tenente, “non volevo aggredirti, ma sono scoraggiato, preoccupato oltre che incazzato, e ho perso il controllo, perdonami.” Il sorriso tornò sul viso della ragazza che riprese colore. “Figurati” rispose, “posso capirti.” Marcelo osservò la scena senza parlare, stava valutando un’ipotesi. “Penso che la sua idea non sia completamente sbagliata” disse, “anche se non lo possiamo fare in modo automatico non significa che non lo si possa fare comunque.” “Non ti seguo” disse Stewart. “Vi spiego” riprese Marcelo, “come diceva Elisabeth, abbiamo tutti i casi archiviati, dobbiamo solo fare un confronto. Forse non siamo in possesso di un software che possa fare questo, ma disponiamo di parecchi occhi efficienti. Possiamo cercare volontari fra le reclute, li mettiamo a leggere tutti i casi e ci facciamo fornire una lista delle situazioni simili. Noi ci occuperemo dell’analisi e dell’approfondimento.” “Ci vorrà tempo” commentò il tenente.
“emo più persone. Prima iniziamo e prima raggiungiamo l’obiettivo.” “Ok” concluse Stewart, “diamoci da fare.”
Capitolo 7
“Le ho trovato otto volontari” disse il direttore Coleman, “spero bastino.” “Basteranno” rispose Marcelo. Entrarono nell’aula informatica e trovarono le reclute in attesa. Tutti scattarono in piedi al loro ingresso e si misero sull’attenti. “Comodi” disse il direttore. “Il detective Morales vi spiegherà esattamente cosa dovrete fare. Prego, detective, sono tutti suoi.” Marcelo si avvicinò alla prima file di banchi e spaziò lo sguardo fra i giovani poliziotti. “Come prima cosa” disse, “vorrei ringraziarvi per la collaborazione. Quello che fate è molto importante e ci può aiutare a salvare delle vite. Come seconda cosa, vi voglio ricordare che questo lavoro rientra in un’indagine di polizia, quindi è riservato, nessuno deve essere informato su quello che farete qui. Detto questo, vi spiego quale sarà il vostro compito. I terminali che avete davanti sono connessi con il sistema centrale della polizia nella sezione archivi. Dovete prendere tutti i casi di omicidi seriali in cui compare un codice, una serie numerica o una qualunque chiave di lettura messa sotto forma di enigma. Avete tre lettere dell’alfabeto a testa, ate un caso alla volta e trascrivete il numero di protocollo sui fogli che avete a disposizione. Dobbiamo fare in fretta, ma ricordate che è molto più importante l’attenzione, se vi serve più tempo, non abbiate timore di dirlo.” Marcelo attese un attimo, dando modo alle reclute di chiarirsi bene le idee e di porre eventuali domande. Non ricevendo nessuna obiezione, il direttore intervenne.
“Bene, ragazzi, se non ci sono domande, noi andiamo. Buon lavoro.” Raggiunsero l’ingresso senza parlare e, una volta giunti all’accettazione, si salutarono. “Le farò sapere prima possibile” disse Coleman. “Grazie, direttore, a buon rendere.” Marcelo uscì dall’edificio ospitante la scuola di polizia e si diresse verso il parcheggio. Elisabeth arrivò dalla direzione opposta con due bicchieri di caffè. Si incontrarono davanti all’auto e si appoggiarono al cofano per godersi, più o meno, quella piccola pausa. “E adesso?” Chiese la ragazza. “Abbiamo in sospeso la verifica quadrimestrale al poligono, ricordi?” “Andiamo adesso?” “Siamo in un momento di stallo, difficilmente ci ricapiterà di avere del tempo per queste incombenze. Pennington è disponibile e comprensivo, ma deve sottostare alle leggi, non può darci altro tempo.” “Ok.” Gettarono i bicchieri nel cestino e salirono in auto, direzione Atlantic Boulevard. Il Bullseye Gun si trovava in un piccolo capannone dal tetto piatto, posto dietro ad un negozio di armi in un’area periferica tra l’Arlington River e il Pottsburg Creek. Una sorta di penisola circondata dai due fiumi ed unita al resto del paese da quattro ponti ed un’unica uscita via terra. Non era il poligono ufficiale della polizia, ma era divenuto necessario dopo l’ordine di ristrutturazione emanato dal comando, ordine che aveva imposto la chiusura del loro centro a tempo indeterminato, in attesa che venissero portati a termine i lavori di adeguamento previsti dalla legge.
Superarono il St. Johns, attraversando il Commodore Point Expy e scendendo direttamente sull’Atlantic. La percorsero per due miglia scarse, sino alla piccola area commerciale all’incrocio con la University. Lasciarono l’auto nel parcheggio davanti al negozio ed entrarono nel locale. “Ola, Marcelo” disse Esteban quando li vide. “Ola” rispose Marcelo. “Visita di piacere o di lavoro?” Chiese l’uomo. “Dovere, solita burocrazia” rispose il detective. “Accomodatevi, conoscete la strada.” Marcelo percorse il locale vendita, osservando attentamente le vetrine con esposte decine di pistole di ogni marca e calibro esistente, come se si trovassero in una gioielleria. Sulle pareti, erano in bella mostra armi ben più importanti, dai fucili da caccia a doppia canna ai ben più temibili Colt M4, normalmente in uso alla marina degli Stati Uniti. Entrarono nel retro del negozio, percorrendo uno stretto corridoio che portava alla sala prove. Registrarono la loro visita nell’archivio clienti ed entrarono nel bunker, una stanza lunga otto metri e larga quattro che li attendeva per la prova, catalogata come unica per il loro distretto, ma considerata l’esercizio numero quattro per l’F.B.I. All’interno li raggiunse un istruttore di tiro, autorizzato dal comando, necessario per rendere ufficiale l’evento. Elisabeth seguiva in silenzio Marcelo, era la prima volta che affrontava questo test e non aveva la più vaga idea di cosa prevedesse. “L’esercizio è questo” anticipò Marcelo, prima che glielo chiedesse. “Partiamo dalla linea dei 7 metri. Arma carica, cane abbattuto, pistola in fondina. Al comando, raggiungiamo la linea dei 5 metri, estraiamo e spariamo 5 colpi con
la sola mano destra. Quindi trasferiamo la pistola nella mano sinistra e ripetiamo l’operazione. Alla fine dell’esercizio, togliamo il caricatore e scarichiamo l’arma, togliendo il colpo rimasto in canna. Tutto chiaro?” “Dobbiamo colpire quel minuscolo bersaglio così lontano?” Chiese timidamente Elisabeth. “Lo scopo sarebbe quello.” “Ok, partiamo.” “Metti le cuffie e preparati.” Si posizionarono sulla linea di partenza ed attesero il via. Per un minuto la stanza fu invasa dal rumore assordante delle Glock, poi tornò il silenzio. L’istruttore attivò il recupero delle sagome e controllò l’esito dell’esame. Un’espressione d’approvazione accompagnò l’esame del test di Marcelo mentre, alla vista della sagoma di Elisabeth, un sorriso fece capolino dallo sguardo serio dell’uomo. “È sicura di far parte della Omicidi?” Chiese con una certa ironia. Marcelo controllò la sagoma e notò che sei dei colpi avevano mancato il bersaglio e gli altri quattro l’avevano colpito in modo vario. “Ho visto di peggio” commentò in un disperato tentativo di alleggerire il commento dell’istruttore. Elisabeth spostò il suo bersaglio accanto a quello di Marcelo e li confrontò. Sette colpi in pieno petto e tre alla testa non permettevano discussioni. Si spostò senza dire nulla, ma mostrando chiaramente il suo sconforto. Marcelo guardò l’ispettore in attesa di un commento. L’uomo prese il registro e segnò i risultati della prova. “Non si preoccupi, detective” disse, dopo aver annotato i dati, “nell’F.B.I. il
risultato è determinante al fine del ruolo dell’agente, nel vostro caso è solo una formalità burocratica.” La cosa non rallegrò Elisabeth che uscì ancora abbattuta. Marcelo la seguì nell’auto. “Non prendertela, non tutti sanno sparare” disse, cercando di confortarla. “Io ODIO sparare” rispose secca Elisabeth. “Se sei fortunata non sarai mai costretta a farlo.” “Spero sia vero.” Rimasero in silenzio per alcuni istanti poi, senza un motivo, Elisabeth chiese a Marcelo: “Non so niente di te, raccontami qualcosa.” Marcelo rimase sorpreso dalla richiesta. Si conoscevano da mesi e, effettivamente, non avevano mai trattato l’argomento vita privata, forse per rispetto, forse per paura, o forse per qualcosa d’altro, non avrebbe saputo dare una spiegazione, ma decise che, dopotutto, quello poteva essere il momento giusto per rendere più solido il rapporto tra partner. “Ok” disse Marcelo, “da dove inizio?” “Dal principio” rispose Elisabeth. “Giusto. Era la mattina del 20 Maggio 1978, una giornata che si preannunciava piuttosto calda, quando Sonia Ortiz in Morales si recava nell’abitazione di Rita Ferrer per partorire, l’ospedale più vicino era a 30 miglia, un’ora di strada da noi, e non c’era tempo a sufficienza.” “Somaro” disse Elisabeth, dandogli uno schiaffo sulla coscia. “Magari non partire da così lontano” commentò, “fai un riassunto.” “D’accordo. Sono nato e cresciuto a Ensenada, un piccolo paese nel sud dell’isola. Mio padre faceva il pescatore e io con lui sino a quattordici anni. Mia
madre si occupava della casa e dei miei due fratelli più piccoli. La crisi ci ha spinto ad emigrare in America, a Miami, dove ho frequentato la Miami-Dade County, una scuola pubblica, ovviamente. La forte presenza in zona di gang ispaniche, pandillas come le chiamano qui, mi ha spinto a scegliere la mia direzione e, fra il crimine e la giustizia, ho scelto la legge e mi sono arruolato in polizia, e la polizia mi ha portato qui.” Elisabeth ascoltava attenta il racconto, memorizzando ogni singola parola. “Non so nemmeno se sei sposato” disse a un certo punto. “Lo ero. Per cinque anni sono stato sposato con Greta, poi un giorno, all’improvviso sosteneva lei, si è accorta che amava un altro uomo più di me, mi ha salutato e se ne è andata con lui. Noi non avevamo figli, ma lui aveva due bambini di quattro e sei anni, ma non sembrava che la cosa lo toccasse più di tanto.” Elisabeth si rabbuiò, lo sguardo basso verso i piedi e la faccia triste. Controllò il telefono e lo rimise in tasca poi, senza voltare la testa, parlò a bassa voce. “E dopo di lei?” Chiese, curiosa. “Dopo di lei mi sono dedicato esclusivamente al mio lavoro. Abito da solo sulla Hogan in un piccolo bilocale, faccio colazione tutte le mattine al Casa Dora e lavoro tutto il giorno con una donna molto bella che diventerà un ottimo detective, basta che la smetta di perdere tempo con domande inutili.” Elisabeth lo guardò accennando un broncio e Marcelo non riuscì a trattenere una risata. “E tu” disse tornando serio, “cosa mi dici di te.” “Sono nata qui, mi sono diplomata alla Duval County, sono sposata e non ho tempo per avere hobby, oltre al lavoro e alla famiglia mi occupo di mia madre, non ho figli e lavoro tutto il giorno con un brontolone, pignolo e precisino sino all’esasperazione.” Sorrise e, come sempre, tutto il resto ò in secondo piano.
Capitolo 8
Chris aprì la porta delicatamente e scrutò nel corridoio. L’area era deserta. Uscì lentamente, richiudendosi la porta alle spalle, sino allo scatto della serratura. Si avviò con o tranquillo verso l’uscita. Continuò senza incertezze sino alla fine del corridoio e qui si fermò. Il banco della reception era davanti all’ingresso e da quella posizione avrebbero visto chiunque avesse cercato d’entrare o d’uscire. Valutò le alternative e le scartò una ad una, restando con un’unica via d’uscita. Attraversò una piccola stanza, riservata alla televisione, posta accanto alla Hall ed uscì dalla porta opposta, entrando direttamente nel corridoio di servizio che portava in cucina. Percorse lentamente il tratto sino alle porte basculanti, controllando che non ci fossero testimoni. Spiò dal vetro posto in alto e, non vedendo nessuno, entrò nella grande cucina dove, ogni giorno, decine di camerieri correvano come formiche prima dell’inverno. La porta sul fondo della sala dava sul vicolo laterale. Chris spinse delicatamente il maniglione antipanico ed uscì. L’aria fresca della notte colpì il suo viso con la piacevole energia di una bibita ghiacciata in una giornata torrida, tanto che rimase alcuni istanti a godersi la brezza. Controllò ancora la situazione e, non vedendo anima viva, si diresse verso l’auto.
Nello stesso istante, dal banco del portiere, qualcuno dava l’allarme. “Pronto, polizia, sono il portiere del Omni Jacksonville, è appena scattato l’allarme antintrusione dell’albergo.” L’uomo posò il telefono e chiamò la vigilanza interna. Pochi istanti dopo, tre uomini in divisa nera si presentarono alla reception. “È scattato l’allarme della porta che da sul vicolo, andate a dare un’occhiata” disse il portiere. Gli uomini in nero si diressero verso le cucine. Raggiunsero le porte basculanti ed entrarono, dividendosi sui tre corridoi che componevano la stanza. Tutto sembrava in ordine, nessun intruso, nessuna effrazione, nemmeno una posata fuori posto. Gli uomini si separarono, uno uscì nel vicolo, mentre gli altri due controllavano le stanze attigue alle cucine, ma senza risultato. Il gruppo si ricompattò per un confronto ma, non avendo nulla, si radunarono in portineria in attesa della polizia. Pochi istanti dopo, non troppo lontano dall’albergo, Marcelo compose il numero della collega. “Elisabeth, sono io” disse, “è scattato l’allarme al Omni, sulla Water, potrebbe non essere nulla, ma dobbiamo intervenire per controllare. Sei lontana?” “Sono in zona” rispose la ragazza, “dieci minuti e ti raggiungo.” Marcelo prese l’auto e si diresse verso l’albergo, percorrendo a tutta velocità le poche miglia che lo separavano dalla probabile scena di un nuovo omicidio. Raggiunse l’Omni in meno di cinque minuti e bloccò l’auto davanti all’ingresso. Gli uomini della sicurezza attendevano all’interno. Marcelo entrò di slancio.
“Detective Morales, ditemi tutto.” Un uomo afroamericano di due metri per centoventi chilogrammi si fece avanti. “Sono Oke, capo della sicurezza. Non sappiamo cosa sia successo esattamente, ma è scattato l’allarme delle cucine e il mio collega ha visto una figura sgattaiolare fuori dal vicolo. Non sembra abbiano rubato nulla e non c’è nulla di rotto. A nostro avviso, qualcuno stava cercando di lasciare l’albergo senza farsi vedere e…” Prese una pausa “Dopo i recenti fatti” continuò, “non volevamo correre rischi.” “Ottima iniziativa, Oke” rispose Marcelo. “Avete idea di dove controllare?” Chiese il detective, notando la struttura imponente dell’albergo. “Secondo noi” disse la guardia, “se qualcuno è uscito di nascosto doveva essere nell’ala Est, da qualunque altra parte si trovasse, avrebbe dovuto are dalla reception e l’avremmo visto.” “Di quante stanze stiamo parlando?” Chiese Marcelo. “Dodici.” “Sono tutte occupate?” “Quattro sono vuote, quattro sono prenotate da un gruppo di amici per un addio al celibato e non risultano ancora rientrati, le altre sono occupate.” Marcelo valutò il rapporto rischio e danno e decise che la sicurezza della città valesse più di qualche ora di sonno o di un reclamo formale. “Dobbiamo entrare in tutte le stanze, subito.” Oke non si scompose, la sua esperienza militare poneva come fondamento la sicurezza, ad ogni costo e prima di ogni altro fattore, e questa situazione non era diversa.
“Andiamo” disse perentorio. Stavano per muoversi quando, alle loro spalle, si sentì del trambusto. Marcelo si voltò e vide una donna in un abito da sera rosso discutere con un agente. La voce gli suonò famigliare. Si avvicinò e noto che anche l’aspetto aveva qualcosa di famigliare, a partire dal caschetto di capelli neri. “Marcelo” disse la donna voltandosi verso di lui, “digli che sono una collega, a me non crede.” Marcelo guardò la ragazza sorpreso, poi disse: “Vista così, non ci credo nemmeno io. Comunque lasciala are, è il detective Wright, lavora con me.” Elisabeth superò il blocco e raggiunse Marcelo che continuava a fissarla fra lo stupito e l’estasiato. “Cosa c’è?” Chiese la ragazza, “mai vista una donna in abito da sera?” “Scusa, la mia era solo ammirazione. Da dove vieni, se posso chiedere?” “Dal Jacksonville Theatre” rispose Elisabeth. “Cosa c’era di bello?” “Avevamo i biglietti per il Romeo e Giulietta del Bolshoi, non potevo perdermelo.” “Giusto, spero tu sia riuscita a finirlo.” “Stavo uscendo quando mi hai chiamata.” “Ottimo.” Si diressero verso le guardie ed insieme percorsero il corridoio che conduceva
all’ala est. “Dobbiamo farci aprire tutte le porte, dividiamoci” disse Marcelo. Lui ed Elisabeth si fermarono alla prima, mentre le guardie si occuparono delle successive. Marcelo bussò senza troppa delicatezza, ma non ottenne risposta. Decise, allora, di provare con un po’ più di energia. “Chi è?” Tuonò una voce roca dall’interno. “Polizia, può aprire, per favore?” Rispose Marcelo. Trascorsero alcuni istanti prima che qualcuno raggiungesse la porta. Il rumore della chiusura fu secco e la porta si spalancò violentemente. “Spero ci sia un incendio o ve la faccio pagare” disse l’uomo apparso sull’uscio. “No, signore, non c’è un incendio, ma potrebbe esserci un serial killer in una di queste stanze, la sua compresa. Possiamo dare un’occhiata?” “Come? Cosa?” Balbettò l’uomo, sorpreso dalla risposta. “Dobbiamo verificare la sua camera, è solo?” Chiese gentilmente Elisabeth. L’uomo sembrò indeciso sulla risposta, poi reagì. “Si, sono solo, potete controllare se non mi credete.” Marcelo buttò lo sguardo oltre le spalle dell’uomo e notò il disordine in camera e ne trasse le sue conclusioni. “Signore, non si preoccupi, non siamo della Buoncostume, se c’era qualcuno con lei non ci interessa, basta che sia solo in questo momento.” L’uomo afferrò il messaggio e confermò. “Si, capisco, ora sono solo.”
“Ottimo, può tornare a dormire e ci scusi per il disturbo.” L’uomo, ancora frastornato per il brusco risveglio, chiuse lentamente la porta, incerto sul fatto d’aver capito realmente cosa fosse successo. “Detective” disse una voce dal fondo del corridoio. Marcelo si mosse velocemente verso l’ultima stanza dove si erano già riunite le guardie. “Non risponde nessuno” disse Oke, “ma la stanza risulta occupata e il ritirato due ore fa.” “Avete un epartout?” Chiese il detective. Oke estrasse il badge e lo inserì nel lettore. Lo scatto della serratura fu immediato e la porta si aprì leggermente. “Aspettate qui” disse Marcelo. Afferrò la sua Glock e guardò all’interno della stanza. Fece scorrere la mano sul muro in cerca dell’interruttore, ma non lo trovò. “La luce è sotto la lampada” disse una voce alle sue spalle. Marcelo entrò un o nella stanza ed accese l’illuminazione. Lo sguardo corse per tutto il perimetro della camera, sino a giungere al letto dove, purtroppo, i loro timori presero forma, la peggior forma possibile. Un uomo in completo nocciola riproponeva l’ennesima, terribile riproduzione di una crocifissione e tutto il contorno non si dissociava di un millimetro dal triste standard conosciuto. Marcelo avanzò lentamente verso il bagno e aprì la porta. L’immagine riflessa nello specchio lo spaventò per un attimo, poi si accorse che era la sua e ripose la pistola.
Cercò il telefono e chiamò la centrale. “Capo, sono Morales. Purtroppo i nostri timori erano fondati, è ancora lui.” Elisabeth sentì la chiamata ed iniziò la procedura d’isolamento. “Dobbiamo chiudere il corridoio” disse alle guardie, “non fate are nessuno finché non arrivano i miei colleghi.” “Ci pensiamo noi” rispose Oke. Marcelo uscì dalla camera con un’aria preoccupata. “Sei sicuro sia lo stesso?” Chiese Elisabeth. Marcelo non rispose, ma aprì leggermente la porta. Elisabeth guardò all’interno ed un nodo gli strizzò lo stomaco. “Vai a casa” disse Marcelo, “qui ci penso io, ci vediamo domani in ufficio.” “Sei sicuro?” “Sono già inutile da solo, non perdiamo tempo in due.” “Ok” disse la ragazza, “ci vediamo domani.” Si diresse verso l’uscita, accompagnata dallo sguardo del collega. Marcelo rimase fuori dalla porta per alcuni istanti, poi si voltò e rientrò. Si mise i guanti ed iniziò il controllo visivo, certo che non avrebbe trovato nulla. Si avvicinò al letto, notando per l’ennesima volta l’assoluta mancanza di un qualunque segno, fosse polvere, impronte o residui. Infilò la mano nella tasca interna della giacca e trovò il portafoglio, lo aprì e ne estrasse una carta di credito. Ripeteva la procedura come farebbe un impiegato delle poste con la corrispondenza, ben coscio dell’abissale differenza emotiva presente tra i due
lavori. Dimitri Kolarcek Il nome sulla carta non era ato da una fotografia, così Marcelo cercò un altro documento. Non c’era la patente e tutte le carte erano intestate alla stessa persona, ma nessuna riportava una fotografia che permettesse un riscontro. In tasca trovò il biglietto da visita del Ruth's Chris Steak House, uno dei ristoranti più rinomati della città, dall’altra parte dell’Alsop jr. Bridge. La sequenza sembrava la stessa, cena importante, rientro in albergo e omicidio, semplice, veloce e, soprattutto, pulito. Non avevano ancora trovato un nesso fra le vittime. L’unico punto in comune, per ora, era la buona disponibilità di contante e la tendenza a spenderlo per i piaceri della vita. Se c’era qualcos’altro che li legava non era così evidente. “Marcelo.” La voce di Geremia lo chiamò dalla porta. Marcelo uscì, si sfilò i guanti e strinse la mano all’amico. “Dalla faccia direi che non c’è nulla di nuovo” disse il dottore. “Se escludi le vittime, sembra di rivivere la stessa scena, e questa è la terza.” Geremia gli diede un colpetto sulla spalla ed entrò, seguito fedelmente dal suo assistente. Marcelo si spostò dall’ingresso e andò verso Stewart che, nel frattempo, aveva raggiunto la scena. Si guardarono con la medesima espressione, ma, mentre nel tenente era più evidente la rabbia, in Marcelo prevaleva lo sconforto. “La tua espressione vale più di mille parole” disse Stewart. “Io qua non vi servo” rispose Marcelo, “fammi avere i rapporti, grazie.”
Stewart lo guardò andarsene. Capiva perfettamente il suo stato d’animo e la frustrazione che li accumunava ma, a differenza del detective, lui aveva amici coi quali condividere i timori e diluire la rabbia e, anche se non ti risolvevano i problemi, ti aiutavano a metterli meglio a fuoco e a gestire nel migliore dei modi lo stress. Pensò di richiamarlo per offrirgli un o morale, ma valutò che la scena del crimine avrebbe impegnato la sua squadra per almeno un paio d’ore e, a quel punto, la cosa non sarebbe più servita. Si avvicinò alla porta ed attese il suo turno. Quando Kruger uscì, l’ispettore era ancora assorto nei suoi pensieri. “Ciao Alvin” disse Geremia, “come stai?” Stewart sorrise, un sorriso amaro, quasi rassegnato. “Ricordati” continuò il dottore, “sei uno dei migliori investigatori in circolazione, fai solo quello che fai normalmente e vedrai che lo becchi.” “Grazie, Geremia” rispose il tenente, “ci proverò.” Stewart si fece da parte, lasciando are la barella e i due medici, si infilò i guanti ed attese Marcus, non si aspettava niente di diverso, ma questa volta si sbagliava.
Capitolo 9
Pennington entrò nel suo ufficio e trovò Marcelo ed Elisabeth ad attenderlo. “Buongiorno, detective” disse sorridendo, “grazie di essere qui.” Girò attorno alla scrivania e si sedette sulla sua enorme poltrona di pelle nera. “Vi ho convocato per il caso del crocifissore.” Lo sguardo allibito dei colleghi indusse il comandante ad un chiarimento. “Lo so” disse, “l’appellativo è terribile, ma non è colpa mia.” Voltò verso i detective la copia mattutina del Florida Times. Una fotografia dell’ultima vittima, ancora legata al letto, riempiva la prima pagina ed il titolo, ad otto colonne, la sovrastava, come una corona sulla testa di un re. “Come hanno avuto questa fotografia?” Disse, quasi urlando, Marcelo. “Non ne ho idea” rispose il comandante, “dal vostro rapporto mi risulta che voi siate stati i primi a mettere piede nella stanza e siate rimasti li sino all’arrivo del dottor Kruger e, successivamente, della scientifica. Se il cadavere è stato slegato dal dottore, chi è entrato nel frattempo?” La domanda di Pennington era legittima e non voleva sotto intendere nulla di offensivo, anche se poteva non sembrare così. “Ci sta chiedendo se siamo stati noi?” Domandò Marcelo. “Non essere stupido” rispose il comandante, “sono perfettamente consapevole che voi non lo avreste mai fatto, chiedevo solo chi potrebbe essere stato.” Marcelo cercò di ricordare la scena e si aiutò con le parole.
“Gli uomini della sicurezza non sono mai entrati nella stanza. Quando siamo arrivati, la porta era chiusa e, dal momento in cui è stata aperta, gli unici ad entrare sono stati i due medici, oltre a me, ovviamente.” “Escluderei senza ombra di dubbio Geremia” commentò Pennington. “Così facendo, però, rimane solo il suo assistente, Braitner” disse Marcelo. “Non esattamente.” L’intervento di Elisabeth lasciò stupiti i colleghi che rimasero senza parole, in attesa di una spiegazione. “Noi sappiamo chi è entrato dal momento in cui la porta si è aperta” continuò Elisabeth, “ma c’era un’altra persona che ha visto il corpo nella sua posizione originale.” “Chi ce l’ha messo” concluse Marcelo. “Esatto.” “Vorresti dire” intervenne il comandante, “che quel folle ha voluto pubblicizzare il suo lavoro?” “Sembrerebbe proprio così” rispose Elisabeth. “È peggio di quello che pensavo” replicò Pennington, “ma, per precauzione, mi era già portato avanti ed ho chiamato rinforzi.” I due detective si guardarono confusi, non avevano idea di chi potesse aiutarli. “Non fate quella faccia” disse Pennington, interpretando alla perfezione i pensieri dei suoi colleghi, “conosco una persona che potrà esserci molto utile.” In quel preciso istante il sergente Scott, segretaria personale del comandante, bussò alla porta. “Prego, entri pure” disse Pennington.
La donna si affacciò sulla soglia. “Comandante, il dottore è arrivato.” “Lo faccia are, grazie.” La donna uscì e, un istante dopo, sulla porta apparve un uomo sui sessant’anni, quasi completamente calvo e con qualche chilo di troppo. “Eddy, accomodati.” L’uomo avanzò verso la scrivania e i presenti si alzarono. “Ti presento i miei collaboratori, i detective Morales e Wright. Il dottor Eduard Lecter.” Elisabeth, istintivamente, ritirò la mano, poi si accorse e cercò di rimediare. “Mi perdoni, dottore, non so che mi ha preso, sono una sciocca.” “Non si preoccupi” rispose Lecter, “mi succede spesso. Lo sciocco sono stato io che, con un nome come questo, ho deciso di fare il criminologo, avrei dovuto fare il fornaio.” “Sempre in ambito alimentare” commentò con un’ironia fuori luogo, Pennington. Ci fu un attimo di silenzio, poi il comandante riallacciò le fila del discorso. “Eddy è il nostro aiuto, il nostro asso nella manica” disse, “grazie a lui potremo capire la mente dell’assassino e prevenirne le mosse, sino a catturarlo, almeno credo.” “Io ci andrei piano con certe dichiarazioni” disse Lecter, “quello che posso fare è valutare i fatti ed i comportamenti e tracciare un profilo del nostro S.I., poi vedremo.” “S.I?” Ripeté Elisabeth. “Soggetto Ignoto” spiegò Lecter. “È un modo tecnico per indicare un colpevole
senza indirizzare le indagini, non è né maschile né femminile, e, soprattutto” aggiunse, allungando la mano verso il giornale, “non è mitizzante come certi soprannomi.” “Quindi” chiese Pennington, “da dove cominciamo?” “Inizieremo dalla comprensione del concetto di serial killer” rispose Lecter. Il dottore prese un foglio bianco e scrisse tre parole, manipolazione, dominio, controllo. “Secondo John Douglas dell’F.B.I.” continuò il dottore, “queste sono le tre parole chiave per comprendere il modo di agire di un assassino seriale. La ritualità del delitto, tramite la celebrazione di una cerimonia orrida ed oscura, si ripete immutata, a volte anche per molti anni. Il rituale del serial killer è un po' la sua firma, ciò che gli consente di trarre piacere dall'atto in sé, di conseguenza, l'assassino seriale lo prolungherà il più possibile perché, interrompendolo, il piacere potrebbe esaurirsi. Il modus operandi, ossia le modalità e i mezzi utilizzati dall'assassino seriale per uccidere, è tanto orrendo quanto efficace, soprattutto se, come in genere avviene, a molto tempo prima del suo arresto.” Lecter s’interruppe, osservando le reazioni degli astanti e notando lo sguardo interessato ma scosso, al limite dello sconvolto, di tutti i presenti. Avvicinò il foglio ed aggiunse due parole, firma e modus operandi. “Una distinzione fondamentale, anche se sottile, deve essere fatta fra queste due voci. Il modus operandi è il comportamento acquisito, ciò che l'assassino seriale fa nell'esecuzione del crimine. Ha caratteristiche di dinamicità e può evolversi nel tempo. La firma, invece, rappresenta ciò che il soggetto deve fare per raggiungere l'appagamento. Rimane, pertanto, costante in ogni delitto e non varia negli anni.” Lecter controllò il suo pubblico in attesa di domande, ma nessuno osò aprire bocca, così il dottore proseguì nella sua dissertazione. “Ho letto i fascicoli sul caso e ho tratteggiato, a grandi linee, un profilo del nostro S.I.”
Riprese il foglio e annotò la parola organizzato. “Per certo, viste le prove raccolte, possiamo dire che rientri nella categoria degli organizzati. Un seriale di questo gruppo pianifica con cura i propri delitti, scegliendo un tipo particolare di vittima che, in qualche modo, ha un legame simbolico con lui. Sono meticolosi, selezionano le vittime meno rischiose e le conducono sul luogo del delitto. Per lo più si tratta di psicopatici, inguaribili, con un alto quoziente d'intelligenza. Lasciano pochissime tracce dietro di sé, ad eccezione di quando praticano un rituale, come nel caso in cui mordano le proprie vittime. Molto spesso portano con sé un kit con l'occorrente: una corda, del nastro adesivo, delle manette, dei guanti, dei vestiti di ricambio, un'arma da fuoco, un coltello. Generalmente si tratta di soggetti molto socievoli e capaci di integrarsi alla perfezione senza destare sospetti, hanno un buon impiego, inferiore però a quello cui potrebbero aspirare, sono competenti sessualmente, hanno ricevuto una disciplina severa durante l'infanzia, vivono con un partner o hanno famiglia propria.” Nuovamente il dottore s’interruppe, dando modo agli ascoltatori d’intervenire. Non ricevendo commenti, pensò d’introdurre una breve pausa. “Non è che avreste del caffè?” Chiese. “Certamente” rispose il Comandante che, tramite l’interfono, comunicò la richiesta all’assistente. Pochi minuti dopo il sergente Scott entrò nella stanza con una caraffa di caffè e quattro bicchieri. “Li lasci pure sulla scrivania” disse il comandante, “grazie, Emily.” La donna eseguì ed uscì in silenzio. Pennington prese la caraffa e riempì il primo bicchiere, porgendolo a Lecter, poi fu il turno di Elisabeth e per finire si rivolse a Marcelo che, però, educatamente rifiutò. Il comandante tenne per sé il bicchiere ed attese il seguito dell’analisi.
Lecter bevve metà del suo caffè, appoggiò la tazza e riprese il suo foglio, appuntando la parola vendetta. “Non possiamo considerare il nostro S.I. come un seriale sessuale, da quel che ho letto non ha toccato in nessun modo le vittime, se escludiamo le dita. Dobbiamo, quindi, inserirlo in una categoria diversa che, ritengo, si possa considerare quella della vendetta simbolica. In questa ipotesi, l'assassino uccide una serie di vittime contro le quali vuole vendicarsi, perché pensa di aver subito un grave torto e lo ingigantisce fino a farlo diventare insostenibile, in maniera del tutto irrazionale. Uccide, però, dei soggetti che, personalmente, non gli hanno fatto nulla, ma che rappresentano un'autorità che lui vuole punire per un comportamento che ritiene scorretto nei suoi confronti.” Lecter finì il suo caffè e si pulì la bocca con un fazzoletto. Ricontrollò per l’ennesima volta lo stato d’attenzione dei suoi particolari allievi e diede loro il tempo di schiarirsi le idee. “Domande?” Chiese. Non ricevendo risposta, proseguì. Aggiunse una nuova parola al suo foglio, la parola messaggio. “Mi sembra evidente che l’S.I. ci stia inviando un messaggio” disse, “in questi casi, a differenza dell'omicidio seriale provocato da un conflitto, il rapporto con le vittime è inesistente ed esse sono il capro espiatorio sul quale si indirizza la rabbia e l'aggressività accumulata. La vittima diventa il tramite inconsapevole, simbolico, del messaggio dell'assassino. La posizione dei cadaveri, il dito mozzato e, ovviamente, la sequenza di numeri sul nastro incollato alla bocca, indicano chiaramente che stia cercando di comunicarci qualche cosa, qualche cosa che noi non siamo ancora riusciti a capire e, finché non ci riusciremo, il nostro S.I. continuerà ad uccidere.” Il comandante osservò Lecter indeciso su come porre la domanda, poi decise che, in qualsiasi modo l’avesse fatto, non avrebbe fatto differenza. “Quindi” disse alla fine, “non abbiamo in mano niente, o sbaglio?” Lecter guardò con comprensione l’amico e gli sorrise.
“La mia è la prima visita, non puoi pensare che ti risolva il caso di getto.” Pennington rispose al sorriso e si appoggiò allo schienale, in attesa della seconda parte. “Ho esposto quello che sappiamo del nostro S.I. fino ad ora, adesso ti dirò cosa non sappiamo. Non sappiamo se si tratta di un uomo o di una donna. Alcuni studiosi pongono delle barriere che identificano gli atti compiuti con il sesso dell’assassino e dicono che, alcune cose, non possono essere opera di donne. Secondo le loro tesi, una donna non mutilerebbe la sua vittima, non ebbe armi da fuoco e tenderebbe a simularne una morte naturale sfruttando il veleno. Io vi dico che questa è solo letteratura. Una donna può fare quello che fa un uomo, solo molto meglio.” All’ultima frase, Elisabeth sorrise, immaginandola applicata ad altri contesti. Lecter la osservò, condividendo l’idea, poi riprese la sua analisi. “Secondo punto oscuro, non sappiamo se sia solo o siano una coppia. Se così fosse, ci troveremmo davanti a due individui che compiono insieme l'omicidio seriale. Si parla di coppia assassina anche quando, in realtà, è uno solo dei soggetti a commettere concretamente l'omicidio, mentre l'altro assiste al fatto e aiuta poi a disporre il cadavere, nel caso in cui vogliano lanciare qualche messaggio particolare agli inquirenti. Le coppie sono sempre formate da un soggetto con personalità dominante e da uno con personalità sottomessa. Il soggetto dominante, che nelle coppie uomo/donna è quasi sempre l'uomo, pianifica l'azione omicida e la metterebbe in atto anche senza la presenza dell'altro. Spesso si tratta di un individuo fortemente manipolatorio e con un disturbo antisociale della personalità, che lo porta ad utilizzare il prossimo per ottenere i suoi scopi, frequentemente, ha già dei precedenti penali. L'altro membro della coppia è un soggetto ivo, che non è in grado di opporre resistenza alla volontà del dominante. Si tratta di persona che, probabilmente, non sarebbe mai diventata un serial killer senza l'incontro con il partner.” Marcelo, che non aveva detto una parola sino a quel momento, decise d’intervenire. “Mi corregga se sbaglio” disse al dottore, “l’unico modo per farci un’idea di chi potrebbe essere e, di conseguenza, riuscire a fermarlo, è quello di capire cosa vuole dirci, qual è il suo messaggio.”
“Esatto” rispose Lecter, “capire il senso della messa in scena porta ad una categoria specifica di persone, un filtro che riduce il numero dei sospettati e ci indirizza verso il vero, o i veri, responsabili.” Marcelo voltò il foglio nella sua direzione e rilesse le parole scritte da Lecter, poche, innocue, se prese singolarmente, eppure, se abbinate al giusto contesto, tanto terribili da mettere la pelle d’oca. “C’è ancora una cosa” aggiunse Lecter, “non meno importante delle precedenti. Il nostro S.I. potrebbe essere del genere stazionario. Soggetti come questi non lasciano mai la loro casa e il posto d'impiego, le vittime risiedono nella stessa zona o vengono catturate ogni volta nello stesso posto.” “Le nostre vittime provenivano da città diverse” commentò Elisabeth. “Vero” rispose il dottore, “ma l’area dei tre omicidi è racchiusa in poche miglia quadrate. Se si esclude per un attimo il St. Johns, i tre alberghi sono nello stesso isolato.” “Significa che l’assassino è di quella zona?” Chiese Pennington. “No, assolutamente no” rispose il dottore, “significa che per l’assassino quella zona è importante, è la sua zona sicura, il posto dove si sente tranquillo e pensa di poter agire indisturbato. A volte coincide con la zona dove vive, a volte con quella dove lavora, altre volte, purtroppo, con una area legata a qualche evento emotivo del suo ato.” “Dunque, se ho capito bene” continuò il comandante, “sapere dove agisce non ci aiuta a scoprire chi è, o non è così?” “Non esattamente” lo corresse Lecter. “Ho tracciato un primo profilo del nostro S.I. che vi aiuterà nella ricerca. Come prima cosa direi che dovrebbe avere tra i 30 e i 40 anni, è automunito, ha un’intelligenza di livello alto, così come la sua istruzione. La vittimologia ci suggerisce che preferisce uomini di mezza età con buone disponibilità economiche, cosa che non implica necessariamente che sia una donna. Ha un aspetto piacevole, forse rassicurante. Le vittime lo seguono volontariamente, anzi, direi che sono felici di farlo. Suscita interesse, probabilmente le stuzzica sessualmente, oppure conosce le loro ioni e fa leva su queste per indurli a seguirlo.”
Lecter si versò un altro bicchiere di caffè e ne bevve un lungo sorso. Parlare di certe cose, anche se abituato, lo innervosiva sempre e la gola arida era uno dei sintomi più evidenti di questa situazione emotiva. Posò il bicchiere ed estrasse un fazzoletto, si asciugò le mani che, per motivi ignoti, sembravano impossessarsi di tutto il liquido che mancava alla sua bocca, e riprese il suo discorso. “Non usa la forza per sopraffarli, non ci sono tracce di lotta né residui di droga o anestetici. Sembrano consenzienti sino al momento cruciale e quando si accorgono della vera natura dell’incontro, ormai è troppo tardi. Conosce le tecniche investigative, non lascia tracce, non si lascia immortalare dalle videocamere, non lascia testimoni attendibili. È un esibizionista, lascia il cadavere in posa per noi e, non contento, lo mostra al mondo. Non ci teme, anzi, ci sfida e se non otterrà attenzione potrebbe aumentare l’impatto emotivo dei suoi omicidi.” “Mi perdoni” intervenne Elisabeth, “ma credo che solo una donna potrebbe indurre tre uomini a seguirla in camera e a farsi legare al letto. Non vedo quali valide motivazioni potrebbe produrre un uomo per riuscire nel suo intento.” “Nel mondo di persone normali, come noi, questa sarebbe la deduzione più ovvia, ma un S.I. di questo livello vive in un mondo parallelo, un mondo dove le regole non sono le stesse. Potrebbe minacciare le loro famiglie o loro stessi che, nella speranza di uscirne vivi, accettano il gioco sino alla tragica scoperta finale. Senza dimenticare che potrebbe proporsi come donna, truffandoli sull’aspetto. Un buon trucco è delle luci adatte potrebbero ingannarli, l’idea della luce d’atmosfera è vecchia ma sempre valida.” “Mi perdoni” obbiettò Elisabeth, “ma per presentarsi come donna, oltre ad un trucco ben fatto, serve una corporatura e delle movenze in linea col personaggio. Un uomo con questa predisposizione non sembra adatto a ricoprire il ruolo di dominatore.” “Quello che cerco di farle capire, detective” rispose il dottore, “è l’assoluta impossibilità di paragonare l’atteggiamento di un S.I. con le logiche normali. Queste persone vivono una realtà distorta, dove l’apparenza e l’inganno sono alla base della loro sopravvivenza. Diventano attori inarrivabili in quanto non recitano un personaggio, ma SONO il personaggio stesso. Supererebbero
qualunque esame o interrogatorio, vincerebbero ogni confronto, fosse con persone o con qualsiasi poligrafo. Possono assumere qualsiasi identità ed ingannerebbero persino la loro madre.” Elisabeth non replicò, prese il telefono, lo guardò e lo ripose. Pennington rimase in attesa di qualche domanda o, meglio, di un’idea valida per uscire dalla matassa ed indirizzarsi verso un percorso di ricerca. Lecter rilesse alcuni appunti che si era portato, dando modo ai poliziotti di riorganizzare le idee, poi, notando una certa apprensione, riprese la parola. “Sono consapevole di avervi riversato addosso una marea d’informazioni, a volte in contrasto fra loro, ma l’esame di un S.I. non è semplice e, purtroppo, diviene più preciso solo all’aumentare degli omicidi. Vi darò alcuni elementi di ricerca, con la premessa che, ovviamente, l’appartenenza ad una di queste categorie non fa di per sé un serial killer, ma, al contrario, un serial killer apparterrà quasi sicuramente ad una di queste categorie.” Lecter prese nuovamente il suo foglio, tracciò una linea divisoria e, nella parte inferiore, annotò le sue categorie, quelle considerabili a rischio. “Dovrete cercare persone che rientrano in una di queste categorie: figlio illegittimo, figlio di un genitore abusivo, di solito il padre, mentre l'altro è sottomesso, spesso la madre, anche se è possibile il quadro opposto, orfano di uno o entrambi i genitori, infanzia caratterizzata da violenze fisiche, psicologiche e/o sessuali, perpetrate da uno o da entrambi i genitori. Penso che siate più bravi di me nella ricerca e quindi non vi servono consigli. L’unica cosa che vi posso dire è questa, fate in fretta, molto in fretta, l’intervallo emotivo del nostro S.I. sembra essere piuttosto breve e non tarderà a farsi vivo di nuovo.” Marcelo ruotò la penna fra le dita, concentrando l’attenzione sul piccolo oggetto per alcuni istanti. Quando alzò lo sguardo, incrociò quello del comandante che attendeva una reazione. “Direi di sfruttare al massimo il nostro potenziale” disse a quel punto, “ampliamo la ricerca dei nostri collaboratori all’accademia, dandogli le nuove direttive, noi ci occupiamo della fotografia, dobbiamo scoprire chi la spedita e,
soprattutto, cerchiamo di capire il messaggio.” “Ottimo” sottolineò Pennington, “direi che non serve avvertire i media o la popolazione, ne sanno quanto noi, possiamo, però, aumentare i controlli notturni, anche se dubito possano dare esiti positivi.” Lecter si alzò, imitato dagli altri, e salutò il gruppo. “Io resto a disposizione. Qualsiasi novità, anche minima, comunicatemela, potrebbe fare la differenza. Dobbiamo aggiornare continuamente i dati a nostra disposizione ed affinare la ricerca in modo sistematico, solo così possiamo pensare d’interrompere questa follia.” Raccolse i suoi appunti ed uscì. Pennington guardò i suoi colleghi, emise un sospiro nervoso, poi disse: “Abbiamo parecchio lavoro da fare, muoviamoci.”
Capitolo 10
La Charger nera si fermò davanti alla sbarra e Marcelo mostrò il distintivo alla guardia. “Detective Morales, dovremmo parlare col direttore.” L’uomo in guardiola sollevò il telefono e chiese l’autorizzazione. “Potete entrare, il direttore vi raggiungerà all’ingresso.” Alzò la sbarra e seguì con lo sguardo l’auto dei due detective sino al parcheggio. Marcelo si fermò in uno degli spazi delineati alla destra dell’ingresso e scese. “Potevi fermarti più vicino” commentò Elisabeth. “Non mi fermo davanti alla porta d’accesso se non è necessario” rispose Marcelo. Raggiunsero la piccola piramide di vetro che sovrastava l’ingresso ed entrarono nella hall del giornale. Una ragazza in tailleur nero ed occhiali tondi si avvicinò sorridendo. “Buongiorno, il direttore arriva subito, se vi volete accomodare” disse, indicando un salottino laterale. “Grazie” rispose Marcelo, “lo aspettiamo qui.” Attesero pochi minuti, giusto il tempo di osservare alcune delle prime pagine storiche del giornale, dalla dichiarazione di guerra del Giappone all’omicidio di Kennedy, dallo sbarco sulla luna all’elezione di Obama, c’era solo l’imbarazzo della scelta. Erano fermi davanti al quadro con l’immagine delle Twin Towers in fiamme
quando, alle loro spalle, una voce baritonale li richiamò. “Detective, scusate l’attesa.” Ervin Price si avvicinò col braccio teso e salutò i due poliziotti. Era giovane, per essere direttore, carino e molto elegante nel suo completo color crema. La cura dei dettagli era attenta e aggiornata alle tendenze del momento, molto simile alle vittime del loro S.I., ma con tutte le dita al loro posto, pensò Elisabeth. “Mi hanno detto che volevate parlarmi, suppongo per la fotografia di oggi” disse quasi gongolando. “Giusta supposizione” commentò Marcelo. “Prego, dite pure.” Marcelo estrasse il taccuino e la penna. “Come l’ha avuta?” Chiese. “È arrivata via mail alla nostra redazione ieri sera.” “Sapete chi l’ha spedita?” “No, certo che no, e non ne faccio un segreto professionale, mi creda, la mail è arrivata da un anonimo.” “Nessuno ha chiesto soldi per darvela?” “Assolutamente no, ma glieli avrei dati volentieri.” “Dobbiamo vedere la mail” disse Marcelo, trattenendo un’imprecazione. “Prego, potete seguirmi in sala server.” L’uomo fece strada e si diresse in un corridoio laterale. A metà del aggio, si fermò ad una porta di metallo e digitò un codice sulla tastiera di sicurezza.
La serratura elettrica scattò e l’uomo entrò nel vano scale, seguito dai detective. Scesero al piano inferiore ed entrarono in un ufficio ampio e piuttosto rumoroso. “Questa è la nostra sala server” disse, “anche se siamo sottoterra, abbiamo la necessità di mantenere bassa la temperatura e le ventole d’areazione sono piuttosto fastidiose, ma ci si abitua. Quello è il nostro responsabile del CED, potete parlare con lui.” Marcelo si avvicinò all’uomo indicato che, non molta naturalezza, esibiva una camicia a fiori con le maniche arrotolate sopra i gomiti e un paio d’occhiali molto simili ad una maschera da sub. Non ebbe nemmeno il tempo di formulare una domanda che l’uomo mostrò il monitor del server con evidenziata la mail in questione. “Questa è arrivata ieri sera alle 21.38 da un anonimo. Non conteneva virus o malware di alcun tipo. Non era una trappola per il giornale, ma solo un omaggio, come lo ha definito il direttore.” Elisabeth fissò lo schermo per un attimo poi, non essendo esperta in materia, chiamò la centrale. Marcelo, colpito dalle parole usate, si occupò del direttore. “Omaggio?” Chiese innervosito. “Lei definisce omaggio un’atrocità come questa?” “Non era riferito al fatto” cercò di giustificarsi Price, “ma era importante per il giornale e, se mi permette, anche per la gente che ha diritto di sapere cosa succede nella sua città.” “Certe cose è meglio che la gente non le sappia” replicò il detective, “soprattutto mentre sono ancora in corso le indagini che, se mi permette, potrebbero subire danni a causa del suo omaggio.” “Siamo in un paese libero, non devo giustificare la mia scelta a nessuno” commentò stizzito Price. “A nessuno? Provi a dirlo ai famigliari delle vittime, di questa vittima in
particolare” ringhiò Marcelo, mostrando la fotografia dell’ultimo uomo assassinato. Si voltò verso la collega, cercando di riprendere la calma. “Fatto” disse Elisabeth, “la centrale ha recuperato tutte le informazioni necessarie e fra poco ci darà notizie.” “Ottimo” rispose Marcelo, “usciamo da qui, prima che mi venga un’ulcera.” Lasciarono la stanza senza dire altro. Price li seguì a debita distanza e non si preoccupò di scusarsi, d’altra parte, dal suo punto vista, lui era nel giusto, non aveva motivo di chiedere scusa. Tornarono all’auto e si diressero verso l’uscita. Erano fermi all’incrocio sulla Riverside quando arrivò un messaggio. “La mail è stata inviata da un internet cafè, il PetÈs Retreat sulla Normandy” disse Elisabeth. Marcelo cambiò direzione, seguì la Riverside sino all’incrocio con la Post, la imboccò e percorse le quattro miglia che lo separavano dalla destinazione senza aprire bocca. Entrarono nell’enorme parcheggio del Winn-Dixie Pharmacy e costeggiarono tutto lo stabile, controllando i numeri civici. “Il 5237 dev’essere dall’altro lato” disse Elisabeth. Marcelo attraversò il piazzale e si fermò davanti ad una piccola fila di locali, uno dei quali esponeva la pomposa insegna di Cyber cafè. Scesero e si diressero all’ingresso. Una decina di postazioni internet, poste a ferro di cavallo, occupava la piccola sala alla destra dell’entrata mentre, nel lato opposto, un bancone da bar e qualche tavolo riempivano il poco spazio rimasto. Si avvicinarono al barista e mostrarono i distintivi.
“Detective Morales e Wright, possiamo farle qualche domanda?” Chiese Marcelo. “Riguardo a cosa?” Chiese timoroso il barista. “Ieri sera, verso le 21.30 è stata spedita una mail da uno dei vostri computer, stiamo cercando di capire chi è stato.” “Sarà difficile” commento il barista con aria sollevata, “la gente viene qui perché non ha un computer a casa o, il più delle volte, per non farsi rintracciare, o scoprire, fate voi. È il punto di forza del nostro servizio.” “Suppongo non abbiate videocamere.” “Ovviamente.” “E nemmeno un registro degli utenti” aggiunse Elisabeth. “No. Ripeto, la privacy viene prima di tutto. Entri, usi internet, paghi e te ne vai, niente nomi, niente dati personali o cose simili.” “Quindi non possiamo risalire all’ che ha inviato la mail?” Chiese senza speranza Marcelo. “In realtà possiamo risalire all’, ma, quasi certamente, sarà stato creato in quel momento e cancellato prima che finisse la sessione, comunque, se ci tenete, possiamo controllare.” “Se non le crea troppo disturbo, ci farebbe una cortesia” commentò Elisabeth. L’uomo sembrò felice d’aiutare la polizia, forse perché la paura d’esser preso per qualche traffico non del tutto legale, aveva lasciato il posto ad un certo rilassamento, e la figura del bravo cittadino collaborativo poteva dare dei vantaggi in futuro. Si spostò nella piccola stanza sul retro del bancone e si sedette ad una postazione che, probabilmente, era il server principale del locale. Lavorò alcuni minuti con estrema abilità poi stampò un foglio e lo portò agli agenti. “Qui trovate l’ e le generalità fornite per la registrazione.”
Marcelo lesse le poche righe: Nome: Alejandro Garcia Data: 24 Maggio 1995 :
[email protected] Data creazione: 22 Giugno 2015 – Ore 21.33 Data Cancellazione: 22 Giugno 2015 – Ore 21.40 “Se fossi in voi” disse il barista, “non perderei tempo a rintracciare questo Alejandro. Per prima cosa, è sicuramente un alias, e, ammesso per assurdo che non lo fosse, ci saranno un migliaio di persone con quelle generalità.” Marcelo annuì, concordando con la tesi dell’uomo. “Possiamo tenerlo?” Chiese, alzando il foglio. “Certo” rispose il barista, “se avete bisogno, io sono sempre qui.” Uscirono dal bar e si fermarono davanti alla loro auto. “Non ci sono telecamere” disse sconsolata Elisabeth. Marcelo perlustrò visivamente il parcheggio, sperando di poter smentire la collega, ma senza fortuna. “A quanto pare” commentò, “ne hanno istallata solo una davanti al market. Facciamo un giro comunque.” Risalirono in auto e percorsero lentamente tutto il perimetro dell’enorme piazzale ma, come già notato in precedenza, le uniche riprese venivano effettuate per gli ingressi del supermercato e non davano modo di vedere le auto in transito ai lati della struttura. “O è molto fortunato o molto attento” commentò Elisabeth. “Propendo per la seconda ipotesi” rispose Marcelo, “la fortuna non può essere così precisa e tanto duratura.”
Si avviarono verso l’uscita da dove erano arrivati e s’infilarono nel traffico in direzione della centrale. Il rumore secco della radio li colse di sorpresa, facendoli sobbalzare sui sedili. “Marcelo, ci sei?” Chiese la voce dall’altoparlante. “Ci sono” rispose il detective. “Ha chiamato il tenente Stewart della scientifica. Ha lasciato detto di are da loro per un briefing, vi aspetta.” “Ricevuto, andiamo da loro.” Marcelo rimise a posto il ricevitore e cambiò corsia. Raggiunse l’incrocio e svoltò sulla Edgewood Avenue, in direzione del St. Johns, la percorse sino al Roosvelt Boulevard ma, anziché salire sulla rampa, o sotto al ponte, dirigendosi verso la Park. “Perché non hai preso la Roosvelt?” Chiese stupita Elisabeth. “Perché all’uscita non si può svoltare e non ho nessuna voglia di raggiungere la rotonda sulla Collier per tornare indietro” rispose Marcelo, meravigliandosi della domanda. “Io ci o sempre” replicò Elisabeth. “Non dovresti.” Elisabeth stava per ribattere, ma decise di trattenersi, discutere con Marcelo su argomenti come il rispetto delle regole era come discutere di calcio con un brasiliano, solo tempo perso. Rimasero in silenzio sino all’arrivo alla centrale della scientifica. Lasciarono l’auto davanti alla palazzina in mattoni rossi in puro stile inglese ed entrarono. Stewart era in portineria e li accolse di persona. “Già qui?” Chiese stupito.
“Eravamo di strada, sei stato fortunato” rispose Marcelo. “Ottimo, seguitemi.” Il tenente fece strada e li condusse nel laboratorio. “Prego, accomodatevi” disse indicando due poltroncine davanti alla sua scrivania. I detective presero posto ed attesero. “Forse ci sono novità” esordì Stewart, “ma prima di sbilanciarmi preferisco aspettare l’esito delle analisi. Nel frattempo voi che mi dite?” “Quasi nulla” rispose Marcelo, “la fotografia è stata inviata al giornale tramite un internet cafè e l’ utilizzato era anonimo. Non abbiamo nessuna telecamera né nel locale e neppure all’esterno e quindi è impossibile sapere chi c’era e chi potrebbe essere l’artefice della spedizione.” “Analisi breve quanto terribile” commentò Stewart. “Hai detto che ci sono novità” disse Elisabeth, “ci dai delle anticipazioni?” “Certo. Abbiamo un’impronta parziale di scarpa, non è molto, ma Sophie ci sta lavorando e potrebbe dare qualche risultato.” “Siete certi sia dell’assassino?” “Direi di si. Era nel sangue sotto la mano e, conoscendo bene le persone che sono entrate nella stanza prima di noi, non ho dubbi che fosse già li quando siamo arrivati.” “Non ti sembra un errore grossolano per un tipo tanto attento e meticoloso?” Chiese Marcelo. “Non direi” rispose il tenente, “non è stata trovata nel modo tradizionale, per questo ci serve un po’ più di tempo. Vi spiegherà tutto bene la mia collega. Vi offro un caffè nell’attesa?” “Perché no?” Rispose Elisabeth.
“Io o” disse Marcelo, “ma vi accompagno comunque.” Raggiunsero la sala ristoro e Stewart riempì due bicchieri, porgendone uno ad Elisabeth. Marcelo prese dell’acqua dal dispenser e si sedette con loro in attesa. “Avete trovato il numero sul nastro?” Chiese poco dopo. “Sì” rispose Stewart, “come sempre.” Tolse dalla tasca un biglietto ripiegato e lo ò a Marcelo. P214 Il piccolo numero scritto al centro del foglio lasciava perplessi più del solito. Era diverso dai precedenti. L’iniziale, la lunghezza e, probabilmente, il senso. Aggiungeva un indizio che non faceva altro che aumentare la confusione dell’indagine. Marcelo ripiegò il biglietto e lo riò al tenente. In quel momento, dal corridoio, una voce risuonò nella sala. “Capitaine mon capitaine” Stewart si alzò sorridendo. “Scusate” disse, “è Sophie, la madre è se ed il padre, a quanto sembra, doveva essere Robin Williams” Uscirono dalla sala e si diressero verso l’ufficio del tenente. La ragazza li aspettava davanti all’ingresso con una cartelletta in mano, tamburellando con le dita sullo stipite della porta. “Sophie” disse Stewart, “i detective Morales e Wright, seguono loro il caso.” “Ottimo” rispose la ragazza porgendo la mano, “seguitemi.”
Si diressero verso il laboratorio e si fermarono attorno al grande tavolo utilizzato per lo studio dei reperti. “Abbiamo un’impronta di scarpa” disse Sophie, “o almeno una parte d’impronta” precisò. Vedendo i volti attenti dei colleghi, la ragazza pensò di fare un breve riepilogo. “Abbiamo analizzato tutta la stanza e, come potete immaginare, non abbiamo trovato nulla. Così siamo ati alla verifica delle fotografie, per cercare qualche indizio utile, e siamo stati fortunati. Analizzando la fotografia dell’impronta di sangue sul pavimento, abbiamo notato una strana ombra sul bordo esterno. Non avevamo idea di cosa fosse, così abbiamo ingrandito l’immagine.” Sophie si spostò verso il computer e attivò lo schermo principale. Una macchia rossa riempì i cinquanta pollici della televisione, procurando un brivido lungo la schiena di Elisabeth che, però, riuscì a non darlo a vedere. Sophie si avvicinò allo schermo, prese dalla tasca un puntatore laser e ò il raggio nella zona inferiore della fotografia. “Se prestate bene attenzione” disse, “noterete che quest’area non è uniforme, o meglio, non è esattamente identica al resto della macchia. Non riuscivamo a trovare una motivazione plausibile poi ho avuto un’illuminazione ed ho pensato all’elettrolisi, o meglio, all’effetto triboelettrico.” L’espressione confusa della platea diede uno spunto d’orgoglio alla ragazza, fiera d’aver percorso una strada che non tutti avrebbero trovato. “Vi spiego meglio cosa abbiamo pensato” disse. Sophie si spostò verso il tavolo laterale, prese un recipiente basso e vi versò del liquido rosso, portò il recipiente sul tavolo centrale e lo posò davanti ai colleghi. Tornò al tavolo e prese una batteria con due cavi e la posizionò accanto al recipiente. “Osservate bene il liquido” disse.
Avvicinò lentamente i due cavetti al recipiente e, quando fu a circa un millimetro dal liquido, sullo stesso si formarono delle increspature, come il mare battuto dal vento. “Vedete?” Chiese. Tutti annuirono, così Sophie tolse i cavetti e spostò la batteria. “La conducibilità elettrica di liquidi e gas dipende dalla formazione di ioni al loro interno, cioè di atomi o molecole di segno negativo o positivo, perché hanno acquistato o perso uno o più elettroni: sono gli ioni che diventano i veicoli della corrente elettrica. Infatti, mentre nei conduttori metallici la corrente è trasportata solo da particelle di carica negativa, gli elettroni, nei liquidi e nei gas il trasporto di corrente avviene attraverso cariche negative e positive, gli ioni appunto.” Sophie controllò lo stato d’attenzione del suo pubblico e pensò di proseguire. “La corrente che ho avvicinato al liquido ha provocato una modifica strutturale permanente. In questo caso, essendo ancora liquido, la parte modificata si mescolerà con quella integra, rendendo il composto uniforme, ma, nel caso del nostro sangue, la moquette ha trattenuto il sangue, impedendogli di mescolarsi e rendendo visibile l’alterazione causata dalla corrente.” Sophie guardò compiaciuta i colleghi in attesa di un applauso, ma giunse un’obbiezione, che però non fece altro che aumentare la sua autostima, vista la risposta che aveva già preventivato di dare. “Scusa Sophie” disse Stewart, “pensi che il killer se ne vada in giro con una batteria addosso?” “No, certo che no” rispose la ragazza, “ma sappiamo cos’è successo.” Sophie tornò al suo tavolo da esperimento e prese una scarpa da ginnastica, un foglio ed un pennello. Posò il foglio davanti ai colleghi e lo bagnò con una parte del liquido elettrificato. Avvicinò la scarpa e la posò davanti al foglio, in modo che la punta fosse appena oltre il bordo iniziale.
“Come potete vedere” disse, “la punta della scarpa, come molti modelli da jogging, non tocca il tavolo. Questo sistema viene utilizzato per migliorare la spinta e ridurre lo sforzo sui legamenti. Ultimamente questo metodo è disponibile anche su scarpe normali, magari in forma meno accentuata. Vi chiederete cosa centra questo con il nostro discorso, ora vi spiego. Il killer doveva avere suole di gomma che, a contatto con la moquette, si sono caricate di elettricità statica. Quando si è avvicinato alla macchia, come dal nostro esempio, la corrente presente sulle scarpe si è trasferita al sangue, causandone la variazione cromatica. Analizzando la forma del sangue modificato, siamo giunti alla presunta forma della scarpa. Dovrebbe essere un numero 45 con suola liscia o, comunque, con scanalature poco profonde.” Sophie guardò i colleghi e le loro espressioni di stupore la resero felice. “Davvero un ottimo lavoro” disse Stewart, “quasi geniale, ma pensi che la corrente generata da una scarpa possa essere sufficiente a modificare la struttura atomica del sangue?” “Secondo una ricerca universitaria, la scarica elettrica rilasciata dopo aver camminato su di un tappeto sintetico può variare da un minimo di 1500 volt, nel caso di aria molto umida, sino ad un massimo di 35000 volt, nel caso l’umidità dell’aria scenda sotto il 20%, ovviamente con una corrente talmente bassa da non impensierire un uomo, ma sufficiente a danneggiare un sistema elettronico o, come nel nostro caso, modificare la struttura molecolare di una macchia di sangue.” “Non ho parole” aggiunse Elisabeth, “troppo complesso per me.” Marcelo si concesse qualche attimo di riflessione prima di esporre il suo giudizio. “Tu che dici?” Chiese Stewart, vedendolo titubante. “Indubbiamente l’idea è d’alto livello, non tutti avrebbero pensato una cosa simile. Mi chiedo solo quanto questo ci possa aiutare nella ricerca. Il numero di scarpe, oltre che diffusissimo, non ci permette di determinare l’altezza del nostro S.I. né altri parametri utili al riconoscimento.” L’obbiezione era corretta anche se irritante e non si poteva certo contestare a Marcelo un eccesso di zelo, la situazione era molto grave e andava risolta prima
possibile, ma questo non evitò una smorfia di disapprovazione da parte di Sophie, che vedeva sminuita la sua grande intuizione. “Potresti almeno fingere un po’ d’entusiasmo” disse al collega. “Hai ragione, scusa” disse Marcelo, cercando di alleviare la delusione della ragazza, “ma speravo di avere qualche cosa su cui lavorare ed invece siamo messi come prima, se non peggio.” “Purtroppo Marcelo ha ragione” intervenne Stewart, “abbiamo già tre cadaveri e nemmeno uno straccio d’indizio, ho paura che se non ci inventiamo qualcosa, questo diventa il peggior seriale della storia americana.” Il silenzio riempì la stanza e per alcuni minuti rimase il sovrano incontrastato. Alla fine fu Marcelo a rompere gli indugi. “Vi lasciamo al vostro lavoro” disse, “noi torniamo in centrale, dovrebbe are Geremia e non lo voglio far aspettare. Ci sentiamo.” Uscirono dalla sede della scientifica e lo sguardo avvilito di Elisabeth ben rifletteva il suo stato d’animo. Marcelo, al contrario, si mostrava più preoccupato, arrabbiato e, come se non bastasse, infastidito dal senso di rassegnazione che aleggiava nei suoi colleghi. Salì in macchina e partì verso la centrale, un viaggio breve e molto silenzioso.
Capitolo 11
Elisabeth rientrò in ufficio con una tazza di caffè ed un bicchiere d’acqua. Li posò sulla scrivania e si sedette. Marcelo fissava un foglio davanti a sé, ma, in realtà, non lo vedeva. “A cosa pensi?” Chiese la ragazza. Marcelo prese il bicchiere con l’acqua, ne bevve un sorso e guardò la collega. “Penso che, per quanto odi ammetterlo, l’ipotesi di Stewart sia la più concreta. Ci serve un miracolo, un colpo di genio alla Sherlock Holmes.” “Mi sa che siamo momentaneamente sprovvisti di geni di quel livello” commentò amara Elisabeth. Marcelo stava per rispondere quando, sulla porta, apparve la figura di Geremia, con i suoi capelli grigi spettinati e le sopracciglia formato yeti. Einstein, pensò Elisabeth. “Buongiorno, ragazzi” disse il dottore. “Buongiorno non direi, ma grazie per la ventata d’ottimismo” rispose Marcelo. Geremia sorrise e porse una cartelletta a Marcelo. “Qui trovi l’esito dell’autopsia con tutto il contorno, non che ci siano dati utili, ma è la procedura e noi la rispettiamo sempre” disse, strizzando l’occhio ad Elisabeth. Marcelo prese la documentazione ed iniziò a leggere. “Novità?” Chiese, conoscendo già la risposta, il dottore.
“Un’impronta parziale di scarpa sul sangue, ma insufficiente a dare indizi” rispose Elisabeth. “Capisco le vostre facce” continuò Geremia, “ma non è il caso di arrendersi. Bisogna continuare a battere tutte le piste, anche le più improbabili, e sperare, mai smettere di sperare.” “A proposito di piste” disse, a sorpresa, Marcelo, “stavo riflettendo su una cosa. Le nostre vittime sono state tutte al ristorante, probabilmente con una donna, o presunta tale, prima di essere uccise, ma dubito che l’abbiano incontrata li. Non credo sia possibile che il primo uomo sia andato al Toscana senza prenotare, perciò sapeva che sarebbe stato in compagnia. Quindi, mi chiedevo, dove si possono essere visti? Gli uomini in questione sono tipi da conferenze, locali importanti, posti da vip. Sollecitiamo i ragazzi della squadra informatica, dobbiamo avere tutti i tabulati delle carte di credito, dei cellulari e dei navigatori delle auto di tutte e tre le vittime, creiamo i tre percorsi conosciuti e vediamo se esiste un punto in comune.” Marcelo guardò Elisabeth e stava per dire qualcosa, ma la ragazza si alzò improvvisamente ed estrasse il telefono dalla tasca, facendo cenno di aspettare un attimo. “È mio marito” disse, uscendo dalla stanza. Geremia guardò Marcelo e commentò. “Sto diventando vecchio, non l’ho nemmeno sentito suonare.” “Se per questo nemmeno io” rispose Marcelo. Attesero il suo rientro e ripresero il discorso. “Ti stavo dicendo, prima della pausa” disse caustico Marcelo, “che io mi occupo della parte informatica, tu contatta le aziende che hanno incontrato le vittime, o chi ha partecipato alle stesse conferenze o chiunque potrebbe averli visti nei giorni scorsi. Cerca di capire se hanno raccontato le loro intenzioni o se hanno menzionato qualche posto in particolare, erano forestieri, forse avranno chiesto consigli su dove andare.” “D’accordo” rispose Elisabeth, “inizio subito. A proposito, i dati tracciati sono
arrivati venti minuti fa, sono in portineria.” Elisabeth si sedette alla sua postazione ed iniziò a cercare i numeri di telefono da contattare, mentre Marcelo uscì in direzione magazzino. Geremia salutò la ragazza e seguì l’amico, anche se non sapeva dove. Raggiunsero il deposito materiale e Marcelo suonò il camlo di chiamata. Un uomo alto e claudicante si presentò dopo poco. “Ola, Marcelo, bienvenido” disse Vorobyov in un pessimo spagnolo. “Ola Kazimir, Cómo está usted?” rispose Marcelo sorridendo. L’agente lo guardò incerto sulla risposta ed attese in silenzio. “Ho chiesto come va la vita” continuò Marcelo, “segnalo, per la prossima volta.” Risero entrambi e si dettero la mano. “Devo ancora riprendere l’uso corretto della gamba e non sono sicuro di riuscirci, a parte questo, ed il fatto che odio stare chiuso qua dentro tutto il giorno, direi che va tutto bene. Cosa posso fare per te?” Chiese l’agente. “Ho bisogno di una mappa piuttosto grande della città, la più grande che hai.” “Formato uno a uno?” “Magari un po’ meno.” “Dammi cinque minuti, torno subito.” L’uomo sparì dietro gli scaffali e tornò dopo due minuti con un tubo di un metro sotto braccio. “Questa è una mappa di un metro per due di tutta la città, lato nord da una parte, lato sud dall’altra, spero basti.” “Basterà” rispose Marcelo, “posso scriverci sopra, vero?”
“Fingerò di non aver sentito” Marcelo prese il tubo di cartone e salutò il collega, tornando verso gli uffici, accompagnato ancora da Geremia che continuava a non capire bene cosa volesse fare l’amico. Ritornarono nella zona d’ingresso e Marcelo si diresse verso la portineria. Non era ancora arrivato al banco che la ragazza gli porse una busta sigillata col nastro rosso ufficiale. Marcelo prese la busta, ringraziò e si voltò ma, anzichè andare verso l’ufficio, si diresse nella stanza ristoro. “Perchè qui?” Chiese Geremia. “Ho bisogno di un posto ampio per questo lavoro e da noi c’è Elisabeth, peggio che lavorare con un tornado attorno.” Stese la cartina, la coprì con un foglio di plastica trasparente e la fissò con dei pesi nei quattro angoli. Aprì la busta ed estrasse il primo foglio, quello abbinato al nome di Goldwin. “Che intendi fare?” Chiese Geremia. “Il gioco dei punti” rispose Marcelo, “segno con un punto tutte le volte che è stata usata la carta o il telefono delle tre vittime, poi unisco i punti, rispettando la sequenza temporale, con colori diversi, sperando che le tre linee abbiano almento un punto in comune.” “Bello” commentò il dottore. “Spero si riveli utile” rispose preoccupato Marcelo. Lesse il foglio e notò che Goldwin non aveva usato l’auto, o meglio, era arrivato sino all’albergo, ma non l’aveva mai tolta dal garage, preferendo i taxi per i suoi movimenti. L’uso dello storico sul suo navigatore satellitare risultava, perciò, inutile.
Prese un pennarello rosso e lesse il primo punto sull’elenco dei movimenti della carta di credito. Ore 08.20 1331 Prudential drive presso Hampton Inn Hotel Cercò l’indirizzo sulla cartina e lo evidenziò con un piccolo pallino colorato. Lesse il secondo riferimento. Ore 11.13 225 Coastline drive presso Hyatt Regency Jacksonville Riverfront Verificò che non ci fossero riferimenti telefonici antecedenti quell’ora e, non trovandone, aggiunse un secondo pallino e lo collegò al primo con una sottile linea rossa. Proseguì con la lista, facendo attenzione a rispettare la cronologia degli eventi. Terminato l’elenco di Goldwin, prese il foglio relativo ai movimenti di Branagham, sostituì il pennarello rosso con uno blu e ripeté l’operazione precedente. Quando ebbe finito il secondo foglio, ò al giallo, colore abbinato a Kolarcek, aggiungendo una nuova linea al suo originale grafico. Posò l’ultimo pennarello e si spostò un o indietro. La mappa della città, con quelle linee colorate, ricordava quella utilizzata per segnalare i percorsi delle metropolitane, ma disegnate da un bambino di cinque anni. Tutte le linee erano circoscritte all’area centrale della city, una superfice di pochi chilometri quadrati. Le linee si intrecciavano spesso, ma i punti d’incontro contrassegnati dai pallini erano diversi, tutti tranne uno, che, però, accumunava solo le prime due vittime. Marcelo controllò l’indirizzo. 2012 San Marco Boulevard. Annotò l’indirizzo, riarrotolò la mappa, la mise nella sua confezione e raggiunse
Elisabeth, accorgendosi solo allora della mancanza del dottore che, vista la trance in cui era caduto, aveva preferito lasciarlo solo. Entrò in ufficio, posò il tubo in un angolo ed attese che la collega terminasse la telefonata. “Notizie utili?” Chiese. Elisabeth terminò di appuntare un’informazione, spostò il foglio e ne prese uno completamente ricoperto dalle sue note, o qualunque cosa fossero. “Le nostre tre vittime avevano sicuramente una cosa in comune, amavano la bella vita, i ristoranti di lusso e le donne, e non necessariamente in quest’ordine. Le loro conversazioni, se si esclude la parte professionale, erano concentrate solo su questi argomenti.” “Coincide con quanto trovato nei rilevamenti” aggiunse Marcelo, “e con l’unico punto di ritrovo in comune, The Grotto, un Wine bar sulla San Marco.” “Andiamo a farci un aperitivo?” Chiese la ragazza. “Abbiamo alternative?” “Direi di no.” Uscirono e si diressero all’auto. La San Marco Boulevard si trovava, ovviamente, nel quartiere San Marco, sulla strada per il Toscana, così Marcelo seguì la solita via, ando per l’Alsop Bridge. Raggiunsero il Balis park, punto d’inizio dell’area commerciale. Ai lati del piccolo parco, sino all’incrocio con la Hendricks, era un susseguirsi di bar, ristoranti etnici, locali da ballo e qualunque attività potesse attirare i turisti e, con loro, dei buoni guadagni. Marcelo vide il locale, ma non trovò un posto libero vicino, così proseguì per alcuni metri, sino ad un parcheggio disponibile. Elisabeth non disse nulla, ma, fosse stato per lei, si sarebbe fermata davanti alla porta, erano la polizia, potevano permetterselo.
Scesero e tornarono verso il bar, superando una cioccolateria, un paio di negozi d’abbigliamento e un’immancabile pizza al taglio. L’ingresso del bar era piuttosto ridotto, ma molto elegante. Entrarono e subito capirono il concetto del locale. Una fila di colonne di pietra sosteneva una serie d’archi, formando un soffitto di chiara ispirazione rinascimentale. Un espositore lungo tre metri proponeva tre file di bottiglie distese e, nei mobiletti al di sotto di queste, un’infinità di altri vini d’ogni tipo e provenienza. Le pareti erano decorate con quadri raffiguranti fiori e frutti che, sul fondo della stanza, erano stati dipinti direttamente sul muro, in una sorta di affresco moderno. Una signora bionda molto elegante si avvicinò. “Buonasera” disse, “i signori sono in due?” Marcelo mostrò il distintivo appeso alla cintura. “Si, ma non ci fermiamo molto” disse. “Ci sono problemi?” Chiese la donna con aria preoccupata. “No signora” rispose il detective, “dovremmo parlare con il titolare” “Il titolare in questo momento non c’è, io sono la responsabile, potete dire a me.” Marcelo tolse dalla tasca le fotografie delle prime due vittime e le mostrò alla donna. “Ha mai visto questi uomini?” Chiese. La donna prese le due fotografie e le osservò attentamente. “Questo no” disse indicando Goldwin, “ma questo mi sembra di conoscerlo.” “Saprebbe dirmi se è stato qui sabato sera?” Chiese Marcelo.
La donna guardò nuovamente la fotografia, come se si aspettasse un suggerimento, ma non successe nulla. “Non saprei” disse ad un certo punto, “dovrei chiedere ai miei sommelier.” Ridiede la fotografia a Marcelo e cercò con lo sguardo i suoi dipendenti. Ne scorse uno che usciva dalla cantina e lo chiamò. “Harold, puoi venire un attimo?” Il ragazzo posò la bottiglia che aveva in mano e si diresse verso di lei. “I signori sono della polizia” disse la donna, “vorrebbero sapere se sabato sera hai visto quest’uomo.” Harold guardò la fotografia per un attimo e rispose sicuro. “Il signor Branagham? Sì, sabato era qui, perché?” “Ne è certo?” Chiese Elisabeth. “Più che certo. Venti dollari di mancia non si dimenticano alla svelta.” “Sembra che lo conosca bene, posso chiederle come mai?” “Il signor Branagham viene da noi ogni volta che è in città, spende molti soldi e lascia grosse mance. Uno così bisogna curarlo bene, ne vale la pena.” “Sa dirmi se era solo?” “No, non era solo, è arrivato con altri uomini, colleghi, credo.” “C’erano donne con loro?” Insistette la ragazza. “Questo non glielo so dire. Al tavolo no, ma poi si sono mescolati alla folla del sabato e li ho persi di vista.” “Avete telecamere di sorveglianza? “Chiese senza troppa speranza Marcelo. “A dire il vero, l’unica funzionante copre la cassa, le altre sono un deterrente per
i balordi, ma i nostri clienti lo sanno, e lo apprezzano.” “Conosce qualcun altro dei compagni di Branagham?” “Non personalmente” rispose il ragazzo, “ma ho sentito spesso il nome di Logan, non so dirle se parlavano di uno dei presenti, ma era nominato frequentemente.” Marcelo rimase in silenzio per qualche istante poi decise che non c’era altro che potessero fare e si congedò. “Grazie per la collaborazione, scusate il disturbo” disse, tendendo la mano. “Si figuri, grazie a voi” rispose la donna. Si voltò, fece due i, ma tornò indietro. “Una curiosità” disse “le bottiglie sull’espositore non andrebbero messe alla rovescia?” “In teoria sì” rispose la donna, “il tappo andrebbe mantenuto umido grazie al contatto col vino all’interno, evitando che si secchi e lasci are aria, ma le nuove generazioni usano tappi in silicone e il problema non sussiste, non più.” Marcelo annuì, convinto dalla tesi della donna, risalutò e raggiunse Elisabeth all’esterno del locale. “Certo che siamo sfortunati” disse la ragazza, “viviamo in un paese che ha più telecamere che abitanti e ci imbattiamo in tutti posti senza copertura visiva, non lo trovi strano?” “Indubbiamente è anomalo” rispose Marcelo, “ma penso faccia parte della pianificazione che il nostro S.I. ha studiato per restare anonimo, anche se, come dici tu, non è facile nella nostra città.” Rimasero alcuni minuti fuori dal locale, notando come il flusso di persone aumentava come una marea ed iniziava a riempire i vari spazi dentro e fuori ogni attività della via. “Direi che per oggi abbiamo finito” disse Marcelo, “possiamo tornarcene a casa.”
“Approvo e sottoscrivo” rispose Elisabeth. Si diressero all’auto e lasciarono la zona della movida, tornando alla più tranquilla area metropolitana, avevano aggiunto qualche dettaglio alla loro storia, ma il lavoro da fare era ancora enorme, ci avrebbero pensato il giorno seguente.
Capitolo 12
Pennington alzò la cornetta. “Signora Scott, per cortesia mi chiami Morales e Wright, grazie.” Posò il telefono ed attese. Pochi istanti dopo Marcelo bussò alla porta. “Prego, entrate” disse il comandante. I detective entrarono e si accomodarono sulle poltroncine davanti alla scrivania. “Ho sentito adesso il comandante Doherty, capo della Narcotici, mi ha dato l’autorizzazione a procedere con il nostro piano.” Elisabeth sorrise, mentre Marcelo lo guardò con fare interrogativo. “Adesso ti spiego” disse Pennington, intuendo la domanda. “La Narcotici di Miami ha un uomo infiltrato nel traffico di cocaina dalla Colombia alla Florida. Dopo tanto girovagare, il nostro collega è arrivato qui da noi. Purtroppo, sembra, anche se non ne sono certi, che ci sia una talpa alla centrale e che la sua posizione e, di conseguenza, la sua vita, siano in pericolo. Doherty ha bisogno di un collegamento esterno ed ha chiesto al dipartimento un uomo affidabile da utilizzare come intermediario per salvaguardare l’incolumità del nostro infiltrato.” La cosa iniziava a diventare chiara anche per Marcelo, anche se non capiva in quale modo loro potessero essere coinvolti. Pennington gli lesse la domanda negli occhi e rispose. “Ti chiederai cosa c’entri tu. Ti spiego subito. Questo agente è amico d’infanzia della nostra Elisabeth e si è rivolto a lei che, però, non può farlo direttamente, oltre alla disponibilità in termini di tempo, non si configura bene per il ruolo
richiesto e, per conto mio, è una missione che richiede più esperienza. Così abbiamo cercato un’alternativa e, ovviamente, lei ha pensato a te. Se non erro, poco tempo fa, mi avevi detto di avere del tempo libero e di non disdegnare qualche ora di straordinario, se sei ancora del parere, il lavoro è tuo.” Marcelo si prese qualche istante di riflessione, poi avvicinò la poltrona alla scrivania e chiese al comandante: “In cosa consisterebbe, esattamente, questo lavoro?” “Molto semplice” rispose Pennington, “devi incontrarti con lui per ricevere e fornire aggiornamenti, ovviamente nel più rigoroso riserbo.” “Il mio referente chi sarà?” “Io personalmente. Abbiamo stabilito che tu sarai l’unico a comunicare con il nostro agente e riferirai solamente a me. Io, di conseguenza, riferirò solo al comandante Doherty, creando una linea di comando semplice ed inattaccabile.” Marcelo valutò la situazione e decise che si poteva fare. “Ok, accetto. Quando iniziamo?” “Oggi. Avete appuntamento all’ora di pranzo al St. Johns Town Center, all’incrocio fra la Butler e la Beltway, vicino alla sede dell’ F.B.I.” “Abbiamo?” Chiese sorpreso Marcelo. “Per questa volta, e solo per questa volta, Elisabeth verrà con te, garantendo per le vostre identità. Gli incontri successivi saranno limitati rigorosamente a voi due, vedrete voi come accordarvi. Vi aspetta sulle panchine davanti al Maggiano.” Marcelo rimase in silenzio, in attesa di altre informazioni, ma non ne arrivarono. I tre rimasero in silenzio per alcuni istanti, poi Pennington li congedò. “Direi che per ora è tutto. Ci aggiorniamo quando tornate. Buona fortuna e, mi raccomando, siate prudenti.”
Si alzarono ed uscirono dall’ufficio, andando direttamente all’auto. “È un po’ presto per andare ora” disse Elisabeth. “Lo so, ma ho recuperato il nome del misterioso Logan. Ho letto i tuoi appunti e, non so come, ho trovato fra la lista dei presenti ad una delle riunioni un certo Logan Wood, lavora alla Triad Isotopes di Orlando ma, a quanto pare, è stato spesso a stretto contatto col signor Branagham, andiamo a trovarlo e vediamo se ne esce qualche cosa.” “Ok, ti seguo.” Salirono in auto e si diressero verso la Forsyth. Raggiunsero il palazzo della Everbank ed entrarono nel parcheggio sotterraneo. Risalirono sulla strada e proseguirono sino alle scale che conducevano all’ingresso principale. Un enorme logo della AT&T sovrastava la porta d’ingresso mentre, all’interno, un pannello riepilogava le aziende presenti nello stabile in due enormi colonne. Elisabeth guardò il collega, intimorita da quella situazione. “Tu prendi la fila di destra” disse Marcelo, “io mi occupo di quella a sinistra.” Lessero una cinquantina di nomi prima di trovare quello che cercavano. “Eccolo” disse la ragazza, “sono al diciannovesimo piano, ala est.” Si spostarono verso gli ascensori e salirono al piano previsto. Seguirono le frecce sino alla porta d’ingresso, un pannello di cristallo blindato da oltre cento chili. Suonarono il camlo e la voce gentile della receptionist li accolse. “Buongiorno, posso esservi utile?” “Siamo della polizia” disse Marcelo, “dovremmo parlare col Signor Wood.”
Ci fu attimo di silenzio, abbastanza lungo da spingere Marcelo a risuonare. Lo scatto della porta anticipò il ritorno della voce. “Prego, accomodatevi.” Entrarono e si avvicinarono alla probabile proprietaria della voce sentita poco prima. Accanto a lei, un uomo in impeccabile completo blu li attendeva. “Buongiorno, signori” disse l’uomo, “sono J.K. Hughes, direttore di questa filiale, come posso esservi utile?” “Buongiorno” rispose Marcelo estraendo il distintivo, “avremmo bisogno di fare qualche domanda al signor Logan Wood, se possibile.” “In merito? Se posso chiedere.” “Stiamo indagando riguardo ad un omicidio e, forse, il signor Wood potrebbe fornirci un aiuto importante.” Hughes stava per rispondere quando, da dietro al pannello del centralino, comparve un uomo alto, atletico e vestito come il suo direttore. “Eccomi” disse, “sono Logan Wood.” “Buongiorno, signor Wood” disse Marcelo, “agenti Morales e Wright, omicidi, dovremmo farle qualche domanda in merito al signor Branagham.” “Certo, ho sentito la notizia, è stato terribile.” “Immagino. Dovremmo sapere se sabato sera era con lui.” “Si. Siamo usciti dalla riunione verso le diciannove e siamo andati al Grotto, sulla San Marco, adorava quel posto, e non solo lui.” “Siete rimasti tutta la sera?” “No. Abbiamo bevuto del vino e mangiato qualcosa poi, verso le 21, siamo andati all’Eclipse, sulla St. Johns.”
“Branagham è venuto con voi?” “A dire il vero no. Dopo circa un’ora si è allontanato per raggiungere degli amici e, al momento di andarcene, Jackob è andato a cercarlo, ma non è riuscito a trovarlo.” “Ha idea di chi fossero questi amici?” “Assolutamente no, anzi, non pensavo nemmeno avesse amici, oltre a noi, in città.” “Qualcuno che potrebbe conoscerli?” Chiese Elisabeth. “Non saprei, dovreste provare al locale.” “Una curiosità, voi di cosa vi occupate?” “Noi trattiamo medicina nucleare e, in particolare radiofarmaci.” “Tradotto?” Chiese Marcelo. “Un radiofarmaco è un qualsiasi medicinale che include uno o più isotopi radioattivi incorporati a scopo sanitario. Una volta iniettati possono essere costantemente seguiti dall’esterno, durante il loro specifico percorso biologico, per mezzo di strumentazioni costruite ad hoc. La strumentazione consente di costruire una serie d’immagini raccolte in tempi successivi. In questo modo è possibile avere indicazioni, non solo morfologiche di organi ed apparati, ma soprattutto informazioni sulla loro funzionalità.” “Il vostro lavoro potrebbe essere in qualche modo collegato all’omicidio?” “Non credo proprio. Noi non abbiamo brevetti rivoluzionari e, comunque, Branagham si occupava solo di forniture di materiale di base e non aveva collegamenti con la nostra produzione.” Marcelo chiuse il suo taccuino, lo ripose in tasca e tese la mano. “Grazie signor Wood, se avessimo bisogno, la ricontatteremo.” “Dovere” rispose l’uomo.
Uscirono dall’ufficio e ripresero l’ascensore. “Un altro buco nell’acqua” disse Elisabeth. Marcelo non rispose, cercava di trovare una pista, ma più indagavano più la storia si faceva vaga, come se della nebbia stesse calando sui fatti, rendendoli incomprensibili. Uscirono sul marciapiede s si avviarono verso il garage. “È ancora presto” disse Elisabeth, “ci facciamo un caffè?” Marcelo controllò la strada e vide che il bar dall’altro lato esponeva un’insegna a lui molto gradita, quella che rappresentava una piccola tazzina di ceramica fumante. “Volentieri” disse. Elisabeth attraversò la strada, senza curarsi delle strisce pedonali e Marcelo, suo malgrado, la seguì. Presero posto ad un tavolino sul marciapiede, all’interno di una piccola area bordata da fioriere, godendosi la temperatura ancora mite del mattino. La cameriera arrivò con un vassoio sul quale spiccava il grosso, ma neanche troppo, bicchiere marrone e, nascosta in basso, la piccola tazzina bianca. Marcelo assaggiò il suo caffè e la luce gli invase gli occhi. Posò la tazzina e guardò Elisabeth. “Cosa mi puoi dire del tuo amico?” Chiese. La ragazza posò il bicchiere e si appoggiò allo schienale della seggiola. “Lo conosco dai tempi del liceo, eravamo molto amici. Era parecchio che non lo sentivo poi, improvvisamente, ho ricevuto un contatto su Facebook. Ero sorpresa dalla modalità, non è mai stato un tipo da social, così ho chiesto chiarimenti. Mi ha raccontato della narcotici, del suo lavoro e del suo problema. Tutto qui.” “Ti fidi di lui?”
“Come di te.” Marcelo lo considerò un complimento, finì il suo caffè e aspettò che Elisabeth fe lo stesso. Rimasero a godersi il sole per una decina di minuti, poi decisero di partire, preferivano arrivare prima all’appuntamento, in modo da poter effettuare un sopralluogo dell’area. Tornarono all’auto e si ributtarono nel traffico di metà mattina, direzione sud. Ci vollero quaranta minuti per raggiungere il villaggio commerciale, un’area di circa tre chilometri quadrati con un grande supermercato al centro e un’infinità di attività tutto intorno. Decisero di lasciare l’auto nel parcheggio del Dillard’s e di proseguire a piedi, l’enorme spazio davanti al supermercato l’avrebbe resa insignificante. “Dobbiamo tenere i distintivi e le pistole ben nascosti e fingere di essere una coppia che va a fare shopping” disse Elisabeth. “Sei preparata in materia d’incontri clandestini” commentò malizioso Marcelo. “Mi hanno istruita prima di partire” rispose, senza scomporsi, la ragazza. Costeggiarono il supermercato e raggiunsero una delle vie principali che attraversavano il villaggio. Svoltarono a sinistra e proseguirono lungo il viale. Elisabeth prese per mano Marcelo che, anche se sorpreso, accettò di buon grado il contatto. Superarono l’incrocio con, all’angolo, l’enorme atelier di Victoria Secret e proseguirono verso il ristorante, fermandosi ad agni vetrina e cercando di rendersi il più anonimi possibile. Arrivarono all’area conosciuta come Little Italy e controllarono la zona. Nessun soggetto sospetto, solo molta gente indaffarata, alcuni per lavoro, altri
per svago, ma entrambi sapevano bene che nessuno era, in realtà, insospettabile, ogni persona, uomo o donna, giovane o anziano, poteva essere un informatore dei trafficanti, bisognava mantenere alta la guardia. Entrarono nella piccola area verde davanti al locale e si sedettero su di una panchina. “Dovresti abbracciarmi” disse Elisabeth sottovoce. “Dovrei?” Chiese Marcelo stupito. “Cerca di entrare nella parte, siamo una coppia, ti sarà capitato altre volte, o no?” Marcelo tese un braccio e le cinse le spalle, attirandola verso di sé. Al contatto con un seno, un brivido gli percorse la schiena e risalì sul collo. Aveva quasi dimenticato quella sensazione, ma non era una questione fisica, non solo, era tutto l’insieme di emozioni ad avergli ricordato che, in fondo, era un uomo, anche se da troppo tempo, pensava di essere solo un poliziotto. Elisabeth sorrise, vedendo l’espressione del collega e la scena, a loro insaputa, divenne incredibilmente realistica, anche per il più scettico dei anti. Rimasero così alcuni minuti, osservando il laghetto davanti a loro ed inseguendo con lo sguardo i anti che superavano il piccolo ponticello d’ispirazione orientale che lo scavalcava. Improvvisamente Elisabeth sussurrò. “Eccolo.” Marcelo si voltò ed inquadrò un uomo in eleganti pantaloni crema e giacca blu avvicinarsi dall’altro lato del parco. I capelli biondo platino sino alle spalle, la folta barba e la cicatrice sotto l’occhio destro erano inequivocabili. “Quello?” Disse quasi urlando. “Se non ti fai notare è meglio” lo rimproverò Elisabeth.
“Ma quello è Carmine Parisi, uno dei trafficanti più importanti della Florida!” “No, non esattamente. Quello è Marco Beloretti, agente della narcotici, mio amico e nostro contatto.” “Senza ombra di dubbio?” “Senza ombra di dubbio!” Ripeté la ragazza. Marcelo cercò di rilassarsi, ma la presa sul braccio di Elisabeth rimase molto più nervosa che non in precedenza. L’uomo avanzò verso la panchina, li raggiunse e li superò senza degnarli nemmeno di uno sguardo. Si fermò al chiosco sul lato dell’area verde e prese una copia del Miami Today, si voltò e tornò verso la panchina. Si sedette in quella accanto alla loro, aprì il giornale ed iniziò a leggere. Elisabeth fissò Marcelo e disse: “Questo è Morales, il tuo contatto.” Beloretti, senza distogliere lo sguardo dal quotidiano, rispose. “Ottimo. Mathews Bridge, sponda sud, stanotte alle due.” Non attese risposta, si alzò, ripiegò il giornale sottobraccio e si allontanò. “Veloce” disse Marcelo, cercando di alzarsi. “Non muoverti” ordinò secca Elisabeth. Marcelo obbedì e la ragazza si strinse a lui sorridendo. “Lasciamolo allontanare” disse, “poi riprendiamo il giro turistico. Il ritorno è a rischio come l’andata, non possiamo commettere errori.” Attesero alcuni minuti, fingendo di chiacchierare e godersi la mattinata, poi si alzarono e si avviarono verso il viale, dal lato opposto della strada dalla quale
erano venuti. Continuarono la sceneggiata sino all’auto, risalirono e si allontanarono dal parcheggio. “Mi sfugge una cosa” disse Marcelo, “se Marco ti ha contattato via web, non avrebbe potuto proseguire con quel metodo senza correre rischi?” “Me lo sono chiesta anch’io” rispose la ragazza, “così ho chiesto chiarimenti e, se ho capito bene, mi hanno spiegato che per quel singolo contatto, Marco a utilizzato un internet cafè, approfittando di una visita di lavoro, non so se mi spiego, metodo valido, ma sospetto se riutilizzato troppe volte. Serviva qualcosa che potesse sembrare insignificante, che non desse nell’occhio.” “E incontrarsi alle due di notte sotto un ponte a inosservato?” Chiese ironico Marcelo. “No, ma credo sia solo un incontro per definire le modalità di comunicazione. Probabilmente Marco a pianificato il aggio sotto il ponte per motivi che non destino sospetti e coglierà l’occasione per informarti delle modalità degli incontri successivi, credo.” Marcelo annuì non troppo convinto e continuò a guidare, Pennington li aspettava in centrale per un rapporto e non voleva farlo attendere.
Capitolo 13
Marcelo controllò l’orologio, era l’una e trenta. Si alzò dalla seggiola, tolse la pistola dal cassetto della scrivania e prese le chiavi dell’auto. Raggiunse la portineria e salutò l’agente di guardia. “Anche per lei il turno cimitero?” Chiese l’uomo, sorridendo. “A qualcuno tocca” rispose Marcelo, salutandolo con un gesto della mano. Uscì e l’aria fresca della notte lo rianimò, togliendolo dal torpore di un ufficio caldo abbinato al sonno arretrato. Salì in auto e si diresse verso la Gator. Il traffico era minimo e si ritrovò velocemente all’innesto con la SR 115. La percorse sino al Mathews Bridge e lo imboccò. L’enorme struttura, completamente costruita in ferro rosso, ricordava a Marcelo i vecchi film con Terminator o i più recenti Transformer e gli metteva sempre una certa inquietudine. Era ben consapevole della solidità della costruzione e della sua elasticità, cosa che lo rendeva meno soggetto a danni in caso d’inondazioni o terremoti, ma questo non aiutava a diminuire il disagio ogni volta che era obbligato ad attraversarlo. Sorvolò, se così si può dire, l’Exchange Island e scese dall’altro lato del ponte. Lasciò la statale e s’inoltrò fra le case che costeggiavano il cavalcavia, tornando verso la sponda del fiume. Fermò l’auto in un piccolo parcheggio, accanto a dei bidoni per la raccolta differenziata.
Scese e s’inoltrò a piedi verso i piloni di sostegno della struttura. Mancavano ancora dieci minuti all’ora dell’incontro, ma entrambi erano già sul posto. Beloretti si avvicinò a Marcelo e tese la mano. “Marco, piacere di conoscerti” disse. “Piacere mio” rispose Marcelo. “Scusa per oggi, ma ho imparato che quella che molti chiamano fobia dalle mie parti si chiama sopravvivenza.” “Posso capirti.” Beloretti tolse dalla tasca interna una busta e la ò a Marcelo. “Il problema è molto semplice, ma di difficile soluzione. Penso che il cartello mi controlli il cellulare, il computer e qualsiasi altra cosa, compresa la carta di credito. Mi seguono costantemente e controllano tutti i miei movimenti.” “Quindi anche adesso?” Chiese, preoccupato, Marcelo. “No, non credo. Sono qui con la mia ragazza, mi aspetta in auto. Ufficialmente è una situazione privata e non penso che facciano i guardoni.” “Lei è sicura?” “Lei non è a conoscenza di nulla, pensa mi sia allontanato per un’esigenza personale.” Marcelo guardò la busta chiusa che teneva in mano. “Dalla a Pennington” gli disse Marco. “Ok. I prossimi incontri?” Chiese Marcelo. “È tutto specificato all’interno. Ora devo scappare, saluta Ely da parte mia.” “Contaci” rispose Marcelo.
Beloretti si voltò e raggiunse la sua auto e Marcelo fece lo stesso. Risalì in macchina e tornò alla centrale, una notte in più in ufficio non avrebbe fatto differenza. Si era appisolato da poco quando, dall’ingresso, giunsero delle voci concitate. Controllò l’orologio. Erano le sette da pochi minuti. Si alzò e si diresse verso l’ingresso. Due agenti stavano lottando con un uomo in evidente stato d’ebrezza e faticavano a bloccarlo. Marcelo si avvicinò lentamente, ando dal retro della guardiola e giungendo alle spalle dell’uomo. Si portò a ridosso dell’ubriaco e, con una mossa rapida, gli cinse un braccio attorno al collo, bloccandolo con l’altro. La presa di soffocamento ebbe il successo sperato e, dopo pochi secondi, l’uomo venne accompagnato a terra privo di sensi. “Grazie, ispettore” disse uno dei due giovani agenti, “le dobbiamo un favore.” Marcelo sorrise e tornò verso l’ufficio ma, alle sue spalle, una voce lo richiamò. “Marcelo, aspettami.” Si voltò e vide il comandante Pennington venire verso di lui, così attese davanti alla porta degli uffici. “Buongiorno” disse Marcelo. “Buongiorno a te” rispose il comandante, “seguimi.” Andarono nell’ufficio di Pennington che, una volta entrati, chiuse a chiave la porta. “Dimmi tutto” disse il comandante.
Marcelo tolse dalla tasca la busta ricevuta da Beloretti a la ò a Pennington. “Marco ha detto che lì dentro c’è tutto quello che serve, io non l’ho ancora aperta.” Pennington prese un tagliacarte ed aprì la busta. Ne estrasse tre fogli scritti a penna, appoggiò la busta vuota e si mise a leggere. Dopo pochi minuti ripiegò i primi due fogli e li rimise nella busta, porgendo il terzo a Marcelo. “Lì ci sono le specifiche per i vostri contatti” disse il comandante, “leggilo e poi distruggilo, mi raccomando.” Marcelo aprì il foglio e lo lesse attentamente. Secondo quanto riportato, Beloretti aveva stretto un legame di lavoro con un importante produttore italiano che si impegnava a spedire tutte le settimane del formaggio fresco. Partendo il carico nel tardo pomeriggio dall’Italia, sarebbe arrivato in città in tarda serata e la consegna sarebbe stata effettuata la notte stessa. Marcelo sarebbe stato il corriere incaricato delle consegne. Era indicato l’indirizzo di un garage, dove avrebbe trovato la divisa ed il furgone con le insegne, oltre ai documenti personali e alle autorizzazioni legali. Si sarebbe presentato all’aeroporto ogni giovedì sera alle 23, avrebbe preso in consegna il carico e lo avrebbe portato direttamente al ristorante. La prima consegna era prevista per la sera seguente. Marcelo ripiegò il foglio e lo mise in tasca. “Questa missione è e deve rimanere segreta” disse il comandante, “non sappiamo di chi possiamo fidarci quindi, nessuno deve essere a conoscenza del tuo compito. Oltre a noi due, solo Elisabeth sa cosa fai, tutto tranne il metodo di scambio delle informazioni e, per il suo bene, è meglio che rimanga così.” Marcelo non commentò ed attese in silenzio. Pennington controllò degli appunti, poi tornò da lui.
“Con il killer come siamo messi?” Chiese. “Male” rispose, senza mezze misure, Marcelo, “nessun testimone, due indizi praticamente inutili e nessuna idea della motivazione che lo spinga, un vero schifo.” “Avete una pista da seguire?” “Momentaneamente, no.” “Ok, mi servirebbe una mano su di un altro caso, Morgan si è preso il colpo della strega giocando col figlio e Xion non riesce a seguire tutto da solo, gli dovreste dare o.” “Certo, aspetto che arrivi Elisabeth e ci organizziamo.” “Ottimo, tenetemi informato.” Marcelo si alzò e raggiunse la porta poi tornò indietro. “Quanto è affidabile Beloretti?” “Elisabeth metterebbe la sua vita nelle sue mani e io, di conseguenza, farei lo stesso” rispose il comandante. Marcelo annuì convinto ed uscì dall’ufficio. Tornò alla sua postazione ed attese la collega che, come sempre, giunse in ritardo. “Buongiorno” disse Elisabeth entrando in ufficio. “Buongiorno a te” rispose Marcelo, “non sederti, abbiamo da fare.” La ragazza obbedì e lo seguì nell’ufficio accanto. Un uomo asiatico sui cinquant’anni stava seduto alla scrivania con due pile di faldoni davanti ed uno sguardo esausto già alle otto di mattina. “Ciao Xion” disse Marcelo, “il capo ha detto che ti farebbero comodo un paio di aiutanti.”
“Ciao Marcelo, se li trovi, li pago di tasca mia.” “Non serve, abbiamo una giornata vuota e la dedichiamo a te.” Il volto di Xion si accese come se avesse scoperto di avere il biglietto vincente della lotteria. “Prego” disse, indicando le seggiole, “accomodatevi.” I detective entrarono e si sistemarono sulle due poltroncine dall’altro lato della scrivania. “Vi spiego brevemente” disse Xion, “dobbiamo trovare in questo ammasso di documenti un riferimento ad una delle ditte indicate su quella lista.” Guardarono l’elenco di ditte riportate sul foglio appeso ad un monitor e capirono l’espressione del collega. Erano una ventina, tutte asiatiche, con nomi impronunciabili, persino facendo lo spelling. “Visto che siete freschi” disse sorridendo Xion, “io lascerei a voi questo lavoro, mentre vado ad interrogare un paio di testimoni. Ci vediamo per pranzo.” Non attese risposta, prese il cappello ed uscì di corsa, prima che qualcuno potesse trattenerlo. Elisabeth guardò Marcelo ancora intontita da quell’avvio di giornata, ma non si fece problemi. “Io prendo quello di destra” disse, allungando il braccio verso la cima del faldone. Marcelo non obiettò e si diresse verso l’altro lato. “Mi spieghi cosa ci facciamo qui?” Chiese Elisabeth dopo alcuni minuti. “Aiutiamo Xion” rispose Marcelo, esponendo l’ovvio. “Questo lo sapevo” insistette Elisabeth, “mi riferivo al fatto che noi si stia in ufficio quando abbiamo un serial killer da trovare.”
Marcelo posò il faldone terminato e ne prese uno nuovo. “Purtroppo, per il momento, non saprei dove andare, e non credo che girovagare alla cieca sia molto produttivo, quindi, in attesa di novità, ci rendiamo utili.” Elisabeth comprendeva perfettamente la logica del collega, ma l’idea di aspettare la rendeva nervosa, la faceva sentire inutile. Aprì un nuovo faldone e riprese a spulciare le centinaia di fatture incomprensibili, alla ricerca di una somiglianza di nomi che, con calma, avrebbe confrontato con la lista di riferimento ma che, fino a quel momento, aveva scartato perché non corretti. Si trascinarono per un paio d’ore, poi Elisabeth crollò. “Se non faccio una pausa, potrei avere un crollo psicotico.” Marcelo sorrise e si alzò. “Mi hai tolto le parole di bocca.” Uscirono e raggiunsero l’ingresso. Elisabeth si diresse verso i distributori, ma Marcelo la fermò. “Che ne dici di due i sino al Bay, ci sgranchiamo le gambe e beviamo qualcosa di buono.” “Perché no” rispose la ragazza. Uscirono e s’incamminarono verso la Market. La giornata era calda, ma non troppo, e dopo due ore immersi in fotocopie incomprensibili, ogni diversivo era ben accetto. “Come è andata con Marco?” Chiese Elisabeth. “Bene.” “Avete già preso accordi?”
“Più o meno.” “Pensi di rispondermi a monosillabi tutto il tempo o possiamo avere una conversazione normale?” Marcelo si fermò sul lato del marciapiede, si tolse gli occhiali e guardò la collega. “Mi hanno consigliato di tenerti fuori dal caso, se conosci i dettagli ti metti in pericolo ed è l’ultima cosa che voglio” disse serio. “Grazie dell’attenzione” rispose Elisabeth, “ma dimentichi che Marco è un mio amico, l’ho portato io da te e resto, comunque, un poliziotto, oltre che la tua partner, penso di meritare qualche chiarimento.” Il tono era particolarmente perentorio, non arrabbiato, ma più preoccupato. Elisabeth non avrebbe accettato un no alla sua richiesta e, in fondo, anche Marcelo ne condivideva i motivi. “Giusto” disse, “sei parte integrante della missione e, anche se il capo non ti considera adatta per la parte operativa, resti fondamentale per tutte le altre attività, quindi è giusto che tu sia informata.” Elisabeth sorrise, grata al collega per la comprensione e per la considerazione. Marcelo diede uno sguardo attorno, rimise gli occhiali e si incamminò verso il bar. “Il piano è questo” disse dopo pochi i, “una volta alla settimana andrò in un magazzino all’Imeson Park. C’è un furgone della FedEx con la divisa e tutto il necessario. Raggiungerò l’aeroporto, ritirerò un carico di formaggi proveniente dall’Italia e li consegnerò al Maggiano. Marco si occuperà personalmente della ricezione e ci scambieremo le informazioni.” “Tutto alla luce del sole” commentò Elisabeth. “Non proprio, le consegne avverranno verso le due di notte.” “Pensi sia sicuro?” Chiese preoccupata Elisabeth.
“Stiamo braccando un cartello della droga colombiano, la parola sicuro non esiste.” “Effettivamente…” Entrarono nel bar e si accomodarono in un tavolo accanto alla vetrata. Fu una pausa breve, la scrivania sepolta dalle fatture era in attesa e non se ne sarebbero liberati facilmente. La seconda parte della mattinata, però, scivolò via più rapidamente del previsto, ma, nonostante questo, il ritorno di Xion venne comunque visto come una liberazione. “Vi devo un pranzo” disse l’agente entrando. “Non scherzare” rispose Marcelo, “minimo una vacanza.” L’uomo sorrise e riprese il suo posto, gioendo della discreta diminuzione delle pile ai lati della sua scrivania. “Oggi avete da fare o potete darmi un aiuto?” Chiese Xion, prima che uscissero. “Tutto quello che vuoi” rispose Elisabeth, “basta non sia qui dentro.” “Ottimo, dovreste fare un sopralluogo allo scalo merci della stazione, vi lascio i dettagli.” Tolse una busta dal cassetto e la ò a Marcelo. Marcelo prese la busta, la mise in tasca e poi, con una smorfia, disse sottovoce: “la vacanza si allunga…” Uscirono e raggiunsero l’auto. “Direi di andare adesso” disse Marcelo, “ci fermiamo a mangiare qualcosa lungo la strada.” “Andata” rispose Elisabeth.
Capitolo 14
La sveglia suonò improvvisamente, come sempre, e Marcelo sobbalzò sulla seggiola. Controllò l’orologio. Era mezzanotte, doveva andare. Prese le chiavi e la lettera con le istruzioni, spense le luci ed uscì. L’aria della notte era fresca e profumava di mare. Quel profumo gli ricordava sempre la sua terra, i suoi amici, la sua vita precedente. Certo non aveva nostalgia delle sere senza cibo o dei secchi per recuperare l’acqua che filtrava dal tetto, ma era una vita più semplice, più vera, una vita dove tutto era come sembrava che fosse, senza trucchi, senza maschere. Qui aveva tutto. Un bel appartamento, il frigorifero pieno e la televisione via cavo, ma si sentiva solo, troppo solo. Da quando Greta se ne era andata aveva perso il piacere della vita e non aveva ancora trovato un’alternativa valida. Non era giusto che andasse così, non era giusto che una donna potesse distruggere la tua vita in questo modo. Chiuse lo sportello e partì. Si diresse verso la Main Street, e la imboccò in direzione nord. Superò i palazzi del centro poi, all’altezza del Confederate Park, la strada si aprì all’esterno, prendendo le sembianze di una statale dispersa nel deserto. Ai lati, piccoli chioschi, considerati ristoranti, dove si vendevano i piatti delle più svariate etnie e, fra un edificio ed un altro, ampi spazi deserti destinati a
parcheggio o semplicemente abbandonati a loro stessi. Venditori di auto usate si susseguivano a vecchi edifici diroccati e, di tanto in tanto, un nuovo stabile illuminava una strada di per sé piuttosto triste. Superò il ponte della Martin Luther King e notò, dall’altro lato, i lampeggianti della polizia. Istintivamente rallentò e cercò di capire cosa fosse successo. Voleva evitare di essere fermato dato che, come da istruzioni, aveva lasciato il distintivo e la pistola a casa e non era certo che i suoi documenti falsi assero l’esame dei colleghi. Purtroppo, come sempre, il timore che qualcosa accadesse la rendeva automaticamente inevitabile e, davanti a Marcelo, l’agente della stradale allargò le braccia, indicandogli di fermarsi. Eseguì prontamente, cercando di preparare delle risposte accettabili. “Buonasera” disse l’agente. “Buonasera” rispose calmo Marcelo. “Posso vedere i documenti?” “Certo.” Marcelo prese il portafoglio ed estrasse la falsa patente. L’agente si allontanò e si accostò alla sua auto. I minuti arono interminabili. L’uomo tornò da Marcelo e lo fissò. “Qualcosa non va, agente?” Chiese timoroso. “Potrebbe aprire il bagagliaio?” Marcelo scese, andò sul retro dell’auto ed aprì, mostrando l’interno vuoto.
“Dove sta andando?” Chiese il poliziotto in divisa. Marcelo raccolse le idee, ma dovette improvvisare. “All’aeroporto, devo ritirare un carico di formaggi proveniente dall’Italia” disse. L’uomo ricontrollò i documenti e continuò a fissare Marcelo. “Direi che è tutto in ordine, signor Garcia, vada pure.” Marcelo prese i documenti e risalì sull’auto, attese il momento opportuno e si ributtò nel traffico. Raggiunse il Trout River che aveva ancora il battito accelerato, ma il panorama contribuì a calmarlo. Dall’alto del ponte notò la fila d’enormi gru, parcheggiate come gigantesche giraffe di metallo, addormentate in attesa di nuove chiatte da caricare e quell’immagine, seppur moderna, dava a Marcelo l’idea della natura e, in un certo senso, lo riportava alle origini. Superò il ponte e proseguì sino allo svincolo della zona industriale con il respiro finalmente tornato normale. Controllò l’indirizzo sul foglio: 442 Gun Club Road S’inoltrò nella zona industriale sino ai capannoni della Maxpak. Il cancello era aperto e non esisteva una portineria e nemmeno delle telecamere. Costeggiò lo stabile e raggiunse un portone laterale, contrassegnato con una G nera al centro. Parcheggiò la macchina dietro ad un enorme container di raccolta legno, con una gigantesca siepe dal lato opposto e il buio totale sopra, spense il motore e scese. Controllò la zona e, non vedendo nessuno, si avvicinò alla saracinesca. Illuminò con la torcia la parete sulla destra, contando le mattonelle. Alla numero nove si fermò, estrasse una piccola ventosa dalla tasca, la inumidì con della saliva e la appoggiò al muro.
La coesione fu immediata e, tirandola verso di sé, spostò la piccola mattonella bordeaux. Un piccolo spazio dietro la copertura conteneva la chiave del lucchetto. Marcelo la prese, aprì la serratura e ripose la chiave nel suo alloggio, richiudendo il coperchio. Alzò lentamente la saracinesca ed entrò nel garage. Cercò l’interruttore ed accese la luce e, come previsto, si trovò davanti il furgone bianco con le insegne blu e rosse tipiche della compagnia. Aprì lo sportello e, sul sedile di guida, trovò la divisa, il palmare per la registrazione dei movimenti e tutti i documenti per il trasporto. Tolse la giacca e s’infilò la tuta, controllò le carte ed accese il palmare. Sembrava tutto in ordine, tutto pianificato nei minimi particolari, il genere di lavoro che Marcelo apprezzava in modo particolare. Sistemò tutto sul sedile accanto, controllò l’apertura della porta laterale, non voleva dare l’idea di uno alle prime armi e compromettere la sua copertura. Accese il furgone ed uscì lentamente dal garage, fermandosi poco oltre la porta. Scese e chiuse la saracinesca, facendo scattare il lucchetto, risalì e partì verso l’aeroporto. Il traffico, nonostante l’ora, era notevole e ci mise più del previsto. Uscì dalla superstrada e percorse il viale che portava all’aeroporto sino all’Hilton, costeggiò l’albergo, uno dei parcheggi e l’ultimo tratto delle piste. Raggiunse l’ingresso riservato agli operatori verso l’una e si avvicinò alla sbarra ma, con sorpresa, notò che l’addetto al controllo l’aveva già alzata, senza attendere la verifica delle autorizzazioni. Marcelo rallentò davanti al vetro, ma l’uomo, quasi scocciato, gli fece cenno di entrare.
Obbedì per non dare nell’occhio e si diresse verso l’hangar della FedEx, con la rabbia che gli montava dentro, quell’uomo ignorava i principi base della sicurezza e, a causa di gente come lui, molte persone potevano rischiare la vita. Un enorme Airbus 310 occupava il centro del piazzale ed i suoi 44 metri di ali si distendevano davanti a sei portoni di scarico del magazzino. Marcelo ò dietro all’aereo e prese il viale in direzione del portone con un enorme numero tre rosso dipinto in alto. Accostò lentamente, cercando il parcheggio che gli era stato assegnato. Si mise nella posizione indicata sul foglio e, dopo pochi minuti, un muletto con un pallet carico si presentò verso di lui. “Vai al Maggiano?” Chiese l’uomo sul muletto. “Sì” rispose atono Marcelo. Era nervoso, al limite del panico, pur sapendo che il pericolo maggiore non era certo in quella fase. ò sul fianco del furgone ed aprì lo sportello scorrevole. L’uomo avvicinò lentamente il carico all’apertura, lo mantenne perfettamente parallelo al terreno e lo spinse il più possibile dentro al furgone, abbassò le punte, in modo che il pallet toccasse il fondo, e le estrasse delicatamente, poi arretrò un paio di metri. Marcelo lo vide in attesa e si ricordò dei documenti, prese il palmare e raggiunse l’uomo sul muletto. “Sei nuovo?” Chiese. “Si vede?” Rispose Marcelo. “Non ti preoccupare, s’impara in fretta.” Firmò sullo schermo e salutò, roteando il muletto e tornando nel magazzino. Marcelo sospirò e risalì sul suo furgone, chiedendosi quanto fosse credibile la
sua copertura. Uscì dall’aeroporto, riando davanti alla guardiola senza nemmeno essere notato, e si diresse verso la Interstatale 95, sino allo svincolo con la Betway, che gli permetteva di raggiungere il ristorante evitando tutto il centro e risparmiando tempo. Era in perfetto orario e, senza imprevisti, sarebbe presumibilmente arrivato in anticipo. Parcheggiò sul retro del ristorante alle due meno dieci, spense il furgone ed attese. Due minuti dopo, la porta del magazzino si aprì ed un uomo imponente uscì con aria minacciosa. Si avvicinò allo sportello e lo squadrò da cima a fondo. “Ho portato il formaggio” disse sommessamente Marcelo. L’uomo allungò la mano e raccolse le bolle di spedizione, controllò il tutto e le riò a Marcelo. “Entra” disse. Marcelo attese che l’uomo aprisse la porta scorrevole, ingranò la retromarcia e s’infilò nel magazzino. Scese ed aprì la porta laterale. L’uomo si ripresentò con un muletto simile a quello dell’aeroporto e, in un baleno, scaricò il pallet. Marcelo non sapeva se andarsene o aspettare, ma l’uomo gli tolse il dubbio. “Aspetta, deve firmare.” Marcelo si voltò nella direzione dove guardava l’uomo e vide Marco che scendeva le scale. Si avvicinò a lui, prese il palmare e firmò, recuperò le bolle e si voltò senza dire
una parola. Marcelo attese un attimo, poi risalì e ripartì verso il suo garage. Uscì dall’area commerciale e riprese la Betway, questa volta in direzione nord. Superata l’area di Mill Cove si immise sulla Heckscher, raggiungendo velocemente il suo deposito. Scese dal furgone e si tolse la tuta. Non aveva idea dell’esito della consegna, non aveva ricevuto nulla e Marco non aveva parlato. Si chiese se lo dovesse considerare un fallimento e non seppe rispondersi. Prese i documenti e, solo allora, si accorse della busta. Probabilmente Marco l’aveva fatta scivolare sotto il palmare durante la firma e nemmeno lui se ne era accorto. Infilò la busta in tasca ed uscì, richiudendo la saracinesca e risistemando la chiave. Salì sull’auto, controllò l’orologio e vide che ormai erano le tre, era quasi inutile andare a dormire. Sarebbe rientrato in centrale e avrebbe atteso la mattina.
Capitolo 15
Gli occhi esplosi dell’uomo erano meravigliosi. Il terrore che sgorgava a fiotti da quell’espressione, riempiva Chris di un’energia che nemmeno il sesso era in grado di trasmettere. Si spostò nel piccolo salotto, lasciando la sua preda sola a meditare. I giornali avevano riportato la notizia nei dettagli ed ora, anche se troppo tardi, anche lui sapeva cosa lo aspettava, ma non poteva fare più niente. Chris controllò il mobile bar e vide una bottiglia di rum. La tentazione di farsi un goccetto era forte, ma la represse. Non poteva rischiare di lasciare una traccia e sapeva quanto fossero bravi quelli della scientifica, avrebbero potuto trovare il suo DNA anche da una sola goccia di saliva o un residuo di sudore, non poteva rischiare. Spostò una seggiola e si sedette. Dalla sua posizione poteva vedere l’uomo disteso sul letto, rimanendo fuori dalla sua vista. Era affascinante osservare le smorfie che faceva, i tentativi inutili per liberarsi dalle corde, la spasmodica ricerca di una soluzione ad una situazione che prevedeva un unico, inesorabile epilogo. Restò a godersi la scena per quasi quindici minuti, alternando euforia e apatia ad ogni scatto dall’esito illusorio della sua vittima. Non aveva ancora deciso come procedere, o meglio, la fine non era in discussione, ma la fascia prefinale, per parafrasare un termine televisivo, era ancora aperta ad ogni variabile, doveva solo decidere cosa fare prima del colpo di grazia.
L’uomo guardava la porta, cercando di capire cosa stesse preparando Chris, ma senza riuscirci. Aveva letto i giornali, aveva visto le fotografie e, come tanti altri, aveva voltato pagina pensando “a me non succede”. Sbagliato. Era capitato proprio a lui e ancora non si rendeva conto di come fosse stato possibile. C’era cascato come una pera matura e ora si ritrovava in balia della sorte che, per sua sfortuna, era guidata da una mente malata, una mente psicopatica e violenta che non ammetteva rifiuti. Alzò la testa nel tentativo di vedere cosa stesse succedendo, ma la posizione supina e le spalle bloccate non davano sufficiente angolo per inquadrare la porta del salotto. Iniziò a tirare le corde che lo imprigionavano, con il solo risultato di lacerarsi la pelle dei polsi e provocarsi ustioni da frizione, oltre al non sottovalutabile effetto di alimentare ancora di più la già di per sé enorme carica d’adrenalina che saturava la stanza. Chris se ne stava fuori portata, godendo di ogni spasmo e di ogni crollo della sua vittima. Aveva scoperto che più lottavano e più era appagante e voleva vedere se riusciva a prolungare ancora quella magnifica sensazione. Non aveva intenzione di cambiare sistema, il modus operandi, come lo chiamavano gli addetti ai lavori, era quello che voleva, la sua firma, e l’avrebbe mantenuta. Si chiedeva solo se non potesse aggiungere un po’ di brio alla scena, ormai già vista, senza per questo cambiare il suo messaggio. Spostò la seggiola ed andò alla finestra. Vedeva la piscina dietro all’albergo, l’enorme magazzino della Fishman & Tobin sulla sua destra e l’insegna della clinica veterinaria sullo sfondo.
Le luci della periferia brillavano come luminarie natalizie e l’aria, ripulita dal vento, permetteva una visuale nitida per molti chilometri. Chris osservò il panorama e ne imprigionò l’immagine di serenità che trasmetteva. Un tempo quella sensazione era normale, e, nei pochi casi in cui veniva a mancare, si trattava solo di brevi frangenti, che si disperdevano velocemente. Poi tutto era cambiato. Di punto in bianco il mondo aveva tolto la maschera e si era presentato per quello che era in realtà e Chris aveva dovuto pagarne le conseguenze. Aveva resistito il più possibile, ma non ce l’aveva fatta. Aveva dovuto soccombere e, come un pesce, finire in trappola in una rete troppo solida per potersene liberare. Ma il mondo aveva fatto male i suoi conti. Chris aveva ripreso le redini della sua vita e aveva deciso di mostrare al mondo, una certa parte del mondo, che non sempre si possono fare i propri comodi e arsela liscia, a volte si deve pagare, e la sua missione era proprio questa, presentare il conto e riscuotere il dovuto. Scacciò quel vago sentore di buonismo che si era affacciato e tornò nella camera. Il volto sudato e paonazzo dell’uomo steso sul letto rinvigorì il suo spirito come una scarica elettrica. L’uomo cambiò espressione, iniziò a mugolare, a dibattersi. Chris l’osservò sorridendo, un sorriso meraviglioso se non fosse stato tanto terrificante. Si avvicinò al tavolo e raccolse la pistola. I gemiti aumentarono, così come l’eccitazione. Controllò il caricatore, lo reinserì e mise il primo colpo in canna.
Lo scatto del carrello mise i brividi, di piacere e di paura, erano solo punti di vista. Prese le forbici e si avvicinò al letto lentamente, molto lentamente. L’uomo non distoglieva gli occhi dai suoi, come ipnotizzato dal suo sguardo, tanto sereno quanto folle. Si accostò al letto e sollevò le forbici. Spostò l’attenzione verso il basso e si accorse della chiazza umida che si stava allargando sui pantaloni della sua vittima. Sorrise di nuovo, abbassò le mani e tornò al tavolo, appoggiando gli strumenti da lavoro sul ripiano di legno. Si voltò e tornò nel salotto. Era stata un’esperienza nuova e meravigliosamente gradevole, voleva gustarsela ancora qualche minuto. Si avvicinò al mobile ed accese la radio. “You say Love is a temple Love a higher law Love is a temple Love the higher law You ask me to enter But then you make me crawl And I can't be holding on To what you got
When all you got is hurt” Chris alzò leggermente il volume e pensò: La voce di quel dannato irlandese mi mette sempre i brividi. Si risedette sulla seggiola, godendosi il finale della canzone. La musica sfumò e ci fu un attimo di silenzio. Stava per alzarsi quando, lentamente, il suono di una Fender Stratocaster introdusse Mister Clapton e la sua meravigliosa compagna nella notte di quel salotto privato. Chris si appoggiò allo schienale e si godette quei quattro minuti di magia, dimenticandosi, per un istante, di dove fosse e di cosa stesse facendo. Nuovamente la musica abbandonò la stanza e venne sostituita dalla voce bassa e impostata di uno speaker che cercava di elevarsi, inutilmente, ai livelli dei brani trasmessi. Chris si alzò e spense la radio. Diede un’altra occhiata fuori dalla finestra. La prima luce del giorno iniziava a mostrarsi in lontananza, non poteva protrarre ancora l’attesa. Tornò nella camera e l’odore di urina colpì il suo naso, ma non fu fastidioso, anzi, era parte del gioco e dava valore al suo lavoro. Raccolse la pistola e la forbice e si apprestò a ripetere la scena precedente. L’uomo disteso sul letto girò la testa verso la finestra e finse una calma che non avrebbe ingannato un bambino. Chris si avvicinò, aspettandosi, da un momento all’altro, il solito scatto violento, scena ultima di un film già visto, ma rimase deluso. L’uomo non si mosse.
Fissava impietrito la finestra, attendendo l’inevitabile con una rassegnazione che innervosì Chris, al punto tale che gli prese il dito, lo sollevò e avvicinò le forbici. Le fece are fra il medio e il mignolo e chiuse leggermente. L’uomo chiuse gli occhi e strinse i denti, in attesa dello schiocco. Chris l’osservò per un attimo, poi sfilò le forbici e si spostò. Si accorse, suo malgrado, di ammirarlo, nonostante tutto aveva accettato la sua fine con coraggio ed era pronto ad espiare le sue colpe. Alzò la pistola e due sibili leggeri ruppero il silenzio. Tornò alla mano e, questa volta, non ebbe esitazioni, troncando di netto l’anulare della sua vittima. Rimise al loro posto le forbici, la pistola ed il dito, preparandosi alla fase di pulizia. La luce stava aumentando e doveva sbrigarsi, ma senza, per questo, rinunciare alla perfezione. Seguì il suo schema, già rodato ed affinato con le precedenti esperienze, e riuscì a completare il lavoro in poco più di mezz’ora. Ricontrollò il risultato dalla porta, riando mentalmente ogni singola operazione, al fine di poter considerare ottimale l’esito del suo intervento. Tutto era stato svolto in modo impeccabile, poteva andare. Aprì la porta, controllando il corridoio. Non vedendo nessuno, uscì, richiudendo lentamente e senza far rumore. Scese dalle scale e si diresse verso la hall. Non c’era nessuno in vista, era il momento perfetto. Uscì con o tranquillo, evitando di voltarsi e di dare nell’occhio.
Superò i pochi gradini dell’ingresso e si diresse verso il parcheggio. Tutto era filato liscio, come al solito. Stava ancora crogiolandosi in questa considerazione quando, da dietro, una voce spezzò l’idillio. “Signore!” Chris continuò a camminare. “Scusi, signore!” Chris non reagì, continuando a mantenere la sua andatura. I i alle sue spalle si avvicinavano, facendosi più veloci. “SIGNORE!” Era alle sue spalle, ma Chris non fece nulla. La voce raggiunse Chris, l’affiancò e ò oltre, dirigendosi verso una Mercedes nera posteggiata pochi metri più avanti. Il portiere si fermò e riconsegnò ad un uomo sulla sessantina un documento, presumibilmente dimenticato alla reception, salutò e tornò sui suoi i. Chris non si scompose, proseguì sino alla fine del parcheggio e salì sulla sua auto, allontanandosi lentamente, giusto in tempo per sentire le urla provenire dall’albergo.
Capitolo 16
La cameriera urlò e rimase immobile, le mani sugli occhi e le gambe rigide. Ai suoi piedi, il vaporizzatore per la polvere disteso, lasciava fluttuare il liquido, come le onde della marea. Alena raggiunse la collega e si fermò all’ingresso. “Cos’è successo?” Chiese preoccupata. Karen indicò il letto, senza aprire gli occhi. Alena si sporse e vide i piedi dell’uomo e gli bastò. “Vieni” disse alla ragazza. Uscirono e si fermarono al telefono di servizio nel corridoio. “Sono Alena” disse, parlando al portiere, “chiama la polizia, c’è un cadavere.” Posò la cornetta e si rivolse a Karen. “Tu siediti qui e rilassati, io torno subito.” Karen le strinse il polso, ma Alena, con calma, le staccò la mano. “Due minuti e sono da te, stai tranquilla.” La lasciò seduta al tavolo del telefono e tornò verso la stanza. S’infilò i guanti di gomma e fece un paio di i all’interno, sufficienti per vedere il resto del corpo. Controllò velocemente l’area, raccolse il flacone ed uscì, richiuse a chiave la porta e tornò da Karen.
Si era appena seduta accanto alla collega quando l’ascensore si aprì e Wilson uscì a o di marcia. “Cos’è successo?” Chiese, trattenendo a stento un urlo. “Karen ha trovato un cadavere nella 312” rispose, calma, Alena. Il direttore partì in direzione della stanza, ma venne bloccato. “È chiusa” disse Alena, “ed è meglio che non entri nessuno sino all’arrivo della polizia.” Wilson si voltò e trafisse la donna con lo sguardo. “Tu chi credi di essere per dare ordini a me?” Ringhiò. “Ho abbastanza esperienza per consigliarle di non entrare, creerebbe solo problemi alla polizia e, soprattutto, a sé stesso.” “Hai abbastanza esperienza? Forse di prigioni russe, ma qui siamo negli Stati Uniti, non è la stessa cosa.” “Faccia come vuole” rispose rassegnata Alena. L’uomo tornò verso la porta, tolse il epartout dalla tasca e l’aprì, scomparendo all’interno. Alena rimase seduta, cercando di calmare Karen, ancora in preda ad un pianto isterico. Wilson tornò dalle donne con un’espressione più schifata che arrabbiata. “Tornate al vostro lavoro” ordinò. Karen lo guardò perplessa, ma Alena le cinse le spalle, aiutandola ad alzarsi, ed insieme si allontanarono in silenzio. Il direttore rimase accanto al telefono, nel tentativo di pianificare una strategia che evitasse l’imbarazzo per l’albergo e, in special modo, permettesse a lui d’uscirne immacolato.
Era consapevole che, per qualunque cosa fosse successa in quella stanza, non avrebbero potuto addebitargli nessuna colpa, ma una morte violenta, un omicidio, non erano mai una bella pubblicità. Sapeva, però, che i vertici dell’azienda valutavano il suo operato in base al fatturato e che una notizia come questa avrebbe potuto influenzare i clienti, riducendone le presenze e, con queste, i guadagni dell’albergo e, conseguentemente, i suoi. Non ne faceva una questione di soldi, non solo, ma di reputazione, d’immagine, anche se la sua causa non trovava molti sostenitori. Stava ancora rimuginando sulla malasorte quando, dall’ascensore, spuntò un uomo alto ed elegante, dai lineamenti sudamericani e lo sguardo magnetico. L’uomo si avvicinò e mostrò un distintivo. “Morales, Omicidi” disse. Wilson gli diede la mano e si presentò. “Dov’è?” Chiese Marcelo. “Mi segua” rispose il direttore. Raggiunsero la stanza e Wilson aprì la porta. “Lei aspetti qui” disse Marcelo. L’uomo si accostò al muro senza rispondere e Marcelo entrò. Il salotto era l’emblema di un’esposizione di mobili, perfettamente in ordine e senza un granello di polvere. Superò la porta ed entrò nella camera. L’odore acre d’urina invase il suo naso, ma non gli diede peso. Avanzò sino al letto ed osservò l’immagine nel suo insieme. Ancora una volta la rappresentazione messa in atto dall’assassino era perfetta e,
per l’ennesima volta, Marcelo ebbe la terribile sensazione che a nulla sarebbero valsi i loro sforzi e tutto si sarebbe concluso in una bolla di sapone. Uscì, attendendo, come sempre, il fido patologo. Appena fuori, però, vide Elisabeth uscire dall’ascensore. “Sei già qui?” Chiese, stupito. “Perché?” Rispose la ragazza, altrettanto sorpresa. “Hai fatto presto.” “Da casa mia a qui, ando sul Buckman Bridge, ci vuole meno di un quarto d’ora” rispose ancora incerta Elisabeth, “non capisco.” Marcelo annuì. “Vero, scusa.” Elisabeth sorrise ed entrò nella stanza, rimanendovi solo un paio di minuti. Marcelo, nel frattempo, era tornato dal direttore. “Ha trovato lei il cadavere?” Chiese. “No, è stata una donna delle pulizie” rispose il direttore. “Posso vederla?” “Certo, dev’essere ancora su questo piano, vado a cercarla.” L’uomo andò in direzione degli ascensori e Marcelo rimase in attesa. “Tutto perfettamente identico” disse Elisabeth, uscendo dalla stanza, “sembra una fotocopia.” “Già” fu la laconica risposta del collega. Rimasero in silenzio alcuni istanti poi, dal fondo, il direttore rispuntò con due ragazze al seguito.
“Queste sono le donne che hanno trovato il corpo” disse ai detective. Marcelo notò lo sguardo spaesato ed intimorito di Karen e quello più deciso di Alena e l’occhiata che Wilson le aveva dato appena arrivati. “Mi scusi direttore” disse Marcelo, “ma dovremmo parlare alle signore da soli.” “Ma…” cercò di obiettare Wilson. “Prego” intervenne Elisabeth, “ci può aspettare accanto al telefono.” L’uomo accennò ad una protesta, ma il gesto della detective lo convinse a rinunciare. Marcelo attese che il direttore fosse fuori portata e si rivolse alle donne. “Chi di voi ha trovato il corpo?” Karen alzò timidamente una mano. “Ha toccato qualcosa?” La donna, con la testa, negò. Marcelo guardò la collega e cercò chiarimenti. “Lei può dirmi cos’è successo?” Alena volse lo sguardo verso il direttore, poi tornò da Marcelo. “Karen è entrata nella 312, io nella 314” disse, indicando la seconda stanza. “Aveva appena aperto la porta quando si è messa ad urlare. Io sono corsa e l’ho trovata immobile davanti alla porta della camera, l’ho fatta uscire ed ho raccolto il flacone di detergente che le era caduto.” “Non avete toccato nulla?” Chiese Marcelo. “Noi no, ma il signor Wilson, nonostante io avessi chiuso la porta a chiave e gli avessi sconsigliato di entrare, ha voluto vedere di persona. Non ho idea di cosa abbia fatto là dentro.”
“Come mai così presto? Normalmente le stanze si puliscono dopo le nove.” “I due ospiti sono uomini d’affari e avevano avvisato che avrebbero lasciato libera la stanza prima delle sette, ne approfittavamo per portarci avanti col lavoro e sfruttare il fresco del mattino.” “Mi perdoni la domanda” disse Marcelo, “non vorrei offenderla, ma lei mi sembra molto tranquilla e, in qualche modo, esperta di situazioni come queste. Posso chiederle come mai?” Alena sorrise. “Vede detective” rispose, “al contrario di quel che crede il signor Wilson, la mia esperienza non deriva da transiti frequenti nelle prigioni russe, ma da dieci anni di permanenza nella polizia ucraina.” “Polizia? E cosa ci fa qui?” “Lei saprà certamente che non tutto quello che a la televisione è verità, da noi come da voi. La situazione in Ucraina non è delle migliori ed io ho dovuto scegliere, essere una donna delle pulizie, sottopagata, discriminata, ma viva, o un poliziotto governativo ucraino, rispettato, ma morto. Ho peccato di vigliaccheria ed ho abbandonato tutto, venendo da voi coi miei due figli.” “Decisione rispettabile” commentò Elisabeth. “Assolutamente” aggiunse Marcelo. “Quello che vi posso dire con certezza” continuò la donna, “è che Karen aveva i guanti di gomma e si fermata all’ingresso, lo stesso vale per me. Oltre a noi, nessuno è entrato e l’unico che potrebbe aver inquinato la scena è il signor Wilson.” Marcelo annuì. “Grazie, se avessimo bisogno di voi vi chiameremo.” Alena prese sotto braccio Karen e tornò al suo lavoro. Marcelo guardò il direttore che cercava di sentire i loro discorsi e, con un cenno,
lo invitò a raggiungerli. “Cosa vi hanno detto quelle due?” Sbottò Wilson. Marcelo fece un o avanti e si mise col viso molto vicino a quello del direttore. “Per prima cosa” disse con tono minaccioso, “quelle due hanno un nome e meritano rispetto e, secondo, quello che ci hanno detto non sono affari suoi.” “Non intendevo…” cercò di giustificarsi Wilson, ma Marcelo non gliene diede il tempo. “Parliamo di lei, piuttosto. Ha toccato qualcosa all’interno della stanza?” “No, credo di no.” “CREDO non è una risposta accettabile.” “No, non ho toccato niente” rispose intimorito il direttore. “Ok, può andare, ma rimanga a disposizione.” L’uomo non se lo fece ripetere e tornò a o spedito verso gli ascensori. “Non ti avevo mai visto così tosto” disse Elisabeth. “Vedi” rispose Marcelo, “tu ti chiami Wright, non puoi capire, ma io so bene cosa significa dover abbandonare il proprio paese, i propri parenti, gli amici e traferirti in un altro stato dove vieni costantemente discriminato, non importa se la tua etnia copre un sesto del totale della popolazione ed è quasi più numerosa dei Wasp, tu sei sempre un emigrante, un emarginato. Quando incontro uno come Wilson, che crede che il solo cognome valga ad innalzarlo al di sopra di tutti, mi prende la voglia di spiegargli un paio di cose sulla vita.” “Per fortuna tu stai dalla parte dei buoni” commentò Elisabeth. “Già, per fortuna.” Il rumore dell’ascensore attirò la loro attenzione ed entrambi si voltarono.
Il dottor Kruner ed il suo assistente stavano uscendo con la barella, cercando di sfilarla dalla piccola porta. I detective attesero pazienti che l’operazione fosse finita, ammirando, nel frattempo, la collaudata tecnica dell’esperto medico. “Buongiorno, Geremia. Robert” disse Marcelo. “Buongiorno ragazzi” rispose il medico, senza aggiungere nulla. Marcelo osservò lo sguardo di Geremia e notò un’apatia anormale. “Che ti è successo?” chiese, “brutta nottata?” Il dottore sorrise. “No, non esattamente. Ieri era il mio anniversario e così ho deciso di regalare a mia moglie una serata a teatro. Siamo andati a vedere Romeo e Giulietta. Quei russi sono davvero fenomenali. L’unico neo è che siamo tornati a casa alle due e questa mattina mi hanno chiamato presto, ma mi riprendo, non ti preoccupare.” “Avrei voluto esserci” disse Marcelo, “non ho mai visto l’interno del Jacksonville Theatre.” “Non l’avresti visto nemmeno stavolta” commento ironico Geremia, “il balletto era al Florida Theatre.” Marcelo rimase perplesso, ma non disse nulla. “Tutto come al solito?” Chiese Braitner timidamente. “Purtroppo sì” rispose Elisabeth. I dottori s’infilarono i guanti ed entrarono, mentre i detective rimasero a presidiare l’ingresso. Erano trascorsi solo pochi minuti quando l’ascensore tornò al piano e, questa volta, fu il tenente Stewart, accompagnato da una donna, a raggiungerli. “Signori” disse il tenente, accennando un saluto con la mano.
“Benvenuti” rispose Marcelo, “se così si può dire.” “Possibili sviluppi?” Chiese Stewart. “Penso proprio di no. Ad occhio e croce siamo nella medesima situazione precedente, a meno che voi non facciate un miracolo e riusciate a scovare il mitico ago.” Sophie fece una smorfia, più per la rabbia che per la delusione, appoggiò la valigetta e si spostò verso la porta della camera, analizzando il pavimento. Marcelo guardò Stewart con fare interrogativo, ma non disse nulla. Alvin intuì la domanda e cercò di dare una spiegazione. “È arrabbiata. Non le era mai capitato di lavorare tanto senza ottenere nulla e ne sta facendo una questione personale, ma, se non esagera, potrebbe anche essere utile, quindi la lascio fare, per ora.” “La posso capire” commentò Marcelo, poi, guardando Elisabeth, disse: “Vi lasciamo in attesa del vostro turno, noi andiamo alla ricerca di un testimone o di qualunque cosa gli assomigli.” “Buona fortuna” rispose Stewart. Marcelo si diresse all’ascensore, seguito dalla collega, e tornò nella hall. Un piccolo gruppo di dipendenti era fermo accanto al banco della reception immerso in un vibrante scambio di opinioni in merito all’accaduto. Le voci si zittirono nell’attimo esatto in cui i due detective comparvero nell’angolo della sala. Marcelo li raggiunse, mentre Elisabeth si diresse verso l’uscita. “Buongiorno” disse Marcelo, “posso farvi alcune domande?” “Abbiamo alternative?” Rispose con tono arrogante uno dei presenti. Marcelo guardò l’uomo.
Afroamericano, sui vent’anni, fisico da palestra e un tatuaggio di pessima fattura che sporgeva dalla manica destra della camicia, capelli corti e sguardo arrabbiato, a prescindere dalle circostanze. Valutò l’ipotesi che si trattasse di un detenuto in riabilitazione o qualcosa di simile e decise di non accettare le provocazioni. “Direi di sì” rispose calmo, “ma vi sarei riconoscente per la collaborazione.” “Immagino” continuò l’uomo. “Lo scusi” intervenne un altro dipendente, “dica pure.” “Grazie, avrei bisogno di sapere se avete notato qualcosa o qualcuno non conforme questa mattina verso le sette.” “Io sono l’unico che era presente a quell’ora” disse il collega più tranquillo, “e devo dire che non mi ricordo niente di anomalo. Questa mattina è partito un gruppo di turisti, una trentina. Hanno lasciato l’albergo verso le sette meno un quarto e, con loro, almeno una decina di altre persone, ma nessuno mi è parso strano, almeno non più del solito.” “Forse voleva sapere se hai visto un tipo come me aggirarsi da queste parti” insistette il ragazzo tatuato. “Kevin!” Disse il collega, ora un po’ meno tranquillo, “vedi di piantarla. Il detective non è qui per te e cerca solo di fare il suo lavoro.” “Non si preoccupi” disse Marcelo, “ho problemi ben più grandi in questo momento, ed il primo della lista è trovare un assassino prolifico che sembra inesistente.” “Come le stavo dicendo” continuò il portiere, “sono arrivati tutti nel giro di cinque minuti e chiunque avrebbe potuto mescolarsi a loro e are inosservato, mi dispiace.” “Grazie” disse Marcelo, “era prevedibile, ma dovevo provarci comunque. Buona giornata.” “Grazie, se le serve altro, io sono qui.”
Marcelo accennò un sorriso e salutò, raggiungendo Elisabeth nel parcheggio. La trovò ferma davanti all’ingresso con un’espressione assente. “Tutto bene?” Le chiese. “Sì, stavo meditando.” “Su cosa?” “Sul fatto che questo è un parcheggio privato, quindi, tutte le auto parcheggiate qui sono degli ospiti dell’albergo. Se incrociamo i dati delle auto che hanno lasciato il parcheggio questa mattina con quelle agli ospiti dovremmo averne una in eccesso, quella dell’assassino.” “E come sappiamo chi è uscito?” Chiese Marcelo. “Grazie a quella telecamera” rispose Elisabeth, indicando un palo molto alto al centro del parcheggio. Marcelo fece una smorfia che poteva nascondere, nel profondo, dell’euforia. “Adesso non esagerare con l’entusiasmo” disse ironicamente Elisabeth, “è una buona idea, ma non così eccelsa.” “Scusa” disse Marcelo, “ma abbiamo fatto così tanti buchi nell’acqua che ho paura di esaltarmi troppo e pagarne pegno. Preferisco aspettare l’esito.” “Giusto” rispose la collega, “vado a recuperare le immagini della telecamera e le mando in centrale.” “Perfetto, io torno da Stewart.” Rientrarono insieme e si separarono nella hall. Marcelo risalì al piano e si fermò appena fuori dall’ascensore. Vide nel corridoio Alena ed andò verso di lei. La donna lo vide arrivare, posò lo straccio e si sfilò i guanti.
“Detective, posso aiutarla?” Chiese quando le fu vicino. “Forse” rispose Marcelo, “mi è venuto un dubbio e preferivo parlarne con lei anziché col direttore.” “Perché sono giovane e bella?” Chiese sarcasticamente Alena. “Anche, ma soprattutto perché, probabilmente, mi dirà la verità.” “Certo, dica pure.” Marcelo controllò alle sue spalle, come se temesse un agguato, poi tornò a rivolgersi alla ragazza. “Questo è un albergo che ospita spesso uomini d’affari, uomini che sono in viaggio da soli per molto tempo. Le leggende narrano che in posti come questi esista una figura mitologica in grado di procurare qualsiasi cosa agli ospiti. Lei sa dirmi se esiste anche qui?” Alena sorrise. Più di una volta avevano tentato di farla rientrare fra gli articoli in offerta ed ogni volta, chiunque fosse, aveva ricevuto la medesima risposta. “Yannis, deve chiedere di lui” disse, guardandolo negli occhi, “lo può trovare al bar dell’albergo.” Marcelo le porse la mano. “Grazie, buona giornata.” Si voltò, dirigendosi verso la camera 312. Geremia era nel corridoio con la barella, in attesa del suo collaboratore. Braitner uscì dalla stanza con la valigetta e raggiunse il dottore. “È tutta vostra” disse Kruner al tenente. “Tu come te ne vai?” Chiese, curioso, Stewart. “Il direttore ha detto che alla fine del corridoio c’è un ascensore di servizio grande. Spero sia vero.”
Stewart salutò l’amico ed entrò nella camera, preceduto dall’impaziente collega. “Novità?” Chiese Marcelo, raggiungendo gli altri. “Ad occhio, nulla” rispose Geremia, “speriamo nell’autopsia.” Marcelo gli appoggiò una mano sulla spalla nel tentativo di consolarlo ottenendo, però, un flebile risultato. Si fermò sulla porta e guardò all’interno. Stewart lo vide e tornò verso l’ingresso. “Qui ne avremo per un paio d’ore” disse, “non vi conviene aspettare.” “Ok, recupero Elisabeth e ci aggiorniamo nel pomeriggio.” Il tenente rientrò e Marcelo andò all’ascensore, scendendo al bar. Era ancora orario da colazione e la sala era piuttosto animata. Il lungo banco di legno era vuoto, ma i tavoli erano quasi tutti occupati. Marcelo si spostò verso l’angolo con la macchina del caffè e si presentò. “Detective Morales, cerco Yannis.” Il barista non rispose, ma, con un cenno della testa, indicò la zona del buffet. “Grazie” disse Marcelo e si diresse verso il punto indicato. Un ragazzo sui venticinque anni, capelli corti neri e lineamenti mediterranei se ne stava appollaiato su uno sgabello con in mano un toast. “Yannis?” Chiese Marcelo. “In persona. Cosa posso procurarle?” “Risposte” disse Marcelo, mostrando il distintivo. L’espressione gioviale del giovane crollò.
“Non si preoccupi” lo rassicurò Marcelo, “non sono interessato a lei, ma potrebbe darmi informazioni utili per il caso che sto seguendo.” “L’omicidio della 312?” Chiese più sereno il ragazzo. “Esatto. Ha procurato qualcosa all’ospite della 312 ieri sera?” “No. Sicuramente no. In realtà non l’ho mai visto.” “Sa, per caso, se ieri aveva compagnia?” “No, ripeto, non l’ho proprio visto.” “Se l’ospite della 312 avesse avuto una necessità” insistette Marcelo, “non inclusa nei servizi dell’albergo, avrebbe potuto rivolgersi a qualcun altro, oltre che a lei?” “Non penso. A chiunque avesse chiesto sarebbe stato fatto il mio nome. Funziona, più o meno, come per i procacciatori d’affari, loro mi girano il cliente e ricevono una percentuale.” “E nessuno potrebbe provare a mettersi in proprio, se così si può dire?” “Non è facile come sembra. Le richieste sono le più svariate, la maggior parte sono classiche, non so se mi capisce, ma parecchie risultano davvero originali e se non si conosce il giro è difficile procurarsi tutto quello che chiedono i clienti. Serve molta esperienza e una buona preparazione, non è un lavoro da tutti.” “Quindi, qualsiasi cosa o persona ci fosse in quella camera, è arrivata con lui?” “Direi proprio di sì.” Marcelo valutò se continuare, ma decise che avrebbe solo perso tempo. “Grazie signor Yannis” disse, “fingerò di non aver sentito come gestisce le sue attività, ma veda di non esagerare e, se dovesse sentire qualcosa, mi avvisi.” “Ci può contare, detective.” Marcelo si voltò, fece una panoramica sui tavoli e tornò nella hall.
Elisabeth lo aspettava accanto al banco, chiacchierando con un collega. “Fatto?” Chiese, vedendolo arrivare. “Tutto il possibile, e tu?” “Abbiamo le immagini” disse, mostrando un dvd, “Speriamo servano.” “Speriamo.” Uscirono e si diressero alla centrale con l’unica pista percorribile appoggiata sul cruscotto e, fissa nella mente, la paura che, per l’ennesima volta, fosse solo una strada senza uscita.
Capitolo 17
Elisabeth arrivò alla centrale con la busta della scientifica strizzata fra le mani, ed il cuore strizzato in una morsa di rabbia e frustrazione. Davanti all’ingresso, in perfetto sincronismo, incrociò Stewart che le aprì la porta. “Brutte notizie?” Chiese, vedendo lo sguardo cupo della ragazza. “Inutili più che brutte” rispose Elisabeth. Si diressero insieme verso l’ufficio dove Marcelo li stava aspettando. Elisabeth entrò, lanciando la busta sulla sua scrivania. “Deduco che non sia andata come speravamo” disse Marcelo. L’occhiata di Elisabeth non necessitò di parole. “Ti direi buongiorno” disse Stewart dalla porta, “ma forse non è il caso.” “Ciao Alvin, entra” disse Marcelo, “sentiamo com’è andata.” Elisabeth sbuffò, prese la busta e la ributtò sulla scrivania. “I ragazzi hanno controllato le immagini” disse avvilita, “ed hanno trovato undici macchine che sono uscite dal parcheggio ieri mattina. Quattro erano intestate ad ospiti dell’albergo, sei erano a noleggio, ma i dati forniti dai clienti collimavano con quelli di altri ospiti. Una non risultava.” “Ottimo” intervenne Marcelo, “è quello che ci serviva.” “Ottimo, sì” sottolineò con sarcasmo Elisabeth, “peccato che la targa dell’auto risultasse rubata.”
“La targa?” Ripeté Stewart. “Esatto, la targa. L’auto uscita dal parcheggio era una Cruze nera, ma la targa risultava essere quella di una Impala rubata a Miami sei mesi fa.” “Beh, possiamo sempre far controllare tutte le Cruze nere in circolazione” disse Marcelo. “Potremmo” rispose Elisabeth, “ma i ragazzi dicono che, oltre al fatto di trovarne qualche migliaio, probabilmente la targa è stata sostituita poco dopo, rendendo inutile la nostra ricerca.” “Suppongo che il guidatore non si veda?” Intervenne Stewart. “Esatto. La telecamera è al puro scopo dissuasivo. La sua posizione permette di controllare i movimenti all’interno del parcheggio, ma l’altezza e la risoluzione non sono certo ottimali. L’angolo di inquadratura permette di vedere le targhe all’uscita del cancello, ma è troppo in alto per inquadrare l’interno degli abitacoli.” Il silenzio s’impadronì della stanza e nessuno si sentì d’interromperlo per alcuni minuti poi, improvvisamente, Elisabeth si alzò, tolse il cellulare dalla tasca ed uscì, dicendo: “Scusate, è mia madre.” I due uomini si guardarono senza commentare. “Spero tu abbia notizie migliori” disse poco dopo Marcelo. “Sicuro di voler sentire?” “No, ma dubito di avere altra scelta.” “Ok” disse Stewart, “ti faccio il resoconto delle nostre analisi e, visto che ho sentito Geremia, ti anticipo il suo rapporto. Per quel che riguarda l’autopsia, ti posso dire che l’uomo è morto meno di un’ora prima del ritrovamento. Non c’erano molte tracce di cibo, probabilmente non ha mangiato nulla dopo la cena della sera prima, non c’erano tracce di droga e bassi contenuti di alcol, come tutti gli altri. Anche lui ha cercato di liberarsi, le tracce sui polsi sono evidenti, ma,
rispetto ai predecessori, si è urinato addosso.” “Più debole degli altri?” Chiese Marcelo. “Non credo. Penso che il nostro S.I. abbia modificato il suo stile. Se mi si presentasse uno che mi vuole tagliare un dito con delle tronchesi, beh, anch’io me la farei sotto.” “E questo come ci può aiutare?” Chiese dubbioso Marcelo. “Non ne ho idea, ma forse Lecter potrà trarne degli spunti.” “E voi?” Domandò Marcelo, “novità?” Stewart fece un’espressione che Marcelo non capì del tutto, così attese. “Novità sì e no” rispose Stewart, “nel senso che c’è qualcosa di nuovo, ma non saprei dirti quanto possa esserci utile.” “Continua” lo esortò Marcelo. “La base è la medesima degli altri casi cioè il nulla più assoluto. C’è, però, un piccolo indizio che possiamo sommare agli altri.” “Piccolo?” Ripeté, speranzoso, Marcelo. “Minuscolo, direi. Si tratta di un pelo di gatto, più precisamente di un American Shorthair, che, vista la diffusione, non ci aiuta un granché. Ho chiesto alla Cat Fancier's Association e, secondo loro, almeno un terzo dei gatti del paese sono di quella razza. Oltre a questo, c’è l’immancabile biglietto in bocca. Questa volta la scritta recitava un semplice DAT2222, ti dice qualche cosa?” “Esattamente come gli altri” rispose Marcelo, “può essere di tutto.” “Supponevo.” Elisabeth rientrò in ufficio. “Scusate, mi sono persa molto?” Chiese.
“Non direi” rispose Marcelo, “il solito biglietto ed un microscopico indizio.” “Del tipo?” “Un pelo di gatto.” “Davvero piccolo” commentò la ragazza. “Voi avete qualcosa?” Chiese Stewart. “Il solito” rispose Marcelo. “La vittima è Samuel Donovan di New York, commerciante di gioielli. Ha trascorso qualche anno nell’esercito, ma nulla di serio. La sua fedina penale è immacolata e la sua vita è più trasparente dell’acqua. I pochi oggetti di valore che aveva con sé non sono stati toccati. L’ennesima brava persona coinvolta in questo assurdo caso.” Il telefono squillò, facendo scattare i tre poliziotti. “Morales” disse Marcelo, alzando la cornetta. “Arriviamo.” Posò il ricevitore e si rivolse ai colleghi. “Lecter è arrivato, il comandante ci aspetta, se vuoi unirti a noi sei il benvenuto” disse, rivolto a Stewart. Il tenente annuì e li seguì nell’ufficio di Pennington. “Signori, benvenuti” disse il comandante vedendoli entrare poi, rivolgendosi a Lecter, “Eddy, ti presento il tenente Stewart della scientifica.” I due si strinsero la mano e si accomodarono sulle poltroncine. “Vi ho riuniti per fare il punto della situazione che, a quanto pare, non è migliorata” esordì Pennington, “ma ora lascerei parlare Edward che è già al corrente di quasi tutto.” “Grazie, Sam. Come diceva il comandante, la situazione non è migliorata, anzi,
se possibile siamo messi peggio per almeno un paio di motivi. Per prima cosa devo avvisarvi che il nostro S.I. si sta evolvendo e questo, nella norma, non è mai un buon segno. Il primo segnale viene dal luogo dell’omicidio, ad oltre dieci miglia da quella che consideravamo la sua zona sicura. Jeffrey Brantingham ha creato quello che, a mio avviso, è il più completo modello spaziale di selezione del bersaglio criminale e che sta alla base dell'applicazione del profilo geografico in un'investigazione su un caso di omicidio seriale. L'autore sostiene che la maggior parte dei criminali non sceglie completamente a caso i luoghi del suo obiettivo, cosa che, invece, potrebbe fare con ogni singola vittima, ma l'intero processo di selezione è, al contrario, strutturato, sia che il soggetto ne sia consapevole sia che non lo sia. Normalmente, oltre alla zona sicura, esiste una zona cuscinetto, situata intorno al luogo di residenza del criminale. All’interno di questa zona il criminale sente più alto il livello di rischio e trova poco attraenti i bersagli e, per crimini in cui la componente emozionale è più forte di quella strumentale, la zona cuscinetto non ha un influsso molto forte sulle scelte del soggetto.” Lecter, come sempre, si prese una pausa per lasciar aderire bene i concetti alle menti dei suoi ascoltatori e, nel frattempo, si servì dell’acqua dalla caraffa lasciata sulla scrivania dall’assistente del comandante. “Per chiarire meglio la mia paura” riprese dopo poco, “vi dirò cosa penso. Un Serial killer non agisce quasi mai fuori dalla sua zona sicura o dentro la sua zona cuscinetto quindi, nel nostro caso, o è intervenuto un evento eccezionale che lo ha obbligato ad agire all’interno della seconda e, nel caso, sapremmo dove cercare, o, più presumibilmente, l’evento l’ha obbligato ad allargare a dismisura la prima e questo, purtroppo, lo rende più difficile da trovare, oltre che più pericoloso.” Lecter si fermò di nuovo per alcuni istanti e, dopo aver interrogato con lo sguardo gli astanti e non aver ricevuto richieste, proseguì. “Esiste, poi, il fattore di modifica del comportamento legato all’omicidio. L’ultima vittima deve aver provato una paura enorme, più delle precedenti. Dalle mie informazioni risulta un ex militare, niente di speciale, ma comunque un uomo che non si potrebbe certo definire pauroso. L’eccesso di paura si giustifica solo con un atteggiamento molto più aggressivo del nostro S.I. attuato proprio per questo scopo. La morte e la menomazione non gli bastano più, vuole godere della paura e questo ci porta a possibili problemi fisici, primo fra tutti,
l’impotenza.” Un brivido involontario ò sulla schiena degli uomini presenti, come se quella parola fosse più paurosa di tutto quello che aveva detto il dottore in precedenza. “Per concludere” disse Lecter, “penso che ci si trovi di fronte ad una personalità complessa se non addirittura multipla e, se così fosse, sarebbe come andare a caccia di due assassini che circolano con un solo corpo, magari di un uomo per bene che, non è da escludere, potrebbe non essere al corrente di quello che fanno i suoi coinquilini in sua assenza.” Le ultime parole avevano ghiacciato i presenti. La situazione, di per sé già complessa, diventava improponibile e solo un errore dell’S.I. poteva aiutarli, errore che sembrava ben lontano dal poter capitare. “Quindi” intervenne Marcelo, “la persona che cerchiamo si presenta con caratteristiche diverse da quelle riscontrate sulle scene?” “Magari fosse così” commentò Lecter, “purtroppo non sappiamo nulla di certo. La mia è una supposizione e come tale va trattata. La persona che cerchiamo può essere perfettamente conscia di quello che fa e presentarsi esattamente come lo abbiamo descritto, oppure non esserne consapevole ma, in questo secondo caso, non è detto che la personalità ospite sia diversa da quella principale.” L’espressione di Marcelo rendeva trasparenti i suoi pensieri, così come quelli dei suoi colleghi. Pennington osservò i volti dei presenti. Condivideva con loro l’apprensione e quel senso di frustrazione dato dall’incapacità di trovare una pista valida e percorrerla sino alla fine, ma non aveva intenzione di arrendersi. “Il nuovo indizio?” Chiese a Stewart. “Un pelo di gatto” disse sommessamente il tenente, “un American Shorthair.”
“Come il tuo” disse il comandante, rivolgendosi a Marcelo. “E come quello di altri migliaia di americani” sottolineò Marcelo. “Giusto” commentò Pennington, dispiaciuto per l’involontario riferimento, “quindi davvero poca cosa, perciò direi che, almeno per ora, possa bastare.” Si alzarono ed uscirono ma Pennington richiamò Marcelo. “Morales, aspetta.” Marcelo tornò sui suoi i. “Mi dica.” “Ho letto l’ultimo rapporto di Beloretti. Ti chiede se puoi andare a parlare con un certo Dwayne Cox, ritiene che possa procurarci informazioni essenziali per l’indagine ma, a quanto pare, non sembra molto favorevole a questa collaborazione, dovresti convincerlo.” “Dove lo trovo?” “Green Cove Springs Marina, molo 2. Dovrebbe avere una barca che si chiama Nano-9.” “Nano-9?” “Esatto e ti assicuro che non è il nome più strano che ho sentito.” “Se vado domenica mattina?” Chiese Marcelo. “Direi che è una scelta perfetta.” “D’accordo.” “Perfetto. Buon lavoro e, mi raccomando, stai attento.” Marcelo uscì e trovò Elisabeth accanto alla porta. “Non penserai di andarci da solo?” Disse.
“Non ci provo nemmeno. o a prenderti domenica alle nove.” “Ti aspetto.” Tornarono in ufficio, cercando di non pensare alle ultime parole di Lecter. Non avevano ancora perso ed il loro S.I. se ne sarebbe accorto presto.
Capitolo 18
Marcelo accostò la Charger al marciapiede e scese. Odiava quelli che suonavano il clacson per avvisare del loro arrivo, lo trovava maleducato e fastidioso. Una piccola casa ad un piano con una base di mattoncini rossi e finiture bianche si mostrava nella sua splendida semplicità davanti a lui. Percorse il vialetto, raggiunse l’ingresso e suonò il camlo. Elisabeth aprì la porta con il suo sorriso dirompente. “Ciao, entra, ho fatto il caffè.” Marcelo obbedì, seguendola in cucina. Le scarpe all’ingresso, i libri sparsi sui mobili e molte suppellettili inutili rispecchiavano la natura della collega e, nell’insieme, la casa non era molto diversa da come se l’era immaginata, ma piuttosto distante dall’aspetto pulito ed ordinato che si poteva ammirare da fuori. “Bella casa” disse. “Grazie, troppo buono” rispose Elisabeth poi, con un sorriso colpevole, aggiunse “suppongo che ti prudano le mani vedendo tutto questo disordine.” “Diciamo che non è il mio ideale di casa, nel senso dell’ordine, ma per il resto, direi che è davvero bella, sia la struttura sia l’arredamento.” “Grazie, sei davvero molto gentile, ma lo so, dovrei impegnarmi di più, ma io e Michael ci siamo abituati, o meglio, lui si è abituato, io ci sono nata.” Marcelo sorrise.
“A proposito, tuo marito non c’è?” “No, è al lavoro.” “Anche di domenica?” “Sarà stato geloso.” Elisabeth versò due tazze di caffè e mise sul tavolo un piatto di pancake e dello sciroppo d’acero. Marcelo ne prese uno ed iniziò a mangiarlo. “Niente sciroppo?” Chiese Elisabeth. “No, grazie, così è sufficiente.” Lei prese un pancake, lo posò sul piatto e lo cosparse di sciroppo, lo ricoprì con un secondo pancake che, a sua volta, venne sommerso da altro sciroppo. Ne tagliò una fetta e la trangugiò voracemente. “Hai già qualche idea su come impostare la cosa?” Chiese la ragazza, mentre si puliva la bocca. “Non saprei. Prima dobbiamo capire con che persona abbiamo a che fare, poi pensiamo a come gestirla, in fin dei conti è come un interrogatorio, anche se con scopi diversi.” “Ti hanno detto perché hanno scelto lui?” “Non sapevano di chi fidarsi. Di persone che si muovono in quel porto e conoscono tutti ce ne sono parecchie, ma una di queste, se non più d’una, è legata ai narcotrafficanti, decidere a chi chiedere era difficile. Poi è arrivato Cox, un ex matematico esperto in analisi complesse, un uomo con un ato di battaglie contro la droga, uno che ha lottato per anni e che, per questo, ci ha rimesso anche un figlio, uno che, di certo, non collaborerebbe mai con gente come quella. È sembrato l’uomo giusto, sicuro e integrato abbastanza da rendersi credibile.”
“Un matematico? Il nome della barca è legato a quello?” Chiese curiosa Elisabeth. “Suppongo di sì. Il termine Nano, in matematica, indica un valore di un miliardesimo che viene espresso come 10 elevato alla -9, tutto torna.” “Non ho capito niente, ma mi fido” commentò la ragazza. Si alzò e mise i piatti nel lavandino. “Ti aiuto?” Chiese Marcelo. “Non ti preoccupare, li lavo quando torno.” L’espressione di Marcelo tradì un certo disgusto, ma si limitò a are le tazze vuote alla collega senza fare commenti. “Prendo la giacca e sono da te” disse Elisabeth. Marcelo si portò all’ingresso ed attese la collega. Due minuti dopo erano già in macchina, direzione Green Cove Springs Marina. Arrivati all’incrocio con l’area della Dupont Middle School, Marcelo si fermò. Controllò le due direzioni, ci pensò un momento e svoltò a destra, dopotutto era domenica, potevano permettersi la strada costiera, lasciando per i giorni lavorativi la superstrada. Raggiunsero la SS 13 e la imboccarono, procedendo a velocità moderata, da gita domenicale. Costeggiarono il San José Country Club e proseguirono per quasi venti miglia, sino al Shands Bridge, una lingua d’asfalto che attraversava il St. Johns quasi a pelo d’acqua, alzandosi solo nel punto centrale per permettere il aggio delle imbarcazioni. Certo, non era imponente come il Mathews Bridge, ma era molto più rassicurante, almeno agli occhi di Marcelo. Scesero dal ponte ed imboccarono il lungo curvone fra gli alberi e, nonostante la bassa velocità, a Marcelo ricordò un circuito di formula uno di quelli europei,
ma non si fece prendere la mano, continuò col suo ritmo sino all’incrocio che portava al porto. Una piccola stradina con un cartello blu indicava l’ingresso all’area portuale. Marcelo la imboccò, seguendola sino al parcheggio. “Non è un granché se vuoi vivere affittando la barca” disse, delusa, Elisabeth. “Vero, ma credo che questo sia solo uno scalo tecnico, cioè un posto dove porti la barca per le manutenzioni ordinarie o delle riparazioni, il vero porto turistico è in città.” Scesero dall’auto e raggiunsero il molo, per loro fortuna dal lato corretto. C’erano dodici pontili che s’insinuavano nel fiume e coprivano oltre un miglio del litorale, accedervi dal lato sbagliato avrebbe significato una bella eggiata e non rientrava nel piano. Controllarono il pontile e videro un piccolo numero disegnato sul pavimento, era quello che cercavano. Si avviarono lungo la striscia di cemento, controllando i nomi delle barche ormeggiate. Verso la metà del molo videro un Centurion 57 fare bella mostra di sé. Sulla prua, in lettere blu cobalto, spiccava il nome, Nano-9. “È quella” disse Marcelo. Si avvicinarono e controllarono attorno alla barca, non c’era nessuno. “Signor Cox” chiamò Marcelo. Non ricevendo risposta, riprovò con un volume più alto. “Signor Cox.” Il boccaporto si aprì e dalla scaletta uscì un uomo non troppo alto, sulla cinquantina, con la faccia cotta dal troppo sole e la pancia gonfiata dal troppo alcool.
“Buongiorno” disse l’uomo sorridendo. “Buongiorno” dissero i detective. “Avete bisogno di me?” Chiese Cox. “Alcuni amici ci hanno detto che lei noleggia la barca per delle gite, volevamo vedere come funzionava la cosa” disse Marcelo. “Certo, salite” rispose l’uomo, indicando la erella. I due detective salirono e si presentarono. “Piacere Marcelo, mia moglie Elisabeth.” “Prego accomodatevi.” L’uomo li accompagnò al tavolino, indicandogli le panche ricoperte da dei bellissimi cuscini gialli. I detective presero posto e l’uomo fece altrettanto. Cox tolse dalla tasca un pacchetto di Old Holborn Dark Virgina e lo posò sul tavolo, prese una cartina ed iniziò a prepararsi una sigaretta. “Dà fastidio se fumo?” Chiese educatamente. “Prego, faccia pure” rispose Marcelo. “Ditemi” disse Cox rollando la sigaretta, “a cosa sareste interessati.” Marcelo si guardò attorno, si avvicinò al tavolino e disse a bassa voce. “Mi perdoni, signor Cox, le abbiamo mentito. Noi siamo poliziotti e siamo qui per chiedere il suo aiuto.” L’uomo non si scompose, accese la sigaretta e rilasciò una nube di fumo bianco nell’aria. “Il mio aiuto per cosa?” Chiese.
“La narcotici sta tentando d’incastrare un gruppo di trafficanti che porta la droga via mare sfruttando le barche dei turisti. Purtroppo sono molto attenti ed ogni tentativo fatto sino ad ora è fallito.” “Ed io cosa c’entro?” “Lei può essere la nostra arma segreta” intervenne Elisabeth, “il nostro cavallo di Troia.” “Mi hanno dato molti appellativi nella vita, ma cavallo di Troia è la prima volta” commentò Cox. “Lei è la nostra ultima speranza” disse Marcelo. “Perdonatemi, ma continuo a non capire come potrei esservi utile.” “Abbiamo bisogno di occhi ed orecchie nel giro per poter anticipare le loro mosse e coglierli sul fatto. Lei è conosciuto da anni, nessuno la sospetterebbe mai, può fare da informatore.” “Da spia” corresse Cox. “Se la parte spiata è un cartello di narcotrafficanti che uccide, direttamente o indirettamente, qualche centinaio di persone all’anno, ben vangano le spie” commentò Marcelo stizzito. Cox si alzò e si diresse ad un piccolo frigo, lo aprì e prese una bottiglia di birra. “Ne volete una?” Chiese, mostrandola. “No, grazie” rispose Marcelo, “è ancora presto.” “Non è mai troppo presto” commentò Cox. Tolse dalla cintura un coltello multiuso e fece saltare il tappo della bottiglia, bevendone un buon sorso. Si risedette, appoggiando la bottiglia e prendendo un’altra boccata dalla sigaretta. “Sapete che rischio la vita se faccio una cosa del genere?” Chiese poco dopo.
“Lo sappiamo perfettamente” rispose Marcelo, “è per questo che ci siamo presentati come turisti, se non dovesse accettare nessuno saprà mai niente, in caso contrario, emo tutte le misure necessarie per evitare che qualcuno venga a conoscenza della cosa.” Marcelo appoggiò un biglietto da visita sul tavolo. In alto, in caratteri elaborati rossi, c’era il nome di una società, la Carper, e sotto, in nero, c’era scritto “Marcelo Morales direttore vendite” con un numero di cellulare. “Nessuna traccia” disse Marcelo, “nessun collegamento.” Cox finì la birra e buttò la bottiglia in un bidone accanto al tavolino. “Perché dovrei farlo?” Chiese. “Per il bene di tanta gente e del nostro paese” rispose Elisabeth. “Del vostro paese” sottolineò Cox, “non il mio.” “Vero” intervenne Marcelo, “il nostro, ma vorrei solo ricordarle due cose. Sappiamo le battaglie che ha sostenuto per bloccare la droga nel SUO paese. Sappiamo che, a causa del suo impegno, ha perso un figlio, ucciso dai trafficanti e sappiamo che, di conseguenza, ha perso il lavoro e anche sua moglie. Mi sembra già un ottimo motivo per collaborare ma, se non bastasse, vorrei ricordarle le migliaia di uomini che sono partiti da qui, hanno attraversato l’oceano e hanno sacrificato la vita per liberare il SUO paese, un minimo di riconoscenza sarebbe gradita. Detto questo, io non la posso obbligare, ha il mio biglietto, veda lei.” Marcelo si alzò con un sorriso sconsolato, ma venne fermato. “Aspetti” disse Cox, “si sieda.” Marcelo si rimise a posto, aspettando. “Lei non ha ragione, lei ha mille ragioni. Quello che ha detto è tutto vero, fino all’ultima parola, e mi scuso per la mia reazione, ma non ho mai superato il dolore causato dalla morte di Jason e questo mi ha tolto tutto, il lavoro prima e
mia moglie poi. Non rinnego la mia battaglia e, ripensandoci, sarebbe il modo migliore per onorare mio figlio e, per quello che vale, una piccola rivincita.” Cox prese un’altra cartina e si preparò l’ennesima sigaretta. Nessuno parlò. L’uomo emise una nuvola bianca enorme, si sistemò sulla seggiola e guardò Marcelo. “Mi serve qualche consiglio su come muovermi, l’ultima volta ho fatto un casino.” Il sorriso di Marcelo divenne sincero, esprimeva comprensione e gratitudine e cercò di rendervi partecipe anche il suo responsabile. “Questo le rende onore, signor Cox” disse Marcelo, “non tutti avrebbero accettato, forse nemmeno io, ma il suo impegno verrà ripagato, certo, non in denaro, ma sarà comunque ricompensato.” Cox mostrò un sorriso amaro, non era minimamente interessato alla ricompensa e non era nemmeno certo di aver fatto la scelta giusta, ma sapeva di non aver ancora finito di espiare la sua colpa e, forse, questa era la volta buona per estinguere il suo debito. “Come prima cosa” esordì Marcelo, “non deve modificare le sue abitudini. Vada nei posti soliti e si comporti il più normalmente possibile. In secondo luogo, non faccia troppe domande, in certi ambienti la seconda domanda risulta già sospetta, quindi, non esageri. Ascolti tutto e selezioni bene le cose da chiedere, senza esporsi in maniera eccessiva. Quando ha delle informazioni, mi contatti, ma sempre come se fosse una telefonata di lavoro, discuteremo tutto solo di persona.” Cox spense la sigaretta e rimase a fissare il fiume. Improvvisamente il sorriso riapparve sul viso rugoso dell’uomo, un sorriso sereno, di chi, finalmente, ha trovato la soluzione a tutti i suoi problemi e che può togliersi un peso che da troppo tempo lo opprimeva. Si alzò di scatto e guardò i suoi ospiti.
“Oggi è domenica” disse, “giorno di barbecue, mi fate compagnia?” I due detective si guardarono e, a sorpresa, fu Elisabeth a rispondere. “Mio padre faceva sempre il barbecue la domenica, restiamo.” Non aveva ancora finito la frase che infilò una mano nella tasca ed estrasse il telefono. “Scusate” disse, “devo rispondere.” Si allontanò verso la prua della barca, lasciando i due uomini da soli. “E lei?” Chiese Cox, “mai fatto un barbecue la domenica?” “A casa mia si faceva il barbecue quando c’era qualcosa da cuocere, che fosse domenica o mercoledì non faceva nessuna differenza.” “Mi perdoni” disse Cox imbarazzato, “non ci avevo pensato.” “Non c’è problema, è storia, piuttosto, cosa ci cucini?” Cox si riprese, la paura della scelta stava lasciando spazio alla convinzione e Marcelo gli dava sicurezza, c’era della sintonia fra loro, avrebbero potuto diventare veri amici. Si alzò e si diresse verso la scala che portava all’interno. “Preparo la griglia” disse, scomparendo all’interno. Elisabeth tornò da loro e si guardò attorno. “Che fine ha fatto?” Chiese. “È andato a preparare la griglia” rispose Marcelo. Dopo un attimo la testa, una volta bionda, riapparve dalla scala con in mano una cassetta con della legna da ardere. “Beh!” disse Cox, “non si beve niente?”
Marcelo sorrise e raggiunse il piccolo frigorifero, dopotutto non era poi così presto per una birra.
Capitolo 19
Il telefono fece irruzione nella stanza con la delicatezza di un bulldozer e Marcelo sobbalzò nel letto. Cercò a tastoni sul comodino sino a riconoscere il cellulare. “Pronto” disse quasi rantolando. “Arrivo.” Scese dal letto e si diresse in bagno, non aveva tempo per una doccia e così infilò la testa nel lavandino e lasciò che uno scroscio d’acqua fresca rigenerasse la sua mente. Prese un asciugamano, si avvolse la testa in un turbante e si diresse in cucina. Aprì il frigorifero e prese una confezione di succo d’arancia, se ne versò un bicchiere e rimise il contenitore al suo posto. Bevve lentamente e, una volta finito, lavò il bicchiere e lo ripose nello scolapiatti, asciugando il lavello. Si tolse il turbante ed iniziò a vestirsi. Cinque minuti dopo era in auto in direzione aeroporto. La strada la conosceva, era la stessa che percorreva ogni giovedì notte per ritirare il carico di Beloretti anche se, di giorno, sembrava diversa. Lasciò l’interstatale 95 e si immise nella 102. Erano le sei del mattino ed il traffico era ancora minimo, così raggiunse l’albergo rispettando la sua media oraria notturna. Arrivò all’ingresso del parcheggio ed un agente lo fermò.
Marcelo abbassò il finestrino e mostrò il distintivo. “Mi scusi detective, entri pure, il comandante la sta aspettando” disse l’agente. Marcelo superò l’ingresso e si fermò davanti al negozio di liquori che occupava metà del parcheggio. Scese dall’auto e fece una panoramica della zona, poi si diresse verso la camera con la folla all’esterno. Uno stabile color crema a due piani costituiva il lato sud del parcheggio e si presentava come il classico motel dei serial polizieschi. Salì le scale e si portò al piano superiore, percorse il corridoio sino alla camera 107 e si fermò. Pennington uscì dalla porta e si avvicinò. Lo sguardo preoccupato anticipò le sue parole. “Dobbiamo inventarci qualcosa” disse, “sta accelerando il ritmo e noi siamo ancora fermi.” Marcelo non rispose. Entrò nella stanza e si guardò attorno. La scena era già vista, ma qualcosa non gli tornava. Osservò il corpo della vittima, la disposizione delle scarpe e la pulizia della stanza, tutto sembrava identico, eppure non lo convinceva. Era come vedere lo stesso film, ma diretto da un regista diverso, le stesse inquadrature assumevano prospettive nuove e l’insieme risultava simile, ma non uguale. Uscì dalla stanza e si spostò di qualche metro osservando il panorama. “Che ne pensi?” Chiese Pennington. “Non mi convince” rispose a sorpresa Marcelo.
“In che senso?” Marcelo stava per rispondere, ma vide Elisabeth salire le scale, così si fermò. Fece un cenno alla collega che li raggiunse. Marcelo indicò con la testa in direzione della stanza, così Elisabeth entrò nella camera per un sopraluogo e ne uscì dopo un paio di minuti. “Il tuo collega non è convinto” disse Pennington, “tu che ne pensi?” “Non trovo nulla di strano, purtroppo, tutto è esattamente come ce lo aspettavamo. Cosa non ti convince?” Chiese la ragazza al partner. “Non sono un criminologo o un profiler” disse Marcelo, “ma ci sono alcune cose che non tornano.” “Del tipo?” Chiese Elisabeth. “Per iniziare direi il posto. Siamo nell’estrema periferia nord della città, lontani più di venti miglia dalla zona precedente cosa che, da sola, potrebbe non significare nulla, ma è un tassello del puzzle. In secondo luogo, vi pregherei di guardare questo hotel. Un parcheggio poco illuminato, una rivendita di alcolici grande quanto l’albergo ed una struttura da quaranta, forse cinquanta dollari a notte, molto lontano dallo standard che il nostro S.I. ha tenuto sino ad ora. Stesso discorso per la vittima. Guardate l’uomo sul letto, ad occhio e croce il suo abbigliamento varrà meno di cento dollari, scarpe comprese, niente se confrontato con le vittime precedenti. Infine, ma non ultimo, il fattore tempo. Come ha detto il comandante sta accelerando, forse troppo, forse perché non è la stessa persona.” Elisabeth analizzò mentalmente le considerazioni di Marcelo e dovette ammettere che la sua logica non faceva una piega. “Marcelo ha ragione” disse, “non può essere lo stesso uomo.” Il comandante s’irrigidì, come colpito da una scarica elettrica.
“Vi rendete conto che, se così fosse, saremmo messi molto peggio di prima?” disse, al limite del controllo. “Purtroppo” rispose Marcelo, “l’eventuale gravità della cosa non ci permette d’ignorare i fatti.” “D’accordo” commentò Pennington nervoso, “ma aspettiamo le analisi prima di tirare delle conclusioni.” “Certo” confermò Marcelo. Elisabeth si guardò attorno e vide scendere dall’auto il tenente Stewart. “Speriamo solo che questo pazzo sia meno meticoloso dell’originale e ci lasci qualche traccia” disse sommessamente. Alvin salì le scale e si unì al gruppo sul balcone. “Signori” disse, “tutto come al solito?” “Peggio” fu il commento sintetico di Marcelo. L’espressione di Stewart assunse una connotazione da panico. Non era un esordiente e, nel corso della sua carriera, come avrebbe detto il replicante, aveva visto cose che voi umani non potreste immaginarvi, ma non era la ferocia o la follia di quest’assassino che lo spaventava, quanto la sua assoluta trasparenza. Quest’uomo sembrava un fantasma, nessuno lo aveva visto, nessuno lo aveva sentito e non lasciava nemmeno un granello di polvere dietro di sé e pensare che ora le cose volgessero al peggio lo proiettava in un buco nero dal quale rischiava di non tornare. “Alvin!” La voce di Pennington lo ripescò dalle profondità delle sue considerazioni, ributtandolo nella realtà. “Scusate” disse, “stavo cercando d’immaginare come potesse essere peggio di quanto non fosse sino ad ora.” “I tuoi giovani colleghi ritengono che si tratti di un emulatore.”
“Tempi, luogo e vittima suggeriscono una mano diversa” chiarì Marcelo, “ma, giustamente, aspetteremo le prove ed il parere di Lecter prima di valutare l’ipotesi.” Stewart si voltò e vide Geremia nel parcheggio mentre si apprestava a raggiungerli. Pennington si spostò verso la stanza e si mise sulla porta. “Per cortesia” disse a voce alta, “lasciate libero il aggio e spostatevi dall’altro lato, grazie.” Gli agenti ubbidirono immediatamente e il dottore poté aprire la barella e percorrere liberamente tutta la balconata. Raggiunto l’ingresso, si fermò. “Buongiorno” disse, “c’è qualcosa di cui dovrei essere informato?” Nessuno rispose, ma la mimica generale non richiedeva parole. “Come supponevo.” Accostò la barella alla ringhiera ed entrò, seguito dal suo immancabile assistente. Marcelo rimase ancora alcuni istanti a studiare l’area, poi si mosse. “Loro ne avranno per parecchio” disse, “noi ci occupiamo dei testimoni.” Senza attendere conferma partì, seguito immediatamente da Elisabeth. “Cosa pensi?” Chiese la ragazza scendendo le scale. “Penso che quel folle si è fatto pubblicità e la sua campagna mediatica ha avuto effetto. Ci sono in circolazione più assassini repressi di quanto si possa immaginare. Questo emulatore era un pazzo latente sino a pochi giorni fa e le immagini dei giornali l’hanno ripescato dal limbo e proiettato nella nostra vita. La cosa peggiore è che potrebbe non essere l’unico.” Raggiunsero il market ed entrarono.
Un uomo alto e incredibilmente magro era seduto dietro al banco, accanto alla cassa. Alzò gli occhi, guardò i detective e tornò a guardare il tenente Colombo sulla vecchia televisione. “Buongiorno” disse Marcelo, “lei è il titolare?” L’uomo tornò a guardare gli agenti con l’occhio vitreo di chi, più che di vendite, si occupa di consumo di alcolici. Si alzò, si sistemò la maglia e tese la mano. “Jenkins” disse timidamente. Marcelo strinse la mano umida e fredda ed un brivido di disgusto gli percorse la schiena. “Lei è stato qui tutta la notte?” Chiese Marcelo. “Si” disse Jenkins non troppo convinto, “più o meno.” “C’è stato o non c’è stato?” Insistette Marcelo, caricando il tono della voce. “Si” ripeté l’uomo un po’ più convinto e convincente. “Ha notato qualcosa di strano?” L’uomo si grattò lentamente il mento e lo sguardò vagò per qualche universo parallelo, rientrando sulla terra improvvisamente. “No, direi di no, ma ho le telecamere.” Scottati dalle esperienze precedenti, i detective mantennero una certa calma convinti, comunque, che qualsiasi ripresa sarebbe stata più utile del loro unico testimone. “Possiamo vederle?” Jenkins guardò Elisabeth come se si chiedesse di cosa stava parlando poi, di scatto, si spostò verso l’altro lato del banco.
“Certo” disse, “le prendo subito.” Estrasse un dvd dal registratore e lo consegnò ad Elisabeth. “Ha una busta, per cortesia?” Chiese la ragazza. L’uomo si guardò attorno, frugò sotto il banco e raccolse una vecchia custodia trasparente. “Può andar bene?” Chiese. “Perfetta” rispose Elisabeth. Inserì il dvd e mise la custodia in tasca. “Se le viene in mente qualcosa” difficile, pensò Marcelo mentre lo diceva, “ci contatti.” “Certamente” rispose l’uomo. Uscirono e si diressero verso l’ufficio del motel, dall’altro lato dello stabile. Sulla porta trovarono un uomo sui cinquant’anni, quasi calvo e con un fisico da giocatore di football in pensione da anni. “Detective Morales e Wright” disse Marcelo, “lei è il direttore?” “Jenkins” disse l’uomo e lo sguardo dei detective tradì una certa sorpresa. “Capisco” continuò, “avete già conosciuto mio fratello. È un po’ strano ma, in fondo, è un uomo tranquillo.” “Lei era qui stanotte?” Chiese Marcelo senza commentare. “Sì, ma come ho già detto ai vostri colleghi, dormo sul retro e vengo in ufficio solo se suona il cicalino della porta, in più, qui non ho telecamere, mi dispiace.” “Cosa ci può dire dell’ospite della 107?” “Ho controllato i registri, si chiamava Taylor Cooper di Orlando, almeno la sua patente dice così. È arrivato ieri sera verso le venti e, da quel momento, non l’ho
più visto.” “Suppongo non abbia neppure sentito rumori o cose strane, giusto?” Chiese Elisabeth. Jenkins sorrise. “Detective” disse, “faccio questo lavoro da una vita e sono abituato ai luoghi comuni. Il fatto che diriga un motel di basso livello non significa necessariamente che sia disposto a chiudere un occhio su tutto pur di non aver problemi o per raggranellare qualche mazzetta. Se avessi visto o sentito qualcosa ve lo direi, si fidi.” “Mi fido” rispose Elisabeth sincera, “grazie per la collaborazione.” Uscirono e tornarono all’auto. “Geremia e Alvin ne avranno per tutta la mattina” disse Marcelo, “andiamo a far colazione e poi in ufficio ad analizzare il filmato.” “Ottima idea” commentò Elisabeth, “però mi porti al Casa Dora.” “Aggiudicato” rispose Marcelo. Lasciarono il parcheggio del motel e si diressero verso la I95, li attendeva un viaggio di ritorno più lento e noioso dell’andata, ma erano abituati. Erano le nove quando Marcelo fermò la sua auto nel parcheggio della Forsyth e spense il motore. Davanti a loro c’era un’auto sportiva rossa, il marchio sembrava italiano ed il design pure. Marcelo scese e si fermò ad osservarla ammirato. “È meglio se cambiamo bar” disse Elisabeth, prendendolo per un braccio. Marcelo la fissò sorpreso. “Perché?” Chiese.
Elisabeth camminò per alcuni metri, trascinando il collega con sé. Quando fu abbastanza lontana, si fermò. “Hai visto quell’auto?” Chiese retoricamente. “Quindi?” Rispose Marcelo confuso. “Quella è l’auto di Marco.” “Beloretti se ne va in giro con un’Alfa Romeo 4C?” “È sotto copertura. Se devi fingerti un boss della droga, devi seguire certi standard. Lui è italiano, sai quanto ci tengano alle loro auto, fa parte del personaggio.” “Posso capirli” commentò Marcelo. “Una Ferrari sarebbe costata troppo, così hanno optato per una vettura più economica.” “Alla faccia dell’economia.” “E comunque, macchina a parte, non possiamo farci vedere nello stesso bar.” Elisabeth ricominciò a camminare e raggiunse una panchina. In quel momento Beloretti uscì dal locale, si voltò e li vide, ma non lasciò trasparire nulla. Attese che la sua ragazza salisse sull’auto e partì. “Ora possiamo andare” disse Elisabeth. Tornarono all’ingresso del bar ed entrarono. Al tavolo, in fondo al locale, Marcelo notò due facce che mettevano i brividi. I tratti sudamericani piuttosto accentuati e l’ostentazione di monili d’oro dalle dimensioni imbarazzanti erano un biglietto da visita che difficilmente veniva confuso. Marcelo si sedette al banco e finse di non vederli.
“Elisabeth” disse sottovoce. La ragazza si voltò. “Quei due in fondo sembrano i contatti di Marco, è meglio non dare nell’occhio.” “Ok” rispose la ragazza. Attesero i caffè ma, pur non vedendoli, Elisabeth si sentì osservata e fece istintivamente un tentativo di depistaggio, abbracciò Marcelo e gli diede un bacio. Lo sguardo di lui rimase sospeso fra l’inaspettato piacere e la paura dell’evento che aveva causato il gesto così, per non correre rischi, e non solo, ricambiò con un’autenticità di cui era impossibile dubitare. Elisabeth continuò a sorridere ma, a bassa voce, disse: “Non esagerare.” Marcelo afferrò il concetto e si spostò, finì il caffè e si alzò. “È meglio se andiamo” disse. “Penso proprio di si” rispose la ragazza. Risalirono in auto e si diressero alla centrale, glissando sull’accaduto. “Io porto il dvd in laboratorio” disse Elisabeth una volta entrati, “ci vediamo in ufficio.” Marcelo si diresse verso l’ufficio, ma venne fermato da un collega. “Giusto te” disse Gunnarsson, “mi serve il tuo aiuto.” Marcelo lo guardò curioso ed attese. “Il nostro caro Sainz sostiene che la famosa Don't Let Me Be Misunderstood sia opera dei Santa Esmeralda, e che Joe Cocker ne abbia fatto solo una cover nel 2004, dimenticandosi che il grande Joe l’aveva già incisa nel 1969. Tu puoi
confermarlo?” “Confermo, ma purtroppo per te, la canzone non era sua” rispose Marcelo. “Cosa vuol dire che non era sua?” Chiese stupito Gunnarsson. “La canzone è stata scritta, tra gli altri, da Bennie Benjamin e registrata per la prima volta nel 1964 da Nina Simone, una pianista jazz, ma molto eclettica.” “Nei sei sicuro?” Chiese sconsolato Gunnarsson. “Sicurissimo, è storia” disse Marcelo allontanandosi. Lasciò i colleghi sconsolati e raggiunse il suo ufficio, Elisabeth avrebbe impiegato poco a verificare il filmato, voleva essere pronto quando fosse tornata. Aveva ancora sulle labbra il sapore del bacio e, pur sapendo che non sarebbe mai successo nulla, ne voleva godere il più possibile. Lei era sposata e lui non avrebbe fatto alcunché per interferire nella sua vita privata. Nemmeno se lei si fosse proposta, cosa probabilmente impossibile, avrebbe accettato. Era stato partecipe di quella situazione dalla parte della vittima, non voleva ripetere l’esperienza stando dall’altro lato della barricata. Prese il notes con gli appunti e cercò di fare un riepilogo della situazione. Era ancora immerso nelle sue considerazioni, professionali e non, quando Elisabeth rientrò in ufficio. “Forse abbiamo l’auto” disse euforica. “Ottimo” disse Marcelo, posando il taccuino. “Dopo pranzo dovremmo avere i risultati” continuò la ragazza, “sperando che i ragazzi riescano a recuperare la targa o un dettaglio identificativo” aggiunse più pacata.
“Dopo pranzo?” Ripeté stupito Marcelo. “Devono finire le ricerche ed ormai è ora di pausa” chiarì Elisabeth. Marcelo guardò l’orologio e, con sorpresa, notò che mancavano pochi minuti a mezzogiorno. Non si era reso conto dell’ora, aveva perso la cognizione del tempo e la cosa lo indispettiva non poco. “Nel frattempo che facciamo?” Chiese ancora spaesato. “Andiamo a pranzo” disse sorridendo Elisabeth.
Capitolo 20
Geremia era seduto alla sua scrivania. Davanti a lui, in un contenitore di metallo, c’erano i due proiettili che avevano ucciso Cooper. La luce della lampada li illuminava come quadri ad un’esposizione ed in certi musei, con discutibile gusto, sarebbero stati esposti come opere d’arte moderna. La porta alle spalle del dottore si aprì e Robert entrò. Si fermò sulla soglia e vide il dottore immobile, con le mani intrecciate sotto il mento, come in meditazione. Si avvicinò lentamente. “Tutto bene dottore?” Chiese. Geremia ebbe un sussulto, si voltò e diede un’occhiata velenosa al suo assistente. “Prima o poi mi fai venire un infarto” disse, tornando a fissare la ciotola. Robert si ricordò solo allora delle raccomandazioni del dottore in merito alle sorprese, ma ormai era tardi, così decise di sorvolare, evitando inutili scuse. “Qualcosa non va?” Chiese, sperando che il lavoro lo rabbonisse. Geremia inclinò la ciotola ed i proiettili scivolarono verso il bordo. “Guardali” disse. Robert s’infilò un guanto in lattice e raccolse un proiettile. “Mi scusi” disse.
Geremia si spostò di lato, lasciando spazio al collega. Robert mise il proiettile sotto la lampada e lo fece ruotare lentamente. “Non ci sono striature” commentò, sorpreso. “Esatto.” “Ma non è possibile, o mi sbaglio?” “È possibile” disse il dottore. “Devi sapere che, sino al XV secolo, le canne delle armi da fuoco erano lisce. Le prime rigature comparvero verso metà del secolo, ma erano rettilinee e avevano come unico scopo quello di catturare i residui di polvere da sparo, facilitando l’inserimento di un nuovo proiettile che, come saprai, andava inserito direttamente dalla canna. Verso la fine del secolo si accorsero che una rigatura non rettilea, oltre a mantenere più pulita la canna, migliorava la precisione dell’arma, se abbinata ad una forzatura del proiettile. Il tipo di caricamento rendeva l’operazione pericolosa e ci vollero parecchi anni prima di ottenere sistemi efficienti. Nella seconda metà del XIX secolo, con l’introduzione della retrocarica, della polvere senza fumo e dei nuovi metodi per far aderire il proiettile alle rigature senza sforzo, il sistema divenne efficace e sicuro.” Robert guardò il dottore in estasi, adorava le sue spiegazioni, così ricche di tecnica e d’esperienza e pure così semplici, ma, in questo caso, non ne capiva la connessione. “Domande?” Chiese Geremia. “Una” rispose Robert, “cosa c’entra tutto questo col nostro proiettile?” “Voleva solo essere una piccola lezione sulle armi da fuoco e sulla balistica che, come punto finale, ti faceva capire che ci possono essere proiettili senza rigatura, solo questo.” “Grazie, io l’ascolto sempre volentieri, ma mi chiedevo se, ad oggi, esistono armi che possono sparare senza lasciare rigature, solo questo.” Geremia aprì un motore di ricerca e digitò “balistica forense”, scorse le pagine sino al paragrafo delle striature e lo mostrò al collega.
La riga, evidenziata in giallo, recitava queste parole: “Le armi da poligono di tiro possono denotare delle rigature che sono difficili da rilevare.” E poche righe sotto: “I criminali o chi lavora nei servizi di sicurezza, possono modificare le caratteristiche di un'arma per renderne più difficile l'identificazione.” Robert lesse attentamente il paragrafo poi, rialzandosi, commentò spaventato: “Ma se fosse così, probabilmente non è lo stesso assassino.” “Cosa già preventivata da Marcelo” rispose calmo Geremia, “e c’è un altro dettaglio che confuta la nostra ipotesi, i nodi sui polsi. I giornali non hanno fatto riferimento al tipo di nodi utilizzati e dalle fotografie è impossibile dedurli, quindi il nuovo S.I. non era a conoscenza della tecnica utilizzata precedentemente o, forse, non se ne è nemmeno preoccupato, sta di fatto che queste legature, a differenza di tutte le precedenti, sono classiche.” “E terribile” riuscì a balbettare Robert, “è già assurdo che qualcuno vada in giro ad uccidere persone innocenti, ma pensare che possa essere preso ad esempio da un'altra persona è davvero follia pura.” “Robert” disse Geremia, “se continuerai a fare questo lavoro, ti accorgerai di un terribile assioma legato alla medicina legale, quando pensi di aver raggiunto il limite della follia, scopri che questa si è già spostata cento metri più avanti e per quanto tu possa correre, non riuscirai mai a raggiungerla.” Le parole del dottore erano tanto terribili quanto realistiche e, anche Robert, se ne rendeva conto. Sfilò il guanto e lo lanciò in un cestino, attraversò la stanza e andò a sedersi dall’altro lato, in un angolo poco illuminato ed iniziò a piangere. Geremia si alzò, prese i proiettili e li mise in una busta, non sapeva se andare a consolarlo o lasciarlo solo, rimase nel dubbio alcuni istanti, poi decise di non intervenire, almeno non ora, uscì e si diresse all’auto.
Nello stesso momento, nel suo ufficio, Alvin era impegnato in un dibattito improduttivo col suo capo sezione, sull’importanza di risolvere il caso, più per compiacere al sindaco che non per una reale necessità, e la cosa lo mandava letteralmente in bestia. Schiacciò la cornetta nella sua sede e si alzò, proiettando la seggiola contro il muro. Uscì dall’ufficio e raggiunse il laboratorio. “Ditemi che abbiamo qualcosa” disse ai colleghi, “ve ne prego.” Sophie alzò la testa dal microscopio ed il sorriso che mostrò fu accolto come manna dal cielo. “Questa volta credo proprio di si” rispose la ragazza. “Mon amour” disse Alvin, schioccandole un bacio dalla distanza. “La tua pronuncia migliora di giorno in giorno” commentò Sophie. Alvin si avvicinò al tavolo ed attese un resoconto. “Guarda” disse Sophie, scostandosi dall’apparecchio. Alvin appoggiò gli occhi ed osservò l’immagine. Un capello, questa volta provvisto di follicolo, occupava l’intero vetrino e avrebbe dato un nome all’uomo della stanza 107. “Non può essere di Cooper?” Chiese timoroso il tenente. “Assolutamente no” rispose Sophie, “colore e diametro lo impediscono.” “E di qualcun altro?” “Ovviamente si, ma non credo. È quasi certamente del nostro S.I., fidati. Ora procedo all’estrazione del DNA.” Alvin non riusciva a gioire della cosa, non ancora almeno.
“Marcus?” disse il tenente. La grande massa si spostò, mostrando dei fogli lucidi utilizzati per il prelevamento delle impronte. “Mezza impronta” disse il ragazzo con la solita verve. “Mezza?” “Mezza.” Alvin si ricordò quanto fosse difficile estrarre parole da Marcus, così fece una domanda diretta. “Come hai fatto a rilevare mezza impronta?” Marcus mostrò la fotografia del tavolino presente nella camera. “Molto probabilmente il nostro S.I. ha ripulito tutto, poi ha appoggiato qualcosa sul tavolo, forse doveva chiudere un sacchetto, e, nel premere, una parte del pollice è rimasta sul tavolo senza che se ne rendesse conto.” Stewart divenne serio. “Cosa succede capo?” disse Sophie, “dovresti essere contento, due indizi in un’unica volta.” “Esatto” rispose avvilito, “nessun indizio in quattro omicidi e poi, improvvisamente, due in un colpo solo. O il nostro S.I. è diventato distratto, oppure non è la stessa persona.” Marcus non parlò, cosa più che normale, e si limitò ad inserire l’impronta ottenuta nell’AFIS, sperando in un riscontro. Sophie, ovviamente, fece l’opposto. “Senti, capo” disse, “il fatto che non abbia commesso errori fino ad ora non lo rende infallibile e, per un calcolo delle probabilità, il doppio errore potrebbe dipendere dall’eccessiva sicurezza nei suoi mezzi. Ha creduto di essere tanto bravo da non doversi impegnare al massimo e questo l’ha tradito. Non significa
necessariamente che sia un altro uomo e, comunque, queste prove ci permetteranno di arrestarlo e anche se fosse colpevole solo dell’ultimo omicidio, sarebbe comunque un bel risultato.” L’arringa di Sophie era stata coinvolgente e carica d’energia, degna d’un avvocato professionista, ma non sarebbe servita a molto. Alvin era preoccupato, come tutti, del fatto che esistesse un emulatore, ma mai quanto lo fosse per il vero S.I., per il quale non avevano ancora alcun indizio. “Appena avete dei risultati, chiamatemi” disse ai colleghi. Uscì dal laboratorio e si diresse verso i bagni. Entrò e controllò che non ci fosse nessuno poi colpì violentemente il distributore di salviettine, ammaccandone la cassa. Aprì l’acqua e mise la mano dolorante sotto il getto fresco, aspettandosi di sentire diminuire il dolore, ma non funzionò, così prese delle salviettine, si asciugò e tornò al laboratorio. Il cicalino che segnalava la fine del confronto suonò in contemporanea al suo ingresso. “Niente?” Chiese Stewart, conoscendo già la risposta. “Niente” rispose Marcus, “l’impronta è troppo ridotta per un riscontro.” Pochi attimi dopo anche il computer di Sophie suonò. “Merde” disse la ragazza. Stewart si avvicinò al monitor e lesse la scritta rossa che occupava metà dello schermo. “Nessun riscontro” L’espressione del tenente non cambiò, quasi fosse già al corrente del risultato. “Ci vediamo più tardi” disse, ed uscì. Nello stesso momento, a poche miglia di distanza, Elisabeth entrava nel
laboratorio del reparto informatica in cerca di un nome. “Avete trovato qualcosa?” Chiese fiduciosa. “Non proprio” rispose Sethi. “Cosa significa non proprio?” “Significa che le riprese non mostrano le targhe delle auto, o meglio, lasciano un angolo buio dove le macchine possono are senza essere riprese.” “Non esattamente” corresse Chandra, “forse abbiamo qualcosa.” Elisabeth si avvicinò curiosa, imitata dal collega, colto di sorpresa quanto lei. “Ho guardato e riguardato queste immagini per cercare un segno di riconoscimento e, forse, l’ho trovato.” Chandra posizionò il filmato alle 23.50 e bloccò l’immagine. “Quest’auto è arrivata con due uomini a bordo. L’immagine è troppo lontana e troppo scura per permetterne l’identificazione, ma sicuramente sono due uomini. La stessa auto si è allontanata alle 03.12 con un solo uomo, probabilmente l’assassino.” “Ok” disse Sethi, “ma non possiamo riconoscere l’uomo e tantomeno l’auto, quindi siamo fermi.” “Eravamo fermi” rispose Chandra, “ma non lo siamo più.” Il ragazzo mandò il video in avanti sino all’ora citata e fermò l’immagine. “L’auto costeggia il motel mantenendosi dal lato opposto al market, probabilmente era a conoscenza della telecamera, poi gira verso l’uscita e qui noi lo becchiamo.” “Non ci sono telecamere che inquadrano la strada da quel lato” commentò Sethi quasi seccato, “ho controllato due volte.” “Vero” ammise Chandra, “ma ce n’è una che inquadra il market.”
Nuovamente il ragazzo mise mano al mouse ma, questa volta, cambiò video, aprendo il file della telecamera posta all’uscita del parcheggio. Fece scorrere la barra sino all’ora interessata e bloccò l’immagine, lasciò il mouse e si spostò con un sorriso enorme, in attesa dell’applauso. “Bingo!” Disse. I due colleghi si avvicinarono al monitor per vedere meglio, ma non trovarono nulla che valesse tutta quella euforia. “Non vedete niente?” Chiese, sorpreso, Chandra. Lo sguardo imbarazzato dei due rispose per loro. Chandra riprese il mouse ed attivò l’ingrandimento sulla vetrina. “Ora?” Chiese speranzoso. Nessuna risposta. Chandra decise di evitare ulteriori umiliazioni e ingrandì di nuovo l’immagine, prese una matita e la ò sullo schermo. All’interno della vetrina, nell’area indicata da Chandra, si poteva vedere uno di quegli specchi a muro rotondi utilizzati per l’antitaccheggio. L’angolazione d’incidenza dell’inquadratura con lo specchio era tale da riflettere parte della strada all’esterno e, in quel momento, il retro di una Toyota Camry riempiva tutto lo spazio disponibile. Chandra avvicinò nuovamente la matita ed indicò una piccola macchia nera sulla carrozzeria bianca. Allargò nuovamente l’immagine e comparve un adesivo: “Carrozzeria Indianapolis” “È chiaro, ora?” Chiese Chandra. “Sei un grande” disse Elisabeth, “puoi stamparla?”
“Già fatto.” Prese il foglio dalla stampante o lo ò alla ragazza. Elisabeth lo guardò in estasi poi alzò una mano e attese il cinque dai colleghi che, puntuale, arrivò. Piegò il foglio ed uscì, doveva portare la buona notizia agli altri.
Capitolo 21
Geremia entrò per primo. Pennington si alzò e gli strinse la mano senza parlare. Alle sue spalle comparve Stewart che, con un’identica espressione sul viso, raggiunse la scrivania e salutò i colleghi. Marcelo entrò pochi attimi dopo e la scena si ripeté con le medesime modalità. Per ultimo si presentò Lecter, meno turbato dei colleghi o, forse, meno coinvolto emotivamente o, più semplicemente, più bravo a nascondere le emozioni. Salutò tutti e si sedette accanto alla finestra. L’arrivo di Elisabeth scosse l’atmosfera, attivando l’interesse dei colleghi. “Siete già tutti qui?” Chiese, quasi sorpresa. “Siamo arrivati adesso” la tranquillizzò Marcelo. Pennington vide l’euforia negli occhi della ragazza ed il foglio nelle sue mani ed ebbe un brivido. “Signori” disse, “per cavalleria, e soprattutto per lo slancio ottimista dimostrato, direi di far iniziare Elisabeth.” “Grazie capo” disse la ragazza. Guardò i colleghi, sventolando il foglio con l’immagine dell’auto. “Lo abbiamo in pugno” disse esaltata. “Sicura?” Chiese Marcelo.
“Sicura. I ragazzi sono riusciti ad estrarre un’immagine dell’auto che se ne andava e, sul retro, abbiamo trovato l’adesivo di una carrozzeria che elabora vetture da strada. Non è una targa, ma credo che una visita all’officina ci permetterà di risalire al proprietario.” L’effetto non fu quello previsto. Nessuno, tranne Pennington, sembrava aver capito l’importanza della scoperta. “Grande!” Disse il comandante, poi, guardando i colleghi ancora seri, cercò spiegazioni. “Scusate” disse, “Elisabeth ha appena risolto il caso e voi sembrate usciti da un funerale, c’è qualcosa che mi sfugge.” Il primo a prendere la parola fu Stewart. “Noi, la scientifica intendo, tecnicamente abbiamo un DNA e un’impronta parziale, entrambi senza riscontro nei database. Da soli non valgono nulla, ma diventeranno fondamentali quando saranno confrontati con quelli dell’eventuale sospetto, ma dubito che siano del nostro S.I. principale, troppi errori per un uomo, fino ad ora, impeccabile.” Pennington guardò Geremia che prese la parola. “I proiettili trovati devono essere analizzati dalla scientifica, ovviamente, ma vi posso già dire che non sono gli stessi dei primi quattro omicidi, sono dello stesso calibro, ma sono senza striature. Oltre a questo, i nodi utilizzati per legare i polsi sono generici, nulla a che vedere con quelli tecnici usati precedentemente. Inoltre, sotto il nastro adesivo che chiudeva la bocca non abbiamo trovato nulla, nessun biglietto, nessuna scritta.” Marcelo attese che il dottore finisse, poi chiarì la sua posizione. “A differenza dei colleghi, io non ho prove materiali della discordanza fra questo omicidio e gli altri ma, come già detto questa mattina, il luogo, la vittima e il modus operandi non collimano. Siamo ati da alberghi di alto livello, da 150 dollari a notte, per capirci, ad un motel per viaggiatori, da avvocati, mercanti d’arte, gioiellieri, ad un agente di commercio di una piccola azienda di aspirapolveri. Pur non essendo un esperto, non trovo un legame valido fra questo
omicidio e i precedenti, ma Edward potrà certamente fare una valutazione più tecnica.” Il comandante fece una panoramica sui suoi collaboratori, fermandosi su Lecter. “Sembra che tu sia il candidato a relatore unico di questa indagine” disse Pennington. “Sembra proprio di si” commentò Lecter, dopodiché prese il suo blocchetto con gli appunti e fece scorrere le pagine, come se volesse fare un riepilogo mentale di tutte le informazioni acquisite sino a quel momento. Chiuse il blocco, lo poso sulle gambe e guardò il comandante. “Purtroppo” disse, “ho brutte notizie. L’analisi dei colleghi è stata tecnicamente e deduttivamente di ottimo livello e non può portare che ad una conclusione: abbiamo un emulatore. Sono consapevole del dolore che provoco affermando questo, ne sono partecipe in prima persona, ma non posso non considerare i fatti nel loro insieme e nella loro autenticità. Abbiamo prove puramente tecniche fornite dal dottor Kruger, i proiettili ed i nodi sono diversi, e già questo, da solo, basterebbe a confermare l’ipotesi. Un cambio così repentino di due elementi fondamentali come l’arma del delitto e l’arma, se così la si può chiamare, di sottomissione, non è nemmeno da prendere in considerazione e non esiste riferimento nella letteratura storica. È vero, ci sono stati serial killer che hanno utilizzato armi diverse nella loro carriera, ma lo hanno fatto da subito. Il nostro S.I. ha mantenuto la stessa arma per quattro omicidi, difficilmente la cambierebbe, così come non cambierebbe il tipo di nodo. È probabile che questa legatura gli venga spontanea, deve averla usata spesso, forse per lavoro. La sua non è una scelta ragionata, ma solo il frutto dell’abitudine e, proprio per questo, non necessita di modifiche.” Come sua abitudine Lecter si prese una pausa, lasciando del tempo ai suoi attenti ascoltatori. “In secondo luogo” disse dopo un paio di minuti, “abbiamo delle prove che dimostrano un’imprecisione lontana dalle sue caratteristiche. Anche in questo caso, il numero di omicidi precedenti ha fornito una base di riferimento troppo
solida per poter essere considerata casuale. Non possiamo fare riferimento alla fortuna o ad una coincidenza, l’attenzione mostrata in precedenza è frutto di una preparazione meticolosa, quasi ossessiva, e non si perde quest’atteggiamento improvvisamente. Infine, ma non ultimo, l’insieme giustamente notato da Marcelo. Il luogo e la vittima sono troppo diversi da quelli precedenti e non si trova giustificazione al fatto. La scelta è sembrata sempre mirata e non frutto dell’occasione, quindi, come detto, il fatto che si tratti di un emulatore è più di un’ipotesi, è una certezza.” Il silenzio prese possesso della stanza e ne rimase padrone per alcuni minuti. L’euforia di Elisabeth, che aveva contagiato Pennington, era scemata velocemente nel nulla, cancellata dalle considerazioni dei colleghi e, come dopo una bella vacanza, il senso di frustrazione per il rientro alla vita normale aveva preso il sopravvento. “Possiamo comunque incastrare l’ultimo assassino” disse timidamente Elisabeth. “Questo è sicuro” commentò Marcelo. “D’accordo” disse il comandante, “voi occupatevi del nuovo killer, ci risentiamo per gli aggiornamenti.” Si alzarono tutti e lasciarono mestamente la stanza. Nessuno aveva mai affrontato un caso così complesso e così grave e tutti si sentivano impotenti davanti ad un avversario tanto attento quanto pericoloso, ma non avevano alcuna intenzione di mollare, avrebbero fatto il possibile, gli sarebbero stati addosso fino all’errore fatale, perché l’avrebbe commesso, prima o poi. Elisabeth raggiunse il suo ufficio e si sedette alla scrivania, doveva rintracciare la carrozzeria. Non ci volle molto, internet forniva nomi, indirizzi ed immagini per quasi tutto, che uno lo volesse o no. Marcelo entrò in ufficio e si avvicinò alla scrivania. “Non sederti” disse Elisabeth, “dobbiamo andare.”
Annotò l’indirizzo su di un foglio e lo ò al collega. 909 Eastport road Marcelo non si sorprese. La strada indicata era solo a cinque o sei miglia dal luogo dell’omicidio e, probabilmente, non lontano dall’abitazione del sospettato. “Andiamo” disse. Uscirono e si diressero all’auto. Ripresero l’interstatale verso l’aeroporto ma, raggiunto il grande raccordo con la Beltway, svoltarono ad est, dirigendosi verso il mare. Uscirono dalla superstrada e si diressero verso l’incrocio con la Eastport. “Da che parte?” Chiese Marcelo. “A destra” rispose Elisabeth. Marcelo ubbidì, percorse poche centinaia di metri e vide l’insegna della carrozzeria. Raggiunse il piazzale e si fermò. Scesero dall’auto e notarono le saracinesche dei garage abbassate. “Guardo sul retro” disse Marcelo. Elisabeth annuì e si spostò verso quello che, a prima vista, sembrava un ufficio. La porta era chiusa ed un biglietto sul vetro indicava che lo sarebbe rimasta sino al giorno seguente. Marcelo tornò e vide Elisabeth ridiscendere i gradini scocciata. “Viaggio inutile” disse la ragazza, “oggi è chiuso perché sono senza corrente, li troviamo domani.” Marcelo incassò il colpo e tornò all’auto.
“Che facciamo?” Chiese alla collega, prima di salire. Elisabeth non rispose, ma infilò una mano in tasca e tolse il cellulare. “Scusa” disse allontanandosi. Marcelo attese pazientemente, cercando di organizzare un’alternativa. Quando ebbe finito la telefonata, Elisabeth tornò verso l’auto. “Era mia madre” disse, “mi ha chiesto se posso are a farle la spesa.” “Certo” rispose Marcelo, poi, dopo un attimo di tentennamento, disse: “Posso farti una domanda personale?” Elisabeth lo fissò e rispose. “Quanto personale?” “Non troppo. Volevo solo sapere perché quando parli con tua madre o tuo marito cambi accento.” “Davvero?” Disse Elisabeth, “non l’avevo notato.” “Non sto scherzando. È come se partisse un nastro registrato con la tua voce, ma con un accento diverso.” “Probabilmente perché loro non sono di qui ed io, inconsciamente, mi adeguo al loro modo di parlare, altrimenti non me ne spiegherei il motivo.” “Probabile” disse Marcelo, “scusa se te l’ho chiesto, era solo una curiosità.” “Figurati, per così poco.” Salirono in auto e tornarono alla centrale. “Lasciami pure qui” disse Elisabeth, “entro direttamente nel parcheggio, ci vediamo domani.” “Ok, buona serata” rispose Marcelo.
Elisabeth scese, entrò nel parcheggio della polizia per uscirne due minuti dopo con la sua auto. Decise che si sarebbe fermata al centro della Publix sulla Atlantic, era di strada e ben fornito, così fece inversione e si diresse verso il Commodore Point. Il viaggio fu breve e tranquillo, dieci minuti dopo l’auto di Elisabeth entrava nel grande parcheggio del centro commerciale e si fermava davanti ad uno degli ingressi. Prese un carrello e si diresse verso il supermercato. Fare la spesa, quella di casa, era un diversivo, più rilassante dello shopping classico. Sapeva che la maggior parte delle donne l’avrebbe considerata pazza per questo, ma poco importava, a lei faceva questo effetto e nessuno poteva impedirglielo. Estrasse la lista con la sua spesa e quella con le cose richieste da sua madre ed iniziò a zigzagare fra le corsie, cercando, senza molta fortuna, di non assomigliare ad una pallina da flipper impazzita. Faceva la spesa come faceva tutte le altre cose della sua vita, in modo confuso. ava più volte nella stessa corsia, buttava gli articoli alla rinfusa nel carrello, dovendo poi rimetterli in ordine per poter inserire altre cose, metteva cose leggere sul fondo e poi le spostava quando sopra doveva posare le confezioni d’acqua. Era il suo modo d’essere e difficilmente sarebbe cambiato. Dopo aver percorso parecchi chilometri, decise che aveva tutto l’occorrente, uscì dal supermercato e si diresse verso la casa di sua madre. Fermò la macchina nel vialetto d’ingresso, scese, aprì il baule e prese le buste della spesa, raggiungendo l’ingresso dal piccolo vialetto lastricato di pietra bianca. “Mamma” disse entrando. “Sono di sopra.” Elisabeth entrò in cucina e posò i sacchetti sul tavolo.
Aprì il frigorifero ed iniziò a togliere le cose che, ad occhio, sembravano ormai vecchie. Decise che, per velocizzare l’operazione, era il caso di utilizzare direttamente il bidone dell’immondizia. Prese il secchio e lo posò davanti al frigorifero, usandolo come un canestro da basket. “Mamma” disse, “quante volte ti ho detto di controllare il frigorifero? Se non lo fai, prima o poi prenderai qualche virus o simili e ti ammalerai, non c’è da scherzare.” “Hai ragione, lo farò.” “È ora che tu ti decida, dici in continuazione che ti metterai d’impegno, ma non inizi mai a farlo.” Elisabeth prese una spugna e pulì i ripiani del frigorifero, poi li asciugò con della carta da cucina. Ordinò le cose ancora utilizzabili e mise la spesa sui ripiani ormai semivuoti. Raccolse il sacco dal bidone e si diresse alla porta. “Io vado, ci sentiamo” disse uscendo. “Va bene, ciao.” Risalì in auto e si diresse verso casa, la sua giornata non era ancora finita.
Capitolo 22
Marcelo entrò in ufficio e trovò Elisabeth già alla sua postazione. “Già qui?” Disse. “Ho accompagnato mio marito al lavoro, la sua auto non partiva, così ho pensato che fosse inutile tornare a casa e sono venuta direttamente in centrale.” “Giusto” commentò Marcelo. “Ho provato a chiamare la carrozzeria” lo informò la ragazza, “ma non risponde nessuno, apriranno più tardi.” “Probabile, comunque li sentiamo prima di muoverci, anzi, forse non è il caso di dirgli che siamo della polizia, potremmo allarmare il sospettato, restiamo in incognito.” “Ok, ci penso io.” “Che ne dici di un caffè intanto che aspettiamo?” Chiese Marcelo. “Perché no, un caffè mi serve proprio.” Uscirono dall’ufficio e raggiunsero l’area ristoro, dove Gunnarsson e Sainz stavano nuovamente discutendo sull’origine delle canzoni. “Ottimo” disse Sainz vedendoli arrivare, “abbiamo degli esperti.” “Cosa c’è questa volta” disse Marcelo, “volete sapere chi ha scritto l’inno americano?” “No” rispose Sainz, “vorremmo sapere chi ha scritto Cocaine.” Elisabeth si sentì osservata e si chiamò fuori.
“Non guardate me” disse, “io non so nemmeno chi ha scritto l’inno.” Marcelo sorrise, imitato dai colleghi. “Vediamo” disse, “se non erro, Cocaine è stata scritta da J.J. Cale nel 1976 e pubblicata lo stesso anno. L’anno dopo Eric Clapton ne ha registrato una sua versione che ha avuto un successo mondiale.” Sainz si voltò verso Gunnarsson felice come un bambino. “Deduco che abbia vinto tu” disse Marcelo. “Esatto. Io non ricordavo il nome dell’autore, ma sapevo per certo che non era Clapton, ma il nostro collega non voleva sentir ragione. Ora è sistemato” commentò, soddisfatto, Sainz. I due scommettitori, più o meno appagati, si diressero verso il loro ufficio, mentre Marcelo ed Elisabeth si avviarono all’area ristoro. “Latte e zucchero?” Chiese Marcelo. “Sì, grazie.” Versò una generosa dose di caffè alla quale aggiunse due cucchiaini di zucchero ed un sorso di latte, mescolò il tutto e lo porse alla collega. “Grazie, troppo gentile” disse Elisabeth con un sorriso che avrebbe sciolto un iceberg. “Di nulla” rispose Marcelo quasi intimidito. Si versò una piccola dose di caffè e si appoggiò al muro. “Se dovessero darci un nome, cosa probabile, ci servirà un mandato” pensò Marcelo ad alta voce. “Ho già parlato con il capo” rispose Elisabeth, “il procuratore aspetta solo di sapere il nome da aggiungere al documento.” “Efficienti” commentò ironico Marcelo.
Finirono il caffè, buttarono i bicchieri nel cestino e tornarono in ufficio. Elisabeth entrò nella stanza, mentre Marcelo venne trattenuto dal comandante. “Come vanno le cose col marinaio?” Chiese Pennington a bassa voce. “In teoria, bene. Ha promesso che farà il possibile per darci informazioni e credo che manterrà quanto detto, il punto, casomai, è capire se e quando potrà dirci qualcosa di utile.” “Almeno abbiamo una probabilità” commentò il comandante. Marcelo annui e rientrò in ufficio. “Ci vediamo fra un’ora, grazie e buona giornata.” Elisabeth posò la cornetta e guardò Marcelo. “Ci aspettano” disse, “credono che voglia personalizzare la mia Camaro, non sospettano nulla.” “Ottimo lavoro, andiamo.” Uscirono e raggiunsero l’auto. “Non è un po’ presto?” Chiese Elisabeth. “Sì, credo di sì, ma ho dimenticato delle chiavi nel furgone del corriere e volevo are a prenderle.” “Non è pericoloso?” Chiese la ragazza. Marcelo non rispose subito, valutò la situazione e dovette, suo malgrado, dare ragione alla collega. “Effettivamente” disse, “sarebbe stupido buttare tutta questa copertura per un mazzo di chiavi, le prendo la prossima volta.” “Ottimo, ma visto che ormai siamo partiti, ci potremmo fermare cinque minuti al Budweiser Brewery Tours? È sulla Busch drive.”
“Hai in programma una festa?” Chiese Marcelo. “Mio marito, non io. Ha un raduno di ex compagni di scuola e vuole portare qualche birra.” “Non c’è problema.” Arrivarono allo stabilimento che si trovava a metà strada fra la centrale e la carrozzeria ed entrarono nel parcheggio. Un enorme giardino con prato all’inglese costituiva la barriera divisoria fra gli uffici e la statale e dava un tocco di colore ad una zona particolarmente grigia. Il palazzo con gli uffici si presentava con una struttura simile ad una chiesa, ma era completamente di vetro, sovrastato da una gigantesca scritta rossa che ricordava il marchio prodotto. Lasciarono l’auto in uno dei posti all’ombra e si diressero verso l’ingresso dello spaccio. Un’enorme porta di legno, con incise le iniziali dell’azienda, occupava gran parte della parete d’accesso. Superarono il pesante portone e si presentarono ad un addetto all’interno. L’uomo si avvicinò con la classica polo bianca su cui spiccava il logo della birra, completo di coroncina dorata. “Buongiorno” disse, “come posso esservi utile?” “Buongiorno” rispose Elisabeth, “avrei bisogno di quattro confezioni da ventiquattro, se possibile.” “Lattina o bottiglia?” Elisabeth guardò Marcelo in cerca di un consiglio. “Bottiglia” disse lui. “Bottiglia” ripeté la ragazza.
“Torno subito” disse il ragazzo. Nell’attesa, si misero a eggiare per la sala, fermandosi a guardare i vari quadri che riportavano le pubblicità utilizzate dall’azienda nel corso degli anni. Il locale non era particolarmente grande, in fin dei conti serviva solo come punto d’accesso al magazzino, ma rappresentava al meglio l’immagine della ditta e del suo prodotto. Al centro della sala spiccava un antico carro rosso, con le classiche ruote di legno a raggi e dei cartoni di birra arancioni che riempivano tutto il cassone. Era l’immagine che impersonava al meglio un marchio famoso da più di centocinquant’anni, e non necessitava di didascalie o spiegazioni di nessun genere. “Quattro confezioni da ventiquattro?” Disse, improvvisamente, Marcelo. Elisabeth si voltò, sorpresa dalla frase. “Qualche birra” riprese Marcelo, “dalle mie parti significa una confezione da sei, non un centinaio.” “Io non c’entro, eseguo solo gli ordini” rispose Elisabeth sorridendo. La porta sul fondo della sala si aprì e apparve un piccolo carrello da cucina spinto dal ragazzo in polo bianca. Si fermò davanti alla cassa e prese i documenti di trasporto. “Dovrebbe farmi una firma in fondo alla pagina” disse. “Cosa sono?” Chiese Elisabeth. “Sono bolle di consegna” rispose il ragazzo, “quando la quantità supera le cinquanta unità, diventano obbligatorie.” Elisabeth firmò i documenti ed estrasse il portafoglio, prese la carta di credito e la ò al commesso. “Grazie” disse il ragazzo poco dopo, “ecco la ricevuta.”
Tornò al carrello ed iniziò a spingerlo. “Ve le porto alla macchina” disse. Uscirono insieme, raggiunsero la Charger e caricarono i cartoni nel baule, riempiendolo completamente. “Grazie e buona giornata” disse il commesso con tono molto sincero e non di circostanza. “Grazie” rispose Elisabeth, “buona giornata anche a lei.” Salirono in auto, l’officina sarebbe stata la loro meta successiva. Dieci minuti dopo, la Charger entrò nel piazzale dell’officina. Marcelo fermò l’auto accanto all’ufficio, scesero e controllarono la situazione. “Entriamo insieme?” Chiese Elisabeth. “Meglio” rispose Marcelo. Salirono i gradini che portavano all’ingresso e bussarono. “Avanti” disse una voce roca dall’interno. Entrarono e l’odore forte di tabacco l’investì come un’onda di marea. Un uomo sulla quarantina, capelli a spazzola e canottiera se ne stava alla scrivania, avvolto da una nuvola di fumo grigio, generata dalla sigaretta che teneva in bilico fra le labbra. “Cosa posso fare per voi, giovanotti” disse senza nemmeno alzare lo sguardo. Marcelo tolse dalla tasca il distintivo e lo avvicinò all’uomo che, a quel punto, dedicò la massima attenzione ai suoi ospiti. “Qui è tutto in regola” disse timido, “non facciamo nulla d’illegale.” “Non siamo qui per questo” rispose Marcelo, “almeno non ancora. Ci servirebbe il nome di uno dei suoi clienti, se possibile.”
“Certo” rispose ancora preoccupato l’uomo. “Ha una Toyota Camry bianca, non sappiamo altro.” “Zachary” disse immediatamente l’uomo, “solo uno come lui può portare da noi una Camry e sperare di renderla un’auto.” “Questo Zachary ha un cognome e, magari, un indirizzo?” Chiese Marcelo. “Certo” rispose l’uomo, spegnendo la sigaretta. Prese una rubrica e sfogliò le pagine. Estrasse un’altra sigaretta e l’accese, inondando nuovamente la stanza di fumo grigio e pesante. “Sullivan, Zachary Sullivan, 11779 Dunn Creek Road” disse un attimo dopo. “Grazie” rispose Marcelo. “Scusate” continuò l’uomo, “posso sapere cos’ha combinato?” “No, non può” rispose Marcelo ed uscì. “È a cinque minuti da qui” disse Elisabeth, “vai a sud e al prossimo incrocio giri a sinistra.” Marcelo partì con un leggero stridio delle gomme, era nervoso e si vedeva. Svoltarono sulla Dunn Creek, una lunga lingua d’asfalto che penetrava un’area piena di alberi e con poche abitazioni nascoste all’interno della vegetazione. Raggiunta la metà della strada, rallentò per controllare il numero civico. “11420” disse Elisabeth. “Quanto è lunga questa strada?” Chiese Marcelo perplesso. “In realtà non troppo” rispose Elisabeth, “solo che la numerazione inizia dal numero 11200, non ne capisco nemmeno io il motivo.”
Marcelo sbuffò, ancora più nervoso di prima. Proseguì lentamente, i numeri non erano sempre segnati e le case erano spesso nascoste tanto bene da risultare inesistenti. Giunti all’incrocio con la Howard si fermarono di scatto. “11783, la nostra casa dev’essere prima” disse Marcelo. Fece retromarcia lentamente, sino ad una piccola stradina fra gli alberi, posta perfettamente in linea con la Howard. Solo una minuscola cassetta della posta indicava la presenza di un’abitazione. Marcelo entrò lentamente nel viale e s’inoltrò nella vegetazione. Un cartello bianco a metà percorso rendeva alla perfezione l’idea di ciò che li aspettava. Il disegno di un fucile con un’enorme scritta rossa al di sotto, erano un biglietto da visita esplicativo. KEEP OUT OR DOWN Recitava il cartello e, se non fosse stato così importante, lo avrebbero certamente assecondato, ma non potevano permetterselo, non ora. Superarono una curva e raggiunsero una grande casa bianca con una casetta, presumibilmente il capanno degli attrezzi, poco lontano dall’ingresso principale. Fecero un piccolo cerchio, fermando l’auto già rivolta verso l’uscita. Scesero e si avvicinarono alla porta. “Può essere pericoloso” disse Marcelo, “tieniti pronta. Io busso, tu copri il retro.” Elisabeth estrasse la pistola e costeggiò la casa. Marcelo attese che fosse in posizione e bussò. “Signor Sullivan, polizia.”
Attese qualche istante e, non ricevendo risposta, riprovò con più energia. “SIGNOR SULLIVAN, APRA, POLIZIA.” Di nuovo il silenzio assoluto. Marcelo si spostò, cercando di controllare dalle finestre, ma non notò movimenti di alcun genere. “Da qui sembra deserto” disse Elisabeth all’auricolare. “Anche qui” rispose Marcelo. La ragazza fece il giro della casa e raggiunse Marcelo all’auto. “Non c’è nessuno” disse, “lo aspettiamo?” “Perché no” rispose Marcelo, “una pattuglia è andata sul posto di lavoro, ma se ne era già andato. Abbiamo diramato la segnalazione dell’auto, non può andare lontano e, quasi certamente, cercherà un posto sicuro, senza considerare che è anche il primo posto dove lo cercherebbe chiunque.” Arretrò con l’auto, mantenendola fuori dalla linea visiva di chi si fosse trovato a are sulla via, almeno sino a che non avesse raggiunto il piazzale davanti alla casa, ed attesero. “Cosa darei per un caffè” disse Elisabeth mezz’ora dopo. “Già” sospirò Marcelo, “ci vorrebbe proprio.” “Pensi che sia così sciocco da tornare a casa?” “È un uomo di trentotto anni che vive da solo in una casa sperduta nel bosco e, a quanto pare, tiene moltissimo alla sua solitudine. Probabilmente considera la sua casa come il suo regno, un posto dove lui solo comanda e dove non può essere infastidito. È il suo rifugio primario, la sua area sicura, verrà, sa che rischia molto, ma non può farne a meno.” Elisabeth guardava il collega con la curiosità di un bambino che vede una trebbiatrice.
“Sempre più profiler” disse, “stai studiando per cambiare professione?” “No” rispose Marcelo sorridendo, “ma, come ti ho detto, mi diverto a guardare serie televisive poliziesche e, volere o no, immagazzini tante informazioni che poi utilizzi nella realtà. Quanto queste informazioni siano valide è tutto da dimostrare.” “Ma non è pericolosa questa tendenza?” Chiese Elisabeth titubante. “In che senso?” “Far vedere in televisione le tecniche degli assassini e quelle della polizia potrebbe dare alla gente spunti pericolosi, aiutarli a migliorare i loro piani, o, semplicemente, far capire le nostre procedure, i nostri punti di forza e i nostri punti deboli, agendo di conseguenza.” Marcelo rimase a sentire, riflettendo sulle ipotesi della collega e considerando che, in fin dei conti, non aveva poi del tutto torto. “In effetti” disse, “potrebbe essere possibile, ma devi considerare che le procedure televisive non sono reali e non sono mai complete. Certo, qualche idea la potrebbero fornire, ma non credo sia sufficiente a rendere un assassino tanto bravo da diventare imprendibile.” Elisabeth non commentò, ma l’espressione non era delle più convinte. Il caldo era fastidioso e, nonostante fossero all’ombra di un’enorme quercia, la temperatura iniziava a farsi sentire e nessuno dei due aveva voglia di parlare, come se la cosa contribuisse ad aumentare l’effetto forno all’interno dell’auto. Elisabeth resistette per un po’, poi iniziò un nuovo argomento. “Senti” disse. Marcelo la zittì con una mano e lei ci rimase male, ma poi capì. Il rombo di un’auto si era fatto molto vicino, probabilmente era giunta l’ora. “Aspettiamo che scenda dall’auto” disse Marcelo, “sarà più facile catturarlo.”
Rimasero immobili con il motore in attesa del momento adatto per intervenire. Zachary giunse davanti alla casa a velocità elevata, bloccò le gomme e si fermò davanti al capanno degli attrezzi. Scese, lasciando la portiera aperta ed entrò in casa. Marcelo partì, fermando l’auto dietro la Toyota e bloccando la via di fuga. Scesero e raggiunsero i due accessi della casa, come già fatto in precedenza, ma a posizioni invertite. Elisabeth utilizzò l’ingresso principale, lasciato aperto dal sospettato, mentre Marcelo ò dal retro. Al via, Marcelo sfondò la porta ed irruppe nella cucina. “POLIZIA” urlò, “VIENI FUORI CON LE MANI IN ALTO.” Nessuno rispose. Elisabeth controllò il salotto e si unì a Marcelo all’inizio delle scale. “Io salgo” disse l’uomo, “tu copri la balaustra.” Elisabeth annuì. Non era molto esperta d’inseguimenti e scontri a fuoco e l’adrenalina rischiava di farla bloccare. Cercò di respirare a fondo e mantenere la calma, dopotutto era un poliziotto. Marcelo salì i primi gradini e giunse al pianerottolo di mezza scala, controllò in alto, ma non vide nessuno, così fece un cenno alla collega che lo raggiunse, rimanendo in copertura sino a che Marcelo non avesse raggiunto il piano superiore. Una volta controllato il corridoio, aspettò che la ragazza salisse le scale. “Dividiamoci” disse Marcelo. Si diresse verso sinistra, lasciando il lato destro alla ragazza.
All’improvviso una porta si spalancò e Zachary uscì, sparando alla cieca. Marcelo si buttò a terra, cercando riparo dietro ad un provvidenziale cassettone. Elisabeth, dall’altro lato del corridoio, si tuffò nella camera nella quale stava per entrare, colpendo con una spalla lo stipite della porta. Zachary arretrò verso la finestra, continuando a sparare, senza molta precisione, per loro fortuna. Giunto ad un paio di metri dal muro, si voltò e si lanciò contro il vetro, sfondandolo. Ricadde sulla tettoia sottostante, rotolò sino al bordo e cadde davanti all’ingresso. Marcelo si rialzò e vide Elisabeth uscire dalla stanza stringendosi una spalla. “Ti ha colpita?” Chiese, preoccupato. “Ho preso la porta” rispose lei, quasi vergognandosi. Scesero le scale di corsa e raggiunsero l’ingresso. “Deve scappare a piedi” disse Marcelo, “l’auto è bloccata.” Uscirono giusto in tempo per vedere la Toyota partire a razzo, sfondare il capanno degli attrezzi e piombare nel prato accanto alla casa. Zachary proseguì a tavoletta, strappando l’erba del prato, sino a raggiungere una piccola strada sterrata che ava dietro alla casa. Una nuvola di polvere si alzò dal retro dell’auto e nascose tutta la vista. Marcelo, sorpreso, salì in auto, imitato dalla collega, e partì, dirigendosi sulla strada. S’immise sulla Dunn Creek senza troppi riguardi, divenendo bersaglio delle ire e degli insulti di alcuni automobilisti di aggio. “Reggiti” disse.
Svoltò sulla Davis talmente forte da far sollevare le ruote dal lato interno, ma non lasciò l’acceleratore. La Toyota sbucò dalla stradina laterale, infilandosi poche centinaia di metri davanti a loro. Raggiunto l’asfalto, l’auto s’imbarcò a causa della differenza d’aderenza, ma Zachary la controllò senza troppi problemi. L’auto bianca, nonostante le perplessità del meccanico, aveva buona velocità e ottima maneggevolezza e Marcelo faticava a mantenerne il o. Elisabeth prese il ricevitore e chiese assistenza. “Sono Wright” disse, “stiamo inseguendo una Toyota Camry bianca con a bordo un ricercato per omicidio. È sulla Davis, direzione sud.” “Ricevuto” rispose la centrale, “organizziamo dei posti di blocco.” “Tieniti” disse Marcelo. Elisabeth fece appena in tempo a stringere la maniglia della portiera, dopodiché Marcelo frenò bruscamente e si buttò in una strada laterale. “Che fai?” Chiese Elisabeth, “così lo perdiamo!” “Se non ricordo male, questa strada ha solo vie chiuse e si congiunge alla Faye, tornando verso la città, se riusciamo a are gli tagliamo la strada.” Elisabeth guardò avanti e non vide una strada, ma non disse nulla. Marcelo proseguì sino ad un’abitazione e si fermò bruscamente. Elisabeth stava per protestare, ma lui ripartì, tagliando per un prato. L’auto sbucò nel piazzale di un’altra casa, dalla quale partiva una nuova, piccola strada. Marcelo diede gas, alzando una nube di polvere alta parecchi metri e infilò la via che l’avrebbe portato sul suo obiettivo.
Proseguì sulla strada, parallela alla superstrada, controllando che non ci fossero sottoaggi che portassero sulla Faye. Sbucò nuovamente sulla Dunn Creek e svoltò a sinistra, cercando d’intercettare il fuggitivo. “Abbiamo un posto di blocco sulla Faye, all’altezza dell’autodemolitore, spingetelo qui” disse un agente alla radio. Marcelo diede gas, doveva raggiungere l’incrocio prima che Zachary svoltasse. Zachary, dal canto suo, faceva lo stesso per riuscire a sgusciare dalla trappola. La Toyota bianca procedeva verso l’incrocio a tutta velocità così come la Charger nera. Il primo ad arrivare avrebbe vinto la sfida, se non si fossero colpiti, eventualità alla quale nessuno dei due aveva ancora pensato. Dall’alto, i due puntini colorati sembravano parte di un livello di Pacman, il fantasmino e la palla gialla che lottano nel labirinto di vie, sperando di arrivare prima dell’avversario al pallino magico che invertirebbe i loro ruoli. Marcelo si avvicinava velocemente all’incrocio e non dava segno di voler rallentare. Elisabeth puntò i piedi e strinse la maniglia della portiera. Pensò che non si sarebbe fermato, che avrebbe spinto sino a centrare l’auto o sarebbero finiti nei campi. Chiuse gli occhi e cercò di non urlare. Improvvisamente il bloccaggio delle ruote, che nemmeno l’ABS riusciva a gestire, esplose con uno stridio violento e diede il preavviso dell’imminente impatto. La Charger scartò a sinistra e poi s’intraversò, mettendosi perpendicolare alla strada, ma senza fermarsi.
Scivolava lateralmente sulle quattro ruote e se, per caso, quelle di sinistra si fossero bloccate, avrebbe iniziato a ribaltarsi. Elisabeth sentì il medesimo fischio provenire dall’altra auto e strinse i denti. La Toyota sbandò. Zachary vide la macchina in mezzo alla strada e, per un attimo, pensò che avrebbe potuto are. Lasciò i freni e cercò d’indirizzare la sua Camry fra la Charger ed il fossato, poteva are. Marcelo capì le sue intenzioni e sterzò bruscamente. Per sua fortuna la velocità era diminuita e l’auto, anziché iniziare a roteare per poi ribaltarsi, fece solo un giro, mettendosi sempre di traverso ma dall’altro lato e, soprattutto, molto più vicino al fossato. Zachary rimase sorpreso, sterzò rapidamente, riportando l’auto verso la strada. Lo scarto era stato troppo veloce e la macchina iniziò a ondeggiare e solo gestendo l’effetto pendolo Zachary evitò di finire nel campo. Riprese la linea e ridiede gas. Si voltò a controllare, ma vide la Charger ferma all’incrocio, avevano rinunciato. Sorrise e tornò a guardare la strada, ma era troppo tardi. La fila chiodata stesa a terra gli perforò le gomme, costringendolo ad una fermata improvvisa quanto definitiva. L’auto si trascinò per alcune decine di metri e finì la sua corsa sul ciglio della strada. Zachary aprì la portiera, ma non scese. Alcuni agenti, con tanto di fucili a pompa, lo aspettavano a pochi metri dall’auto, tentare la fuga sarebbe stato inutile.
Alzò le mani e, lentamente, uscì dall’auto. Gli agenti lo immobilizzarono ed attesero l’arrivo dei detective. “Mi hai fatto morire di paura” disse Elisabeth, ancora aggrappata alla maniglia. “Scusa” rispose Marcelo, “era l’unico modo per non farlo are.” “Ok, ma vedi di non rifarlo.” “Promesso” rispose Marcelo sorridendo. “E le mie birre?” Chiese, sorridendo. “Dal fatto che non si senta nessun odore, direi che sono salve, però controlliamo, al massimo riiamo nel ritorno” rispose Marcelo, ricambiando il sorriso.
Capitolo 23
Sullivan era immobile, le mani bloccate dalle manette fissate al tavolo, lo sguardo basso perso nel vuoto. Marcelo entrò e chiuse la porta. “Signor Sullivan, sono il detective Morales” disse, appoggiando una cartelletta sul tavolo. L’uomo alzò lo sguardo ed un sorriso inquietante fece capolino sul suo viso. “Fa bene a ridere adesso” disse Marcelo, “perché quando avrò finito, non ne avrà più voglia.” L’uomo non reagì, continuando a guardarlo con quello strano ghigno. Marcelo aprì il raccoglitore ed estrasse la fotografia di Cooper. “Ha fatto lei questo?” Chiese, voltando la fotografia in direzione di Sullivan. L’uomo si portò vicino la fotografia e la guardò come se fosse un quadro di Van Gogh. Il sorriso si aprì e gli occhi s’illuminarono. “Bello, vero?” Disse. “No” rispose Marcelo, “tra l’altro non mi vanterei troppo per aver copiato, e male, un altro folle.” Sullivan cercò di alzarsi di scatto, ma le catene lo tennero bloccato alla seggiola. “E non farei tanto il gradasso” riprese Marcelo, “io non sono Cooper, le posso fare parecchio male.”
“Crede?” “Ne sono certo.” La lotta di sguardi proseguì per alcuni istanti, poi la porta si aprì ed Elisabeth entrò nella stanza. Sullivan si voltò a guardarla e il ghigno sul suo viso riapparve prepotentemente. “È questo l’idiota del motel?” Chiese, senza degnarlo di uno sguardo. Di nuovo Sullivan tentò di reagire, ma con il medesimo risultato precedente. Marcelo annuì. “Credi che sia abbastanza intelligente da mettere in atto tutta quella messinscena?” Chiese ancora la ragazza. L’espressione di Marcelo lasciò intravedere un certo pessimismo in merito, ma non disse nulla. “Sentitemi bene” disse Sullivan, interrompendo un fastidioso silenzio, “se cercate d’innervosirmi per farmi confessare, vi avviso che siete sulla strada sbagliata, vi ci vuole ben altro.” Marcelo si sedette davanti all’uomo e lo fissò. “Senti genio” disse con tono autoritario, “abbiamo un tuo capello, una tua impronta e le riprese della tua auto che lascia il parcheggio, non ci serve una confessione, sei stato abbastanza stupido da voler copiare un altro e, come se non bastasse, ne hai scelto uno tosto e ti sei fregato da solo. Però puoi migliorare la tua posizione.” “Migliorare?” ripeté Sullivan, “se mi accusate di omicidio, non vedo cosa potrei migliorare.” “Prima di tutto, c’è una bella differenza fra l’ergastolo e la pena di morte e, nel caso tu fossi particolarmente fortunato, ti assicuro che un carcere di massima sicurezza con isolamento continuo non è paragonabile ad un carcere comune, quindi, anche se ti potrà sembrare strano, le cose potrebbero migliorare, sempre
se ci aiuti.” “E cosa volete da me?” Chiese stupito Sullivan. “Abbiamo chiarito che l’idea non è tua e nemmeno gli altri omicidi. Tu hai trovato la cosa interessante e hai voluto diventare interprete di un sequel. La domanda che ci poniamo è questa: alcuni particolari degli omicidi precedenti non erano stati diffusi dalla stampa e non erano ricavabili dalla fotografia, ma tu ne eri a conoscenza, vogliamo sapere come è possibile?” “Ho visto le fotografie su internet” disse Sullivan, stupito dalla banalità della domanda. “Su internet?” Ripeté Elisabeth. “Ovvio.” “Sapresti darci il sito?” Chiese Marcelo, aprendo il blocchetto degli appunti. “Il sito?” ripeté Sullivan sorridendo, “Certe cose non si trovano sui normali siti, non esistono link pubblicitari, dovete viaggiare nel deep web.” I detective si guardarono confusi, come se l’uomo avesse parlato in una lingua antica e sconosciuta. Marcelo alzò la cornetta e fece un interno. “Chandra, puoi venire da noi? Grazie.” Pochi istanti dopo, il tecnico indiano entrò nella sala interrogatori. “Buongiorno ragazzi” disse, “come posso aiutarvi?” “Il nostro amico si è messo a parlare in tecnichese, ci serve un traduttore” rispose Marcelo. Chandra si sedette davanti a Sullivan e si sistemò la camicia. “Potrebbe ripetere anche a me quello che ha detto ai miei colleghi?” Disse. “Ho detto che per vedere il sito che vi interessa, dovete andare nel deep web.”
“Hai usato un Middleman? “Stai scherzando?” Rispose Sullivan ridendo, “cose come queste girano solo sui Bridge.” “Ovvio” commentò Chandra, scuotendo la testa, “mi servono le tue credenziali, utente, e l’elenco dei Bridge che hai usato.” “Vuoi anche cappuccio e brioches?” Chiese ironico Sullivan. “Magari” intervenne Marcelo, “ma aspettiamo di aver finito con quest’interrogatorio, potrebbero non bastarti.” La minaccia, non troppo velata, fece cambiare l’espressione di Sullivan repentinamente. Guardò nel vuoto per un po’, poi fece una panoramica dei presenti, infine sospirò, conscio, finalmente, che un alleggerimento della pena non era molto, ma sarebbe stata l’unica concessione che gli sarebbe stata fatta, quindi era meglio di niente. “Devo accedere al mio portatile” disse a bassa voce. Chandra guardò Marcelo che annuì. Il tecnico si alzò ed uscì dalla stanza, ripresentandosi pochi istanti dopo con un computer in mano. Lo posò sul tavolo e Marcelo si avvicinò alle manette. Inserì la chiave, ma si fermò. “È ben inteso” disse con molta calma, “che qualunque tentativo di cancellazione o altra operazione che io non saprei definire, o qualsiasi cosa diversa da quella che ti è stata chiesta, annullerà a titolo definitivo ogni accordo con noi, sono stato chiaro?” “Chiaro” fu la risposta laconica del giovane. Marcelo liberò le mani dalle manette e si spostò, lasciando spazio al collega.
Chandra si avvicinò al tavolo, aprì il computer e lo pose davanti a Sullivan. “Prego” disse tendendo la mano, come se avesse servito un piatto. Sullivan inserì la ed attese alcuni istanti. L’immagine della sua auto in derapata riempì lo schermo, lasciando un piccolo angolo in alto a destra con le icone dei collegamenti. Sullivan iniziò a digitare sulla tastiera, sotto l’attento controllo di Chandra. Pochi istanti dopo si fermò, voltando il computer verso l’agente. Una schermata nera con una serie di numeri riempiva lo schermo. Chandra la osservò per un momento, poi la inviò alla stampante. “Dovremmo avere tutto” disse, “provo a risalire all’indirizzo di chi ha postato le immagini, ma non sarà facile, vi avviso.” “Fai del tuo meglio” rispose Marcelo, accennando un sorriso. Il dottore prese il computer ed uscì, non aveva molta dimestichezza con gli interrogatori e con le persone in generale, ma le macchine lo tranquillizzavano, lo facevano sentire a proprio agio, avrebbe continuato il lavoro nella serenità del suo ufficio. Marcelo attese che la porta si richiudesse, poi si avvicinò al tavolo, chinandosi verso Sullivan. “Se il mio collega confermerà la correttezza delle tue informazioni, indipendentemente dall’esito della sua ricerca, il nostro accordo è valido, in caso contrario…” Non terminò la frase, ma l’espressione sul volto di Sullivan non richiedeva conferme. Marcelo si sollevò, soddisfatto dell’esito del discorso, ed aprì la porta, richiamando con un cenno l’attenzione dell’agente di guardia. “Mettilo in custodia” gli disse.
L’agente entrò, rimise le manette a Sullivan ed uscì con lui. Marcelo guardò la collega e la maschera dipinta sul suo viso non gli piacque per niente. “Tutto bene?” Chiese. “Bene?” Ripeté sarcasticamente Elisabeth, “ho appena scoperto che, non solo c’è un folle che se ne va in giro ad ammazzare gente come fossero moscerini, ma ci sono decine se non centinaia di persone che lo seguono sul web come se fosse una star del cinema e trovano la cosa normale. Pensi possa andare tutto bene?” “Hai ragione” disse Marcelo, appoggiandole una mano sulla spalla, “come dice Alvin, la follia umana non ha limiti, e noi non possiamo far altro che dare il massimo per fermare questi mostri ogni volta che si presentano e cercare di farlo il prima possibile, ed è quello che ho intenzione di fare.” Elisabeth alzò lo sguardo verso il suo partner ed un tenue sorriso comparve sul suo viso, sufficiente per illuminarlo e, con esso, tutta la stanza. Marcelo rispose nel medesimo modo, aprì la porta ed invitò la collega ad uscire. “Ho bisogno di un caffè” disse Marcelo, “e di prendere aria”. “Ti accompagno” rispose la ragazza. Scesero gli scalini verso la portineria, ma una voce dall’altro lato dell’ingresso richiamò la loro attenzione. “Elisabeth!” La ragazza si voltò e vide il comandante che si sbracciava. “Tu vai” disse a Marcelo, “ti raggiungo.” Lasciò il collega e risalì le scale. Marcelo salutò Pennington con un gesto ed uscì. Il sole era alto e forte, come sempre, ma non riusciva a lenire il dolore e la rabbia per quella situazione tanto folle quanto terribile.
Marcelo si fermò sul marciapiede e guardò verso il garage, poi si voltò, una eggiata lo avrebbe aiutato a diminuire la tensione. Si diresse verso il centro, superò la Liberty e si fermò davanti all’Hourglass, ma la tensione era ancora alle stelle, così decise di proseguire. Continuò sino all’incrocio con la Market, lo superò e si ritrovò al Bay Street. Entrò e si mise in fila, non aveva intenzione di fermarsi, era troppo carico, un altro tratto a piedi lo avrebbe aiutato a rientrare con la dovuta calma. Attese il suo turno e ordinò un doppio espresso da eggio che, per come la vedeva lui, era un po’ una contraddizione, un buon caffè si beve seduti con la dovuta calma, ma quella era una situazione eccezionale e, come tale, prevedeva procedure eccezionali. Si voltò e venne urtato, perse l’equilibrio e si dovette appoggiare al banco per non cadere, ma non riuscì ad evitare di rovesciarsi del caffè sulla camicia. “Mi scusi” disse la donna. Marcelo alzò lo sguardo. Due occhi azzurro cielo lo fissavano. Allargò la panoramica. Un metro e ottanta, biondo platino, viso da bambola su di un corpo da pin-up. L’espressione tesa dell’uomo si ammorbidì. “Sono un disastro” continuò la donna, “posso fare qualcosa?” “Lasci” rispose Marcelo, ancora anestetizzato dalla visione, “non è un problema.” “Non sarà un problema, ma è comunque una scocciatura” insistette la donna, “mi permetta di rimediare.” Marcelo lasciò defluire la sua rabbia, spinta lontano da una marea di testosterone, ed accettò l’offerta.
“Può farmi compagnia” disse. “È il minimo” rispose la donna. Si spostarono verso uno dei tavoli più lontani e si accomodarono. “Laura” disse lei, tendendo la mano. “Marcelo” rispose lui, notando immediatamente come il contatto non avesse provocato nessun effetto. “Sei cubano?” “Portoricano” precisò Marcelo. “Portorico, abbiamo una missione a San Juan.” “Missione?” Chiese Marcelo perplesso. “Certo” rispose Laura, “io lavoro per la chiesa di St. John, abbiamo un piccolo villaggio d’accoglienza per i bambini orfani e le famiglie povere.” L’espressione di Marcelo tradì un certo disagio. “Non preoccuparti, mi capita spesso” continuò Laura, “la gente mi vede e s’immagina che lavori per Vogue, nel migliore dei casi, per Playboy nei peggiori. Non accettano il fatto che una donna come me possa essere molto legata alla chiesa e alla religione, eppure non mi vesto e non mi comporto in modo tale da indurli a pensare il contrario.” Marcelo si riprese e cercò di continuare il discorso. “Effettivamente non c’è motivo per dubitare delle tue parole, ma devi ammettere che non molte donne nelle tue condizioni avrebbero preso quella strada.” “Tu, invece, che fai nella vita?” Chiese Laura, tentando di cambiare discorso. “Sono un poliziotto” rispose Marcelo. “Wow” commentò Laura, “dev’essere un lavoro affascinante.”
“Affascinante forse non è l’aggettivo che ei io, però è un compito che mi piace e che, soprattutto, è utile, un po’ come il tuo.” “Vero. Non si può definire bello lavorare coi poveri o, come nel tuo caso, coi criminali, ma sapere di aver salvato delle vite penso non abbia prezzo.” Marcelo condivise l’idea e finì il caffè. “Scusa, ma devo andare” disse. “Capisco” rispose Laura. Mise una mano nella borsetta ed estrasse un biglietto da visita. “Nel caso ti servisse un sostegno morale” disse, porgendogli il biglietto, “o avessi del tempo da mettere a disposizione degli altri.” Marcelo lo lesse: Laura Kristensen – St. John’s Cathedral – Jacksonville “Grazie” disse, “terrò presente.” Uscì e si diresse verso la centrale più lucido e più tranquillo di prima, magia del caffè, pensò.
Capitolo 24
Elisabeth era seduta alla sua postazione e controllava le schede segnaletiche di alcuni malviventi noti per le loro bizzarrie in fatto di omicidi. Non che pensasse di trovare indizi importanti, ma dovevano aspettare i risultati di Chandra e tanto valeva fare una panoramica sul mondo dei fuori di testa. Marcelo era di fronte a lei e si rigirava fra le dita il biglietto da visita di Laura, non aveva ancora deciso se chiamarla oppure no e, probabilmente, il suo lavoro con la chiesa non era l’unico elemento che lo bloccava. Il cellulare di Marcelo suonò. “Pronto” disse. “Certo, mi dica.” “Ci saremo, grazie a lei.” Elisabeth rimase in attesa senza chiedere. “Era Cox” disse finalmente Marcelo, “ci aspetta dopo cena al Nadador, sulla Hibernia.” “Andiamo direttamente?” Chiese la ragazza. “Se non hai nulla in contrario, direi di sì.” “Avviso casa.” Elisabeth prese il cellulare ed uscì dalla stanza e Marcelo non poté non notare il cambio di accento della collega durante la conversazione. “Noi dove ceniamo?” Chiese, rientrando.
“Al primo Burger King che incrociamo” rispose Marcelo senza troppo entusiasmo. Elisabeth si risedette e riprese il suo studio. Marcelo mise il biglietto in tasca e controllò la strada che lo attendeva. Si trattennero ancora un’ora, approfittando del tempo per sistemare lavori burocratici arretrati, poi, di colpo, si scambiarono un’occhiata e si alzarono contemporaneamente, sorpresi anche loro da tanto sincronismo. Si fermarono sulla US.17, più o meno a metà strada, e si accomodarono nei posti all’aperto. “Sei piuttosto silenzioso” disse Elisabeth. “Sono solo sommerso da mille pensieri e cerco di riorganizzarli” rispose Marcelo. “Vuoi condividere?” “Mi chiedevo come gestire questo caso. Più andiamo avanti e meno ne sappiamo. Sembra che questo pazzo giochi con noi, che si diverta a provocarci e a vederci fallire.” “Capisco, ma non possiamo allentare la presa. Come abbiamo detto, prima o poi farà un errore e noi saremo lì ad aspettarlo.” “Ottimista.” “Fiduciosa, è diverso. Siamo un gruppo unito, che lavora bene, molto bene direi. Se esiste anche una sola possibilità di prenderlo, noi la troveremo e nessuno potrà contestarci di non aver fatto tutto il possibile. Se c’è qualcuno che può portare a termine questa indagine in modo positivo, beh, quelli siamo io e te, con l’aiuto di Alvin, Geremia ed altri, ovviamente, quindi non mollare, perché non te lo perdonerei.” Marcelo guardò orgoglioso la sua partner, una tigre travestita da agnello pensò, una vera sorpresa.
“Pensavo centrasse quel biglietto” disse improvvisamente Elisabeth. “Quale biglietto?” Chiese Marcelo, fingendo di non capire. “Quello che ti gira fra le mani da quando sei tornato dal bar.” “Quel biglietto.” “Quel biglietto” ripeté Elisabeth pazientemente. “No, quello non è nulla, solo una prospettiva di lavoro extra.” “Lavoro?” “Volontariato, per la precisione.” “Ok, meglio così. Abbiamo già abbastanza problemi, non è il caso di aggiungerne di nuovi.” Il tono di Elisabeth era cambiato. Marcelo avrebbe giurato d’aver sentito una sottile inflessione nella sua voce, poca cosa, certo, ma comunque presente, e era certo che si trattasse di gelosia, una cosa a cui non era preparato. Lasciarono l’argomento, dovevano finire la cena e raggiungere Cox. Trenta minuti dopo la Charger entrò nel parcheggio del Nadador. La musica usciva dalla porta aperta del locale, ma non era eccessiva. Scesero e si diressero all’interno, cercando con lo sguardo il loro contatto. “È all’ultimo tavolo” disse Elisabeth. Marcelo controllò la situazione e fece strada. Il locale era piuttosto grande, abbastanza affollato e, da buoni sudamericani, pieno di vita. Marcelo sentì una piacevole sensazione invadere la sua pelle, la stessa che ti
procura un profumo quando ti riporta all’infanzia. L’immagine si manifestò nitida e reale, l’odore di asopao che esce dalla cucina e nonna Maria che lo aspetta col piatto fumante in mano. Il piacere del ricordo si fuse con la commozione, inghiottì un eccesso di saliva e cercò di concentrarsi sul lavoro che li aspettava. Si spostarono sul fondo della sala e raggiunsero il tavolo di Cox. Era seduto nell’angolo, con una birra scura ed un bicchiere di liquido nero. “Benvenuti” disse, indicandogli di accomodarsi. “Cosa bevi?” Chiese Marcelo. “Un dark con una stout, per sciacquare la bocca” rispose Cox, “e voi?” “Un’acqua tonica” disse Elisabeth. “Tecnicamente” obiettò Marcelo, “non siamo in servizio.” “Vero” rispose la ragazza, “ma io sono astemia.” “Io no” commentò Marcelo, “e mi berrei volentieri un Diplomatico riserva, se c’è.” “Buongustaio” commentò Cox. “È un locale venezuelano, tanto vale bere rum venezuelano” commentò Marcelo. “Un ottimo rum venezuelano” aggiunse Cox, “Birra o acqua?” Chiese. “Dell’acqua andrà benissimo” rispose Marcelo. Cox girò l’ordinazione al cameriere e si dedicò ai suoi ospiti. “Ho tenuto le orecchie aperte” disse, “come richiesto, e ho sentito qualcosa che potrebbe essere utile.” “Ottimo” disse Marcelo, “continua.”
“Parlavo con alcuni amici di percorsi per turisti, dove andare, luoghi da evitare e quelli d’impatto, per far bella figura e prendere qualche mancia. Le opinioni erano concordi, nella maggior parte dei casi, e non sembrava che ci fosse nulla di strano. Poi ho chiesto se, secondo loro, valeva la pena spingersi a nord, verso Fort Clinch e la risposta ha attirato la mia attenzione.” Cox si fermò, aspettando che il cameriere posasse i bicchieri e se ne andasse. Una volta fuori portata, riprese. “Secondo i miei amici, non ne valeva la pena. Nella zona di Fort Clinch c’è lo stabilimento della Nassau Fertilizer and Oil e i loro canali scaricano nell’oceano. Nella zona, le alghe prolificano a dismisura e, quando muoiono, si depositano sul fondale e vengono decomposte dai batteri che consumano tutto l’ossigeno dell’acqua. Non ci sono pesci e i residui delle alghe morte, risalendo in superficie, fanno un brutto spettacolo.” Marcelo sorseggiò il suo rum, in attesa della parte interessante. Elisabeth ascoltava attenta la storia, nemmeno fosse davanti a Melville che narrava di Moby Dick. Cox bevve un sorso della sua birra, si pulì la schiuma dalla bocca e diede un’occhiata attorno. Nessuno si curava di loro, quindi riprese. “Bennet era il più convinto ed il più convincente del gruppo e, fin qui, non ci sarebbe stato nulla di strano, se non fosse stato per un piccolo dettaglio. Dovete sapere che nella zona di Fort Clinch cresce un’alga particolare, la Rhodophita, un’alga rossa simile al corallo, la stessa alga che avevo visto la mattina impigliata nella catena dell’ancora di prua della barca di Bennet. Ho chiesto in giro e, a quanto ne sanno gli esperti del posto, pur non essendo rara, anzi, piuttosto diffusa, quella è l’unica area della zona dove cresce.” Marcelo restò immobile, ma se il suo cranio fosse stato di vetro, la gente avrebbe visto roteare vorticosamente le sue cellule grigie che, per fortuna, al momento restavano nascoste al pubblico. Elisabeth posò il bicchiere ed un mezzo sorriso affiorò sul suo viso.
“Non volevo insistere troppo” riprese Cox, “come consigliatomi, ma ho voluto verificare l’ipotesi. Parlando del più e del meno ho riportato il discorso su Fort Clinch e Bennet ha confermato che non ava su quella rotta da almeno sei mesi, troppi per avere ancora residui attaccati alla barca.” Cox finì la birra e richiamò l’attenzione di un cameriere, al quale, però, subentrò il titolare. “Un altro giro?” Chiese Cox ai commensali. “Volentieri” rispose Marcelo, “magari quello che bevi tu.” “Io o” disse Elisabeth. Alex si avvicinò al tavolo. “Ola, come estas, está mucho tiempo sin verte” disse il ragazzo. “Ho avuto da fare” rispose Cox, “lavoro.” Il ragazzo sorrise e fece una smorfia che lasciava intendere un “immagino il genere di lavoro”, ma non disse nulla in merito, limitandosi ad un professionale “Cosa vi porto?” “Due Aplleton Dark e due Guinnes” rispose Cox. “Pinta?” “Mezza” corresse Cox, piuttosto dispiaciuto. Il ragazzo sorrise e se ne andò. “Il rum non è venezuelano e nemmeno eccelso, ma ha un sapore unico ed è meno taroccato di molte etichette più famose, la birra, beh, non richiede commenti” spiegò Cox. “Concordo” aggiunse Marcelo convinto. Elisabeth li guardava senza capirci molto, ma era interessante vedere le espressioni dei due uomini concentrati a disquisire di bevande come fossero donne o motori.
Si appoggiò al muro e riprese il suo bicchiere, tolse la fetta di lime e la mise in bocca, stropicciando il naso per il sapore acido che le invase il palato. “Perché Nadador?” Chiese improvvisamente Elisabeth. Cox la guardò, sorpreso dalla domanda, ma non si sottrasse. “Alex, il titolare, non è venezuelano, ma cubano. Era un corridore professionista e di ottima fattura. Per sua sfortuna vide cose che non doveva vedere e venne minacciato. Fu obbligato a trasferirsi in America e, durante la traversata, fece naufragio. La sua preparazione atletica e la sua grande forza di volontà lo sorressero sino alla costa, facendolo arrivare a terra vivo, nonostante le quattro miglia di distanza. Da allora, per i pochi che conoscono la vera storia, Alex è diventato il Nadador, il nuotatore, simbolo di speranza per tutti.” Elisabeth ascoltò attenta la breve storia, posò il bicchiere e guardò verso il banco. “È triste pensare che un uomo debba abbandonare tutto solo per essere libero, molto triste” disse sottovoce. Marcelo la guardò pensando, non dirlo a me, ma non disse nulla, finì la birra e posò il bicchiere, facendo una panoramica sul locale. “Sei certo che non ci sia pericolo?” Chiese. “Un colombiano erebbe inosservato in un posto come questo.” “Non direi” rispose a sorpresa Cox, “è più facile che uno yankee scambi uno spagnolo per un messicano che non un cubano si lasci imbrogliare da un infiltrato. Questi ragazzi riconoscono ogni sfumatura di un latino e ti sanno dire con esattezza da dove viene, come se ne leggessero la carta d’identità.” “Credi?” “Ne sono certo, stai a vedere.” Cox alzò un braccio, richiamando l’attenzione del cameriere. Il ragazzo arrivò immediatamente al loro tavolo.
“Un altro giro?” Chiese. “No, non posso” disse malvolentieri Cox, “ma ho un test per te. Di dov’è il mio amico?” Il ragazzo studiò Marcelo un attimo, senza cambiare espressione. “Non mi dirai che hai perso il tuo tocco” lo rintuzzò Cox. “Ti faccio la versione lunga” rispose il cameriere, “è sudamericano, ma vive qui da parecchio. Direi che è caraibico, meglio portoricano e, se il mio istinto non mi inganna, della costa occidentale dell’isola.” Marcelo lo guardò stupito. Il fatto che fosse ispanico era evidente anche per un incompetente, i per il caraibico, opzione piuttosto probabile, ma centrare Portorico e, addirittura, la costa occidentale era davvero troppo, ai limiti della truffa. “Come ci riesci?” Chiese Elisabeth. “Anni di studi e di pratica, ore di osservazione e di analisi, infiniti appostamenti e ricerche o, in alternativa, Cox che t’informa prima del vostro arrivo.” Marcelo si grattò la nuca, sollevò il bicchiere vuoto e lo avvicinò a Cox. “Affondato” disse. Cox rispose al brindisi, ma non riuscì a trattenere una risata che, dal fondo, risalì piano piano sino ad esplodere. Elisabeth si unì a lui e Marcelo, suo malgrado, non poté restarne escluso. “Perché lo hai avvisato?” Chiese Marcelo, quando le risa si furono calmate. “Alex è sveglio e, a parte gli scherzi, riconosce un poliziotto da cinquanta metri. Non avvisarlo lo avrebbe insospettito, informarlo lo ha reso collaborativo. Non ha voluto spiegazioni di nessun genere, ha solo chiesto se rischiava qualcosa e gli ho detto che, alla peggio, si sarebbe fatto due nuovi amici. Io metterei la mia vita nelle sue mani e, in un certo senso, lo sto già facendo.”
Marcelo valutò la cosa e dovette ammettere che la scelta di Cox era stata la migliore. “Come pensate di procedere?” Chiese il marinaio. “Per ora riferiamo tutto quello che ci hai detto al nostro capo, poi se la vedranno loro. È probabile che organizzino una sorveglianza speciale sulla barca ed aspettino il momento giusto per incastrarlo, ma non è da escludere che lo usino come tracciante per seguire le orme della droga a ritroso, sino alla fonte.” “Noi ne staremo fuori?” Chiese Cox, in bilico fra la paura ed il piacere di un eventuale esclusione. “Penso di sì, a meno che non serva un conoscente per attivare la trappola.” “Io sono a disposizione, per qualsiasi cosa.” “Ti ringrazio a nome di tutti, ma spero che se ne occupino gli uomini dell’antidroga.” Marcelo guardò Elisabeth e, senza parlare, entrambi si alzarono. “Ti tengo informato” disse Marcelo, tendendo la mano. “Grazie” rispose Cox, “e se vuoi bere qualcosa, sai dove trovarmi.” Elisabeth salutò e seguì il collega, una pista era stata aperta, ora mancava quella più importante.
Capitolo 25
Laura controllò il telefono. Nessuna chiamata. Non aveva il numero di Marcelo e si stava insultando per non averci pensato subito. Rimise il cellulare in tasca e tornò al suo caffè. Sfogliò lentamente le pagine del Florida Times, cercando qualcosa che attirasse la sua attenzione, ma quel giorno sembrava che tutti fossero in pausa, persino il giornale aveva meno pagine del normale. Lo chiuse, finì il caffè e si diresse alla cassa. Stava uscendo quando, sulla porta, vide l’imponente figura di Marcelo che entrava. Finse di non notarlo sino a quando non gli fu vicina poi, con sorpresa, lo vide. “Ciao” disse, “che combinazione.” “Ciao” rispose lui impacciato. Il silenzio dell’imbarazzo li schiacciò per un attimo, sino a che Laura non ruppe gli indugi. “Non ti ho più sentito, pensavo d’aver fatto qualcosa di sbagliato” disse sgranando gli enormi occhioni blu. “Non hai fatto nulla” rispose Marcelo, “era difficile fare qualcosa di sbagliato.” “Vero, però non ti sei più fatto sentire.”
“Hai ragione, ti chiedo scusa, ma avevo molto lavoro e piuttosto complicato.” “Immagino, non dev’essere semplice in una città così grande.” “Già, ti posso offrire un caffè?” “Sono a posto, ma ti faccio compagnia volentieri.” Marcelo andò alla cassa ed ordinò il solito espresso, poi la raggiunse al tavolo. “È lo stesso tavolo dell’altra volta” disse lei abbassando lo sguardo. “Effettivamente…” “Hai un’espressione strana, qualcosa non va?” Chiese la donna. “Nulla in particolare, solo che quando pensi d’averle viste tutte e scopri che non è proprio così, la cosa è parecchio deprimente.” “Vuoi parlarne?” Chiese Laura, “a volte avere qualcuno a cui confidare i tuoi problemi o le tue preoccupazioni aiuta a trovare una soluzione o, quanto meno, ad allentare la tensione, basta che ci sia una persona disposta ad ascoltarti ed io sono un’ottima ascoltatrice.” Marcelo fissò la sua tazzina per qualche istante, poi sollevò la visuale verso Laura. Continuava a considerarla stupenda e, contemporaneamente, si stupiva di quanto poco effetto avesse su di lui. Aveva immaginato più volte che reazione avrebbe avuto nel conoscere una di quelle modelle che vedeva in televisione e aveva avuto esiti con alcune varianti, non molte, a dire il vero, ma nessuna era stata così insignificante come quella che viveva in quel momento. Per la prima volta, dopo Greta, sentiva una forza interna che lo attirava in direzione di una donna, una sola donna, e aveva paura, paura di perdere razionalità, di gestire male la cosa o, principalmente, di commettere qualche cazzata. Non poteva definirlo amore, ma sicuramente il limite dell’amicizia era stato superato, almeno dalla sua parte, e non era una bella notizia, visto che la controparte era inaccessibile.
Lasciò da parte l’argomento, non era il caso di pensarci, e si concentrò sulla ragazza. “Avrai certamente letto degli ultimi omicidi in città” disse, sicuro della risposta. “Si” disse Laura, “qualcosa ho visto, ma non mi addentro mai in queste cose, mi fanno rabbrividire.” “Fortunatamente è così” commentò Marcelo, “sarebbe terribile se non ti fero effetto, comunque il mio problema è legato a questi omicidi. C’è in città un folle che se ne va in giro ad ammazzare gente senza un motivo chiaro, almeno per noi e non credo abbia intenzione di fermarsi. La cosa grave è che chi avrebbe il compito di farlo, io, nello specifico, non riesce a trovarlo e non ha idea di come riuscirci.” “Cosa sai di quest’uomo?” Chiese Laura interessata. Marcelo notò lo sguardo della ragazza e non rispose subito. “Quindi?” Insistette Laura. “Quello che sappiamo non posso dirlo, c’è un’indagine in corso, ma non abbiamo informazioni utili, almeno per il momento.” Marcelo osservò attentamente la mimica facciale di Laura, ma non scorse nessun segno di particolare rilevanza, cosa normale, in teoria, così continuò. “Perché mi sei parsa molto interessata?” Chiese, sospettoso. “Perché penso di poterti aiutare. Ho una laurea in psicologia ed un master in scienze comportamentali, potrei tracciare un profilo ipotetico dell’uomo che cerchi, solo per questo.” Il tono seccato della ragazza mise un po’ a disagio Marcelo che cercò di rimediare. “Grazie, è un pensiero gentile, ma abbiamo un profiler che collabora spesso con la polizia ed è in stretto contatto con Quantico, penso che difficilmente si possa chiedere di più.”
“Ok, meglio così. Comunque, se cambi idea, io ci sono.” Marcelo sorrise, cercando di recuperare punti. “Ti va di uscire a bere qualcosa stasera?” Chiese, estraendo la sua espressione più sexy dal ripostiglio dove l’aveva parcheggiata molto tempo prima. “Non devi farlo, se non ne sei convinto” rispose Laura. “Cosa ti fa credere che non ne sia convinto?” “Avrei giurato che il tuo fosse un tentativo per rimediare al o falso di poco fa.” “In parte, una piccola parte, hai ragione. Sono stato poco carino e me ne scuso, ma sono teso e vedo pericoli anche dove non ci sono, ma, se escludi questo limitato contrattempo, la mia offerta è sincera e disinteressata.” “Scusa, ma sull’offerta disinteressata avrei qualche dubbio, ma questa è un’altra storia, comunque mi piacerebbe. Possiamo fare dopo cena, magari verso le nove.” “Perfetto, ti piacciono i locali sudamericani?” “Li adoro. Una piña colada con sottofondo di merengue, cosa posso chiedere di più?” “Ottimo. Il Puerto Plata ha aperto un piccolo locale accanto al ristorante, all’incrocio fra la Palmer e la Blanding, ci vediamo la.” “D’accordo, ci sarò.” Laura prese la borsetta e si alzò, mostrò un sorriso che mise in evidenza, ammesso che ce ne fosse bisogno, tutta la sua bellezza e salutò. “Ora devo scappare, a dopo” disse. “A dopo” ripeté Marcelo, ricambiando il sorriso. La ragazza uscì, trascinando con sé lo sguardo di tutti i maschi e gli insulti silenziosi di tutte le donne presenti nel locale.
Marcelo rimase seduto ancora qualche minuto. Avrebbe dovuto essere al settimo cielo per quell’appuntamento, molti uomini presenti avrebbero pagato per essere al suo posto, eppure non era così. Non era un uomo da rapporti occasionali, né improvvisati, ma era comunque un uomo. Le possibilità future generate da quell’incontro avrebbero dovuto allettarlo in misura notevole, ma non lo facevano. In fin dei conti, aveva tradito il suo bar preferito per far colazione in un posto diverso e l’unico motivo, che ci credesse o no, era quello di rivedere Laura, eppure, ora che l’aveva vista, stava peggio di prima. Raggiunse l’uscita, una boccata d’aria fresca lo avrebbe rinvigorito. Rimase fermo sul marciapiede ad osservare il frenetico via vai del mattino sino a che lo squillo del telefono non lo riportò sulla terra. “Pronto” disse, non ancora completamente rientrato. “Arrivo.” Salì in auto e si diresse alla centrale, Elisabeth aveva bisogno di lui.
Capitolo 26
Marcelo bussò sullo stipite della porta aperta. “Entra” disse Pennington, invitandolo ad accomodarsi. Elisabeth era già alla scrivania e gli sorrise. Marcelo si sedette accanto alla collega ed attese. “Abbiamo una segnalazione” esordì il comandante, visibilmente eccitato. Lo sguardo di Marcelo non tradì alcuna emozione, rimase imperterrito in attesa del seguito. “Il signor Kim So Wang” riprese Pennington, “guardiano dello zoo, ci ha chiamato questa mattina con delle informazioni importanti. Alle cinque stava iniziando la ronda di controllo e ha notato uno strano fermento attorno alla gabbia dei leoni. Lavora lì da quasi vent’anni e conosce King, il leone, da almeno dieci, e non lo aveva mai visto così agitato, irritato è il termine che ha usato lui. Si è avvicinato alla gabbia e ha controllato il perimetro, sino a quando non ha visto del sangue sulle sbarre. Ha continuato a cercare e, poco distante, ha trovato un dito.” Pennington si fermò con gli occhi lucidi di chi, dopo molte fatiche, vede finalmente il traguardo. Attese che anche Marcelo condividesse la sua euforia ma, visto che l’effetto tardava, riprese la parola. “Ho bisogno che andiate immediatamente allo zoo a recuperare quel dito, potrebbe essere di una delle vittime e darci informazioni utili per scoprire chi lo ha lasciato li.” “Andiamo subito” disse, senza troppo entusiasmo, Marcelo.
Si alzò, imitato dalla collega, e si diresse verso il parcheggio. “Cosa ti è successo?” Chiese Elisabeth salendo in auto. “Perché?” “Sei strano, distante direi.” “Nulla di che, tranquilla.” Elisabeth non insistette oltre, quando avesse voluto parlarne, lo avrebbe fatto. Lo zoo era poco distante dalla carrozzeria dove avevano rintracciato Sullivan e questo, per Marcelo, era già un indizio poco rassicurante. Uscirono dalla Main Street in corrispondenza dell’ingresso dello zoo e raggiunsero l’incrocio, dove un piccolo cartello colorato indicava l’accesso al parco. Marcelo imboccò il viale costellato di palme e lo percorse sino ad un bivio. “Gli uffici sono a destra” disse Elisabeth, “ci sono già stata.” Marcelo seguì l’indicazione, sino al parcheggio davanti alla palazzina che ospitava l’amministrazione. Due auto della polizia erano ferme davanti all’ingresso ed un uomo dai tratti orientali era seduto sugli scalini che portavano alla reception. Si avvicinarono, mostrando il tesserino al collega che piantonava l’accesso, e si diressero verso il custode. “Signor Kim” disse Marcelo, “detective Morales e Wright, posso farle qualche domanda?” L’uomo si alzò e si pulì le mani nei pantaloni. “Certo” disse. “Mi può raccontare cos’è successo?”
“Questa mattina” iniziò il custode, “ho iniziato il mio giro dall’Africa, come sempre. Arrivato alla gabbia dei leoni, ho visto King camminare nervoso avanti e indietro. Normalmente, a quell’ora, se ne sta sdraiato sulla paglia e, quando o, mi guarda con sufficienza, quasi con scherno, ma stamattina era nervoso, arrabbiato. King è solo nella gabbia, quindi non poteva avercela con nessuno, eppure era infuriato. Mi sono avvicinato e si gettato su di me. Per fortuna ero abbastanza distante dalle sbarre e non mi ha raggiunto. Ho pensato che si fosse ferito ed ho controllato la gabbia, ma non c’erano tracce, poi ho visto una sbarra sporca di sangue. Ho aspettato che King arretrasse e mi sono avvicinato per verificare e, effettivamente, si trattava di sangue, ma era quasi tutto all’esterno, così ho seguito la traccia ed ho trovato il dito. A quel punto vi ho chiamato.” “Il parco è recintato?” Chiese Marcelo. “Sì, ma è una recinzione simbolica. Gli animali sono in gabbie autonome e la dimensione dell’area esterna è tale che servirebbe l’esercito per piantonare il perimetro. Ci sono delle telecamere in alcuni punti strategici, ma sono facilmente evitabili, senza contare l’accesso dal fiume. Tutto il lato sud termina direttamente sulla riva del St. Johns, chiunque potrebbe entrare senza essere notato, specialmente di notte, anche se non ne vedo il motivo.” “Ai ragazzi non serve un motivo” rispose Marcelo, “basta recintare un’area per invogliarli ad entrare e sappiamo che il pericolo non esiste, per loro. Accedere alle gabbie con animali feroci può essere un atempo o un rito d’iniziazione per qualche congregazione, o altro. Ci può portare alla gabbia?” “Seguitemi” disse Kim. Si mosse in direzione della piccola stazione, dove faceva bella mostra di sé una locomotiva verde e arancione con un finto rimorchio per il carbone e due vagoni in tinta. Attraversarono i binari e presero la strada principale che tagliava in due il parco. Superarono un arco che indicava l’accesso alla savana e s’inoltrarono nella vegetazione. Al termine del sentiero si ritrovarono davanti alla gabbia del leone che, innervosito dalla presenza di tutta quella gente, eggiava irrequieto.
“Vede” disse il custode, “King è abituato ai visitatori, non reagisce mai così, ma oggi è diverso.” L’uomo continuò a camminare, ando lontano dalla gabbia e arrivando a destinazione dal lato opposto al vialetto d’accesso. “Ecco” disse, indicando il terreno. Marcelo prese un guanto di lattice ed una busta di plastica, si chinò e raccolse il dito, lo mise nel sacchetto e richiuse con la clip a pressione. “Pensi che il dito non fosse in preventivo?” Chiese Elisabeth. Marcelo osservò il macabro reperto. “Non credo. Qualcuno ha voluto giocare con il leone, che non era d’accordo, e ha spiegato la sua posizione in merito alla questione. Non penso sia legato al nostro caso, il sangue è fresco, ma lasciamo queste decisioni agli esperti.” Posò il sacchetto sulla panchina e scattò una fotografia col cellulare. “La mandiamo a Geremia, sentiamo cosa ne pensa.” Mise in tasca il sacchetto e controllò per terra. “Le gocce di sangue proseguono in questa direzione” disse. Seguirono la pista per alcune decine di metri, sino al recinto delle giraffe. “Qui la traccia s’interrompe” disse Marcelo, “possono essere entrati in auto?” “Non credo” rispose il custode, “di notte il aggio è ricco d’insidie, specie se non si conosce il parco e poi non vedo tracce di pneumatici.” Marcelo controllò la terra attorno al punto dove mancavano le tracce e, effettivamente, non c’erano segni di ruote, né grandi né piccole. “Forse ha tamponato la ferita” intervenne Elisabeth. “Probabile, comunque avrà bisogno di un ospedale” aggiunse Marcelo.
Il telefono squillò. “Pronto Geremia, buona giornata, aspetta, ti metto in viva voce.” “Buona giornata?” Chiese il dottore dall’altoparlante, “mi è apparso un dito mozzato fra le mie uova ed il mio caffè, non la definirei una buona giornata, almeno come inizio.” “Chiedo scusa, ma ho bisogno di un tuo parere sul dito.” “Se vuoi sapere se potrebbe rientrare nel nostro caso, ti dico subito di no. Punto primo il sangue, come sicuramente hai notato, è ancora fresco. Punto secondo le dita che cerchiamo sono state tranciate di netto con uno strumento affilato, questa è stata strappata con forza. Punto terzo e, se mi permetti, definitivo, questo è un medio, noi cerchiamo degli anulari.” Maledizione, è vero, avrei dovuto accorgermene, pensò Marcelo, ma evitò di esprimerlo a voce. “Ottimo” disse solamente, “grazie e scusa il disturbo.” “Figurati, sempre a disposizione. A proposito, salutami quella meraviglia di Elisabeth” disse, chiudendo la comunicazione. La ragazza sorrise ed arrossì. Marcelo ripose il telefono e guardò la collega. Avrebbe voluto confermare i saluti del dottore, ma si trattenne, anche se si accorse di come lo sguardo di Elisabeth fosse, per lui, più penetrante di quello di Laura. “Andiamo ad avvisare il sergente” disse, “il caso a a loro.” Si avviarono verso l’edificio principale, ripercorrendo a ritroso la strada precedente, senza dire una parola. Giunti sul piazzale, Marcelo si congedò dal custode. “Signor Kim, la ringrazio, è stato molto utile, ora si occuperà di tutto il sergente
Truman.” “Dovere” rispose l’uomo stringendogli la mano. Marcelo si spostò alcuni metri e si avvicinò al collega. “Ciao Derek” disse. “Ciao Marcelo.” “Scusa l’intrusione, ma c’era la possibilità che questo evento fosse correlato con un caso di omicidio che stiamo seguendo.” “Il crocifissore?” Chiese il sergente. “Esatto. Purtroppo penso non abbia alcun legame col nostro uomo, quindi ti lascio il campo. Porto questo alla scientifica per il DNA” disse Marcelo, mostrando il sacchetto col dito, “voi cercate negli ospedali, dubito che sia andato lontano.” “Che schifo” commentò Truman, poi, con cinismo, aggiunse, “cose che succedono a mandare a quel paese un leone di cinquecento chili.” “Probabile, a te scoprirlo.” Marcelo gli diede una pacca sulla spalla e si voltò verso Elisabeth che incrociò il suo sguardo e lo raggiunse. “Torniamo in ufficio?” Chiese. “iamo da Alvin, lasciamo quest’affare e vediamo se ha novità.” “Ottimo.” Tornarono all’auto e lasciarono il parco, dirigendosi verso la superstrada. Il traffico era diventato intenso e la strada verso il laboratorio si presentò più lunga del previsto. Trenta minuti dopo, l’auto coi detective entrò nel parcheggio della scientifica.
Marcelo scese ed incrociò Stewart. “Ciao” disse il tenente, “che ci fate da queste parti?” “Dovevo portarti un campione” rispose Marcelo, mostrando il sacchetto, “e già che c’ero, speravo di riorganizzare le nostre informazioni.” “Certo, però ho bisogno di fare colazione. Porto dentro questo e torno da voi.” Stewart prese la busta col dito e rientrò in laboratorio. Due minuti dopo era di nuovo nel parcheggio. “Salite” disse, “vi offro un caffè.” Elisabeth si accomodò dietro e Marcelo, che aveva lasciato libero il sedile anteriore per lei, tornò sui suoi i, sedendosi accanto a Stewart. Alvin raggiunse rapidamente Woodstock Park e si fermò sul lato della caserma dei pompieri. Scesero e si avvicinarono ad un chiosco di legno posizionato sotto gli alberi. “Voi cosa prendete?” Chiese ai colleghi. “Un caffè andrà benissimo” rispose Elisabeth. “Caffè” si limitò a dire Marcelo. “Sicuri?” Chiese Alvin. I due annuirono, così il tenente si voltò verso il ragazzo del chiosco ed ordinò. “Tre caffè e un donut, grazie.” Attesero pochi istanti, presero i loro bicchieri e si sedettero ad un tavolino al margine del boschetto. Alvin addentò la ciambella, più con rabbia che con piacere, masticò brevemente ed inghiottì il boccone. “Di cosa volevi parlare?” Chiese a Marcelo, ancora con la bocca mezza piena.
“Volevo sapere se avevi sviluppi sul caso. So che mi avresti avvisato se ci fossero state nuove informazioni, ma visto che ero di strada…” Stewart finì la ciambella e si pulì la bocca, finì il caffè e mise il tovagliolo nel contenitore vuoto. “Come hai detto tu, ti avrei avvisato. Comunque un piccolo dettaglio c’è e visto che non abbiamo altro, te lo comunico. Sophie ha notato due cose che possono sicuramente essere casuali, ma le probabilità che lo siano sono scarse. Prima cosa, tutte le radio delle camere delle vittime, ad eccezione di quella di Cooper, ovviamente, erano sintonizzate sul 96.9 della WJGL, una stazione radio del Southside specializzata in musica rock e blues evergreen. Sembra, quindi, che il nostro S.I. sia un amante della buona musica d’autore. Seconda cosa, in tutte le camere sono sparite le bottiglie mignon di rum che, normalmente, si trovavano nel mobile bar, forse apprezza il prodotto, oppure è solo un collezionista di bottigliette.” L’espressione di Marcelo non cambiò. La nuova informazione non aggiungeva nulla di utile al quadro complessivo, anche se, in teoria, poteva aiutare Lecter nella creazione di un profilo attendibile, ma su questo non ci avrebbe scommesso. “Non è molto, lo so” disse Stewart vedendo l’espressione del collega, “ma non riusciamo a fare di meglio, e questa cosa mi irrita, o meglio, mi fa incazzare come una bestia.” Marcelo annuì senza mostrare troppa delusione, in fin dei conti, la risposta la conosceva già prima di partire e non poteva certo aspettarsi di più. Condivideva lo stato d’animo di Stewart e sapeva perfettamente che non poteva permettersi di perdere concentrazione, lasciare che le emozioni prevaricassero la ragione, non solo sarebbe stato inutile, ma avrebbe fatto il gioco dell’S.I. e non voleva dare ulteriori vantaggi ad un soggetto che ne aveva già parecchi. Si alzò, imitato dai colleghi. “Vi riporto alla macchina” disse Stewart. Salirono sull’auto del tenente e si avviarono verso la sede della scientifica. “Marcelo” disse ad un tratto Stewart, “ho due biglietti per la partita dei Jaguars
di questa sera, mi fai compagnia?” Marcelo non rispose subito, come se stesse valutando l’offerta. “Dice a te” lo pungolò Elisabeth. “Grazie, verrei volentieri, ma ho già un impegno” rispose poco dopo. “Un impegno?” Ripeté con tono sorpreso Elisabeth. “Perché, non posso avere un impegno?” Chiese Marcelo serio. “C’entra il biglietto di ieri?” “Esatto.” “La cosa si fa seria” commentò Elisabeth. Marcelo non rispose, ma avrebbe giurato d’aver sentito una vena di nervosismo nel suo tono, forse era una sua impressione, forse aveva voluto sentire qualcosa che sperava ci fosse, eppure pareva certo di quello che aveva sentito, così, per stuzzicare, rispose. “Potrebbe, non è detto, ma potrebbe.” Non poteva vedere lo sguardo di Elisabeth, ma sperò di aver centrato il bersaglio. Il breve percorso non diede modo di proseguire la conversazione così, una volta arrivati, scesero e si congedarono. “Ci aggiorniamo” disse Stewart. “Certo.” Ripresero la loro auto e si diressero in centrale, li attendeva un viaggio lungo e silenzioso.
Capitolo 27
Il maggiolone entrò nel parcheggio e si mosse lentamente, costeggiando tutto lo spiazzo. Si fermò al primo posto libero e spense il motore. Dopo due minuti, Laura aprì lo sportello e scese. Marcelo fece una panoramica della figura, come se stesse analizzando un cadavere. I sandali alla schiava risalivano sul polpaccio, da dove iniziava un lungo tratto di gamba scoperta. La gonna corta, ma non troppo, metteva in risalto i fianchi e la camicia nera esaltava il biondo dei capelli. Si avvicinò, ondeggiando lentamente verso di lui. “Scusa il ritardo” disse, “è molto che aspetti?” “Sono arrivato da cinque minuti” minimizzò Marcelo. “Potevi entrare.” “Mi sembrava scortese farti entrare a cercarmi.” Laura sorrise e lo prese sottobraccio. Si diressero all’ingresso come una coppia di piccioncini ed entrarono nel locale. Un lungo muretto di mattoni rossi costituiva il bancone del bar ed occupava quasi interamente la parete opposta all’ingresso. Le pareti, in parte bianche ed in parte color mattone, davano un’aria intima e piacevole e le decine di fotografie di spiagge caraibiche e panorami caratteristici, infondevano un effetto familiare notevole. Il tetto spiovente aumentava il senso d’intimità del locale, rendendolo simile al salotto d’un amico. I tavoli, quasi tutti da quattro posti, erano in gran
parte occupati, così come gli alti sgabelli rotondi allineati lungo il bancone. “Siete in due?” Chiese la ragazza che li accolse. “Sì” rispose Marcelo. “Prego.” Si mosse in direzione del banco, svoltando poi a sinistra ed entrando in una piccola area lontano dal centro. Lasciò i menù sul tavolo e si allontanò con un sorriso. Laura prese una lista e la studiò attentamente, mentre Marcelo osservava la fauna del locale. “Tu sai già cosa ordinare?” Chiese Laura. “Normalmente, la prima volta controllo il loro mojito. Se il livello è buono, allora esploro altri prodotti, in caso contrario, cerco un altro bar.” “Drastico.” “Concreto. Se ti spacci per caraibico e non sai fare un mojito decente, allora c’è qualche problema di fondo.” Laura tornò alla lista per alcuni istanti. “Dopotutto” disse improvvisamente, “io la leggo tutta, ma poi ordino sempre una piña colada.” Marcelo sorrise e ricevette in cambio uno sguardo che avrebbe sciolto un iceberg. “La tua giornata ti ha riservato qualcosa di positivo?” Chiese la ragazza. “A parte te” rispose Marcelo, “direi proprio di no.” “Quindi i tuoi pensieri sono ancora turbati dal caso?” Chiese Laura, fingendo di non aver capito il complimento.
“Direi di sì.” “Sai, questa storia mi aveva incuriosita, così ho recuperato un giornale ed ho letto tutto quello che c’era in merito al tuo caso. Sembra davvero che abbiate a che fare con un fantasma, eppure, un uomo non può apparire e scomparire senza lasciare traccia.” “In teoria no, ma questo sembra andarci molto vicino.” “Molto vicino?” Commentò Laura, “significa che qualcosa ha lasciato.” “Qualcosa, ma troppo poco per rintracciarlo.” Laura stava per replicare, ma Marcelo l’anticipò. “Se non ti dispiace, preferirei cambiare argomento. Parlami un po’ di te, cosa fai alla St. Johns?” La ragazza trattenne un certo disappunto, nascondendolo bene o, per lo meno, cercando di farlo. “Io mi occupo prevalentemente di rapporti con il pubblico” disse con un leggero sorriso, “questa è la denominazione ufficiale, in pratica cerco di recuperare materiale vario, vestiti, medicinali, cibo e, perché no, contanti. Gestisco le relazioni con i finanziatori e recluto volontari, sia per le donazioni sia per la partecipazione in prima persona.” “Un lavoro impegnativo” commentò Marcelo. “La parte più difficile è convincere le persone che non sei la solita imbonitrice televisiva, quella che si presenta con la faccia d’angelo e che deve raccogliere fondi per nobili cause, per poi riversarli in conti correnti molto meno nobili. Ce ne sono a dozzine di personaggi così, e la gente è diventata diffidente, oltre che poco altruista, ma questo lo era anche prima. Devi distinguere le due categorie di persone, le seconde le elimini, sulle prime ci lavori. A volte devo inseguire un obiettivo per mesi prima di ottenere un risultato, ma ne vale la pena.” Marcelo vide arrivare la ragazza e ordinò. “A proposito di volontari” riprese Laura, “suppongo che tu non abbia tempo da
dedicare a noi, è normale, però potresti fare pubblicità in centrale e fra i colleghi. Tutto quello che non usano più è ben accetto, purché in condizioni decenti e, ripeto, in alternativa vanno bene anche i buoni e vecchi dollari.” “Certo, prometto che scatenerò un aparola aziendale di tutto rispetto.” “Ottimo.” Per qualche istante i due rimasero a contemplare gli altri avventori senza parlare poi, ancora una volta, Laura ruppe il ghiaccio. “Devo dirti una cosa importante.” “Ti ascolto” rispose Marcelo. “Vorrei evitare malintesi, quindi ci tenevo a fare una precisazione. È luogo comune, almeno credo, che quando due adulti escono insieme, la serata finisca in un certo modo, non so se mi spiego. Io non la penso così, nel senso che ho idee diverse, per alcuni vecchie se non addirittura bigotte, ma è la mia opinione. Non sono contraria a certe cose, cerca di capirmi, ma sono del parere che abbiano un certo valore e che debbano essere gestite con criterio e responsabilità. Sono, per usare un termine tecnico, per una politica dei piccoli i.” Laura si fermò, osservando la reazione di Marcelo, ma ne fu sorpresa. Non sembrò deluso o arrabbiato, anzi, lo vedeva contento della cosa e questo non poteva che fargli piacere. Attese ancora, aspettando la replica. “Non ci crederai” disse ad un certo punto Marcelo, “ma condivido pienamente la tua idea. Come dici tu, forse è roba vecchia, ma anch’io sono dell’opinione che la fretta porti solo a fare errori, meglio muoversi con calma e valutare bene la cosa.” “Mi fa un immenso piacere” replicò la ragazza, “spesso il solo fatto di nominare la chiesa allontana già gli uomini. Gliela vedi comparire in fronte, la scritta scorrevole a caratteri cubitali, chiesa? Qui non si batte chiodo.”
“Capisco, fortunatamente non tutti gli uomini sono uguali.” La cameriera tornò da loro e appoggiò i due bicchieri sul tavolo, aggiungendo una ciotola di patatine ed una di arachidi ancora nel loro guscio. “Originale” commentò Elisabeth. Si presero una pausa, assaporando i loro cocktail. “Superato l’esame?” Chiese Elisabeth. Marcelo appoggiò il bicchiere con aria soddisfatta. “È il miglior mojito che ho bevuto negli ultimi anni” disse. “Vedi che uscire con me a suoi vantaggi?” “Non ne dubitavo.” “Ed io? Ho superato l’esame?” Chiese a sorpresa Laura. Marcelo la guardò, meravigliato dalla domanda. “Ti sentivi sott’esame?” Chiese. “Mi sei sembrato molto contratto, come se non sapessi se fidarti di me o no, oppure eri incerto sulla nostra uscita, non saprei come altro definirla, ma è la sensazione che ho avuto.” “Assolutamente no. Sul fatto di uscire con te ero certo al cento per cento e sul fatto di fidarsi, beh, non ci conosciamo ancora, ma non ho segreti da nascondere e, per quanto riguarda il mio lavoro, sarebbe comunque un argomento top-secret, quindi farebbe poca differenza.” “Meglio così” disse Laura, soddisfatta della risposta. Marcelo vide il suo bicchiere vuoto e notò che anche il cocktail di Laura era finito. “Ordiniamo qualcosa?” Chiese.
“No, meglio di no, se bevo ancora potrei perdere il controllo, e non è il caso. Piuttosto andrei a fare due i lungo il parco, ti va?” “Certo.” Marcelo si alzò ed attese che Laura raccogliesse le sue cose, poi fece strada. Attraversarono il parcheggio e si diressero verso il piccolo parco dall’altro lato della strada. Non era sua abitudine utilizzare i parchi la sera, ma era in compagnia di un poliziotto, non avrebbe rischiato nulla. Mentre camminavano, Laura allungò una mano e prese quella di Marcelo. Lui intrecciò le dita a quelle di lei e la guardò. Piccoli i, pensò. Percorsero il perimetro del parco senza parlare, godendosi la brezza della sera ed il cielo stellato sopra di loro. Tornati al parcheggio, Laura si fermò e si mise davanti a Marcelo. “È stata una serata stupenda” disse, “ma ora devo andare.” Si avvicinò e gli diede un bacio sulla guancia. Piccoli i, pensò, di nuovo, Marcelo. “Questa volta, però, chiamami” continuò la ragazza, voltandosi verso l’auto. “Ci puoi scommettere” rispose Marcelo. Attese che il maggiolone uscisse dal parcheggio e raggiunse la sua auto. Era stata una splendida serata. Più o meno, pensò.
Capitolo 28
Lo schiocco dell’osso che si spezzava fece scorrere un brivido sulla schiena di Chris e l’urlo, soffocato dal bavaglio, amplificò il piacere. Il laccio emostatico, abbinato al ghiaccio secco, evitò che un getto di sangue arterioso dipingesse di rosso tutta la stanza, ma non impedì la fuoriuscita di un rivolo denso verso il pavimento. Chris si spostò e, per una volta, la rabbia nei suoi occhi ebbe la prevalenza sulla vuota indifferenza di sempre. L’uomo si dimenava sul letto, ma i lacci tenevano bene e non c’era da preoccuparsi. Rimase a fissarlo per qualche istante, lasciando fluire la rabbia che aveva invaso il suo corpo, sino a quando non notò un aumento del flusso sanguigno in uscita dalla nuova apertura della sua vittima. Il ghiaccio stava esaurendo il suo effetto ed il laccio emostatico faticava a bloccare la nuova fluidità del sangue. Ci pensò un attimo. Vantaggi e svantaggi dell’attesa. Alzò la pistola e sparò. Il rivolo di sangue si attenuò lentamente, sino a fermarsi. Chris fissò l’uomo immobile sul letto e si accorse di come il suo appagamento fosse parziale. Nonostante la nuova via fosse più eccitante delle precedenti, il risultato non era quello previsto. Non credeva, però, che fosse colpa del progetto o della sua esecuzione, ma piuttosto del suo stato d’animo. Era una serata strana, diversa, e niente sembrava
sufficientemente soddisfacente. Sospirò, cercando di eliminare la delusione. Si voltò ed iniziò la procedura di pulizia che, nonostante tutto, non sembrava più impegnativa delle precedenti. Trenta minuti dopo, si fermò davanti alla porta e controllò il suo lavoro. Perfetto, come sempre. Prese le sue cose e si avvicinò al letto, ma un lampo blu attirò la sua attenzione. Posò i suoi attrezzi sul tavolo e si avvicinò al letto, guardò dalla finestra della camera, ma vide solo il vicolo deserto che costeggiava l’albergo. Si spostò nel bagno e controllò la strada. Una volante era ferma davanti all’ingresso e due agenti stavano scendendo con le armi in pugno. Chiaramente non era un intervento per disturbo della quiete o una lite familiare, stavano intervenendo per qualcosa di ben più importante. Tornò in camera e ricontrollò velocemente la stanza, raccolse rapidamente tutta la sua roba, raggiunse la porta ed uscì. Chiuse lentamente, sino allo scatto della serratura e si avviò verso le scale. Era sul pianerottolo, quando vide i due agenti salire nella sua direzione. Tornò sui suoi i, forse si sarebbero fermati in uno dei piani intermedi, ma, per precauzione, cercò di salire al piano superiore, ma non c’era un piano superiore. La porta sulle scale portava al tetto, ma era chiusa a chiave e l’ascensore era stato bloccato a terra dagli agenti. Cercò una soluzione veloce, ma non trovò nulla di valido. Si spostò ancora sul pianerottolo per controllare la situazione. I due poliziotti erano al piano sotto al suo e salivano ancora, la cosa importante
si trovava proprio sul suo piano, in quella stanza, e qualcuno gli aveva avvisati. Tornò alla porta, ma non poteva entrare, il badge che attivava la serratura era rimasto in tasca alla vittima e sfondare la porta non gli parve una buona idea. Si voltò e incrociò gli occhi di uno dei due agenti. “Non muoverti, mani in alto” disse l’uomo. Chris valutò di nuovo le alternative e giunse all’unica soluzione possibile. Fece scivolare la mano di lato e scostò la giacca. Aveva un jolly da utilizzare, anche se sperava di non doverlo mai fare, ma il destino è bizzarro e ti mette sempre sulla strada ostacoli che a volte puoi evitare, altre sei obbligato ad abbattere. La giacca si fece da parte, mettendo in mostra il piccolo distintivo dorato. “Detective Torres, dodicesimo” disse con tono pacato. L’agente fissò Chris per un istante, poi abbassò l’arma. “Scusi, detective” disse, “prende lei il comando?” Chris annuì. Attesero il compagno di squadra e si avvicinarono alla porta. Chris infilò una mano nella giacca e toccò il calcio della pistola, ma si fermò. Senza dare nell’occhio, spostò la mano verso la schiena e tolse la Beretta dalla fondina. Il secondo agente estrasse il badge e lo avvicinò al lettore. Lo scatto della serratura fece sobbalzare leggermente i due ragazzi che, però, mantennero la loro posizione. Chris spinse la porta con un piede e controllò l’interno, poi fece cenno ai due poliziotti di entrare.
I due si mossero lentamente e raggiunsero il tavolo dove, poco prima, Chris aveva appoggiato le sue cose. La stanza era vuota, ad eccezione del cadavere, ma i due rimasero fermi. Ad un cenno, uno dei poliziotti si mosse verso il bagno, mentre l’altro gli guardava le spalle. Quando l’agente fu entrato, il suo collega si voltò verso Chris per avere direttive. Nello stesso istante, lo sguardo di Chris si mosse, qualcosa sotto il tavolo aveva attratto la sua attenzione. Seminascosto da una seggiola, c’era un guanto nero, un piccolo, dannatissimo guanto nero. Chris ragionò sulla posizione e sulla visibilità, ma non ebbe il tempo di fare considerazioni. Alzò gli occhi e vide l’agente che lo fissava, spostava l’attenzione verso le sue mani e poi guardava a terra. Il guanto sotto alla seggiola era uguale a quello che indossava Chris e, vedendo l’altra mano vuota, anche per lui non fu difficile trarre le conclusioni. L’attenzione si spostò, ancora una volta, verso terra, tornando sulle mani, per finire di nuovo ad incrociare quello di Chris, ma prima che la bocca potesse emettere un suono, uno sparo riempì l’aria. L’agente cadde a terra, colpito in piena fronte. Dal bagno si sentì un rumore e il secondo agente sbucò dalla porta, ma non fece in tempo a raggiungere il letto. Un secondo colpò percorse tutta la stanza e andò a fermarsi proprio nella fronte del malcapitato. L’uomo cadde all’indietro, frenando la sua corsa a pochi centimetri dalla pozza di sangue colata dal dito.
Chris osservò la scena come un pesce che guarda fuori dall’acquario, senza emozioni, senza movimenti. Ripose la pistola, raccolse il guanto da terra e se lo mise. Non aveva tempo, quella situazione era fuori da ogni previsione e da ogni controllo, doveva muoversi velocemente, abbandonare l’area a rischio e tornare nell’anonimato, doveva trovare una via di fuga. Escluse le scale, l’uscita era sicuramente presidiata dal portiere e da un nugolo di curiosi e gli spari erano certamente stati uditi da troppe persone per non scatenare un allarme generale. Non aveva accesso al tetto, la porta era di metallo e la serratura era fuori dalla sua portata. Non rimaneva che la finestra. Scavalcò il cadavere del primo poliziotto ed arrivò al letto. Guardò fuori dalla finestra e non vide nessuno. I lavori in corso nell’edificio di fronte avevano bloccato il traffico ed un grande acero copriva la visuale dalla strada principale. ò sotto il vetro aperto, ritrovandosi sulle scale d’emergenza. Il vicolo continuava ad essere apparentemente senza vita e ne approfittò, scese velocemente le scale antincendio e si calò in strada, camminò verso il retro dell’albergo e si dileguò nel nulla. Non aveva ancora capito cosa potesse essere successo. Quegli agenti erano stati chiamati chiaramente per l’omicidio, omicidio che nessuno aveva ancora scoperto e nemmeno immaginato, quindi, dove aveva sbagliato? Chi poteva aver visto e cosa, eventualmente, avrebbe visto? Non aveva risposte, aveva rischiato troppo, ma non era quello che lo irritava, bensì il fatto di non aver pianificato o preventivato un evento del genere e, ancor di più, la vera causa della sua ira, nasceva dal fatto di aver infranto una sua regola ferrea che gli impediva di lasciarsi dominare dalle emozioni e, se ce ne fosse stato
bisogno, oggi aveva avuto la controprova della validità di tale postulato. La foga dell’azione si era trascinata anche sul controllo della situazione e gli aveva fatto perdere lucidità. Mai e poi mai avrebbe dovuto togliersi un guanto e tantomeno appoggiarlo sul tavolo, ma la sua mente non era lucida, la nebbia generata dalla rabbia offuscava la ragione e, inevitabilmente, portava a commettere errori. Raggiunse l’incrocio, controllò il traffico e attraversò con calma, raggiungendo l’altro lato della strada, poi, senza voltarsi, s’incamminò per tornare all’auto, per ora l’unica cosa importante era scomparire e l’avrebbe fatto.
Capitolo 29
"Pronto” Marcelo rimase in ascolto per alcuni istanti, poi riagganciò. Anziché posare il telefono, chiamò Elisabeth. “L’ha fatto di nuovo” disse freddo, “e stavolta ha ucciso anche due poliziotti. 6535 Ramona Boulevard, Sleep Inn & Suites, ci vediamo là.” Chiuse la comunicazione senza attendere risposta, posò il telefono e diede gas. Lanciò l’auto sulla FL.8 e lasciò che la sirena e i lampeggianti gli fero strada. Quindici minuti dopo, la Charger nera si bloccò davanti all’ingresso dell’albergo. Marcelo scese e si fece largo fra la folla di curiosi che si era assiepata davanti al nastro giallo, raggiunse il aggio e si qualificò con l’agente che controllava l’accesso. ò sotto alla striscia di plastica e si diresse verso la portineria. Si avvicinò al banco e ad accoglierlo, con sua sorpresa, apparve il comandante Pennington. “Comandante” salutò Marcelo. Pennington rispose con un cenno del capo, poi si voltò. “Seguimi” disse a bassa voce. Si spostarono verso la zona ascensori, riparandosi dietro due grosse piante di yucca.
“Andiamo di male in peggio” esordì Pennington, “non solo l’ha rifatto e, a prima vista, peggio del solito, ma si è pure preso la briga di uccidere due colleghi, due ragazzi che, insieme, non raggiungono i cinquant’anni. Non capisco come ci sia riuscito, ma è indiscutibile che ce l’abbia fatta e senza farsi vedere.” Marcelo non rispose e rimase in attesa. “Sono certo che stiate facendo il massimo” riprese il comandante, “e nessuno meglio di voi può lavorare a questo caso, ma dobbiamo trovare una soluzione, a tutti i costi.” Marcelo continuò a non dire nulla, forse perché non sapeva come comportarsi e cosa dire, così attese in silenzio. Pennington controllò con lo sguardo l’ingresso, poi tornò da Marcelo. “Scusa lo sfogo” disse, “ma il sindaco mi sta col fiato sul collo e, anche se non mi è mai interessata la politica e men che meno i politici, non vedo l’ora di chiudere questa brutta storia, cerca di capirmi.” Marcelo sorrise, allentando l’imbarazzo del capitano. “Elisabeth?” Chiese improvvisamente Pennington. “Da casa sua ci vogliono trenta minuti, forse meno con l’aiuto della sirena, sarà quasi qui” rispose Marcelo. “Ottimo. Dateci dentro” disse Pennington, dando un piccolo colpetto sulla spalla di Marcelo prima di allontanarsi ed uscire dall’albergo, in direzione della sua auto. Marcelo rimase ancora un istante nascosto, ripensando alle parole del capitano. Anche lui voleva risolvere il caso in fretta, forse lui più di tutti, ma non aveva idea di come fare. Forse questa volta le cose potevano cambiare, la scena era diversa, forse lo sarebbero stati anche i risultati. Uscì dal nascondiglio e si portò all’ingresso. Si avvicinò al portinaio e si sedette accanto a lui.
“Detective Morales” disse, “so che avrà già raccontato tutta la storia ai miei colleghi, ma avrei bisogno di sentirla anch’io, se non le dispiace.” Il tono educato, quasi dispiaciuto, di Marcelo colpì il portiere, abituato a ben altri approcci da parte delle forze dell’ordine, tanto che non commentò e non fece smorfie, anzi, si mostrò, a sua volta, molto cordiale. “Non c’è problema” disse, “io sono Claude Dufrè.” Marcelo strinse la mano dell’uomo ed attese il racconto. “Verso le cinque ho visto arrivare una volante della polizia a tutta velocità” disse Dufrè. “Si è bloccata davanti all’ingresso e sono scesi due agenti. Quando sono entrati, sono rimasto stupito, non avevo chiamato io e non c’era nulla di strano nell’albergo e, soprattutto, avevano le armi in pugno. Mi hanno chiesto quante camere erano occupate all’ultimo piano e gli ho risposto che erano solo due. Hanno chiamato l’ascensore e l’hanno bloccato con una seggiola, poi mi hanno detto di prendere i badge delle due camere e seguirli.” Marcelo lo interruppe. “Mi scusi” disse, “è arrivata la mia collega, mi dia un attimo.” L’uomo annui ed attese, mentre Marcelo si alzava per raggiungere Elisabeth. “Ho fatto prima possibile” disse la ragazza vedendolo arrivare. “Ho visto” rispose Marcelo, “sei persino in anticipo.” Si voltò e tornò dal portiere, seguito dalla collega. “Signor Dufrè, il detective Wright” disse Marcelo. L’uomo si alzò e strinse la mano di Elisabeth, poi si risedette. “Devo ricominciare?” Chiese. “No, non serve, ripartiamo da quanto siete saliti” rispose Marcelo. “I due agenti sono saliti davanti a me sino al penultimo piano, poi il primo si è fermato ed ha parlato con qualcuno.”
“A visto con chi?” Chiese fremente Marcelo. “Purtroppo no” fu la sconsolante risposta, “ma ho sentito una voce.” “La saprebbe riconoscere?” “Non credo, non saprei dire nemmeno se fosse di un uomo o di una donna, l’unica cosa che posso dirvi è che aveva un vago accento spagnolo.” I due detective si scambiarono un’occhiata concorde. L’accento confermava i risultati del DNA, quindi gli agenti avevano, probabilmente, incontrato l’assassino. “Continui” disse Marcelo, “la prego.” L’uomo si concentrò un breve istante, poi riprese. “Il secondo agente mi ha chiesto il badge della 401 e mi ha intimato di scendere in portineria ed io ho obbedito.” “Poi cos’è successo?” “Ero appena arrivato al banco, quando ho sentito i due spari, quasi consecutivi.” “E cos’ha fatto?” “Ho aspettato un attimo, potevano essere stati i poliziotti, ma non vedendo né sentendo nulla, ho chiamato la polizia, ho riferito tutto l’accaduto e mi sono nascosto, chi aveva sparato poteva scendere le scale.” “Quindi non ha visto se è uscito qualcuno?” Chiese Elisabeth. “No, ero raggomitolato sotto il banco, ma abbiamo delle telecamere che inquadrano l’ingresso.” “Ottimo, ci servono i filmati.” L’uomo si alzò e aprì la porta della stanza controllo, uscendone dopo un minuto con due dvd. “Questa è la registrazione fatta dalla mezzanotte sino ad ora, e su questo ci sono
le otto ore precedenti.” “Perfetto” disse Marcelo, “noi saliamo, lei non se ne vada.” L’uomo alzò le mani in segno di remissione assoluta e tornò a sedersi al suo posto. Marcelo mise i dvd in tasca e si avviò alle scale. Salirono al piano e si fermarono sul pianerottolo. Dalla loro posizione potevano vedere il mobile del salottino e una porzione del tavolo e, nell’angolo in basso, una parte del piede del primo agente ucciso. S’infilarono i guanti e si avvicinarono all’ingresso. L’agente era disteso sulla schiena, la pistola ancora in mano ed un buco rosso sulla fronte. Marcelo lesse la targhetta col nome. Klinderen Controllò a terra e notò gli schizzi di sangue vicino ai piedi della vittima, così si spostò verso il mobile, ando dalla parte opposta del tavolo. Arrivò alla porta della camera e si fermò. Sul letto, come sempre, c’era un uomo legato ed imbavagliato, con la mano sinistra mutilata, ma, a terra, accanto al letto, c’era un secondo agente che, col primo, oltre alla divisa, condivideva un grosso buco rosso al centro della fronte. La pistola era finita sotto al letto e, dai segni, sembrava he l’uomo, a differenza del collega, fosse stato colpito in movimento. Fece un paio di i in avanti e controllò il nome del secondo agente. O’Kinney Marcelo si strofinò la mano sul viso, come per trattenere un urlo impellente che rischiava di compromettere la sua stabilità mentale, poi si voltò verso Elisabeth. La collega lo aveva raggiunto e stava osservando la scena col medesimo urlo represso nella gola.
“Usciamo” disse Marcelo. Si mossero lentamente, prestando molta attenzione a dove mettevano i piedi. Una volta tornati sul pianerottolo si spostarono verso la seconda camera. “Cosa pensi sia successo?” Chiese Elisabeth. Marcelo si guardò attorno, come se cercasse indizi utili alla creazione di un’ipotesi. “L’uomo sul pianerottolo è scomparso, quindi siamo quasi sicuri che fosse l’assassino. Partendo da questo punto, possiamo supporre che gli agenti siano arrivati alla porta e l’abbiano incrociato ma, per qualche motivo, non se ne sono preoccupati. Una volta dentro, la storia è cambiata, hanno capito tutto, ma non hanno avuto il tempo di reagire. L’accento spagnolo doveva essere il suo, Klinderen e O’Kinney non sono certo cognomi tipici di un sudamericano.” “Quindi” s’inserì Elisabeth, “abbiamo la conferma di cose che sapevamo, è sudamericano, almeno d’origine ed è un ottimo tiratore, centrare in piena fronte un uomo in movimento da sei metri non è facile. Si aggiunge, però, il fatto che i non solo inosservato, ma addirittura affidabile agli occhi di due agenti.” La ragazza si fermò a riflettere, come se un misterioso aiutante le stesse fornendo informazioni nuove, poi l’espressione del suo viso cambiò, la soluzione alla quale era arrivata non le piaceva per niente. “Che succede?” Chiese Marcelo, notando lo sguardo disgustato. “Un poliziotto” rispose, fra i denti, Elisabeth. “Prego?” “Un poliziotto” ripeté più energica la ragazza. “Stai dicendo che il nostro S.I. è uno dei nostri?” Elisabeth annuì. “Pensaci bene” disse, “io e te arriviamo sul luogo di un omicidio e raggiungiamo
la camera dove, presumibilmente, si trova ancora l’assassino. Qui troviamo uno sconosciuto che, per qualche motivo, riteniamo non pericoloso. Entriamo e ce lo lasciamo alle spalle. Tu lo faresti?” “Assolutamente no” rispose Marcelo, iniziando a capire il ragionamento della collega. “Infatti” continuò Elisabeth, “a meno che non goda della nostra massima fiducia e chi, meglio di un poliziotto, avrebbe queste caratteristiche?” Marcelo, concordando con la tesi di Elisabeth, provò ad aggiungere qualche dettaglio. “Seguendo il tuo ragionamento, i due agenti arrivano, vedono l’uomo che si qualifica come poliziotto, entrano con lui, ma lo lasciano in coda. Uno si ferma in copertura e l’altro va a controllare in bagno. Succede qualcosa che fa saltare l’equilibrio e l’S.I. spara al primo poliziotto, il secondo sente il colpo, esce, ma viene colpito prima di poter fare qualcosa. Domanda, la procedura non prevede l’invio in avanscoperta degli agenti di livello inferiore?” “Sì, mi sembra sia così.” “Quindi, non solo l’uomo si è qualificato come agente, ma come poliziotto di grado elevato, forse un sergente.” “O un detective” aggiunse Elisabeth. I loro sguardi s’incrociarono ed entrami, pur non sapendolo, pensarono la medesima cosa. “E se il distintivo fosse stato falso o rubato?” Propose Elisabeth, cercando un’alternativa ad una verità terribile. “Può essere, a questo punto tutto può essere, ma dubito che un falso avrebbe ingannato due agenti, possiamo provare a verificare fra le denunce di furto o smarrimento, ma non ci conto molto.” “Non voglio nemmeno pensare all’ipotesi che sia un vero poliziotto.” “Per ora non pensiamoci” disse Marcelo, cercando di rincuorare la collega,
“continuiamo l’indagine.” Si mosse verso la stanza dell’omicidio, ma venne bloccato dalla ragazza. “Aspetta” disse Elisabeth, “hai una stringa slacciata.” Marcelo si fermò e si accucciò per allacciarsi la scarpa ma, stranamente, rimase nella posizione per più tempo del dovuto. “Tutto bene” Chiese Elisabeth. “Si, tutto bene” rispose Marcelo senza guardarla. Tornarono alla stanza 401 e videro Stewart salire le scale. “Brutto modo d’iniziare la giornata” disse avvicinandosi ai detective. “E non sai il peggio” rispose Marcelo. Lo sguardo interrogativo del tenente chiese spiegazioni che Marcelo posticipò. “Più tardi ti aggiorno, in privato.” La spiegazione aveva reso l’interrogativo ancora più oscuro di prima, ma Stewart non insistette oltre, conosceva abbastanza Marcelo da sapere che sarebbe stato tempo perso. “Cosa mi puoi dire?” Chiese timidamente. I due poliziotti sono intervenuti per codice 4 e hanno trovato l’assassino sul posto, ma non l’hanno inquadrato subito come tale e, quando l’hanno fatto, era troppo tardi.” Stewart buttò lo sguardo nella stanza e l’espressione del suo viso valse più di qualunque parola. “Qui avremo da fare per parecchio” disse ai colleghi. “Vi lasciamo lavorare” rispose Marcelo, “noi ci occupiamo della chiamata, c’è qualcosa che non mi torna. Il nostro S.I. è esasperatamente meticoloso e, come sempre, le finestre erano oscurate, nessuno avrebbe potuto immaginare e, ancor
meno, vedere cosa accadeva in quella stanza, eppure qualcuno si è accorto di tutto ed ha avvisato la polizia, dobbiamo capire come sia stato possibile.” Lasciarono il tenente e scesero all’ingresso. “Nessuno deve lasciare l’albergo” intimò Marcelo agli agenti di guardia che si limitarono ad un cenno d’intesa. “Chiamo in centrale, vediamo se possiamo chiarire questa storia” disse Marcelo, più fra sé e sé che non a qualcuno in particolare. Prese il telefono e si spostò nell’angolo della yucca per tornare pochi istanti dopo. “Che ti hanno detto?” Chiese Elisabeth. “La chiamata è stata fatta dalla signora Watson, dall’appartamento 4B del palazzo di fronte. Secondo la registrazione, la donna avrebbe visto un uomo con lunghi capelli castani accoltellare una donna nel piano di fronte al suo. Penso sia il caso di andare a fare due chiacchiere.” Si mosse verso la strada, seguito dalla collega e da alcuni curiosi, forse giornalisti o, forse, semplici amanti del macabro, possibilmente a discapito d’altri. Il palazzo di fronte era di mattoni rossi, più alto dell’albergo e con un enorme negozio di articoli sportivi che occupava tutto il pian terreno. Seguirono le vetrine sino alla porta d’accesso al palazzo e controllarono i camli. Marcelo suonò ed attese. “Polizia” disse, “possiamo salire?” La serratura della porta scattò e i detective entrarono. Uscirono dall’ascensore e trovarono la signora Watson ad attenderli sulla porta del suo appartamento.
“Buongiorno, sono la signora Watson, vi ho chiamati io” disse con l’entusiasmo di un vincitore della lotteria. La tenuta rosa confetto, in tinta coi capelli, le davano un’aria familiare, ma Elisabeth non riusciva a mettere a fuoco la persona di riferimento, eppure assomigliava a qualcuno, ne era certa. “Buongiorno signora” rispose cortesemente Marcelo, “potremmo farle qualche domanda?” “Certo, accomodatevi.” La donna entrò ed attese che i detective la seguissero, poi richiuse la porta con tre mandate. “Prego” disse, indicando il tavolo. Si sedettero su delle vecchie sedie impagliate ed attesero che la donna si unisse a loro ma, anziché imitarli, la signora scomparve in cucina. Marcelo guardò perplesso la collega, chiedendosi cosa stesse succedendo. Pochi istanti dopo, la donna riapparve con un vassoio e tre tazze di ceramica colorata, rosa, ovviamente. “Sapevo che sareste venuti, ho appena fatto il caffè, spero ne gradiate una tazza.” Vista l’ora, entrambi accettarono di buon grado. “Ci può dire perché ha chiamato la polizia?” Chiese Marcelo mentre attendeva che il caffè raggiungesse una temperatura tale da renderlo commestibile. “Certo” rispose la donna con un sorriso smagliante, “ho visto un omicidio.” “Potrebbe essere un pochino più specifica?” “Certo. Erano le cinque meno venti e stavo alla finestra. Non che sia un’impicciona, sia chiaro, ma stavo pulendo la gabbia del mio canarino e quello è il posto più luminoso della casa.” La signora si fermò e sorseggiò il suo caffè e per un attimo, solo un istante,
Elisabeth giurò d’aver visto un lampo di cattiveria attraversarle lo sguardo, una luce di pura e sadica cattiveria e, in scia a questo pensiero, un’altra domanda si aggiunse alla lista, quanto poteva essere luminosa la sua cucina alle cinque meno venti del mattino? “Stava dicendo?” La incalzò Marcelo non sentendola continuare. “Certo, dicevo che ero alla finestra e ho visto quell’uomo accoltellare la donna.” “Quale uomo?” “L’uomo della camera di fronte alla mia cucina.” Marcelo si alzò e si avvicinò alla finestra, poi si voltò sorpreso. “Signora, può venire qui per cortesia?” “Certo.” La donna si alzò e lo raggiunse. “La camera che ha visto è quella esattamente di fronte a noi?” La donna controllò. “Certo” disse. “Sicura?” “Certo” ripeté quasi offesa. “E mi può descrivere la scena?” “Certo, l’uomo urlava e la donna se ne stava ferma in un angolo e, più ava il tempo, più lui sembrava arrabbiato e lei impaurita. Ad un certo punto lui ha preso un coltello e si è lanciato sulla donna, ma sono scomparsi dietro la colonna, così ho chiamato la polizia.” “Mi può descrivere l’uomo?” “Certo, alto come lei, corporatura atletica, con capelli castani lunghi sino alle
spalle, piccoli baffi ed una camicia bordeaux. La donna, invece, era mora, non troppo alta, capelli a caschetto ed era in camicia da notte.” Marcelo fece cenno ad Elisabeth si avvicinarsi. La ragazza eseguì e guardò fuori dalla finestra. “La camera è la 402, quella vicina” disse sorpresa. “Infatti” commentò Marcelo, “quindi, o abbiamo due omicidi contemporanei in due camere attigue, oppure la cosa è più complicata del previsto.” “Non può aver sbagliato camera” disse, sottovoce, Elisabeth, “la descrizione dell’uomo e della scena non sono compatibili con la nostra stanza, ma, quindi, cosa ha visto?” “L’unico modo per scoprirlo è quello di andare a vedere chi c’è nella 402.” Elisabeth si voltò verso la signora e, vedendola ferma ad osservarli nella sua vestaglia rosa ebbe l’illuminazione. Miss Umbridge! “Che ti prende?” Chiese Marcelo, vedendola sorridere. “Niente, scusa” rispose lei, vergognandosi per la divagazione, “andiamo.” Marcelo si avvicinò alla signora Watson e la salutò. “Grazie, signora, ci è stata di grande aiuto.” “Sempre a disposizione” rispose, sorridendo, “e, se vi servisse, Watson si scrive con la W, non con la V.” “Certo” disse Marcelo, “me lo sono segnato.” Tornarono sul pianerottolo ed attesero l’ascensore in silenzio, sempre sotto l’egida attenta della signora in rosa. Una volta entrati nella cabina si scambiarono uno sguardo e, con sorpresa, Marcelo commentò.
“Inquietante” disse. Sorrisero insieme e Marcelo notò una strana luce negli occhi di lei, un lampo breve, ma intenso. Cercò di non pensarci, si voltò ed attese di arrivare al piano. Uscirono dal palazzo e notarono come la nube di curiosi avesse riempito tutta la strada. Era incredibile vedere come un fatto tanto crudele attirasse l’attenzione di tutti, era un’idea che sfuggiva alla sua logica. Lui era abituato a situazioni come quella, ma per lavoro, non si sarebbe mai avvicinato alla scena di un omicidio se non ne fosse stato costretto. Eppure, quelle decine di persone sembravano in fila per un concerto o una mostra d’arte e, più le voci rendevano cruente l’accaduto, più l’eccitazione aumentava, forse era una forma ancestrale di superstizione, finché tocca a qualcun altro non tocca a me, ma era comunque terribile. Si fecero largo tra la folla e rientrarono nell’albergo, risalendo velocemente al quarto piano. Giunti davanti alla porta della camera 402 si fermarono. Marcelo portò la mano alla pistola, ma non la estrasse. Elisabeth lo imitò, poi bussò alla porta. “Polizia” disse. La porta si aprì ed un uomo alto ed atletico si presentò all’ingresso. I capelli castani lunghi sulle spalle, la camicia bordeaux ed i piccoli baffetti fecero scattare l’allarme. Marcelo estrasse la pistola. “Mani in vista” disse. L’uomo sobbalzò spaventato ed alzò le mani. Marcelo fece cenno d’indietreggiare e l’uomo eseguì. Entrarono lentamente sino al tavolo del salottino e si fermarono.
Improvvisamente, dalla camera, una donna mora, capelli a caschetto, fece la sua apparizione. “Che succede?” Chiese, spaventata. Marcelo guardò Elisabeth, poi tornò sull’uomo. “Come si chiama?” Chiese. “Francoise Morel” rispose l’uomo. Marcelo osservò la stanza e non notò nulla che rendesse credibile la testimonianza della signora confetto. Abbassò la pistola e cercò di tranquillizzare l’uomo. “Signor Morel” disse in tono calmo, “una testimone dichiara di averla vista accoltellare una donna in questa stanza circa un’ora fa, una donna descritta come la signora qui presente. Cosa mi può dire?” L’uomo abbassò le braccia, sciogliendosi in un sospiro di sollievo. Marcelo non capì il gesto, ma rimase in attesa. “È tutto chiaro” disse Morel, “è solo un equivoco, un terribile equivoco. Io sono un regista teatrale e questa” disse, indicando la donna, “è la mia protagonista, oltre che mia moglie. Questa sera abbiamo la prima al Florida Theatre della nostra opera e stavamo riando la scena principale.” “Cosa mettete in atto?” Chiese Elisabeth. “Pagliacci, di Leoncavallo. Stavamo provando la scena finale, dove Canio, il pagliaccio, uccide la moglie Nedda per gelosia.” La signora ò ad Elisabeth la locandina della serata e si mise di fianco al marito. “Posso chiedere cos’è successo?” Chiese timidamente l’uomo. “Uno di quegli scherzi del destino che non ci si immagina. La signora di fronte ha visto la vostra recita e l’ha scambiata per realtà, ha chiamato la polizia che,
una volta giunta sul posto, ha trovato un vero assassino, ma nella stanza accanto. Purtroppo l’epilogo è stato tragico. A proposito, voi non avete sentito nulla stanotte?” “Nulla di strano” rispose l’uomo, “siamo andati a letto verso mezzanotte, ma eravamo distrutti dalle prove e siamo crollati, poi, la tensione, ci ha risvegliato verso le quattro e mezza e abbiamo deciso di riprovare alcune scene, sino a quando non abbiamo sentito i due spari.” “E dopo?” “Dopo nulla, anzi, un rumore c’è stato, forse qualcuno che scendeva le scale antincendio verso il vicolo.” “Avete visto chi era?” Chiese Elisabeth senza troppe speranze. “Assolutamente no, chiunque fosse era probabilmente la causa dei due colpi di pistola, volevamo evitarne un eventuale terzo, non so se capisce.” “Perfettamente.” Marcelo diede un’occhiata alla locandina, accorgendosi di non conoscere quell’opera e vergognandosi in segreto per quella mancanza, ma, come diceva sua madre, la cultura la gusti meglio con lo stomaco pieno, e quella era una condizione di cui non aveva goduto spesso. “Vi chiedo scusa per l’entrata” disse, rivolgendosi alla coppia, “ma vi pregherei di non lasciare la camera, i miei colleghi vorranno farvi altre domande.” “Non c’è problema” rispose l’uomo, visibilmente rilassato, “continueremo a provare.” Si diressero alla porta e tornarono sulla scena dell’omicidio. Geremia stava uscendo con la seconda barella e li vide arrivare. “Ragazzi” disse. “Ciao Geremia” rispose Elisabeth.
Marcelo si limitò ad un lieve sorriso di circostanza. “Dubito che il mio lavoro possa aiutare” disse il dottore in tono depresso, “dobbiamo sperare che Alvin trovi qualcosa di utile, questa sta diventando una carneficina.” “Tu sei sempre utile” rispose Marcelo in un vano tentativo di alzare il morale dell’amico. Geremia sorrise, grato dell’impegno profuso dai suoi amici. “Porto questo e torno” disse, dirigendosi verso gli ascensori. “Veniamo con te” disse Marcelo, “qui non abbiamo più nulla da fare, per ora.”
Capitolo 30
Marcelo accostò l’auto al marciapiede vicino all’ingresso della centrale e scese. Attese Elisabeth e si diresse verso la scalinata. Erano sui primi gradini quando, dalla strada, una voce richiamò la sua attenzione. “Marcelo!” Si girò e vide in lontananza la sagoma di Laura che si avvicinava. “Ti raggiungo fra un attimo” disse ad Elisabeth, e scese verso la strada. Elisabeth restò un momento in osservazione, poi entrò nel palazzo. Dieci minuti dopo Marcelo la raggiunse. “Carina” disse lei, fissandolo. “Abbastanza” rispose Marcelo senza guardarla. “Chi è?” “Un’amica.” “Amica?” “Più precisamente una collega, se si può usare questo termine.” “Non sembrava una poliziotta” commentò con un sorriso Elisabeth. “Non è una collega in quel senso, è la responsabile delle attività logistiche di Padre Raphael, della St. Johns, si occupa della raccolta fondi e materiali per le missioni.”
“E tu, da quando ti occupi di missioni?” “Da poco.” “Potrei giurare che l’inizio del tuo impegno sociale coincida con l’incontro con quella signora, o sbaglio?” “Non sbagli, anche se non capisco tutto questo interessamento per le mie attività extra lavorative.” Elisabeth guardò Marcelo con l’intensità che sapeva produrre e lui non riuscì a replicare, se non mentalmente. “Che ne dici se ci mettiamo a lavorare?” Chiese Marcelo in tono polemico. Elisabeth fece una smorfia di assenso e si rivolse al suo terminale. Non aveva idea di cosa fare esattamente, non avrebbero avuto i risultati delle autopsie e delle analisi scientifiche sino al giorno seguente e, senza quelle informazioni, avevano ben poco da controllare. “Ti va di fare un sopralluogo attorno all’albergo?” Chiese a sorpresa Elisabeth. “A che scopo?” “Magari troviamo delle altre telecamere che hanno ripreso il nostro uomo, non si può mai dire.” “Si può fare, a proposito, Chandra ti ha fatto avere risultati sui video dell’albergo?” “Ancora no, e temo che non sia una buona notizia, anche per questo volevo cercare un’alternativa.” Marcelo controllò il suo monitor, come se si aspettasse uno scoop improvviso ma, non vedendo nulla di nuovo, decise che lo spunto della partner non era poi così male. “Andiamo” disse, “non si può mai sapere.” Tornarono all’auto e ripercorsero il tragitto fatto poco prima, ma in direzione
opposta. Arrivarono dalla Statale 10 ed uscirono proprio in prossimità dell’albergo, svoltarono sulla Lane e raggiunsero la zona dal lato est, infilandosi fra due distributori di carburante. “Le pompe di benzina hanno sempre telecamere” disse Elisabeth, cercando d’infondersi un po’ d’ottimismo. “Vero” commentò Marcelo, svoltando nel piazzale della BP. Lasciò l’auto accanto alle pompe e si diressero verso l’ufficio. Entrarono e si ritrovarono in un piccolo bazar atto a soddisfare le esigenze di ogni viaggiatore. Gli scaffali, distribuiti su tutta la superficie del locale, contenevano accessori per auto, giocattoli, riviste, parte delle quali nascoste alla vista, articoli per l’igiene personale e della casa, musica, video e una notevole quantità di cibo. Si diressero verso la cassa, rinchiusa in una piccola area ricavata fra due scaffali. Un uomo non troppo alto, ma abbastanza largo, faceva capolino da dietro al monitor della cassa e li guardò senza parlare, tornando immediatamente ai suoi affari. Marcelo si avvicinò ed estrasse in distintivo. “Morales, omicidi.” L’uomo sgranò gli occhi e mollò la tastiera. “Tranquillo” disse Marcelo, “vogliamo solo farle qualche domanda.” L’uomo si appoggiò allo sgabello che aveva alle spalle e deglutì. “Ditemi” riuscì a sospirare. “Il suo nome?” “Coltrane, Roscoe Coltrane.”
“Buongiorno signor Coltrane, il vostro sistema di telecamere funziona?” “Che sappia io, sì.” “È possibile avere le riprese effettuate questa notte, diciamo, sino alle sei di stamattina?” “Possibile è possibile, ma dubito che vi servano.” “Perché?” “Le nostre telecamere hanno un angolo di ripresa basso, attorno ai 40 gradi, sono nitide, ma lavorano in un’area ridotta, giusto lo spazio per inquadrare le targhe delle auto.” “E cosa le fa pensare che non siano utili?” Chiese Marcelo, avvicinandosi. L’uomo deglutì di nuovo e si sistemò sullo sgabello. “Ho sentito dell’omicidio all’albergo, suppongo voi siate qui per quello.” “Esatto.” “Quindi è lecito pensare che vi servano le inquadrature della strada per verificare le auto che sono arrivate o partite questa notte.” “Di nuovo esatto.” “Appunto. Le nostre telecamere non escono dall’area del distributore, anche per non correre rischi con le denunce sulla privacy. Tutto quello che vedreste nei nostri filmati, sono le auto che hanno fatto rifornimento.” Marcelo guardò Elisabeth, ma ottenne una risposta prevedile, oltre che muta. “Se mi posso permettere, signore” continuò Roscoe, “io non perderei tempo con i miei filmati e nemmeno con quelli del distributore della Shell dall’altro lato della strada. È già successo e, anche loro, utilizzano la nostra stessa politica. Piuttosto potreste provare con il vivaio qui di fronte. Le telecamere non si vedono, ma ci sono, e penso che coprano il perimetro e, quindi, una parte della strada.”
Marcelo annuì soddisfatto, delle telecamere invisibili a loro lo sarebbero state anche per l’S.I. e potevano diventare un’arma letale. Tese la mano verso il cassiere. “Grazie per la collaborazione signor Coltrane, ci è stato molto utile.” L’uomo strinse la mano e Marcelo nascose un certo disgusto sentendola fredda e sudata. Si avviarono alla porta ma, prima di uscire, Marcelo si voltò verso il cassiere. “Mi auguro che quelle persone nel video siano tutte maggiorenni” disse serio. L’uomo non rispose, ma sbiancò e si sedette di peso sullo sgabello. Risalirono in auto e si diressero al vivaio. “Come sapevi dei filmati?” Chiese stupita Elisabeth. “Uomo giovane con impulsi sessuali normali, ma poche possibilità pratiche, pochi soldi e nessuna autostima. a le giornate e le nottate da solo in questo posto con un computer a disposizione. Deduzione normale, avvallata dal riflesso del suo monitor nella vetrina dietro di lui.” Elisabeth lo guardò seria. “Oltre che altruista, ultimamente sei diventato anche spiritoso, la tua amica fa miracoli.” L’espressione di Marcelo tradì una certa irritazione, ma non rispose. Voleva provocarlo, ma non sarebbe caduto nella trappola. Entrarono nel parcheggio del Pat’s Nursery e si fermarono vicino ad una casetta di legno con fiori alle finestre che fungeva da ufficio. Percorsero il tappeto d’erba finissima che conduceva alla porta d’ingresso e si avvicinarono al banco. “Buongiorno” disse la ragazza che li attendeva, “come posso esservi utile?”
Marcelo mostrò il distintivo. “Buongiorno” disse, “detective Morales e Wright, avremmo bisogno del vostro aiuto.” La ragazza rimase interdetta e si voltò verso l’ufficio nel retro della casetta. Un uomo alto, dal fisico atletico e dal completo di sartoria uscì dalla porta a vetri e li raggiunse. “Patterson” disse, “sono il titolare, cosa posso fare per la polizia?” “Avremmo bisogno dei filmati delle vostre telecamere esterne, se possibile.” “Non abbiamo telecamere esterne” disse con noncuranza Patterson. “A noi risulta il contrario” insistette Marcelo. “Le assicuro che non abbiamo telecamere sulla strada” ribadì Patterson, imperturbabile. “Non insisto” rispose Marcelo, “pensavo solo che un po’ di collaborazione fosse possibile senza ricorrere ad obblighi legali come un mandato, ma, se la mette così, torneremo con tutti i mezzi necessari, per questo e, magari, per altri argomenti.” Si voltò e finse d’andarsene. “Aspetti” disse Patterson. Marcelo si voltò. “Forse una delle telecamere del vivaio inquadra una parte della strada, vado a prendere i filmati.” “Grazie” rispose Marcelo. L’uomo tornò nel suo ufficio e armeggiò col mobile che, presumibilmente, conteneva il registratore. Le espressioni sul viso, seppur lontano, davano a Marcelo l’idea che non fosse
troppo convinto di quello che stava facendo o, in alternativa, non avesse ancora deciso fin dove arrivare. Tornò dopo cinque minuti con due dvd in mano. “Solo una cortesia, se possibile” disse. “Se possibile” ripeté Marcelo. “Sui filmati potrebbero esserci situazioni delicate, non so se mi spiego, se non fossero rese pubbliche ve ne sarei molto grato.” “Se sono delicate, ma legali, nessuno ne saprà niente, ha la mia parola” rispose Marcelo. L’uomo sembrò rincuorato dalla promessa e ò i dvd a Marcelo e, stavolta, un lieve sorriso comparve sul suo viso, forse più di tensione che di sollievo, ma era pur sempre un segnale. Tornarono all’auto e rimasero fermi per qualche istante. “Non andiamo?” Chiese Elisabeth. “Pensavo che ormai è ora di pranzo e c’è un grill proprio qui vicino, che ne dici?” “Dico che è un’ottima idea.” Marcelo accese il motore, fece inversione e raggiunse il Bono’s Bar B-Q. Una bella struttura in pietra, simile ad una villa, occupava il centro di un grande piazzale. Il rosso dominava la costruzione, tutto quello che non era in pietra era di colore rosso intenso, così come l’insegna del locale. Si fermarono nell’area esterna e si accomodarono ad un tavolo che, per caso, puntava verso l’ingresso del vivaio. “Volevi controllare Patterson o è solo una coincidenza?” Chiese Elisabeth.
“Non credo che Patterson abbia qualcosa da nascondere, non a noi almeno, magari alla moglie, ma questo è un problema suo. Ho scelto questo tavolo perché era il più vicino.” Elisabeth sorrise, prese il menù ed iniziò a leggerlo. “Io prenderei una Grilled Chicken Salad” disse al cameriere. “Faccia due” aggiunse Marcelo. Elisabeth si appoggiò allo schienale, incrociò le braccia e guardò Marcelo. “A parte le battute” disse, “hai detto che la tua amica raccoglie materiale per le missioni. Mia madre ha un sacco di vecchi vestiti che non usa più, oltre ad altre cose che, a loro, potrebbero essere utili, potrei fare un salto a St. Johns e portargliele.” “È un’ottima idea” rispose Marcelo, “credo, tra l’altro, che possano venire a prenderle loro, se fossero troppo grandi o se non ti andasse di andare di persona.” “Bello, ma mia madre non ama gli estranei, me ne occuperò io.” Stava ancora finendo la frase quando si alzò e prese il telefono. “Parli del diavolo…” disse. Il cameriere arrivò coi piatti, ma Marcelo attese che Elisabeth finisse la telefonata. “Tutto bene?” Chiese quando tornò a sedersi. “Sì, tutto normale” rispose Elisabeth. Per qualche minuto rimasero in silenzio, gustandosi l’insalata e l’aria tiepida di quella giornata, poi Marcelo posò il tovagliolo e prese il telefono. “Sento a che punto è Geremia, magari iamo da lui nel ritorno.” Cercò in rubrica il numero ed inoltrò la chiamata.
La suoneria di Elisabeth si diffuse nell’aria. La ragazza prese il telefono e controllò. “Stai chiamando me” disse, sorpresa. “Scusa” rispose Marcelo, “ma non ho contatti con la F e tu sei subito prima di Geremia, ho sbagliato riga.” Chiuse la chiamata ed inoltrò quella corretta. Dopo due minuti posò il telefono. “Ha detto che sta eseguendo l’ultima autopsia, possiamo are fra un’ora. Nel frattempo io tornerei all’albergo, vediamo cosa troviamo.” “D’accordo” rispose la ragazza. Si alzarono e si diressero all’auto per quello che sarebbe stato l’ennesimo breve viaggio della giornata. Si fermarono davanti all’ingresso dello Sleep Inn due minuti dopo e si accorsero di come tutto sembrava tornato alla normalità, gli agenti erano spariti e, con loro, le lunghe strisce di plastica gialla. L’unica cosa ancora presente a ricordare la tragedia notturna, era la folla di curiosi che continuava a presentarsi in cerca d’informazioni. Entrarono e ritrovarono il portiere che avevano incontrato poche ore prima. “Signor Dufrè” disse Marcelo arrivando. “Buongiorno” rispose l’uomo, “posso aiutarvi?” “Dovremmo visionare la stanza, ci sono ancora i nostri colleghi?” “No, se ne sono andati un paio d’ore fa, ma hanno lasciato la chiave.” Aprì un cassetto e tolse il badge, porgendolo a Marcelo. “Il tenente ha detto che sicuramente sareste tornati e di darlo a voi.”
“Siamo prevedibili” disse Marcelo, sorridendo. Prese la tessera e si diresse verso gli ascensori. Raggiunsero il piano e si fermarono sul pianerottolo. “Questo piano ha solo due stanze ed erano entrambe occupate” disse Marcelo, cercando di riepilogare la situazione. “L’unica porta presente porta al tetto.” Si avvicinò e controllò la struttura. “È troppo pesante per essere scassinata e la serratura è troppo complessa per essere forzata velocemente.” Percorse tutta l’area del piano, controllando dal pavimento al soffitto. “Dev’essere uscito per andarsene, aveva finito il suo lavoro, ma è stato intercettato dai due agenti. Non aveva via di fuga, non poteva rientrare né uscire da un’altra parte, ha dovuto aspettare.” “Quindi” intervenne Elisabeth, “è stato obbligato a qualificarsi.” “Esatto. Si è presentato come poliziotto e, di conseguenza, non poteva permettersi di estrarre una pistola col silenziatore, sarebbe stato un tantino sospetto.” “Pensi abbia usato quella d’ordinanza?” Chiese Elisabeth poco convinta. “Dubito che sia caduto in un errore simile, magari lo avesse fatto, sarebbe spacciato. Purtroppo penso che abbia tolto il silenziatore all’arma dei delitti ed abbia usato quella.” Marcelo prese il badge ed aprì la porta. La macchia di sangue accanto al tavolo gli fece correre un brivido lungo la schiena, spostò lo sguardo verso la camera e vide le altre macchie, peggiorando la situazione. “Io sono Klinderen” disse Marcelo voltandosi verso la porta, “sono entrato per
secondo e copro le spalle al mio collega. Improvvisamente succede qualcosa, mi volto verso il terzo uomo, ma vengo freddato da un colpo a distanza ravvicinata, crollo a terra e, forse, sporco di sangue il mio assassino, magari sulle scarpe.” Marcelo si avviò verso il bagno e ne uscì due secondi dopo. “O’Kinney sente il colpo, esce di corsa dal bagno, ma viene colpito in pieno e crolla vicino al letto. A questo punto devo andarmene, ma non posso salire sul tetto e voglio evitare l’ingresso, probabilmente è affollato. Potrei scendere al piano inferiore e cercare un’uscita da quella parte, ma è presumibile che i colpi abbiano svegliato tutti e nessuno aprirà mai la porta. L’unica via di fuga rimane la finestra sul vicolo.” Elisabeth si spostò verso la finestra e provò ad alzarla. “È troppo dura” disse, insistendo inutilmente. Marcelo si avvicinò e provò ad aprirla, riuscendoci non senza difficoltà. “Serve parecchia forza” commentò Elisabeth, “io non ci sono riuscita.” “Potrebbe essersi bloccata quando l’assassino ha tentato di richiuderla dopo essere uscito” disse Marcelo, “altrimenti l’avrebbe chiusa completamente.” “Vero” disse Elisabeth poco convinta. Uscirono sulla scala antincendio e guardarono il vicolo. “Notte, lavori in corso e vegetazione” disse Marcelo, “di qui poteva are un esercito senza che nessuno se ne accorgesse.” Cercò qualche telecamera nel vicolo, ma fu tutto inutile, nessuno avrebbe speso soldi per controllare una strada deserta e senza accessi, quindi rientrarono in camera e chio la finestra. Osservarono nuovamente la stanza, come se potesse materializzarsi improvvisamente un indizio sfuggito alla squadra della scientifica ma, ovviamente, non accadde nulla, tutto era esattamente come le volte precedenti, se solo non ci fossero state quelle due macchie di sangue in eccesso.
“Qui non possiamo fare nulla, andiamo da Geremia” disse, rassegnato, Marcelo. Scesero in portineria e riconsegnarono il badge. “Grazie signor Dufrè, lo tenga da parte, ma solo per la polizia.” Il portiere prese il badge e salutò, restando immobile in attesa che uscissero. “Un’ultima cosa” disse Marcelo, tornando sui suoi i, “la finestra della camera, che lei sappia, era già bloccata ieri?” “Controllo” rispose l’uomo. Prese un piccolo quaderno e fece scorrere le pagine velocemente. “Sì” disse poco dopo, “è stata segnalata ieri mattina, ma la manutenzione non ha avuto il tempo per intervenire, l’avrebbe fatto oggi.” “Perfetto, grazie.” Tornarono all’auto, destinazione Margaret street. Il laboratorio del dottor Kruner era di strada ed il viaggio fu breve, connotazione tipica dei movimenti di quella strana giornata. Quando arrivarono, trovarono Geremia ad attenderli, seduto sulla panchina accanto all’ingresso. Alzò la testa e li guardò inespressivo. Si avvicinarono e si sedettero insieme a lui. “Tutto bene?” Chiese Marcelo, appoggiandogli una mano sulla spalla. “Non peggio di altre volte sarebbe più corretto” rispose il dottore. “Puoi darci qualche notizia utile?” “Vediamo, l’uomo sul letto è morto tra le tre e le quattro del mattino e, cosa nuova, ha subìto l’amputazione quando era ancora vivo. I due poliziotti lo sapete. Ad occhio, i proiettili sono uguali ma, per quello, vi saprà dire di più
Alvin, per il resto, niente di rilevante.” Marcelo strinse la presa, cercando d’infondere conforto all’amico. Geremia appoggiò la mano sulla sua e si sforzò di sorridere. Non era semplice abbattere il morale di Geremia, ma quel bastardo c’era riuscito, non tanto per la serie di omicidi, ma soprattutto per l’uccisione di due giovani agenti e la possibilità, tutt’altro che remota, che la storia si protraesse ancora per molto, con sviluppi inimmaginabili. Marcelo si alzò e diede un colpetto sulla spalla del dottore. “Grazie Geremia, se ho novità ti avviso.” Kruner mosse il capo, ma non rispose. Era stata una giornata lunga, intensa e ricca d’eventi. Quanto questi eventi potessero rivelarsi utili per la loro indagine era ancora da scoprire, per ora potevano solo aspettare. Tornarono in centrale con una sola convinzione, dovevano fare in fretta, il peggio, forse, non era ancora arrivato.
Capitolo 31
Elisabeth rallentò allo svincolo fra la Forsyth e la Market, la chiesa di St. Johns era pochi chilometri a nord, poteva farci un salto, dopotutto era ancora presto. Svoltò a destra e si immise sulla Market Street, la percorse fino alla fine e si ritrovò davanti l’imponente sagoma della cattedrale. Eseguì una esse ed entrò nella strada che ospitava l’ingresso principale della chiesa, fermò l’auto e scese. L’enorme struttura a doppio ingresso rappresentava un fulgido esempio di architettura neo gotica di fine ottocento, anche se, la guerra civile prima e un enorme incendio poi, avevano obbligato la diocesi a ricostruirla più volte, per raggiungere l’attuale struttura solo nel 1906. Due ingressi gemelli, uniti da un porticato in pietra, costituivano l’anima della costruzione. Un portone in legno di oltre tre metri, sovrastato da un rosone di pietra, fungeva d’accesso, quasi intimidatorio, alla navata principale e l’insieme della costruzione, col piazzale antistante, occupava un intero isolato. Rimase per un momento meravigliata, e anche un po’ intimorita, da tanta magnificenza, unità, però, ad una certa eleganza, fece scattare l’antifurto ed iniziò a salire la scalinata. Sul sagrato vide un uomo in abiti talari e si avvicinò. “Mi scusi” disse Elisabeth, “cercavo Padre Raphael.” “Sono io” disse l’uomo, uno splendido cinquantenne in ottima forma, capelli corti brizzolati ed occhi scattanti. “Buonasera padre” disse Elisabeth, “mi hanno detto che voi raccogliete fondi e materiali per le missioni.”
“Certamente, anche volontari, se è per questo.” Elisabeth sorrise. “Per il volontariato e i fondi non posso essere d’aiuto, ma per il materiale penso di avere parecchie cose utili.” “Questa è una buona notizia” disse Padre Raphael, “siamo sempre in cerca di tutto, non crederebbe mai quanto un nostro scarto possa essere utile in altri paesi o altre realtà.” “Immagino, per questo pensavo di portarvi un po’ di merce, ma volevo vedere come organizzarmi.” Padre Raphael tolse un taccuino dalla tasca e cercò una penna, ma il suo sguardo venne attirato da una giovane donna bionda che ava ai piedi della scalinata. La donna li guardò inespressiva, poi proseguì per la sua strada, entrò nel parcheggio e salì sulla sua auto. Padre Raphael restò sospeso per un attimo, era un prete, ma pur sempre un uomo, e l’impatto visivo non era ancora classificato come peccato, nemmeno per lui. “Mi scusi” disse, cercando una giustificazione, “non dovrei lasciarmi distrarre da certi messaggeri del demonio, ma creda, mi limito alla distrazione.” “Non si preoccupi padre, capisco.” Padre Raphael prese la penna ed appuntò un indirizzo su di un foglio e lo ò ad Elisabeth. “Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto, perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Luca undici, nove, undici.” Elisabeth cambiò espressione, una luce strana apparve nei suoi occhi ed una smorfia increspò il suo viso. “Tutto bene signora?” Chiese Padre Raphael.
“Devo farle una domanda, padre, ma mi deve promettere che tutto quello che diremo resterà fra noi.” “È il mio lavoro, sono abituato a queste richieste.” Elisabeth mostrò il distintivo e controllò l’area attorno a loro. “Stiamo indagando sul serial killer degli alberghi” disse. “Ne ho sentito parlare” disse Padre Raphael, piuttosto preoccupato. “L’assassino ha l’abitudine di lasciare sul luogo del delitto dei biglietti con delle scritte apparentemente senza senso. Abbiamo valutato l’ipotesi di citazioni, ma le possibilità sono infinite. Quando lei ha citato Luca, ho visualizzato una scritta che trovavo spesso sui libri di catechismo L11911 e l’immagine mi ha proiettata ai biglietti del nostro assassino. Se le mostro alcuni dei messaggi può dirmi cosa ne pensa?” Padre Raphael si voltò in tutte le direzioni poi disse. “D’accordo, ma non qui.” Si mosse verso la chiesa, seguito da Elisabeth, e raggiunse uno dei portoni principali. Entrarono nella grande navata ed un soffio d’aria fresca li colpì, le grandi mura in pietra fungevano da isolante tenendo fuori il caldo, anche se, quel giorno, non era poi così intenso. Si fermarono a metà navata e si accostarono ad un confessionale. “Mi mostri i messaggi” disse il prete. Elisabeth estrasse il cellulare ed aprì una cartella di fotografie. Il primo messaggio comparve sullo schermo. M527528532
Padre Raphael fissò lo schermo per un tempo interminabile. “Marco, no, Matteo” borbottò, fra sé e sé, il prete. Elisabeth attese in silenzio, era incappata in un’incredibile opportunità, aveva quasi paura che fosse un altro buco nell’acqua, ma cercò di scacciare quel pensiero, chiuse per un attimo gli occhi ed attese. “Ho una corrispondenza” disse il prete, “non sono certo sia quella esatta, ma direi che si presta molto bene alla situazione.” “Mi dica, padre” disse Elisabeth ansiosa. “Matteo 5.27 5.28 5.32 sono tre i del vangelo di Matteo.” “E cosa dicono, esattamente?” “Dicono: Voi avete udito che fu detto: "Non commettere adulterio”, ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore, ma io vi dico: chiunque manda via sua moglie, salvo che per motivo di fornicazione, la fa diventare adultera e chiunque sposa colei che è mandata via commette adulterio.” Elisabeth rimase attonita, era evidente che il gesto dell’assassino fosse legato all’infedeltà, l’anulare mozzato, già di per sé, era un indizio sufficiente, ma qui si parlava di fanatismo religioso, non era una questione personale fra lui e una vittima, ma fra lui e tutti gli infedeli della città, una lotta impari, ad una prima analisi. Prese il telefono e fece scorrere le fotografie sino al secondo messaggio. “Posso chiederle di guardare anche questo? Lei è molto più veloce di me.” “Non c’è problema” rispose il prete. Controllò il telefono. HSB56829 Padre Raphael si concentrò di nuovo.
La sua memoria era ottima e la sua preparazione teologica importante, era una sfida che poteva vincere senza troppa fatica, se non fosse stato per l’iniziale. Se, come prevedibile, le lettere indicavano il nome o il libro da cui era tratta la citazione, lui non ne trovava traccia nella sua memoria. “Questo non lo riconosco” disse, “mi dispiace, potrebbe essere tratto da un testo non cristiano.” Elisabeth non si demoralizzò e, per verificare l’idea, mostrò il terzo biglietto. DAT2222 Questa volta Padre Raphael superò sé stesso, trovando la citazione quasi in tempo reale. “Deuteronomio, Antico Testamento, 22:22 Quando un uomo verrà colto in fallo con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l’uomo che ha peccato con la donna e la donna.” Elisabeth mise in tasca il telefono, non ritenne necessario mostrare l’ultimo messaggio, aveva capito il metodo e se lo sarebbe ricavato da sola. Restò in silenzio, fondendo l’angoscia per la scoperta con la serenità che le trasmetteva la chiesa. “Secondo lei” disse il prete vedendola distante, “serve una preparazione teologica per questo?” Elisabeth scosse la testa. “Penso basti una bibbia, o, ancor meno, una connessione ad internet, chiedi quello che ti serve e trovi la risposta, anche perché, di fondo, queste sarebbero domande normali.” “Quindi, non vi aiuta più di tanto.” “No, direi di no, ma girerò le informazioni al nostro profiler, magari a lui daranno qualche idea. Ora devo andare, ma vorrei ringraziarla per il suo aiuto.” “Sono un prete” rispose Padre Raphael, “la mia missione è aiutare gli altri, sia
fisicamente che spiritualmente, e se il mio contributo servirà a fermare degli omicidi, beh, penso che si possa considerare parte del lavoro.” “Può darsi, ma c’è modo e modo di fare il proprio dovere e lei lo fa veramente bene.” Padre Raphael sorrise, prese sottobraccio Elisabeth e si diresse verso l’uscita. La luce della sera incorniciava la chiesa, rendendo l’immagine quasi surreale. “Per quell’altra cosa” disse il prete, “le missioni, intendo, può andare lei a quell’indirizzo oppure, se preferisce, può chiamare il nostro centro di coordinamento e prendere appuntamento, eremo noi a ritirare tutto a domicilio.” “Ottimo, devo solo vedere quante tonnellate di merce devo portarvi” rispose Elisabeth sorridendo, “a proposito” continuò, “devo chiedere di qualcuno in particolare?” “Chieda pure di Padre Anthony o della signora Carmela, si occupano loro di tutto.” Elisabeth salutò il prete e si diresse alla sua auto. Aveva due nuove informazioni da gestire, entrambe inattese ed entrambe inquietanti.
Capitolo 32
Sophie entrò nel laboratorio e vide Marcus chino sulla camicia dell’ultima vittima. Il ragazzo la senti e si sollevò. Sarà stata la barbetta da capra, o i capelli scompigliati, o gli occhiali a lente multipla che portava sul naso, ma a Sophie parve di vedere una figura mitologica. “Quindi?” Disse Marcus. “Scusa” rispose lei, ridendo, “ma per un attimo mi è parso di trovarmi davanti ad un fauno.” Marcus non rispose e tornò alla camicia, mentre Sophie cercò di riprendersi e si spostò verso lo spettrometro di massa in attesa di un risultato. La macchina, come se l’avesse sentita arrivare, lanciò il suo suono di vittoria e mise in funzione la stampante. Sophie attese che il foglio fosse completato, lo raccolse e lo posò sul tavolo. Nello stesso istante, Stewart entrò nel laboratorio. “Come andiamo?” Chiese, speranzoso. Sophie prese il foglio e lo unì al resto della documentazione, mentre Marcus tolse gli occhiali e si unì al gruppo. “Inizio io” disse la ragazza, come se fosse possibile il contrario. “L’analisi del sangue ha rilevato valori di ossigeno e di adrenalina elevati, sintomo che l’uomo era ancora vivo al momento dell’amputazione. Le scarse tracce di sangue presenti, se riferite ad una amputazione peri mortem, sono
spiegabili con i segni lasciati dall’elastico sul braccio della vittima e il contenuto di calcio libero o ionizzato presente nel sangue, valori giustificabili solo con l’esposizione a bassissime temperature, probabilmente ottenute con ghiaccio spray, del tipo usato dagli atleti.” “Sembra un’azione premeditata” commentò Stewart, approfittando di una pausa della collega, “non l’omicidio, ovviamente, ma la metodologia. C’è un’impennata di violenza non evidenziata negli omicidi precedenti.” “Esatto” disse Sophie, riprendendo il comando del gioco, “sicuramente e stata la stessa persona, i proiettili delle tre vittime sono uguali e corrispondono a quelli degli omicidi precedenti. L’unica piccola differenza è data dall’assenza del silenziatore, che ha lasciato striature leggermente deformate, ma la compatibilità dei proiettili non è in discussione. Il taglio è avvenuto con il medesimo attrezzo e persino l’angolazione corrisponde, così come c’è riscontro sulla miscela di detergenti usati per pulire la camera. In conclusione…” La parola conclusione pronunciata da Sophie era l’equivalente di una dose di metadone per un tossico in crisi d’astinenza, ridava vita ai colleghi ormai prossimi al crollo. Sophie si accorse delle facce ironiche dei due uomini e fece una smorfia da finta offesa, ma proseguì. “Dicevo, in conclusione, è sicuramente stato lo stesso uomo.” Stewart prese il raccoglitore con la documentazione ed iniziò a sfogliare le pagine. “Tu che mi dici?” Chiese a Marcus. “Il sangue sulla scena è delle tre vittime, non ci sono tracce di alcun tipo, se si esclude la macchia ai piedi del primo poliziotto.” Marcus accese il video e ò la fotografia della macchia. “la forma delle ellissi delle gocce indica un impatto ad alta velocità, con caduta dall’alto. La posizione del cadavere conferma che si trovava in piedi al momento dello sparo e l’assassino era davanti a lui.”
Marcus prese fiato, una frase così lunga non era nel suo repertorio abituale. “La scarsità di sangue” intervenne Stewart in suo aiuto, “è dovuta al fatto che, un colpo alla testa blocca immediatamente le funzioni cardiache e, quindi, la spinta del sangue, riducendone la fuoriuscita.” “Esatto” riprese Marcus, “ma la macchia sul pavimento ha un’anomalia.” Marcus prese il puntatore laser ed indicò un punto nella parte lontana rispetto al cadavere. “Qui si intravede un semicerchio che non dovrebbe esistere. In base alla diffusione delle gocce, almeno una doveva ricadere in quest’area. L’assenza totale indica che qui c’era qualcosa, probabilmente la scarpa dell’assassino.” Stewart riguardò per l’ennesima volta i fogli che teneva in grembo, li riunì e richiuse il faldone. “Ottimo lavoro ragazzi” disse, “anche se ho paura che ci porti a poco.” L’espressione del tenente era disarmante. Conoscevano Alvin da solo un anno, anche se il termine solo, per chi lavora a contatto di gomito dieci ore al giorno, non è esattamente corretto, ma non lo avevano mai visto così depresso. Capivano entrambi la drammaticità della situazione, ma la reazione del capo sembrava spropositata, al di sopra della regola del non coinvolgimento, sventolata ai quattro venti ogni giorno. Se si fosse trattato di un’altra persona, avrebbero giurato che dietro ci fosse una questione personale, ma il capo era immune a queste storie, era felicemente spostato da trent’anni, e nulla faceva supporre che ci fosse un nesso fra lui e la particolarità del caso. “Tutto bene capo?” Chiese Sophie, preoccupata. Stewart la guardò con la dolcezza con cui un padre guarda una figlia, si alzò e le mise una mano su di una spalla.
“No. Non sono sicuro di come si possa chiamare questa sensazione, non mi era mai capitata, ma mi sento inutile, incapace, inadeguato. Penso che dovrei farmi da parte e lasciare spazio a qualcuno veramente bravo che catturi questo mostro in fretta.” “Se tu sei inadeguato, noi dovremmo buttarci a mare” rispose Sophie. “Confermo” aggiunse Marcus. “C’è un vecchio proverbio se che dice: Amour, toux et fumeé en secret ne font demeurée, che tradotto significa: Amore, tosse e fumo non possono essere mantenuti segreti. Beh, io aggiungerei anche i serial killer, soprattutto se c’è una squadra come la nostra a dargli la caccia.” Sophie tese la mano davanti a sé. Marcus capì l’idea e la imitò, appoggiando la sua sopra quella della collega. Stewart li guardò, grato dell’impegno e, in parte, veramente rincuorato dalle parole. Accennò un sorriso e tese la mano sulle altre due e, con sorpresa di tutti, disse: “tous por un, un por tous.” Sophie lo abbracciò, mettendolo in imbarazzo, ma, allo stesso tempo, dandogli la carica che gli mancava. Marcus si limitò ad una poderosa stretta di mano, ma veramente sincera. Stewart li guardò orgoglioso, avere collaboratori d’alto livello professionale era importante, avere grandi uomini e donne era l’eccelso assoluto. Radunò tutti i documenti del caso e li ripose in una valigetta, l’indomani doveva presentare un rapporto al resto della squadra e voleva farlo al meglio.
Capitolo 33
“Emily!” Chiamò Pennington. “Comandante.” “Fra pochi minuti arriverà la squadra per il briefing, potrebbe, per cortesia, portare dell’acqua e del caffè?” “Subito, comandante.” “Lei è un angelo” disse Pennington, “cosa farei senza di lei.” “Troverebbe un’altra assistente” rispose sorridendo il sergente Scott. Il comandante si sedette convinto che, in fondo, Emily avesse ragione, ma non era il caso d’ammetterlo pubblicamente. Stava ancora riordinando le sue cose quando, sulla porta, apparve il dottor Lecter. “Posso?” Chiese. “Eddy, vieni, accomodati.” “Scusa, ma non c’era nessuno e così sono entrato.” “Hai fatto bene, ho mandato Emily a preparare del caffè, ne avremo bisogno.” “Novità?” domandò il dottore. “Purtroppo sì” rispose laconicamente Pennington. La risposta non era certo quella che si attendeva, ma non si scompose, si accomodò sulla poltrona più esterna, quella defilata verso la finestra, si sistemò la giacca ed attese.
Pochi istanti dopo, come in processione, apparvero sulla porta gli altri membri di quella improvvisata squadra. Emily, con il vassoio, guidava la fila, seguita a ruota da Elisabeth, Marcelo, Stewart e Chandra. “Ottimo” disse il comandante, vedendoli entrare, “ci siamo tutti.” Presero posto senza parlare ed attesero, ognuno concentrato sulla propria porzione d’informazioni. “Signori” esordì Pennington, “siamo di nuovo qui per fare il punto su di una situazione che va peggiorando di volta in volta. Questa storia, se possibile, sta prendendo una piega ancor peggiore del previsto e fermare questo pazzo è diventata la priorità assoluta di tutto il dipartimento.” Tutti guardavano il comandante, concordando con lui su ogni singola parola, ma sapendo perfettamente che la cosa era ben più difficile di quanto sperassero. “Il dottor Kruger non è potuto essere dei nostri, ma ha mandato un rapporto completo che, per altro, non contiene nulla che già non sapessimo, quindi, io farei cominciare il tenente Stewart, prego, Alvin.” Stewart si accomodò sulla poltroncina e guardò i suoi colleghi. “Ci sono alcune differenze fra questo omicidio e i precedenti” disse calmo. “La più significativa, tralasciando per un attimo il numero delle vittime, è l’eccesso di violenza che l’S.I. ha utilizzato. Abbiamo trovato segni di un laccio emostatico sul braccio della vittima e variazioni chimiche del sangue, causate molto probabilmente dall’utilizzo di ghiaccio secco, che ci danno la certezza che l’amputazione dell’anulare sia avvenuta quando la vittima era ancora viva. Purtroppo, come sempre, non ci sono tracce che ci possano indirizzare verso questo misterioso personaggio, l’unico dettaglio che abbiamo riscontrato è che, con tutta probabilità, l’assassino si sia sporcato le scarpe col sangue del primo poliziotto ucciso, anche se, di per sé, non ci aiuta molto. Per il resto, i proiettili risultano compatibili fra loro e sono stati sparati dalla stessa pistola dei casi precedenti e l’utensile utilizzato per l’amputazione sembra il medesimo, quindi, oltre a dirvi che siamo certi che l’assassino sia sempre lo stesso, non posso dirvi di più.”
La prima esposizione, quella più tecnica e rilevante, quella che avrebbe potuto rivelare nuove informazioni fondamentali per la soluzione del caso, era ata senza lasciar traccia, proprio come il loro soggetto ignoto. Le facce dei presenti, nessuno escluso, davano l’idea di come si sentissero in quel momento. Erano come un drappello di soldati assediati in attesa dei rinforzi che gli faranno vincere la battaglia, ma scoprono che i loro salvatori sono stati distrutti prima d’arrivare da loro. Pennington scarabocchiò qualcosa sul foglio che teneva davanti, poi alzò lo sguardo verso Marcelo. “Morales, tu che mi dici?” Chiese. “Purtroppo sono allineato con Alvin. Nessun testimone, se si esclude la signora Watson, che non vi raccomando, e che, per altro, ha visto un omicidio inesistente nella camera accanto.” “In realtà” intervenne Elisabeth, “un paio di cose ci sarebbero, ma non vi piaceranno.” L’espressione di Pennington, già di per sé abbattuta, subì un tracollo definitivo, guardò Elisabeth con la supplica negli occhi, e, malvolentieri, chiese: “Sarebbero?” Elisabeth s’inumidì le labbra e prese tempo, poi spiegò le conclusioni alla quale era arrivata. “Ieri sera sono ata da St. Johns per parlare con Padre Raphael in merito alle loro raccolte benefiche e, tra una cosa e l’altra, il padre ha fatto una citazione biblica. Ho avuto un’illuminazione e mi sono permessa di mostrargli uno dei messaggi che abbiamo trovato sulle vittime. Padre Raphael ha ricavato una citazione dal vangelo di Matteo, citazione legata all’adulterio. Stessa cosa per gli altri messaggi, diversi gli autori e i libri, si va dalla Bibbia al Corano e alla Tanakh ebraica, ma comune l’argomento.” “Almeno abbiamo la conferma di una cosa che sospettavamo” commentò
Pennington, “e l’altra cosa?” “Io e Marcelo abbiamo analizzato la probabile sequenza degli eventi di ieri mattina e siamo giunti ad una conclusione. C’è un solo motivo che può aver spinto i due agenti ad entrare nella camera dove si era appena consumato un tremendo omicidio, lasciandosi qualcuno alle spalle, quel qualcuno godeva della loro massima fiducia e questo significa solo una cosa, era un poliziotto.” Pennington pregò di avere un infarto rapido, mentre Lecter e Stewart si guardarono increduli. Solo Chandra non batté ciglio, ma per lui era normale, nessuno era al di sopra dei sospetti, in nessun caso. “Una eventuale alternativa?” Chiese disperatamente Pennington. “Abbiamo cercato anche noi” ripose Marcelo, “ma non ne abbiamo trovate. La porta che conduce al tetto era bloccata, l’altra stanza occupata e sulle scale c’erano gli agenti. L’uomo non può essere arrivato dopo. Se fosse stato al piano inferiore, se la sarebbe svignata una volta ati gli agenti, non sarebbe certo salito al piano superiore per fare un massacro inutile, ciò significa che era sul pianerottolo quando sono arrivati, eppure non se ne sono preoccupati, anzi, lo hanno lasciato in copertura, come da protocollo, se l’uomo è un collega di grado superiore.” Il silenzio avvolse la stanza, unico ed incontrastato padrone di quel momento. Tutti cercavano uno spiraglio, un qualsiasi appiglio che potesse dimostrare che la loro tesi era confutabile, ma, purtroppo, ogni sforzo era vano e finivano sempre per dar ragione ad Elisabeth. Pennington si versò del caffè, lasciò scorrere lo sguardo sui presenti che, a turno, annuirono. Riempì i bicchieri e li servì. “Avrete notato” disse poco dopo, cercando una boccata d’aria che gli evitasse un tracollo, “che oggi è con noi anche il dottor Chandra, del settore informatico. Si sta occupando di un paio di cose ed ora ci dirà a che punto è, dottore, se vuol procedere.” Chandra aprì un blocco notes, non che servisse, le cose da dire non erano molte e se li ricordava alla perfezione, ma la prudenza non era mai troppa.
“Come per tutte le altre volte, le telecamere non hanno ripreso l’assassino, che, per giunta, è anche molto fortunato. Il vivaio accanto all’albergo ha delle telecamere di cui in pochi sono a conoscenza, eppure, nemmeno quelle sono servite.” Nessuno commentò, come se la negatività della notizia fosse scontata. “Abbiamo poi le fotografie su internet” continuò Chandra, “che, tanto per cambiare, non ci sono d’aiuto. Il sito che gestisce queste fotografie è, ovviamente, anonimo, utilizza un protocollo onion routing, chi le ha postate ha fatto rimbalzare i link su server TOR di mezzo mondo, e il sistema utilizza un circuito virtuale crittografato a strati, rendendo impossibile localizzare il punto di partenza, oltre che il contenuto.” “Questo significa che l’S.I. è un esperto informatico?” Chiese stupita Elisabeth. “No, non credo. L’accesso al deep web è anonimo per principio, non serve molto per scomparire completamente, ma servono molte competenze per entrare e muoversi come ha fatto la persona che ha caricato le fotografie.” “Quindi ha un complice” insistette Elisabeth. “Sicuramente qualcuno lo ha aiutato, ma questo non significa che sia d’accordo con lui.” “Mi perdoni” intervenne Pennington, “io sono di un’altra epoca e mi sono perso subito dopo le telecamere, potrebbe fare una traduzione per un vecchio poliziotto?” “Certo, mi scusi comandante” rispose Chandra, “quello che volevo dire, in sintesi, è questo: per riuscire a fare il lavoro come lo abbiamo trovato, servono competenze informatiche complesse, quindi, o il nostro uomo fa parte del reparto informatica, entro il quale inserirei anche la squadra speciale crimini informatici, oppure si è appoggiato a qualcuno.” “Ma lei sostiene che questo qualcuno potrebbe essere all’oscuro di quello che ha fatto, ma non è illegale quel coso dove avete trovato le fotografie?” Chiese, spazientito, Pennington. “Non esattamente” rispose Chandra, mantenendo un’invidiabile calma, “sul deep
web ci sono sicuramente molte cose illegali, vendita di armi, droghe, contrabbando ed altro, ma non è di per sé illegale. Ci sono aziende che lo usano per trasferire informazioni delicate, se non voglio utilizzare la carta e ho paura che la mia posta elettronica o il mio sito vengano violati, mi rivolgo a qualcuno che mi crea un canale sicuro nel deep web, minima spesa, massima sicurezza.” “Quindi, per capirci” si intromise Elisabeth, “un poliziotto potrebbe venire da te, chiedendoti quello che, sulla carta, è un banale favore, ma, in realtà, ti coinvolge in una serie di omicidi e tu ne saresti completamente all’oscuro.” “Esatto. Se tu o Marcelo veniste a chiedermi di caricare delle fotografie, non vi direi di no, e non controllerei cosa mi avete ato, lo farei e basta.” “E tu, non l’hai fatto, vero?” Chiese Elisabeth. “No.” Nuovamente tutti rimasero in silenzio a valutare interiormente la situazione e, come già in precedenza, tutti si resero conto di quanto male andassero le cose. “Eddy” disse ad un certo punto Pennington, “rimani solo tu.” Lecter bevve un sorso d’acqua e appoggiò il bicchiere prima d’iniziare il suo monologo. “Normalmente, a questo punto, io dovrei fare un profilo dell’S.I. in grado di permetterne l’identificazione, ma, in questo caso, posso solo limitarmi ad un riepilogo delle caratteristiche di questo soggetto, senza certezze di veridicità.” La premessa esposta da Lecter affossò l’ultimo barlume di speranza del gruppo e nemmeno il più ottimista fra i presenti se la sentì di credere in un recupero. “Abbiamo un uomo tra i trentacinque e i cinquant’anni” riprese Lecter, “poliziotto sudamericano dal fisico importante. Un ottimo tiratore, amante della musica di qualità, proprietario di un gatto e, probabilmente separato a causa di una infedeltà coniugale. Ritengo che il fattore scatenante sia legato alla sfera sentimentale, un avvenimento, o una nuova persona entrata nella sua vita, hanno la miccia, e non è detto che si tratti di un evento negativo. Mi spiego meglio, l’evento, preso singolarmente, potrebbe essere assolutamente positivo, ma ha risvegliato un sentimento represso violento che si è manifestato in tutta la
sua forza.” “Perdonami, Eddy” lo interruppe il comandante, “vuoi dire che potrebbe aver trovato una nuova ragazza e, a causa di questo, si è trasformato in un serial killer?” “Esatto. Potrebbe aver causato l’inizio della storia o, magari, solo l’escalation di violenza successiva, questo non lo possiamo sapere. Capisco che, agli occhi di una persona sana, questo possa sembrare assurdo, ma vi assicuro che la mente umana fa anche di peggio. In aggiunta, direi che non ha una vera e propria mania religiosa, l’utilizzo di citazioni legate a religioni diverse indica una visione trasversale del problema, non importa a chi credi, ma a cosa credi, quindi potrebbe essere un ateo, ma intransigente sulle regole di vita.” “D’accordo” disse Pennington, cercando di trarre delle conclusioni da quella riunione. “Dottor Chandra, lei pensa di poter fare una ricerca dei possibili soggetti che rispecchiano le caratteristiche descritte dal dottor Lecter?” “Penso di sì, anche se, premetto, non sarà facile ottenere delle liste ridotte, quello funziona solo in televisione, ma possiamo analizzare tutti i database disponibili e filtrare al meglio gli elenchi che troveremo.” “È un inizio” commentò Pennington. “Per quanto riguarda voi…” Le parole non venivano, o meglio, quelle che erano pronte non erano pronunciabili, così il comandante aggirò l’ostacolo. “Beh, voi sapete meglio di me cosa fare, buon lavoro.” In quattro si alzarono e si diressero alla porta, mentre Lecter restò al suo posto. Appena fuori si salutarono. “Vado a vedere se i miei ragazzi hanno novità, ci sentiamo più tardi” disse Stewart.
“Certo, noi proviamo a dare una mano a Chandra” rispose Marcelo. L’espressione dell’ingegnere parve sorpresa. “Non preoccuparti” lo rassicurò Marcelo, “noi lavoreremo dal nostro ufficio, tentando una strada diversa dal freddo database.” Chandra sorrise e si diresse verso il suo ufficio, mentre Marcelo ed Elisabeth prendevano posto nel loro. Si erano appena seduti, quando Elisabeth fissò Marcelo. “Ti devo dire una cosa importante.” Marcelo la guardò tra il preoccupato ed il curioso, posò la penna che aveva appena preso e si appoggiò alla scrivania. “Ieri sera, mentre ero ferma sul sagrato di St. Johns con padre Raphael, è ata una donna ai piedi della scalinata. Bionda, alta, fisico mozzafiato, tanto che Padre Raphael è rimasto colpito e affondato, se mi i il modo di dire. La donna ci ha guardati ed ha proseguito indifferente. Quella donna era Laura, la tua Laura, e non ha salutato, come se non conoscesse nessuno dei due.” “Sei certa fosse lei?” Chiese, dubbioso, Marcelo. “Non sono un uomo, ma sono un poliziotto e osservo i particolari. La camminata da top model, l’acconciatura e la borsa nera di pitone, non ho dubbi su chi fosse, tu, però, dovresti averne, tanto più che, al momento di andarmene, ho voluto avere una controprova ed ho chiesto a Padre Raphael a chi mi sarei dovuta rivolgere per organizzare la donazione. La risposta è stata esauriente, Padre Anthony o, in sua assenza, la signora Carmela, LORO si occupano di tutta la logistica.” Marcelo si appoggiò allo schienale. Riprese la penna, solo per poterla far roteare fra le mani, e fissò il monitor. “Mi dispiace” disse Elisabeth, “non avrei mai voluto dirti una cosa del genere.” “Non è colpa tua” rispose Marcelo, “anzi, sei la mia partner, mi guardi le spalle,
sul lavoro e anche nella vita, cosa potrei volere di più?” Elisabeth sorrise e si rivolse al suo monitor, non aveva idea di come risalire all’identità dell’assassino, aveva tanti piccoli indizi che producevano migliaia di corrispondenze, solo Chandra avrebbe potuto filtrare una mole di dati così immensa, ma voleva comunque provarci, prese un blocco da sotto una colonna di carta e cercò una penna, poteva iniziare.
Capitolo 34
Qualcuno bussò delicatamente alla porta. “Avanti” disse Chandra, sorpreso per l’orario. Un uomo in jeans scoloriti, con una improbabile camicia a fiori ed un gilet multitasche si affacciò alla porta. Il cappello da pescatore copriva mezza faccia e Chandra ebbe un attimo di panico, poi l’uomo se lo tolse e tutto si rasserenò. “Marcelo” disse il dottore, “conciato così non ti avevo riconosciuto.” “Abbiamo un lavoro da fare e devo essere il più anonimo possibile.” “Anonimo non direi, magari ridicolo” commentò Chandra. “Grazie per il sostegno, sei un amico.” Il dottore rise e si spostò verso il suo computer, armeggiò un istante poi tornò da Marcelo. “Cosa ti porta nelle catacombe a quest’ora del mattino?” Chiese, curioso. “Ho bisogno di un favore” disse Marcelo. “Spara.” Marcelo gli ò un bigliettino con un numero di cellulare. “Ho bisogno di avere i tabulati telefonici degli ultimi due mesi.” “Nessun problema, hai la richiesta?” “È qui che sta il favore” commentò Marcelo, “non c’è richiesta, anzi,
ufficialmente non c’è nemmeno un numero di telefono. I risultati li devi consegnare solo a me, e non parlarne a nessuno, ok?” “Non c’è problema” rispose Chandra. “Ottimo, e già che ci sei, mi servirebbe anche un indirizzo.” “Consideralo fatto.” Marcelo gli batté la mano sulla spalla ed uscì, Elisabeth lo aspettava all’ingresso. La ragazza era ferma sulla scaletta del garage. I jeans attillati e la maglietta leggera mettevano in evidenza un corpo snello ma accattivante e Marcelo si fermò un attimo ad ammirarla, prima di farsi sentire. “Pronta?” disse. Elisabeth si voltò e si tolse il ciuffetto di capelli neri che le si era posato su di un occhio. “Pronta e carica” rispose. Salirono in auto e si diressero verso Little Marsh Island, un piccolo porto sul St. John a sei miglia dall’oceano. Cox aveva contattato Marcelo la sera precedente e lo aveva avvisato che, l’indomani, Bennet sarebbe uscito in mare, destinazione Fort Clinch. Non poteva presentarsi da solo, doveva necessariamente portare dei turisti e loro erano proprio le persone più indicate. Non sapeva esattamente se sarebbe scattata la retata della narcotici o avessero deciso di usare l’uscita come sopralluogo per il futuro intervento, ma lui aveva il compito di accompagnare il sospettato nel luogo del probabile scambio e quello avrebbe fatto. Marcelo s’immise sulla FL 115, li attendeva una mezz’ora di traffico sostenuto e non voleva far tardi. “Novità in merito a Laura?” Chiese Elisabeth, timidamente.
“Non ancora, ma ci sto lavorando.” “Cosa pensi possa esserci sotto?” “Non saprei. La cosa più probabile è legata alla mia professione, più precisamente al nostro caso, ma non saprei quali potrebbero essere le sue intenzioni.” “Pensi di affrontarla?” “Mi ha mentito su cose importanti di lavoro, potrebbe averlo fatto anche su altre, sai come la penso sulle bugie e sul rispetto.” “Già, lo so.” “Per fortuna non ho l’abitudine di condividere informazioni professionali con nessuno che non sia legato al caso che sto seguendo, quindi non mi devo preoccupare di quello che le ho detto, ma mi manda in bestia sapere che ti stanno prendendo in giro, indipendentemente dalle motivazioni.” “Ci credo, anche se noi, più o meno, stiamo facendo la stessa cosa proprio in questo momento.” “Non credo si possa paragonare una truffa ai danni della polizia con una missione sotto copertura, anche se, per certi versi, non hai torto.” “Cambiando discorso” disse Elisabeth, vedendo Marcelo un po’ teso, “come pensi sia riuscito Cox a convincere Bennet a portarlo con sé proprio a Fort Clinch?” “Non saprei. Quell’uomo ha molta esperienza e molta intelligenza dalla sua parte, ma si scontra con un settore dove la parola diffidenza occupa le prime tre pagine del vocabolario, convincere un probabile trafficante a condurti sul luogo degli scambi, è un’opera di magia.” “E noi? Cosa dovremmo fare?” “Non ho idea, spero che ci informino prima d’arrivare.” “E se no lo fero?”
“Per un giorno faremo i turisti in luna di miele e ci godremo l’Atlantico e le aragoste fresche.” “Prospettiva allettante, mi verrebbe da sperare che nessuno riesca a contattarci.” Risero insieme e Marcelo, ancora una volta, sentì nell’aria quella strana sensazione di appartenenza, come la definiva lui, un delicato brivido che lo metteva in simbiosi con la persona che aveva vicino e che era più raro di un diamante rosa. Lasciarono la FL 105 e s’inoltrarono nel piccolo agglomerato di villette che riempiva la zona sud dell’isola. Un cartello in finta pietra, con disegnata un’ostrica rossa, ricordava che stavano entrando nella Shell Bay. Una serie di splendide ville costeggiava la strada e la pulizia della zona, con i prati perfetti e tutto in ordine, fece ricordare ad Elisabeth una di quelle scene viste nel Truman show, mancava solo che Jim Carrey apparisse dal nulla, crollando sul cofano della loro auto. Accantonò l’immagine e si concentrò sulla strada. Raggiunsero la costa sud e, fra due enormi case, videro un aggio per la messa in acqua dei natanti, fermarono l’auto e scesero, Cox avrebbe dovuto essere lì. Percorsero lo scivolo sin quasi dentro l’acqua, poi si guardarono attorno e, da lontano, videro la sagoma del Centurion venire verso di loro. Aspettarono che la barca accostasse al molo e salirono. Cox lasciò il timone e li accolse. “Benvenuti” disse, sorridendo. “Grazie Dwayne” rispose Marcelo. “Vi hanno informato?” Chiese il marinaio.
“Assolutamente no, sappiamo che dobbiamo venire con te, nient’altro.” “Come immaginavo, vuol dire che…” In quel momento il cellulare di Marcelo suonò. “Pronto, sì capitano, mi dica tutto.” Cox ed Elisabeth rimasero in attesa, fino a che Marcelo non chiuse la comunicazione. “Che ti hanno detto?” Chiese, impaziente, Elisabeth. “Andremo sino a Mayport Boat Ramp, qui fingerai un’avaria” disse Marcelo, rivolto a Cox, “e chiederai aiuto a Bennet, se tutto va bene, lui ci caricherà sulla sua barca e ci porterà a destinazione.” “Pensi lo faccia?” Chiese Elisabeth. “Credo di sì” intervenne Cox, “non ha nulla da temere né da me né da due turisti e, in alternativa, desterebbe parecchi sospetti il mancato intervento in una segnalazione d’emergenza, in mare queste cose non si fanno, attirerebbe troppa attenzione.” “E l’idea finale sarebbe?” Domandò, ancora incerta, Elisabeth. “Fare gli indifferenti, fotografare gli uomini dell’altra barca e, se possibile, piazzare un trasmettitore GPS sulla nave dei colombiani.” “Una eggiata” commentò la ragazza. “Più o meno” rispose Cox, “ma ora reggetevi, dobbiamo arrivare a Mayport Boat Ramp in tempo per intercettare Bennet. I detective si misero comodi sui divanetti a prua e si godettero il viaggio. Solcare l’acqua con un mezzo del genere era un’esperienza nuova per entrambi. Avevano già provato una barca, se vivi in Florida, è scontato, ma quello era un veliero, una fuoriserie dell’acqua. Erano le undici quando il Centurion raggiunse il punto previsto, Cox gettò
l’ancora e si unì ai detective a prua. “Come procediamo?” Chiese. “Devi lanciare la richiesta d’aiuto, Bennet dovrebbe essere il più vicino ed il primo a rispondere.” “Vado” disse Cox, e scomparve sotto coperta. Due minuti dopo fece capolino dal boccaporto. “Fatto, Bennet ha risposto, sarà qui fra quindici minuti, beviamo qualcosa nell’attesa?” “Io o” rispose Elisabeth. “Stavolta anch’io” aggiunse Marcelo. “Peggio per voi” commentò Cox, stappando una bottiglia di birra. “Cosa ti sei inventato?” Chiese la ragazza. “Ho detto che ho un problema al timone, è un danno non verificabile velocemente. Tu, piuttosto, dove hai il trasmettitore?” Marcelo infilò una mano nel taschino del gilet ed estrasse una piccola scatola di metallo. “Suppongo sia questo” disse, “me lo ha ato il comandante stamattina senza darmi spiegazioni.” “Sai come si usa?” Marcelo aprì la scatola e tolse un piccolo parallelepipedo di tre centimetri per due, dello spessore di un centimetro, lo posò sul tavolino e si mise ad osservarlo. Cox lo raccolse e lo ò accanto alla barra corrimano. “È magnetico, e morbido ed impermeabile. Direi che la sua utilizzazione ottimale sia ancorato alla struttura in ferro della barca o, in alternativa, ovunque non possa essere trovato. Sembra resistente, potresti attaccarlo allo scafo anche
all’esterno, ma la terrei come ultima spiaggia.” “Dovrei, comunque, salire sulla loro barca” commentò, preoccupato, Marcelo. “Vero” disse Cox, “a meno che tu non abbia un lancio preciso come Payton Manning.” “Direi che è inutile fasciarci la testa prima che si sia rotta” intervenne Elisabeth, “al momento vedremo come comportarci e cercheremo di ottimizzare l’eventuale occasione che si presenterà.” “Mi piace la tua partner” disse Cox, guardando Marcelo, “è una tosta.” “Già, piace anche a me” rispose Marcelo, senza guardarla. Il marinaio, dall’alto della sua esperienza, sorrise e, in parte, si rattristò per non avere più quel genere di brivido, finì la birra ed iniziò a prepararsi una sigaretta. Marcelo rimase a godersi il sole e chiuse gli occhi, ma la sirena della barca di Bennet lo fece sobbalzare. Raccolse il trasmettitore e lo infilò nel taschino, chiuse il bottone e cercò di assumere l’espressione tipica del turista americano, qualunque essa fosse. La barca di Bennet accostò quella di Cox molto lentamente, i paracolpi si schiacciarono delicatamente e le due imbarcazioni si avvinghiarono come due amanti. Cox legò una cima alla barca di Bennet e la bloccò. Marcelo fece la stessa cosa a poppa, con un classico nodo da pescatore. “Che è successo, amico” disse Bennet non troppo felice dell’imprevisto. “Devo aver urtato uno scoglio durante la risalita della costa. Eravamo un po’ troppo sotto e non me ne sono accorto, il timone fa i capricci, non ho idea di cos’abbia.” “Brutta storia” commentò Bennet, “ma non preoccuparti, penso io ai tuoi ospiti.” Marcelo si avvicinò e tese la mano.
“Morales, grazie per l’aiuto. Questa è mia moglie” disse, indicando Elisabeth. “Bennet” rispose l’uomo poi, fissando Elisabeth, disse, “io la conosco.” Il sangue si ghiacciò nelle vene dei tre. Tutto si sarebbero aspettati da quell’esperienza, ma che finisse prima ancora d’incominciare era fuori pronostico. Nessuno disse nulla, poteva essere un falso allarme, ma non lo era. “Certo” continuò Bennet, “l’ho vista sulla barca di Cox alla Marina, la settimana scorsa, forse.” “Vero” commentò Elisabeth con una naturalezza disarmante, “eravamo andati a vedere in cosa consisteva questa gita, io e mio marito ne abbiamo sentito parlare talmente tanto che non vedevamo l’ora di provarla di persona.” “Ci credo” disse Bennet, “prego, l’aiuto a salire.” Elisabeth si avvicinò, prese la mano di Bennet e ò sull’altra barca. Marcelo la imitò, facendosi aiutare a superare il bordo. “Noi ci vediamo a terra” disse Bennet, rivolto a Cox. “Grazie” rispose il marinaio, “e buona giornata.” Slegarono le barche e Bennet portò la sua verso nord, direzione Fort Clinch. “Mi dovete scusare” disse ad un certo punto, “ma ho un appuntamento con un amico qui vicino, poi torniamo.” “Nessun problema signor Bennet” disse Elisabeth, “eravamo usciti per una gita in mare, siamo stati accontentati.” Il sorriso della ragazza non mancò di colpire l’uomo che, come spesso accade, si distrasse e sorvolò su cose alle quali avrebbe invece dovuto dar peso. Si mossero velocemente e, un’ora dopo, erano già sul punto di ritrovo.
Bennet ammainò le vele e gettò l’ancora. “Il mio amico non sarà qui che fra un’ora” disse, “se per voi va bene, potremmo pranzare.” “Ha sentito le urla del mio stomaco, per caso?” Domandò Elisabeth. Bennet sorrise e scese in cucina e, per un’ora abbondante, nessuno pensò più al lavoro, di qualunque genere fosse. Verso le due, in lontananza, videro arrivare un motoscafo ad alta velocità. Quando fu più vicino, riconobbero un Cigarette 38, un motoscafo in grado di superare i 35 nodi in assetto standard ma, guardando a poppa, Marcelo dedusse che quello, probabilmente, avrebbe raggiunto i cinquanta senza fatica. Rallentarono vistosamente ma, anziché fermarsi, iniziarono a girare attorno alla barca di Bennet come avrebbe fatto uno squalo. Due degli uomini a bordo, chiaramente sudamericani, uscirono sul ponte e si misero a fissarli. Dalla sua posizione, Marcelo poteva vedere le pistole nella cintura e, tanto per non farsi mancare nulla, notò che un terzo uomo, rimasto in cabina, teneva a tracolla un AK47. Bennet gli lasciò fare per un po’, poi si scocciò, andò a prua e si mise ad urlare. “Juan, cosa aspetti, la fata turchina?” L’uomo sulla punta del motoscafo fece un cenno, la barca rallentò e si fermò con la prua a contatto con quella della loro barca, a formare un angolo di novanta gradi. Da quella posizione diventava difficile raggiungere un punto buono dove attaccare il trasmettitore, e anche un lancio sarebbe parso troppo evidente, dovevano inventarsi qualcos’altro. Juan ò sulla loro barca e squadrò Marcelo ed Elisabeth. “Que estan?” Chiese.
“Tranquillo” rispose Bennet, “sono innocui.” Juan accarezzò il calcio della pistola, poi voltò verso i compari. “Rapido!” disse. Marcelo ed Elisabeth, per evitare tensioni, si spostarono verso poppa e finsero di scattarsi fotografie ricordo, con lei a fare da punto di riferimento e lui indaffarato ad inquadrarla nel migliore dei modi, cercando, contemporaneamente, d’includere nella ripresa la schiera dei nuovi arrivati. Dalla loro posizione, potevano vedere gli uomini di Juan arsi delle piccole casse di plastica e farle scendere nella stiva di Bennet, il contenuto non era in discussione. Cercarono di avvicinarsi per migliorare la visione, ma Juan non li perdeva d’occhio un momento e la sua mano non si allontanava mai troppo dalla pistola. Elisabeth si sedette sul bordo della barca, appoggiò il telefono sul tavolino e si distese lungo la superfice di legno, emulando la posizione di una sirena. Sorrise allo scatto di Marcelo ma, improvvisamente, perse l’equilibrio e finì in mare. Marcelo restò fermo per un attimo, poi si sporse dal bordo e vide la ragazza riemergere e dirigersi verso il motoscafo. L’uomo rimasto sul Cigarette guardò Juan, in attesa di istruzioni. “Levantar” disse Juan, e l’uomo calò una scaletta in acqua, Elisabeth si appese ed iniziò a risalire. Una volta a bordo si diresse verso prua, ma inciampò e andò a sbattere contro l’uomo che le aveva lanciato la scala, rimase un secondo avvinghiata, poi dovette aggrapparsi al corrimano d’acciaio fissato alla cabina, si staccò e fece un sorriso all’uomo che, da parte sua, mostrò di non aver disdegnato l’incidente, esponendo un sorriso di denti gialli e storti da far rabbrividire qualunque dentista. La ragazza si spostò a prua e con un saltello non proprio aggraziato tornò sulla barca, ò accanto a Juan e ad uno dei suoi compari e si diresse sotto coperta.
“Vado a cambiarmi” disse, “sono fradicia.” “Capita quando si cade in mare” commentò Bennet, facendo seguire una sonora risata. L’espressione di Juan non cambiò di una virgola, mentre i suoi compari ridevano con Bennet. “Rapido!” Disse di nuovo Juan, poco felice di quel siparietto. Improvvisamente l’uomo si voltò verso Marcelo, vide il telefono e cambiò espressione, lo fissò con uno sguardo tale che rimase impietrito. “Tu” disse, “portami il telefono.” Marcelo non si mosse. Elisabeth, dalla cucina sotto coperta, sentì la richiesta ed impallidì. Se Juan avesse visto le fotografie fatte a lui e ai suoi uomini sarebbero stati guai, guai grossi. Non erano armati, per non far saltare la copertura, a differenza dei loro visitatori, che, in aggiunta, erano in quattro, o meglio, cinque se si teneva conto di Bennet. Cercò nei cassetti un’arma da usare in caso d’emergenza, ma senza risultato. “TU, ADESSO!” Urlò Juan. Marcelo sobbalzò, urtando il tavolino, alzò le mani in segno di sottomissione e si avvicinò lentamente. Raggiunse la prua e ò il telefono a Juan. L’uomo guardò il cellulare, lo rigirò e aprì il menù, cercò la cartella delle fotografie e le fece scorrere. Dopo un attimo chiuse la cartella ed entrò nelle chiamate recenti. Il sudore scendeva sul collo di Marcelo e la paura solidificava il sangue nelle vene.
Se avesse trovato qualcosa, sarebbe stata finita, per entrambi. Elisabeth continuò a cercare disperatamente una cosa qualsiasi che potesse essere utile per difendersi anche se, contro pistole e mitragliatori, non aveva molte speranze di riuscita. Juan guardò fisso Marcelo, per alcuni secondi, secoli, pensò lui, poi tese la mano e gli ridette il telefono. Marcelo lo infilò in tasca e tornò verso poppa, si sedette sul ponte ed emise un sospiro lungo e distensivo. Elisabeth, da sotto coperta, seguì la scena senza video, affidandosi al solo sonoro, ma quando vide le gambe di Marcelo are davanti alla finestrella, crollò sul divanetto sollevata. Il travaso era ormai terminato, Juan risalì sul motoscafo e scomparì in cabina. Il Cigarette si staccò dalla barca e partì, come sparato da una fionda. Bennet chiuse la stiva ed andò a vedere come stavano i suoi ospiti. “Tutto bene?” Chiese. Marcelo lo guardò da terra e, senza alzarsi, rispose. “Terrorizzato, ma sto bene.” “Le chiedo scusa” disse Bennet, “Juan è un tipo un po’ rude, ma non si deve preoccupare.” L’espressione di Marcelo lasciò intendere che preferiva evitare un nuovo incontro con l’uomo, e Bennet, conoscendo bene la verità, non poté dargli torto. “Scusate” disse Elisabeth, salendo la scaletta come se non si fosse accorta di nulla, “ho detto che andavo a cambiarmi ma, in realtà, io non ho un cambio.” “Non c’è problema signora” rispose Bennet, “c’è una tuta pulita nel mobile a destra o, in alternativa, può rimanere in costume, è una giornata splendida.” “Purtroppo non ho un costume, dovrei restare in intimo e, capirà, c’è troppa
gente su questa barca.” “Capisco, comunque si metta pure comoda, se per voi sta bene, io mi fermerei a godermi la giornata ancora un paio d’ore” disse Bennet. Marcelo approvò col pollice in alto, si distese sul ponte e chiuse gli occhi, l’adrenalina stava gradualmente calando e la consapevolezza del rischio corso prendeva il sopravvento, mettendogli più paura di quanta non ne avesse provata prima. Elisabeth scomparve, per riapparire pochi minuti dopo in una tuta in triacetato, blu, informe, ma molto comoda, stese i vestiti ad asciugare e raggiunse Marcelo, si distese accanto a lui, accoccolandosi vicino, molto vicino. Se rendere la scena credibile era il suo scopo, pensò Marcelo, ci stava riuscendo alla grande. Rimasero così per tutto il tempo, tanto che Bennet, ad un certo punto, si sentì quasi di troppo e si mise a prua a pescare con la sua vecchia canna. Lo splendido sole e la leggera brezza creavano un mix equilibrato alla perfezione tanto che il tempo volò senza che nessuno se ne rendesse conto. Verso le cinque Bennet guardò l’orizzonte e vide l’avvicinarsi di una perturbazione, ripose la canna, peraltro inutile, e tornò dai suoi ospiti. “Andiamo a casa” disse. Salpò l’ancora e spiegò le vele, il viaggio di ritorno era lungo. La barca prese velocità e l’aria, sospinta dall’imminente temporale, diventava sempre più fresca. Elisabeth raccolse i vestiti, ormai asciutti, e andò sotto coperta, ritornando pochi minuti dopo coi suoi abiti, ma con ancora la giacca della tuta a coprire la maglietta. Erano da poco ate le sette, quando la barca accostò al molo da dove erano partiti quella mattina.
“Grazie signor Bennet” disse Elisabeth, “anche per la tuta.” “Si figuri, è stato un piacere.” “Per i soldi?” Chiese Marcelo, ormai calato nella parte. “Tranquilli, mi sistemo io con Dwayne.” Bennet salutò, si staccò dal molo e riprese il fiume. Elisabeth e Marcelo tornarono all’auto, entrarono e crollarono sui sedili, la stanchezza di una giornata come quella era poca cosa se paragonata allo stress causato dalla missione. Erano poliziotti, abituati alle armi e ai malviventi, ma la situazione di quel pomeriggio era tutt’altra cosa. “Quando ti ha chiesto il telefono ho davvero avuto paura” disse Elisabeth. “Pensa a me. Ero a un metro da un narcotrafficante dal grilletto facile e che, dall’idea, si sarebbe accontentato di un’inezia per spararmi e gettarmi in mare.” “Ma, come hai fatto con le fotografie? Se le avesse trovate saremmo morti, le hai inviate senza salvarle?” “No, niente di così sofisticato.” “Quindi?” “Gli ho dato il tuo telefono, lo avevi lasciato sul tavolo quando sei caduta e ne ho approfittato.” “Grande idea, comunque non sono caduta, mi sono lasciata cadere.” “L’hai fatto apposta?” Chiese, stupito, Marcelo. “Ovvio, era l’unico modo per avvicinarmi al loro motoscafo e piazzare il trasmettitore.” “E dove l’hai messo?” “Sotto il corrimano della cabina, non lo troveranno mai. Quel tipo era talmente concentrato sua altre cose che avrei potuto portarci un elefante a bordo e non se
ne sarebbe accorto.” “Sei un genio.” “Siamo due geni, anzi, di più, siamo una bella coppia di geni” disse Elisabeth. “Già, proprio una bella coppia.” Marcelo valutò l’ipotesi di spostarsi e schioccarle un bacio e si visualizzò mentre veniva colpito da un gancio destro in pieno volto, accese l’auto e partì, forse l’avrebbe fatto la prossima volta, forse.
Capitolo 35
Marcelo entrò in centrale e vide Chandra fermo all’imboccatura del corridoio. Si scambiarono un’occhiata, poi il dottore si voltò verso le scale. Marcelo lo seguì sino al suo ufficio, entrò e chiuse la porta. “Buongiorno” disse il dottore. “Buongiorno” rispose Marcelo, “hai qualcosa per me?” “Ovvio.” Chandra aprì un cassetto e tirò fuori una piccola busta bianca anonima. “Qui c’è tutto quello che hai chiesto.” “Ti devo un favore.” “Ci conto” rispose Chandra. Marcelo mise la busta in tasca ed uscì. All’ingresso trovò Elisabeth che stava uscendo. “Direzione sbagliata” disse, “questa è l’ora di arrivare.” “Ciao Marcelo” disse la collega, “oggi non ci sono, devo aiutare i ragazzi, sono impegnati in un trasferimento dal carcere e sono rimasti in pochi, così mi sono offerta, tanto noi siamo un po’ fermi in questo momento.” “D’accordo” rispose Marcelo sorpreso, “ci vediamo quando hai finito.” Elisabeth uscì di corsa e salì sull’auto dei colleghi e Marcelo rimase a guardarla andar via, come in una vecchia
commedia romantica. Una volta sparita alla vista, rientrò e raggiunse il suo ufficio, chiuse la porta e si accomodò alla scrivania. Tolse la busta dalla tasca e la posò sul ripiano, ma non l‘aprì. Restò a fissarla per un po’, convinto della necessità di proseguire, ma bloccato dalla paura di quello che sarebbe potuto succedere una volta letto il suo contenuto. Si fece coraggio e l’aprì. All’interno trovò due fogli ed un bigliettino. Prese i fogli e li lesse attentamente, ma già dal primo colpo d’occhio, capì che i suoi timori erano fondati. Rilesse i due fogli più volte, poi li ripiegò e li rimise nella busta, tolse il piccolo biglietto e lesse l’indirizzo, lo ripose in una tasca, chiuse la busta, infilandola nel cassetto e chiudendolo a chiave. Si alzò e si diresse alla sua auto, doveva verificare meglio. Prese la FL 90 sino allo svincolo con la Atlantic, superò il centro Publix ed entrò in un grazioso quartiere appollaiato sulla sponda del Pottsburg Creek. Percorse lentamente il viale, cercando il numero giusto. Una volta trovato, accostò l’auto davanti al vialetto e scese, raggiunse la porta e suonò. Nessuno rispose. Riprovò. Ancora niente. Decise allora di dare un’occhiata in giro, scese i gradini e ò accanto alla casa, sino alla porta sul retro.
Anche questa era chiusa, ma provò a bussare. Nessuno rispose. Avvicinò le mani al vetro, facendo da schermo antiriflesso, e cercò di guardare dentro. Non c’era anima viva, ovviamente, ma sembrava non ci fosse da parecchio tempo. Costeggiò la casa dal lato opposto e si fermò alla finestra della cucina. Anche da qui la visuale non cambiava, tutto era deserto e, cosa ancor più importante, sembrava che la casa fosse disabitata. Non si vedeva bene dalla finestra, ma c’erano poche suppellettili, molto ordine, ma anche, dall’idea, molta polvere e ragnatele, una casa abbandonata, pensò. Marcelo tornò verso l’auto ma, uscendo dal vialetto laterale, vide una signora impegnata nella manutenzione del suo bosco di rose. Si avvicinò e, conoscendo la diffidenza degli abitanti del luogo verso gli estranei, estrasse dal cilindro la sua miglior interpretazione del padre di famiglia in cerca di una sistemazione per i suoi figli. “Buongiorno signora” disse, sorridendo. La donna lo guardò prudente, ma l’espressione da bravo ragazzo la colpì e si rasserenò subito. “Buongiorno a lei” rispose. “Un’informazione, se posso.” “Certo, mi dica.” “Questa casa è in vendita?” “No, non credo proprio. È vuota da vent’anni, anno più anno meno, ma nessuno ha mai cercato di venderla, di comprarla sì, ma non c’è stato niente da fare.”
“Lei sa chi è il proprietario?” “Qui abitava la signora Roosental, ma ora non saprei.” “Quindi non c’è modo di contattarlo?” “L’unico modo, credo, è quello di andare al catasto, farsi dare il nome e cercare sull’elenco tutti gli omonimi, penso che gli altri abbiano fatto così.” “Grazie signora, è stata troppo gentile.” “Si figuri” disse la signora, tornando a potare le sue rose. Marcelo controllò in giro, ma non vide telecamere, né negozi che potessero avere informazioni, risalì in auto e tornò in centrale. Le due notizie contenute nella busta avevano, come previsto, scombussolato la sua giornata o, per meglio dire, ribaltato le sue convinzioni e non sarebbe stato facile rimettere tutto al posto giusto. Ripensò alle parole di Elisabeth. Laura poteva non riconoscere lei, l’aveva intravista solo un attimo fuori dalla centrale, ma non poteva non conoscere padre Raphael, e non salutarlo non avrebbe avuto senso. Rimase a valutare le ipotesi per qualche minuto poi, come spesso faceva, decise di procedere un o alla volta, senza saltare a conclusioni affrettate, ma senza tralasciare nulla. Si chiese, come prima cosa, che motivo avesse Laura per raccontare una bugia di quel tipo, era parte di un piano o aveva improvvisato? Il suo interesse per lui era reale e, in quel caso, perché inventarsi una storia, oppure anche quello era parte di una pianificazione precedente atta a raggiungere non si sa quale scopo? Marcelo valutò le ipotesi e scartò l’interesse personale, non aveva un motivo specifico, se non il suo stesso strano comportamento verso una donna stupenda, ma ritenne che nemmeno Laura fosse davvero convinta di quella storia, almeno
quanto non lo era lui. Rimaneva l’interesse privato, per la sua vita o il suo lavoro. Escluse la prima, non c’era niente di più noioso in circolazione, a parte, forse, i dibattiti politici, e restò con l’unica pista valida, le sue indagini e, più nello specifico, il caso del crocifissore. Quella parola lo infastidiva anche solo a pensarla, ma era un termine che chiariva subito a tutti di chi si stava parlando, e così era entrata, suo malgrado, nel vocabolario comune. Non riusciva a trovare nessun altro caso degno di nota nel presente e nel recente ato, l’unica ipotesi valida restava quella che, però, apriva un’altra domanda, a chi poteva interessare il caso tanto da rischiare la galera per infiltrarsi nella polizia pur d’avere informazioni? L’assassino, penso. Era logico, anche se poco frequente. Il modo più semplice per tenersi lontana la polizia è sapere esattamente tutto quello che sanno loro, ed avere una storia col detective che dirige il caso è il metodo più sicuro. Era logico, appunto, ma non lo convinceva. Indubbiamente Laura aveva le carte in regola per quel ruolo, almeno la prima parte. Non avrebbe avuto la minima difficoltà ad agganciare gli uomini e portarli in un albergo, ma non riusciva ad immaginarsela nel ruolo della mantide, forse perché non lo era, o forse perché non agiva da sola, aveva un complice. L’idea della coppia d’assassini era già stata presa in considerazione sin dall’inizio e prendeva sempre più corpo, eppure l’avrebbe scartata. Si chiese se, in fondo, non avesse fatto colpo anche su di lui, se quella sensazione di freddo che provava non stesse, in realtà, nascondendo un fuoco vivo che tentava di farsi strada e se, alla fine, il suo giudizio non fosse condizionato dal suo testosterone. Chiuse gli occhi e cercò d’immaginare la donna più bella che conoscesse, quella che avrebbe voluto accanto a lui, ed il volto che si materializzò non fu quello di
Laura. Escludendo, quindi, l’assassino, chi altro poteva volere quelle informazioni? Fece scorrere le varie categorie di persone che avrebbero potuto avere interesse ad una cosa simile e raggiunse un unico e prevedibile risultato, la stampa. Laura poteva essere una giornalista in cerca di scoop e, per quanto ne sapeva lui, un giornalista farebbe di tutto pur di avere un’esclusiva, e farebbe ancor di più se la notizia riguardasse un caso tanto violento quanto popolare. Entrò in internet e cercò i numeri telefonici di tutti i quotidiani della Florida, tanto per iniziare. La lista presentava oltre sessanta nominativi così, per non arci l’intera giornata, Marcelo decise di filtrare solo quelli delle principali città, dal modo di vestire e di parlare, Laura non proveniva certo dalla provincia, almeno se l’augurava. La lista scese ad una ventina di nomi, non pochi, ma molti meno dei precedenti. Marcelo prese il primo in ordine alfabetico, El Nuevo Herald, compose il numero ed attese, forse avrebbe fatto un po’ di luce sulla faccenda.
Capitolo 36
Marcelo rallentò davanti alla vetrata e, come sempre, la guardia non se ne curò, continuando a leggere la sua rivista. Uscì dall’aeroporto e raggiunse la I95, come faceva tutti i giovedì notte, da qualche settimana. La strada la conosceva a memoria e non aveva la necessità di controllare i cartelli, anche se, quella sera, era prevista una sosta aggiuntiva. Accese la radio e cercò una stazione decente. Lasciò andare la ricerca automatica per un po’, finendo per fermarsi sui 96.9 della WJGL. La fortuna, dal suo punto di vista, lo portò ad intercettare l’inizio dell’esecuzione di Sound of Silent al Central Park di New York. Era il 1981 e Paul Simon si era riunito a Garfunkel per un concerto gratuito a cui parteciparono più di 500.000 persone. Per molti, quella sarebbe stata solo una noiosa melodia vecchia di trent’anni, ma per lui era musica, vera musica, e non si preoccupava certo di cosa potesse dire qualche giovane rampante egocentrico. Si sistemò sul sedile e si godette quei quattro minuti di magia. Quindici minuti dopo, il furgone entrava in un piccolo capannone deserto. Marcelo si fermò al centro del piazzale ed attese senza scendere, sino a quando un paio di colpi sul retro del cassone gli diedero l’autorizzazione a muoversi. Tornò sulla strada principale, la sosta supplementare non gli aveva fatto perdere troppo tempo e alle due meno dieci il furgone entrò nel vicolo adiacente al Maggiano.
Due minuti dopo, come consuetudine, la porta pedonale si aprì e la guardia uscì in tutta la sua maestosità, si avvicinò al finestrino e controllò i documenti. Era la sesta volta che si vedevano e non era cambiato nulla, lo sguardo dell’uomo era freddo e diffidente e, a differenza della guardia dell’aeroporto, non trascurava mai nessun aggio nella procedura di controllo. Verificò tutto, riò i documenti e tornò verso la porta. Scomparve dall’accesso pedonale e, pochi istanti dopo, il portone iniziò a scorrere. Marcelo attese che fosse completamente aperto ed entrò, fermandosi al solito posto. Rimase al posto di guida per un po’, destando un certo sospetto nella guardia che, però, non disse nulla, e si avviò verso il muletto sul retro. Marco guardò dalla finestra, posò il blocco che teneva in mano ed uscì dall’ufficio, scese le scale e si avvicinò al furgone. Marcelo lo guardò attraverso il vetro, ma non fece nulla. Marco attese che il suo scagnozzo fosse tornato e fece un cenno con la testa, a quel punto Marcelo scese e girò attorno al furgone, raggiunse la porta scorrevole e fece scattare la maniglia. La porta si spalancò violentemente e quattro uomini della SWAT saltarono fuori come molle dal lato del furgone. L’esplosione di una flashbang colpì i tre uomini come una pioggia di schegge di vetro, rendendoli temporaneamente sordi e ciechi e facendogli perdere la lucidità per alcuni istanti. Uno dei militari colpì Marcelo al torace, scaraventandolo a terra. Lo scagnozzo di Marco saltò dal muletto con un’agilità inaspettata e tolse la pistola dalla cintura, ma non vedeva nulla, puntò l’arma e sparò tre colpi alla cieca.
I militari risposero, ma puntarono basso e due colpi lo centrarono nelle gambe, facendolo crollare. Pur ferito, l’uomo si allungò alla ricerca della pistola, ma venne bloccato a terra da due uomini che, nonostante il numero, la posizione e la salute, faticarono non poco per tenerlo fermo. Marco chiuse gli occhi prima che la granata scoppiasse, evitando di rimanere accecato, anche se le orecchie esplosero in un fischio assordante. Estrasse la pistola, ma venne colpito da un primo colpo al petto, barcollò e andò ad appoggiarsi alla ringhiera delle scale, ma non cadde. Risollevò il braccio e tentò di sparare, ma un secondo colpo lo centrò accanto al precedente. Rimase sospeso nel nulla per qualche istante, poi roteò su sé stesso e crollò a terra. Lo scagnozzo di Marco diede uno scossone al soldato che lo controllava e cercò di rialzarsi, ma l’altro uomo lo colpì col calcio del fucile, riproiettandolo a terra. Marcelo, dalla sua postazione defilata, vide tutta la scena, pietrificato. Aveva i tappi nelle orecchie e gli occhi chiusi quindi non aveva subito gli effetti della granata e non poteva essersi sbagliato. Gli uomini della SWAT avevano colpito e, probabilmente, ucciso Marco e non se ne spiegava il motivo. Sapevano della sua copertura? Supponeva di sì. Concordava sul fatto che la cosa restasse fra pochi e fidati intimi, ma, arrivati alla stretta finale, informare chi avrebbe agito in prima persona era fondamentale. Bastava comunicarlo una volta saliti sul furgone, nessuno avrebbe avuto il tempo di avvisare e tutto sarebbe filato liscio.
Si sollevò a sedere senza distogliere lo sguardo dal corpo di Marco, riverso sul pavimento, col sangue che fuoriusciva da sotto la giacca, e un dubbio gli si accese nella mente, perché aveva reagito? Anche ammettendo, per assurdo, che nessuno fosse stato informato della sua vera identità, e lui non fosse a conoscenza dell’azione, rimaneva il fatto che gli sarebbe bastato alzare le mani per evitare il peggio. Forse non aveva riconosciuto gli uomini usciti dal furgone, ma aveva certamente visto lui, non aveva motivo di credere che quei militari non fossero altro che poliziotti. Uno dei soldati si avvicinò a Marcelo e lo aiutò ad alzarsi. “Tutto bene?” Chiese. “Tutto bene?” Ripeté furioso Marcelo. Scostò con una spinta il militare e si mise faccia a faccia con lui. La struttura fisica e la mimica facciale di Marcelo fecero indietreggiare l’uomo. “Mi chiedi se va tutto bene?” Insistette Marcelo, ma prima che potesse dire altro, alle sue spalle sentì la canna di una pistola contro le scapole. Marcelo s’irrigidì, ma non reagì. L’uomo dietro di lui avvicinò il viso al suo orecchio e sussurrò qualcosa. Marcelo si voltò e scambiò un’occhiata con lui, poi si spostò verso il furgone e risalì in cabina. Gli uomini della SWAT attesero l’arrivo dell’ambulanza e del coroner seduti sulle scale che conducevano all’ex ufficio di Marco, fumando sigarette e mangiando cioccolata. Meno di mezz’ora dopo, la squadra tattica saliva su uno dei loro furgoni e rientrava in centrale, l’ambulanza portava la guardia del corpo di Marco in ospedale e il coroner caricava il suo corpo sul furgone nero, destinazione obitorio.
Marcelo scese dal furgone e raggiunse l’ingresso, l’auto con Pennington stava fermandosi nel vicolo. Attese che il comandante raggiungesse l’ingresso e si avvicinò. “Comandante…” Pennington alzò una mano e lo fermò prima che potesse iniziare la frase. Marcelo non reagì, non aveva capito nulla di quella storia, ma avrebbe rispettato gli ordini. Rimase fermo accanto al portone d’ingresso ed attese il ritorno del comandante. Ci vollero solo dieci minuti affinché gli fosse fatto un resoconto completo, dopodiché Pennington uscì e tornò da Marcelo. “È tutto a posto” disse sottovoce, “ora Ortega ti riporta alla tua auto, vai a casa e riposati, ci vediamo nel pomeriggio.” “Ma…” cercò di replicare Marcelo. “Tranquillo” lo interruppe il comandante, “più tardi ti spiego tutto.” Marcelo non insistette oltre, aveva la massima stima per il comandante e si fidava ciecamente, se stava agendo in quel modo, aveva sicuramente dei buoni motivi, doveva solo aspettare. Salì in auto col collega e si sistemò sul sedile, sprofondando in un silenzio assoluto per tutto il tragitto. “Grazie del aggio” disse, una volta arrivati al garage, chiuse la portiera e salì sulla sua auto, mise le chiavi nel quadro e rimase fermo. Troppe cose non funzionavano nelle ultime settimane, gente che non era chi diceva di essere, gente che faceva cose che non avrebbe dovuto fare, cose normali rese complesse senza motivo e, peggio, cose complesse rese tragiche senza motivo. Accese il motore e fece retromarcia, la luce del mattino era ancora lontana, ma
non aveva sonno. Decise comunque di andare a casa, aveva bisogno di una doccia. Se la prese comoda e la strada sembrò dilatarsi al suo aggio, tanto che per tornare impiegò quasi un’ora. Rientrò nel suo appartamento e si spogliò, lasciando tutto a terra, entrò in bagno ed aprì l’acqua calda, s’infilò nella doccia e rimase con le mani appoggiate al muro per un tempo infinito, sino a quando non vide la pelle delle dita incresparsi come quella delle mele al forno. Solo allora chiuse il rubinetto ed uscì, si asciugò e provò a distendersi sul letto. Cercò di dormire, ma il soffitto si era trasformato in uno schermo cinematografico e le immagini che avano non lo aiutavano per niente. Vedeva Marco, vedeva la pistola e, soprattutto, vedeva i colpi degli M4 perforargli il torace. Chiudeva gli occhi e l’immagine si dissolveva, lasciando spazio al viso di Laura, alle sue domande. Ci riprovava, ma tutto quello che riusciva ad ottenere era il riepilogo di tutti i cadaveri ritrovati in quelle settimane, per tornare, alla fine del giro, sul viso di Marco steso a terra, con il sangue che si trascinava da sotto il suo cadavere. Guardò la finestra ed una tenue luce fece capolino da dietro la persiana. Era l’alba e non aveva chiuso occhio. Pennington lo aspettava nel pomeriggio, aveva tempo da dedicare ad un’altra faccenda in sospeso, la ragazza stava nascondendo la verità, voleva provare a saperne di più. Si alzò e si rivestì, raccolse gli abiti della notte e li portò nel cesto della biancheria, rifece il letto ed uscì. Era presto, aveva tempo per la colazione, raggiunse il Casa Dora e si sedette al banco.
Jenny lo salutò col solito sorriso e preparò un espresso, servendoglielo con una brioches al cioccolato. Marcelo lasciò che quelle due musiche si fondessero in un’unica sinfonia, incamerando una sensazione di piacere ormai rara. Controllò l’orologio, era ora, salutò e tornò all’auto, percorse un paio di miglia e si fermò fuori dalla casa della ragazza. Era in perfetto orario ed attese solo cinque minuti prima di vederla uscire e salire sulla sua auto. La lasciò allontanarsi per non dare nell’occhio e poi s’immise nel traffico, seguendola da una distanza di sicurezza. Attraversò la città e si fermò in un supermercato. Marcelo parcheggiò defilato, ma in una postazione di controllo ed attese. Dopo una mezz’ora prese il telefono e chiamò Elisabeth. “Ciao” disse, “disturbo?” “No, figurati.” “Come stai?” “Male” rispose atona Elisabeth. “Immagino, sei in ufficio?” “No, il capo mi ha dato la mattinata libera, pensavo di andare a trovare mia madre.” “Capisco, se hai bisogno chiamami.” “Certo e grazie della telefonata.” “Figurati. Ci vediamo nel pomeriggio?” “Alla solita ora” confermò Elisabeth.
Marcelo posò il telefono, la ragazza stava uscendo. La controllò mentre riponeva le buste della spesa sul sedile posteriore e saliva in auto. Accese il motore, ma rimase fermo, c’erano più uscite, non voleva anticipare il movimento e trovarsi dal lato sbagliato della strada. Quando uscì dal parcheggio si mosse, mantenendosi alla solita distanza. Percorsero solo poche miglia prima che la ragazza si fermasse davanti ad una casa, posteggiò l’auto all’entrata del vialetto, tolse le buste dal sedile e raggiunse l’ingresso, scomparendo all’interno. Dopo dieci minuti riapparve, risalì in macchina e ripartì di slancio. Marcelo fu colto un po’ alla sprovvista, partì in fretta, facendo fischiare le gomme. Sperò di non aver dato nell’occhio, si mantenne a distanza ed attese ma, a giudicare dall’andatura, la ragazza non si era accorta di nulla. Continuò a seguirla in direzione del centro sino a che, con uno scatto repentino, ò al limite del rosso ad un semaforo che, però, fermò lui. Una volta ripartito provò a rintracciarla, ma senza fortuna, percorse la via più probabile, ma non riuscì a ritrovarla, così deviò verso l’Herald Tribune, lasciò l’auto all’esterno ed entrò nel parcheggio. eggiò lentamente, costeggiando le auto in sosta sino all’ingresso. Un maggiolone nero era posteggiato nei posti riservati. Marcelo si avvicinò e controllò la targa, era senza dubbio la macchina di Laura e la targhetta che riportava la stessa sul muro indicava che non era lì per puro caso. Uscì dal parcheggio e tornò all’auto, aveva avuto dei chiarimenti, ma delle altre ombre si erano affacciate all’orizzonte. Quello che sembrava schiarirsi da un lato, diventava sempre più nero dall’altro e
gli ultimi eventi non miglioravano certo la situazione. Aveva bisogno di schiarirsi le idee, prese la FL 228 e poi la 90, una gita al mare lo avrebbe aiutato. Il mare era come un fratello maggiore per Marcelo, lo aveva sempre sostenuto e rincuorato, lo aveva incoraggiato e gli aveva dato la forza di cui aveva bisogno e che, a volte, nemmeno lui pensava di avere. Il sole sulla faccia lo riscaldava e per un po’ dimenticò i suoi problemi, solo per trenta minuti, ma era meglio di niente. Si fermò nel parcheggio vicino al grande pontile, scese e raggiunse l’enorme struttura che s’infilava nel mare come una freccia nell’aria. Guardò la spiaggia da entrambi i lati e la trovò stranamente deserta. Era un giorno lavorativo, vero, le scuole erano aperte, ma così poca gente non l’aveva mai vista. Superò il ponte di legno e costeggiò la casa che fungeva da bar e portineria per l’accesso al pontile, pagò il dollaro per l’ingresso e percorse tutti i trecento metri del ponte, sino allo spiazzo finale. Non c’erano nemmeno gli immancabili pescatori, così Marcelo si fermò ad ammirare l’immensità dell’oceano, la tranquillità apparente di quello sconfinato tappeto d’acqua, la paragonò all’apparenza della gente, a quella che sembrava diventata la vera dottrina del mondo, la vera e unica necessità di tutti, non importava chi eri o cosa eri, non interessava cosa facevi veramente, l’unica cosa davvero importante era come ti vedevano gli altri e cosa pensavano di te, tutti erano attori in una commedia di basso livello dove i ruoli erano squallidi ed il regista era scomparso da tempo. Si abbandonò a quell’idea, si lasciò andare e si sedette per terra, poi si distese e pianse.
Capitolo 37
“Non hai paura che ti picchino?” Chiese Pennington. “No, sono adulti e professionisti, capiranno.” I due risero, ma vennero interrotti dal sergente Scott. “Mi scusi, comandante, sono arrivati.” “Grazie Emily, falli are.” La ragazza uscì e, pochi istanti dopo, Marcelo ed Elisabeth fecero il loro ingresso. L’espressione dei due detective era inequivocabile. Il colpo per gli sviluppi dell’irruzione al Maggiano era stato terribile e si vedeva. Marcelo guardò l’uomo seduto alla destra della scrivania, si spostò e si sedette alla sua sinistra, lasciando libera la poltrona al centro Elisabeth guardò lo sconosciuto, si sedette fra i due uomini, poi lo riguardò, i suoi occhi si dilatarono, la sua bocca si socchiuse ed una sola parola uscì flebile dalle labbra. “Marco?” Marcelo si voltò verso la collega sorpreso, poi riguardò l’uomo seduto accanto a lei. Moro, capelli corti, occhi marroni, senza né barba né baffi e nessuna cicatrice, ma uno sguardo familiare. Elisabeth sorrise, un sorriso autentico, estasiato.
Si alzò ed abbracciò l’uomo. “Marco” ripeté. Marcelo si voltò verso Pennington ed il suo sorriso chiarì, almeno in parte, la cosa. “Dovresti sederti” disse Marco ad Elisabeth. La ragazza lasciò la presa e si risedette sulla poltroncina, lasciando spazio al collega. Marcelo si alzò e tese la mano. Marco gli spostò la mano e lo strinse in un abbraccio. “Scusa, non ho potuto dirtelo” gli sussurrò all’orecchio. Marcelo ricambiò l’abbraccio, poi si rimise a sedere. “Bene” intervenne Pennington, “direi che ci siamo già chiariti.” “Non proprio” commentò Marcelo. “Vero, allora vi spiego brevemente il tutto. Non potevamo lasciare Carmine Parisi in circolazione, nemmeno detenuto in una misteriosa prigione di qualche stato sconosciuto. Le voci nella malavita circolano veloci e certi boss hanno più orecchie che capelli, avrebbero scoperto tutto nel giro di poche settimane, mesi, se fosse andata bene, non potevamo rischiare. L’unico modo per evitare guai a Marco, era eliminare Carmine, possibilmente con un testimone. La sua guardia del corpo riferirà certamente l’accaduto ai vertici e le telecamere di sorveglianza del magazzino, controllate dall’alto, confermeranno la sua versione. Nessuno cercherà più Parisi e Marco, nella sua nuova veste, potrà circolare tranquillamente.” “La messa in scena è stata degna di Hollywood” disse Marcelo. “In realtà, è bastato un giubbotto antiproiettile, ricoperto da una piccola sacca di sangue e la certezza che a sparare a Marco fossero solo i due uomini a conoscenza del punto da colpire, non volevamo che un soldato troppo zelante
puntasse alla testa, rovinando il nostro piano, oltre alla sua acconciatura.” “Potevate avvisarci” protestò pacatamente Elisabeth. “Come detto prima” rispose il comandante, “le orecchie dei narcotrafficanti sono ovunque, sarebbe bastato un accenno nel momento sbagliato e tutto sarebbe andato a rotoli, ed ora saremmo qui a piangere qualche compagno caduto anziché gioire per l’esito positivo dell’operazione.” “Il comandante ha ragione” intervenne Marcelo, “era un prezzo da pagare per la sicurezza di tutti, quando non puoi fidarti dei tuoi collaboratori, diventa difficile lavorare, ed ogni prudenza non è mai eccessiva.” “Ottimo” sottolineò il comandante, “visto che non sembra abbiano intenzione di picchiarti, possiamo continuare con il resto della storia.” “Giusto” commentò Elisabeth, “abbiamo rischiato grosso, vediamo se è servito a qualche cosa.” “Servito? Direi che è stato determinante. Abbiamo seguito il segnale del trasmettitore che avete piazzato sul motoscafo, si è fermato a trenta miglia al largo di Daytona Beach. Il satellite ha individuato il punto e agganciato il segnale di un peschereccio battente bandiera Panamense. Lo abbiamo controllato lungo il suo viaggio che, però, è finito venti miglia a sud di Nassau, alle Bahamas. Qui si è incontrato con un cargo battente bandiera Liberiana che, come immaginavamo, si è diretto in Colombia, a Barranquilla.” “Un bel pezzo di strada” commentò Marcelo. “Più o meno 1400 miglia” disse il comandante, “ovviamente in linea d’aria, in barca molte di più, ma non sembra un problema, per loro.” “E come è andata a finire?” Chiese, curiosa, Elisabeth. “Abbiamo ato le informazioni alla polizia locale che ha proceduto con una retata. Sembra che abbiano preso tutti i vertici del cartello, anche se, da quelle parti, basteranno pochi giorni per sostituirli.” “E Bennet?”
“Lo abbiamo seguito per un paio di giorni senza far nulla, non volevamo che il nostro intervento allarmasse i boss prima della retata, una volta confermata la notizia dell’operazione in Colombia, lo abbiamo bloccato con tutto il suo ultimo carico ed ora è al fresco, e ci resterà parecchio.” “Noi di più non possiamo fare” commentò Marcelo. “Esatto, e in più, abbiamo già le nostre belle gatte da pelare” aggiunse Pennington. “A proposito di gatti” disse Marco, infilandosi nella conversazione, “con il folle degli alberghi come siete messi?” Lo sguardo di Marcelo lasciò trasparire un certo disappunto, non per la domanda in sé, era normale informarsi sulle indagini dei colleghi, ma sul punto d’aggancio, il gatto, come se fosse la cosa più importante della storia. Non disse nulla ed attese che a parlare fosse il comandante. “Brutta storia” disse Pennington, “ma ti aggiorno io più tardi, ora lascerei tornare i tuoi colleghi al lavoro.” “Certo, capisco.” Marcelo si alzò e diede la mano a Marco. “Sono felice che tu sia qui” disse. “Grazie, anch’io” rispose Marco. Elisabeth lo abbracciò. “Ci sentiamo più tardi” disse. Marco annuì e li osservò uscire, poi si risedette. Stavano per rientrare nel loro ufficio, quando incrociarono il sergente Scott. “Scusate” disse, “abbiamo un problema al Homewood Suites, sulla Kings Avenue. Forse il nostro uomo ha colpito ancora.”
Si guardarono, ma non dissero nulla, partirono in perfetto sincrono, sotto lo sguardo attento del sergente. “Dovrebbe essere vicino all’incrocio con la Prudential, dietro al BB’S, ti ricordi?” Chiese Elisabeth. “Direi di si” rispose Marcelo, “è da quella mattina che è cominciato tutto, difficile da dimenticare.” Marcelo partì sgommando, raggiunse il bivio col John T. Alsop, ma il ponte era chiuso. Si fermò accanto alla transenna e abbassò il finestrino. “Scusa” disse all’agente che controllava il traffico, “è proprio impossibile are?” “Ho paura di sì, detective, un camion che trasportava una gru si è incastrato sotto la struttura e occupa tutte le corsie, deve are dall’Acosta, non ci sono alternative, mi dispiace.” “Proprio come il mese scorso sul Buckman Bridge” disse Marcelo. “Esatto, più o meno la stessa situazione.” “Grazie” disse Marcelo, accese i lampeggianti e si rimise nel traffico, il tragitto sarebbe stato più lungo del previsto. Erano le quattro quando la Charger nera si fermava davanti all’ingresso dell’albergo, un’enorme struttura color crema, con la base in mattoni rossi, che si ergeva maestosa davanti alla sede della First Atlantic Bank. Scesero e andarono verso la portineria. “Detective Morale e Wright” disse, come di prassi, Marcelo. “Buongiorno detective” rispose l’agente di guardia, “il cadavere è al sesto piano, stanza 602.” Si spostarono verso gli ascensori ed attesero.
“Sta accelerando il ritmo” disse Elisabeth. “Non sappiamo nemmeno se sia lui” commentò Marcelo. “Vero.” Uscirono dall’ascensore e videro l’agente di guardia alla porta, lo aggiunsero e si qualificarono. L’uomo alzò la striscia di plastica e li fece entrare nella camera. La stanza, già a prima vista, era diversa. Una seggiola giaceva rovesciata a terra, c’erano dei libri sparsi sul tavolo e, accanto al letto, dei vestiti accartocciati in un ammasso informe. C’era un cadavere sul letto, con due colpi di pistola nel petto ma, a parte questo, le analogie finivano qui. L’uomo non era legato, era molto più giovane dello standard e aveva tutte le dita. “Direi che non è lui” disse Elisabeth. “Concordo, ma rimane un omicidio, dobbiamo comunque indagare.” “Giusto.” Si avvicinò al cadavere e mise i guanti, cercò il portafoglio nella giacca, ma non lo trovò, allora provò nei pantaloni, ma il risultato fu il medesimo. Elisabeth aprì il bagaglio e cominciò a controllare il contenuto, ma non trovò altro che vestiti. “Nessun documento” disse. “Nemmeno qui.” “Una rapina?” Chiese la ragazza. “Sembra più un’esecuzione, la mancanza di documenti potrebbe servire a ritardare le indagini.”
Stavano controllando la stanza in cerca di un indizio quando, alle loro spalle, giunse una voce. “Scusate.” Si voltarono e videro un uomo in completo nero avvicinarsi. “Lei chi è?” Chiese Marcelo. L’uomo estrasse un distintivo. “F.B.I.?” Domandò, sorpreso, Marcelo. “Agente speciale Weaton” disse l’uomo, “dovreste lasciare la scena del delitto, per cortesia.” “Cosa c‘entrano i federali?” Chiese Elisabeth. “Non posso dirvi nulla, vi basti sapere che l’indagine è in mano nostra, per cui, se non vi dispiace, dovreste allontanarvi.” “Un po’ ci dispiace” rispose, sarcastico, Marcelo, “ma dubito che ci siano alternative.” “Esatto.” “Vieni” disse alla collega, “usciamo.” Tornarono nel corridoio ed incrociarono altri due agenti in abito nero. “Sembra un vecchio film di Willy Smith” disse Elisabeth. Marcelo non rispose, tolse i guanti e si diresse agli ascensori. “Cosa facciamo?” Chiese Elisabeth. “Torniamo in centrale, contro i federali è inutile perdere tempo.” Raggiunsero l’auto e si avviarono verso Prudential. Il traffico, nonostante l’incidente fosse avvenuto nella corsia opposta, era
bloccato per merito dei soliti curiosi e Marcelo valutò l’ipotesi di deviare nuovamente sull’Acosta ma, dall’idea, la situazione non era migliore. “Ti va di fare un giro?” Chiese alla collega. “Piuttosto di stare in coda…” rispose Elisabeth. Marcelo accese i lampeggianti e uscì dalla colonna, attese che le macchine proveniente dal ponte si fermassero e fece inversione, dirigendosi verso l’Atlantic. “Tua madre non abita da queste parti?” Chiese Marcelo, vedendo il centro commerciale della Publix. “Si, più o meno” rispose Elisabeth incerta. “Vuoi are a salutarla?” “No, non importa, l’ho vista stamattina, grazie, comunque.” “Ok, allora andiamo in ufficio.” Svoltò sul Commodore Point ed attraversò il fiume, giungendo a destinazione in una ventina di minuti. Stavano entrando quando, sulla porta, incontrarono Marco. “Te ne vai?” Chiese Elisabeth, delusa. “Stavo andando dal comandante Doherty per salutarlo, avevi bisogno di qualche cosa?” Rispose Marco. “Pensavo che avremmo potuto fare una cosa a tre, stasera” disse Elisabeth. “Vai sul pesante” commentò Marcelo. “Idiota” rispose la ragazza, “mi riferivo ad una cena per festeggiare l’esito della missione e salutare come si deve il nostro amico.” “Ah, quello, chissà cosa credevo” disse, ridendo, Marcelo.
“Direi che è un’ottima idea” convenne Marco, “dove mi portate? Io eviterei il Maggiano.” “Pensavo di andare al Fionn, è qui vicino, al Jackson Center.” “Non lo conosco” disse Marcelo. “È un Irish pub con cucina, vi piacerà” “Direi che si può fare” rispose Marco, “ci vediamo direttamente al locale verso le sette, può andar bene?” “Perfetto” rispose Elisabeth, “così ci facciamo un aperitivo.” Salutarono Marco e rientrarono in ufficio. “Siete già qui?” Chiese, sorpreso, Pennington. “L’F.B.I. ci ha sfrattati subito dopo il nostro arrivo e, come sempre, senza spiegazioni” rispose Marcelo. “Beh, se ci sono di mezzo i federali, meglio lasciar perdere, è tutta fatica sprecata.” “Ho pensato la stessa cosa.” “Avete visto Beloretti?” Chiese Pennington. “Si” rispose Elisabeth, “l’abbiamo incrociato qua fuori.” “Bene, allora vi lascio al vostro lavoro” disse il comandante, tornando verso il suo ufficio. Lo imitarono, prendendo posto alle loro scrivanie. “Abbiamo un paio d’ore” disse Marcelo, “che facciamo?” “Pensavo di controllare i turni di servizio degli agenti ispanici per confrontarli con le date degli omicidi, ci vorrà del tempo e non è detto che serva a qualcosa, ma bisogna pur iniziare da qualche parte.”
“Giusto, io controllerò le armi in dotazione agli agenti. Normalmente ci si affeziona ad un modello di pistola e non la si cambia, avrà una seconda arma irrintracciabile, ma potrebbe essere dello stesso modello di quella d’ordinanza, non si può mai sapere.” “Ottima idea” commentò Elisabeth, “ma, cambiando discorso, per quell’altro problema?” Marcelo la guardò, fingendo di non aver capito, ma lo sguardo della ragazza lo indusse ad abbassare la guardia. “Sembra che Laura sia una giornalista, dell’Herald, e, con molte probabilità, ha usato il suo fascino per ottenere informazioni sul caso, avrebbe fatto un bello scoop.” “Purtroppo per lei, ha trovato te, l’integerrimo detective Morales” disse Elisabeth, atteggiandosi come un presidente sul balcone di una piazza gremita. “Già” commentò Marcelo abbassando lo sguardo, “purtroppo.” Elisabeth non insistette oltre e tornò a fissare il suo monitor, lasciando scorrere nel silenzio il tempo residuo prima della cena, tempo che, in fin dei conti, ò in un lampo. “Sono quasi le sette” disse la ragazza. Marcelo controllo l’orologio e spense il monitor. “Andiamo” disse. Uscirono dall’ufficio e si accorsero dello strano via vai di gente. “Come mai tutta questa folla?” Chiese Elisabeth. “È normale, vista l’ora. Noi non ce ne accorgiamo mai perché, normalmente, usciamo molto più tardi.” “Effettivamente…” Salirono in auto e si avviarono verso il Jackson Center, più o meno a cinque
minuti di strada. Trovarono parcheggio davanti al palazzo della SunTrust, attraversarono la strada ed entrarono nel centro. “Il Fionn è sul fiume, in fondo a sinistra” disse Elisabeth. Attraversarono la galleria fra la sala concerti ed alcuni ristoranti e sbucarono nella piazza, un ampio spazio a ferro di cavallo con una fontana al centro ed un palco per eventi sul fondo, al limite del fiume. Si diressero verso il palco, costeggiarono il muretto e arono in un altro corridoio che conduceva fuori dal centro vero e proprio, sbucando davanti all’ingresso del Pub. Un’enorme porta lilla, contornata da un muro verde, faceva gli onori di casa e l’insegna, in caratteri celtici, dichiarava esplicitamente la natura del locale. Entrarono e l’atmosfera li proiettò immediatamente nella Dublino più classica, non che ci fossero mai stati, ma l’idea che si erano fatti era stata rispettata alla lettera. Dei grandi tavoli in legno massello riempivano il locale e, sui lati esterni, i separé creavano angoli appartati molto carini. Delle grosse colonne centrali, scomode e, in origine, poco attraenti, erano state ricoperte di pietra, diventando il fulcro del locale. La clientela era ancora ridotta ma, dal fermento dello staff, si preannunciava una serata impegnativa. Elisabeth si guardò attorno e vide Marco già seduto in uno dei tavoli accostati alla parete. Richiamò l’attenzione di Marcelo e lo raggiunsero. “Già qui?” Disse la ragazza, sorpresa, ma felice. “C’era molto lavoro alla narcotici, così ho tolto il disturbo presto” rispose Marco. “Meglio così, cosa bevi?” “Non ho idea, qui lo chiamano Green Cloud, non chiedermi cosa c’è dentro, ma
è molto buono.” “È alcolico?” Chiese Elisabeth preoccupata. “Il cameriere mi ha assicurato che è totalmente analcolico, spero non mentisse” rispose Marco. “Direi che andrà benissimo” disse Elisabeth, ordinandone due uguali. L’attesa fu breve e, dopo pochi minuti, arrivarono al tavolo altri due bicchieri verdi e profumati. “Adesso cosa farai?” Chiese la ragazza, sorseggiando il suo drink. “Tornerò a Miami e mi rimetterò a disposizione del mio capo” rispose Marco senza troppo entusiasmo. “Non sei felice di tornare a casa?” “Certo, ci mancherebbe, ma dopo due anni sotto copertura, ho paura di trovare le cose cambiate, non so se mi spiego.” “Perfettamente” rispose Marcelo, “ma io aspetterei di vedere come si evolve la situazione, prima di demoralizzarmi, potrebbe essere meglio del previsto.” “Grazie del sostegno, proverò a fare come dici tu.” Il cameriere interruppe la conversazione, in attesa delle ordinazioni. “Il loro Fish & Chips è davvero originale e favoloso, ve lo consiglio.” “Per me va bene” disse Marcelo. “Io preferisco una tagliata di manzo, se possibile” disse Marco. “Una soda e due pinte di Guinnes” aggiunse Elisabeth. Il cameriere sorrise e tornò in cucina. Marco guardò Elisabeth sorpreso.
“Suppongo che la soda sia tua” disse. “Ovvio.” “Quindi vuoi farci ubriacare per poterti approfittare di noi?" “Non credo che mi servirebbe questo giochetto” rispose Elisabeth con un sorriso malizioso. “Nemmeno io” disse Marco, “e tu?” Chiese a Marcelo. “Concordo” rispose, stringato, il collega. Risero insieme, anche se Marcelo non sembrava troppo contento di quell’apprezzamento, ma l’atmosfera fra loro era comunque piacevole ed il locale contribuiva non poco a scaldare l’ambiente. Trascorsero un’ora rilassante e ben condita, parlando di tutto tranne che, caso raro, di lavoro. Nessuno voleva mollare la presa, ma sapevano perfettamente che l’eccesso d’attenzione poteva limitare la loro visione d’insieme e una piccola pausa ogni tanto poteva solo giovare alla loro causa. “Intanto che aspettiamo il conto, ne approfitto per andare in bagno” disse, ad un certo punto, Marcelo. Marco lo lasciò allontanarsi, poi prese la mano della ragazza, che lo guardò sorpresa. “Devo dirti una cosa che non ti piacerà, ma non posso evitarlo.” Lo sguardo di Elisabeth si rabbuiò, ma non disse nulla. “Tu ti fidi di Marcelo?” “Si, certo, perché?” “Oggi ho letto tutta la documentazione sul caso del serial killer e ho avuto un brivido.”
“Cosa intendi?” “Ho letto e riletto le caratteristiche dell’S.I. più volte ed ogni volta il nome che si presentava era sempre lo stesso.” “Non capisco dove vuoi arrivare” sbotto Elisabeth. “Ok, ti faccio il ragionamento che ho fatto io. L’assassino è un poliziotto di origine ispanica, probabilmente un ex marinaio, è fisicamente forte, porta delle scarpe numero 45, spara come un cecchino, ama la musica di classe, possiede un gatto, un’American Shorthair per la precisione, e ama la zona dall’altro lato del ponte. Ti viene in mente qualcuno?” “Cosa vuol dire, ci saranno decine di uomini che soddisfano questi requisiti.” “Vero, ma non tutti abitavano sulla Prudential da sposati e non tutti sono stati mollati dalla moglie per un altro uomo, per lo più conosciuto in un bar.” L’espressione di Elisabeth cambiò nuovamente, unendo un senso di sorpresa alla paura precedente. “Non sapevi dove aveva abitato prima di separarsi, vero?” “Non ne avevamo mai parlato” tentò di giustificarlo Elisabeth. “E non è tutto, ti faccio un esempio, la mattina dell’omicidio dei poliziotti dov’eri quando ti ha telefonato?” “Erano le cinque del mattino, ero a casa a dormire.” “Ovvio, ma lui no. L’hanno cercato a casa, ma non ha risposto, così hanno provato sul cellulare, e, dal rumore, sembrava in giro in macchina, piuttosto strano, vista l’ora.” “Potevano esserci mille motivi, professionali o personali” insistette Elisabeth nel disperato tentativo di trovare una giustificazione al collega. “Vero, ma devi ammettere che, in ogni caso, le cose andrebbero chiarite.” Elisabeth si appoggiò allo schienale con l’espressione di chi avesse appena perso
tutti i suoi risparmi alla roulette, prese il bicchiere e finì la sua soda. “Non può essere” disse. “Non possiamo non prendere in considerazione la cosa” insistette Marco. “Non è lui, di questo puoi star certo.” “Capisco la tua reticenza, ma gli indizi sono molti e puntano tutti in un’unica direzione.” Elisabeth alzò lo sguardo, Marcelo stava tornando. “Ottima cena” disse, risedendosi. “Già, davvero eccellente, ma ora si è fatto tardi, devo andare” rispose Marco. Si alzò e strinse la mano a Marcelo, abbracciò Elisabeth e, all’orecchio, gli sussurrò: “Pensaci.” La ragazza sorrise forzatamente, poi lasciò la presa e guardò Marco allontanarsi. “Un grande” disse Marcelo, “abbandonare tutto e mescolarsi con dei narcotrafficanti è da pazzi, solo un grande poliziotto accetterebbe questa sfida.” “Tu lo avresti fatto?” Chiese Elisabeth. “Si, forse, ma io non ho niente da perdere.” “Non penso basti come motivazione, come hai detto tu, solo un grande poliziotto poteva farlo, e poi, non sarei sicura sul fatto che non hai niente da perdere.” Marcelo la guardò e, di nuovo, la voglia di darle un bacio si fece pressante, ma non cedette. “Andiamo fuori” disse, “mi serve un po’ d’aria fresca.” arono da una porta laterale e si ritrovarono sul balcone che costeggiava tutto il locale e il fiume.
Le luci della sera erano splendide e le piccole navi che avano sul fiume rendevano l’atmosfera molto romantica. Marcelo si pentì della scelta, era uscito per rompere la magia del momento e, invece, aveva solo peggiorato la situazione. “Niente male” disse Elisabeth. “Già, davvero niente male” rispose Marcelo senza voltarsi. Rimasero a godersi le luci per qualche minuto, poi Marcelo ruppe il ghiaccio. “Cosa ti ha detto Marco?” “Perché?” “Ho visto la tua espressione mentre tornavo al tavolo, sembravi triste o preoccupata.” Elisabeth prese tempo, poi guardò Marcelo. “Ero dispiaciuta per la sua partenza e per il fatto che, probabilmente, non lo rivedrò più, solo questo.” “Meglio così, non la partenza, intendo, il fatto che non era nulla di grave.” “Immagino” commentò Elisabeth sorridendo. “Forse è meglio se andiamo” disse Marcelo. “Lo credo anch’io.” Lasciarono il centro e raggiunsero l’auto. Nessuno parlò, sino ai saluti, avevano paura di dire la cosa sbagliata o, forse, la cosa giusta, era meglio dormirci su, avevano ancora molto lavoro da fare.
Capitolo 38
L’auto di Marcelo era ferma al buio. Un grosso camion frigorifero oscurava il lampione, creando un cono d’ombra che rendeva l’auto invisibile. Da quella posizione poteva controllare l’ingresso del locale senza essere visto, ma mantenendo un’ottima visibilità. Erano le dieci e quaranta, l’ora classica d’arrivo nei locali serali della città. Marcelo controllò l’orologio e tornò a concentrarsi sulla porta d’ingresso. Il rumore di una portiera che si chiudeva attirò la sua attenzione, controllò il marciapiede e le auto parcheggiate in linea, sino a vedere la donna in rosso allontanarsi dalla sua auto. La seguì con lo sguardo sino a che non scomparve all’interno del pub, dopo di ché si sistemò meglio sul sedile, l’attesa sarebbe stata lunga. Lasciò scorrere liberamente i pensieri, cercando di non dare troppo peso al loro percorso. Si ritrovò a pensare a Laura, al suo tentativo di estorcergli informazioni con l’inganno, al suo piano organizzato splendidamente, ma pur sempre truffaldino, pensò alla bellezza del suo viso, alla forma del suo corpo, ma gli restava sempre l’amaro in bocca, detestava più di ogni altra cosa la presa in giro, preferiva un pugno in faccia, era più diretto e più leale. Aprì lo sportello del cassetto ed estrasse una piccola scatola di plastica per alimenti, l’aprì e tirò fuori una bottiglia d’acciaio, la mise in grembo e prese il bicchiere, uno shot, richiuse il contenitore e lo mise sul sedile accanto. Si versò una dose di rum, richiuse la bottiglia e la mise a far compagnia al contenitore.
Avvicinò il bicchierino al naso e inalò una leggera dose di profumo, sentendo il delicato tocco di vaniglia che poi, lentamente, lasciava spazio alla cannella ed ai chiodi di garofano. Ne prese un piccolo sorso e ne gustò l'attacco morbido, cremoso, liscio, sino al finale, dove fruttato e legnoso si fondevano, lasciando in gola una nota calda a ricordare il loro aggio. Lasciò scivolare il liquido caldo nella gola e rimase a godersi quell’arcobaleno di profumi e sapori che amava in modo particolare. Rimase col bicchiere in mano, non perdendo mai di vista la porta del locale. Sfilò dalla tasca una barretta di cioccolato Los Ancones e ne diede un morso. Il gusto delicato di liquirizia e caffè si fo col residuo di rum, generando una miscela paradisiaca e inebriante che, in aggiunta, forniva una carica di sostegno al suo organismo. Venti minuti dopo, il bicchiere era vuoto e il cioccolato finito, ma non era ancora successo nulla d’interessante. Marcelo valutò l’ipotesi di riempire nuovamente il piccolo recipiente e ripetere l’esperienza appena vissuta, ma il suo spirito guida gli consigliò di astenersi, doveva aspettare ancora parecchio ed era necessario che restasse lucido, addormentarsi in quel momento sarebbe stato controproducente. La sua attesa si protrasse fin quasi a mezzanotte poi, improvvisamente, la porta del locale si aprì e la donna in rosso uscì sottobraccio ad un uomo. Era sui cinquanta, alto, in buona forma, anche se non eccelsa, aveva un completo grigio che, da quella distanza, non poteva valutare, ma l’auto su cui salì, dichiarava che i soldi, per lui, non erano un problema. Si separarono appena fuori, lui salì sulla sua Mercedes, mentre lei andò verso la sua auto. Per un attimo pensò che la storia finisse lì, con un buco nell’acqua, la donna in rosso se ne sarebbe andata per la sua strada e l’uomo ricco da un’altra parte, e giochi chiusi, ma non fu così.
L’uomo uscì dal parcheggio e si fermò sul lato della strada in attesa della donna, lei raggiunse l’auto, rimase qualche istante al buio, poi accese il motore e si accodò all’uomo. Marcelo li lasciò partire, dando loro un minimo di vantaggio, il buio rendeva difficile riconoscere le auto che viaggiavano dietro, ma rendeva altresì impossibile seguire qualcuno senza che lo notasse. Dopo un minuto, Marcelo si spostò dal retro del camion e si mise sulla strada, svoltò sulla statale e proseguì nella direzione presa poco prima dalla coppia separata. Un istante dopo, da un vicolo, un’auto nera si mosse verso la strada principale e si mise in coda a Marcelo. Si diressero tutti verso la Main Street e puntarono a nord, la scelta era variegata, non aveva idea di dove lo stessero conducendo. Continuava a guidare, lasciando sempre qualche centinaio di metri fra la sua auto e quella della donna in rosso, poteva permetterselo, il traffico era leggero e l’auto della donna aveva una luce posteriore d’intensità diversa dall’altra, rendendola facilmente riconoscibile. L’attenzione verso l’auto davanti a sé era tale che non notò minimamente quella che viaggiava alle sue spalle, rendendo facile il compito del suo inseguitore. Viaggiarono per una ventina di minuti, sino a raggiungere il May Mann Jennings Park. Lo costeggiarono sino all’estremità a nord-est, ma, improvvisamente, le luci delle auto davanti a Marcelo scomparvero dopo un dosso. Marcelo accelerò, nel caso avessero preso troppo vantaggio, ma dopo poco capì che non erano più su quella strada, avevano svoltato. Accostò a destra, attese che un’auto nera transitasse, e fece inversione, tornando verso il parco. Giunto al dosso rallentò, controllando la strada, e notò un’insegna che, all’andata, gli era sfuggita, indicava il Liberty Hall Park Hotel.
Non ricordava quel nome, ma dedusse che le auto dovevano necessariamente aver preso quella deviazione, mise la freccia e svoltò nella piccola strada laterale. Percorse il viale sino all’albergo e, improvvisamente, si fermò. La struttura era simile ad un motel, con un’unità centrale e tante piccole unità disposte a semicerchio. La differenza consisteva nel livello dell’offerta, le unità satellite, se così si potevano chiamare, non erano stanze, ma piccoli monolocali, da trentacinque, quaranta metri quadrati ed ognuna era indipendente, come una piccola villetta di campagna. Era evidente, sin dal nome, che quello non era altro che un motel tradizionale, nel concetto, ma destinato a persone facoltose che, probabilmente, non si fermavano lì con la famiglia. Marcelo valutò la situazione, il viale portava al centro dell’agglomerato ed era, nel suo tratto fra le case, ben illuminato, non permetteva una posizione nascosta. Spense i fanali e avanzò lentamente, sino al limite delle case, poi accostò al marciapiede e spense il motore. Vide l’uomo ricco scendere dalla sua auto e accostarsi a quella della donna in rosso. Lei aprì la portiera e scese ed insieme si diressero verso la terza casa sulla destra. Marcelo rimase immobile nell’auto, aspettando il momento adatto per agire. Alle sue spalle, l’auto nera accostava a fari spenti allo stesso marciapiede, ma un centinaio di metri più dietro. Attese una decina di minuti, poi aprì la portiera e scese, richiudendola senza far rumore. Rimase sul marciapiede, cercando di restare nell’ombra degli alberi che costeggiavano il viale.
Raggiunse la prima casa, controllò le finestre, ma le persiane erano chiuse e non si sentiva nulla, così proseguì verso la seconda unità che, come previsto, si presentò identica alla prima. Si spostò verso la casa dove erano entrati l’uomo ricco e la donna in rosso e, anche qui, notò come tutto fosse isolato, mantenendo una barriera fra il dentro e il fuori. Si avvicinò alla porta e l’aprì. La portiera dell’auto nera si aprì e l’uomo scese senza far rumore, salì sul marciapiede e seguì o o le orme di Marcelo sino alla casa. Vide la porta socchiusa, estrasse la pistola e si avvicinò lentamente. Appoggiò una mano alla maniglia e spinse delicatamente. La porta si aprì e l’immagine che gli comparve davanti era più che esplicita. Marcelo era in piedi, dall’altro lato della stanza, quello che avrebbe dovuto essere il salotto, e puntava la pistola verso il lato nascosto della casa, presumibilmente la camera da letto. L’uomo avanzò e Marcelo lo sentì. Si voltò e lo guardò sorpreso. “Tu che ci fai qui?” Chiese, quasi arrabbiato. “Lo chiederò a te” rispose Marco. “Io sto arrestando un serial killer” disse Marcelo, “e tu?” “Anch’io.” “Fammi capire” continuò Marcelo, “pensi che sia io l’assassino degli alberghi?” “Direi che la situazione non richiede spiegazioni” rispose Marco. Marcelo, mantenendo il controllo in entrambe le direzioni, fece scorrere lo sguardo verso la camera da letto, per tornare su Marco.
“Capisco il tuo punto di vista” disse, “ma se avanzi leggermente avrai un’altra idea della cosa.” Marco rimase fermo e pensò. “Metti giù la pistola ed io avanzo” disse poco dopo. “Non ci crederai” disse Marcelo, “ma se io poso la pistola siamo morti entrambi.” “Hai ragione, non ci credo.” “Ovvio, ma è l’unica via che hai, a meno che tu non voglia spararmi direttamente.” Marco non rispose, ma la determinazione di Marcelo sembrava tale da non ammettere repliche, così tentò un ultimo approccio. “Posa la pistola e parliamo, non voglio spararti, ma se non mi dai alternativa, lo farò.” “Allora dovrai farlo, forse almeno tu ne uscirai vivo.” Marco continuava a non capire, ma non se la sentiva di sparare, così si spostò a sinistra, cercando di controllare l’angolo nascosto dietro l’ingresso. Non vide nessuno e avanzò. Superò la soglia, sempre tenendo Marcelo sotto tiro. Una volta dentro voltò lo sguardo verso la sua destra e vide il motivo della resistenza di Marcelo. C’era un uomo legato al letto, il completo grigio fatto a mano, le scarpe ordinatamente sistemate accanto al letto e la cravatta allentata, e c’era una donna, in piedi, davanti al letto, in abito rosso aderente, con un fisico mozzafiato, dei lunghi capelli biondi, le braccia alzate sopra la testa, una pistola nella mano destra e una tronchese nella sinistra. “Continuo a non capire” disse Marco.
“Ora capirai ancora meno” rispose Marcelo. “Voltati lentamente con le mani in alto” disse alla donna. La donna in rosso sorrise, un sorriso amaro, infastidito. Alzò leggermente le braccia ed iniziò a voltarsi verso i due poliziotti. Il suo sguardo incrociò quello di Marcelo, freddo, determinato, poi si spostò su Marco, e lo trovò turbato, confuso. Marco la guardò, i capelli lunghi e biondi, gli occhi azzurri, il fisico statuario, non capì subito, o forse no volle farlo, ma poi la luce si fece strada nella sua mente e la sua bocca pronunciò una sola, lenta parola: “E-L-I-S-A-B-E-T-H.”
Capitolo 39
Elisabeth Christine Wright, Torres da sposata, era ferma davanti a loro, con la pistola in una mano e le tronchesi nell’altra e sorrideva, come se nulla di particolare fosse successo. Li fissava con occhi freddi, eccezionalmente in versione azzurro cielo, e dava l’impressione di non avere la minima preoccupazione per quello che sarebbe potuto accadere nei minuti seguenti. “Complimenti” disse con voce suadente, “non capisco come tu ci sia riuscito, ma, davvero, complimenti vivissimi.” “Posa la pistola, e ne parliamo” disse Marcelo. Elisabeth sorrise e la solita ondata di luce invase la stanza. “Non credo proprio” rispose. “Sai che se non metti giù la pistola diventerà tutto più difficile.” “Lo so, sono un detective.” “Non deve necessariamente finire così” disse Marco, cercando di convincerla. “No, deve finire qui e deve finire adesso, non so come, ma sicuramente finirà qui.” Marcelo spostò rapidamente lo sguardo verso Marco e notò che la sua arma era, adesso, rivolta verso la ragazza. Tornò su di lei e, dietro, vide l’espressione terrorizzata dell’uomo legato al letto, il sudore che scendeva lungo la fronte e s’insinuava nel colletto della camicia, i piedi che tentavano invano di fare pressione sul letto, cercando uno slancio che gli permettesse di sollevarsi e togliersi le corde.
Era ignaro del fatto che, ad ogni spinta verso l’alto, i nodi si stringessero ancora di più, provocando lacerazioni ed escoriazioni sui suoi polsi. Spostò leggermente la visuale ed incrociò gli occhi azzurri di Elisabeth, non era abituato a quel colore, né alla sensazione glaciale che trasmettevano. “Posa la pistola, per favore” disse con la voce tremante. “Prima voglio sapere come hai fatto a capire tutto.” “Posa la pistola e ti racconto tutto.” “No, non hai capito, la pistola non si muove, quindi dovrai iniziare a raccontare la tua storia, e vedi di non essere tirchio, voglio tutti i dettagli, anche i più piccoli.” “È difficile raccontare una storia con una pistola davanti alla faccia, non credi?” “Io non ci trovo nulla di strano, i miei amici hanno raccontato tutte le loro belle scappatelle con la mia Beretta a pochi centimetri dalla bocca, e nessuno si è mai lamentato, in alternativa, puoi spararmi, sei in una posizione predominante, per il momento.” Marcelo cercò l’appoggio di Marco, ma lo sguardo del collega non l’aiutò a sbrogliare la matassa che si era attorcigliata nella sua testa, così cerco di prendere tempo. “Esattamente, cosa vuoi sapere?” Elisabeth rise, una risata delicata, dolce, musicale, guardò Marcelo con lo stesso sguardo usato altre volte per convincerlo a fare a modo suo e gli disse: “Non provarci, sai cosa voglio, e lo voglio adesso, quindi parti dall’inizio e prosegui pian piano, senza fretta, senza scorciatoie né omissioni.” Marcelo la fissò in quei terribili occhi azzurri e capì che non aveva alternative, se voleva guadagnare tempo doveva raccontare tutto e, possibilmente, impiegarci molto. “All’inizio tutto è ato inosservato” disse, “i segnali c’erano, ma erano
talmente tenui da risultare invisibili. Solo in un secondo momento, rileggendo i fatti, hanno preso corpo e la vera valenza che avevano nella storia.” Marcelo si fermò, ma venne subito redarguito. “Non cincischiare, voglio la storia completa.” “Il vero segnale d’allarme l’ha dato il tuo telefono, la punta dell’iceberg che mi ha spinto a rivalutare gli eventi. Non suonava, eppure tu rispondevi e, quando lo facevi, il tuo accento cambiava, diventava come il mio. La favola dei tuoi parenti che non erano di qua e ti adeguavi al loro accento poteva funzionare per tuo marito, non certo per tua madre. Il giorno del pranzo in quella Grill House, accanto al vivaio, non ho sbagliato numero, ho fatto il tuo volontariamente e, incredibile, ho sentito la tua suoneria, bella, forte, sconosciuta. Da quel momento ho ripercorso gli eventi, le parole, i movimenti, ho ato intere notti a pensare e ripensare a tutto quello che avevamo detto e fatto insieme, cercando di estrarre tanti piccoli aghi da un pagliaio enorme.” Elisabeth lo seguiva attenta, quasi rapita dal suo racconto, mentre Marco, defilato verso la porta, restava in attesa, sempre con la pistola puntata verso di lei. “Ti ricordi l’omicidio del Crowne Plaza?” Chiese Marcelo. Elisabeth annuì, ricordando con gioia l’evento. “Il signor Walter Branagham, ricordo, forse il meno colpevole di tutti. Ho faticato parecchio per convincerlo, ho dovuto dar fondo a tutte le mie doti, non so se mi spiego, per riuscire a portarlo in camera, ma alla fine, come tutti, è capitolato. Cosa ho sbagliato quella volta?” “Quando siamo arrivati, ti ho chiesto se c’eri mai stata e tu mi hai risposto, no, troppo lontano dai miei standard, ti risulta?” Elisabeth non disse nulla, lo sguardo fu sufficiente.
“Ad un certo punto ti ho chiesto di chiamare la reception, tu hai alzato il telefono ed hai premuto il tasto 5.” “E con questo?” Chiese, sorpresa, la ragazza. “Per esperienza personale, non mi convinceva la tua scelta, così ho fatto una piccola indagine statistica ed ho scoperto che il 96% degli alberghi della Florida usano i numeri 0 oppure 9 per chiamare il portiere, e quelli sarebbero stati i primi numeri da provare, ma tu sapevi che loro rientravano fra quel 4% che usa un numero diverso, pur non essendoci mai stata. Come dicevo prima, di per sé, la cosa non aveva alcun valore, potevano esserci molte spiegazioni, ma formava il primo anello di una catena che, alla fine, ti avrebbe intrappolata.” Elisabeth rimase sorpresa dal primo punto della storia, ma, in fondo, ammirava l’acume del collega, in pochi avrebbero ricordato quel piccolo dettaglio. “Continua” disse, vedendo Marcelo in pausa. “Omni Jacksonville, l’omicidio Dimitri Kolarcek.” “Certo, il russo mafioso, quello andrebbe classificato come lavoro ordinario per uno sbirro e non omicidio.” “Non sono d’accordo, comunque, tornando alla storia, tu sei arrivata in abito da sera e mi hai detto che eri appena uscita dal Jacksonville Theatre, dove avevi visto il Romeo e Giulietta del Bolshoi. Peccato che, giorni dopo, Geremia mi ha confidato che, per il suo anniversario, aveva portato la moglie a vedere lo stesso spettacolo, ma non al Jacksonville, bensì al Florida Theatre, e non credo che si possa sbagliare il nome del teatro, tu, normalmente, non lo avresti fatto, a meno che non fosse stata un’idea dell’ultimo secondo.” Elisabeth si lasciò sfuggire una piccola smorfia di disappunto, il nervosismo, tenuto a bada con eleganza sino a quel momento, iniziava a dare i primi scossoni, ma cercò di nascondere la tensione con un sorriso forzato. “Bel colpo, Sherlock, e, soprattutto, ottima memoria” disse, buttandola sull’ironia. “Posso fare di meglio” rispose Marcelo sempre più convinto.
“Courtyard Jacksonville Orange Park, omicidio di Samuel Donovan.” “Come no, il gioielliere, dopo cinque minuti voleva regalarmi un collier di perle, diceva che avrebbero riflesso la luce dei miei occhi, idiota, cosa ho sbagliato quella sera?” “Sei arrivata presto, e te l’ho fatto notare, tu mi hai risposto, da casa mia a qui, ando sul Buckman Bridge, ci vuole meno di un quarto d’ora, ricordi?” “È la verità, cosa c’è che non ti convince.” “Vedi, quella sera, come l’altro ieri sull’Alsop, un camion si era intraversato sul Buckman Bridge, bloccando il traffico, ma tu non lo sapevi, non avevi la tua auto e, di conseguenza, la radio della polizia, e non sei rimasta bloccata perché eri già al di qua del ponte, e sappiamo perché.” Elisabeth sentì il calore raggiungerle le guance, fece un respiro profondo e respinse l’attacco di rabbia che le risaliva dallo stomaco. Era stata attenta, ma Marcelo lo era stato più di lei, per quanto le paresse strano, e poi ci si era messa pure la sfortuna, chi poteva prevedere che il ponte sarebbe stato chiuso, erano anni che non accadeva, ma era successo e, cosa peggiore, Marcelo lo aveva notato. Elisabeth alzò lo sguardo verso il collega e lo vide ancora freddo, concentrato. “Suppongo non sia finita” disse. “No, ovviamente. Il colpo di grazia lo hai dato la mattina dell’omicidio dei due agenti, Klinderen e O’Kinney erano i loro nomi, cinquant’anni in due, ma questo, per te, non era un problema. Eravamo sul pianerottolo e mi hai fatto notare una stringa slacciata, io mi sono chinato e visto delle piccole gocce scure sulle tue scarpe, o meglio, sulla tua scarpa sinistra. Quando Stewart ci ha esposto i risultati delle loro analisi e, fra le altre cose, ha citato il fatto che l’assassino si fosse presumibilmente sporcato le scarpe durante il primo omicidio, ho avuto un brivido, il terrore che ci fosse di più di quello che temevo.” Elisabeth non disse nulla, continuava a fissare Marcelo, ma il suo sguardo era più cupo, il suo sorriso si era spento, la consapevolezza che il collega stesse arrivando alla conclusione con dati oggettivi e non solo con indizi e supposizioni
stava prendendo il sopravvento. Lasciò gli occhi infilati in quelli del partner ed attese il seguito della spiegazione. “Hai giocato la carta della finestra, troppo dura per essere aperta da una donna, e troppo chiusa per lasciar are qualcuno, ma tu non avevi la necessità di aprirla, col tuo fisico potevi sgusciare sotto il vetro senza problemi e tanti saluti alle deduzioni.” Elisabeth continuò nel suo processo d’oscuramento, ma senza mostrare alcuna reazione. “Ho ato ore a combattere con me stesso, cercando di fare la cosa giusta e, alla fine, ho provato a darti un’altra possibilità. Ho chiesto a Chandra di verificare i tabulati di un numero di cellulare, senza specificare di chi fosse, e il risultato mi ha sconvolto. Quando ho aperto la busta ed ho estratto quei due fogli, il dolore è stato così forte che ho creduto di morire. In quelle pagine comparivano due numeri, SOLO due numeri di telefono, il mio e quello della centrale, sia in entrata che in uscita, non potevo crederci. Nessuna madre ti ha mai chiamato, nessun marito, e tu lo stesso, eppure parlavi al telefono, ma con chi?” Il tono della voce di Marcelo era al limite dell’isteria, ma non era rabbia, era paura, la paura di una verità che non voleva sentire, il terrore che quella storia fosse reale e non frutto di una sua malsana idea. Cercò di recuperare la calma, fece un sospiro e proseguì. “L’altro giorno, quello dell’operazione al Maggiano, sono andato a casa ed ho provato a dormire, ma la tua immagine continuava a ripresentarsi ogni volta che chiudevo gli occhi, così mi sono vestito, sono venuto davanti a casa tua e ti ho seguita, ti ho visto entrare al supermercato e ti ho telefonato. Mi hai detto che saresti ata da tua madre e ho aspettato, ero curioso di vedere dove saresti andata, non esistendo una madre da cui andare. Quando ti ho visto entrare con le buste della spesa in quella casa, casa che avevo visitato pochi giorni prima e che risultava disabitata da almeno vent’anni, ho avuto l’ennesimo colpo al cuore. Ne sei uscita pochi minuti dopo senza niente in mano, avevi lasciato la spesa in casa, ma per chi?” La voce di Marcelo stava nuovamente risalendo il pendio dell’isteria, si fermò ed
attese fino a che l’onda non fosse ata. Elisabeth non parlava, non si muoveva. La sua espressione rimaneva imperturbabile, aveva riacquistato quella dolce freddezza che aveva in precedenza, come se l’epilogo di cui tanto si preoccupava fino ad un attimo prima, fosse improvvisamente diventato normale routine, niente per cui valesse la pena perdere del tempo. “Ti ho perso ad un semaforo, ma sapevo dove trovarti. Mi sono appostato a casa tua tutte le sere, prima o poi l’avresti rifatto. Quando stasera sei uscita con quell’abito rosso fuoco, ho capito che sarebbe stata la svolta finale. Ti ho pedinato sino al parcheggio sulla Newton e ti osservato mentre indossavi la parrucca e finivi il tuo travestimento, ti ho visto cambiare auto, prendendo quella che tenevi nascosta nel box e alla quale, da bravo detective, avevi nuovamente cambiato la targa. Continuavo, scioccamente, a pensare che avrei comunque potuto sbagliarmi, che forse non era come credevo, che poteva essere solo una scappatella extraconiugale senza drammi e senza cadaveri, l’ho sperato sino all’ultimo, sino a quando sono entrato qui e ti ho visto con la pistola in mano e l’uomo legato al letto.” Elisabeth non mutò di un millimetro la sua postura o la sua espressione, come se fosse ascoltatrice disinteressata di una storia altrui. Marco, nel suo angolo, era impietrito da quello che stava sentendo, conosceva Elisabeth da vent’anni, l’aveva rivista da poco, è vero, ma gli era parsa la stessa ragazza solare e gentile che conosceva, non poteva credere a tutta quella storia, ma i fatti non davano speranza. Lei non reagiva al racconto di Marcelo, come un bimbo sorpreso con le mani nel vasetto di marmellata, non poteva ribattere, non aveva argomentazioni e poi, in fin dei conti, la sola scena in atto non richiedeva altre prove. Eppure, nonostante tutto, anche Marco non accettava pienamente l’esito di questo ragionamento, forse, anche lui, era rimasto abbagliato dalla luce di quella ragazza ed era diventato cieco o, quantomeno, era divenuto parziale, estremamente parziale. Rimaneva fermo con la pistola puntata verso di lei e la consapevolezza che non
l’avrebbe mai usata, ma senza la forza di abbassarla o di andarsene. “Finito?” Chiese, a sorpresa, Elisabeth. “Finito” ripeté Marcelo. Elisabeth annuì, come un plauso senza mani al collega detective. “Davvero bravo” disse, “e pensare che avevo scelto te per evitare problemi.” Marcelo non capì la stoccata, e rimase in silenzio. “Non sono capitata con te per caso, o perché eri l’unico detective senza partner, lo avevo richiesto io specificatamente, mi serviva un compagno abbastanza bravo da lavorare al caso, ma non troppo da risolverlo e tu cadevi a proposito.” Le parti si erano invertite. Ora Elisabeth raccontava la sua verità, la sua storia, e Marcelo stava a sentire, cercando di non mostrare il suo stato d’animo. “In aggiunta” proseguì la ragazza, “sapevo che avrei potuto contare sulla carenza celebrale degli uomini al cospetto di una donna che ritengono interessante, anche se speravo di ottenere di più, da questo punto di vista.” Marcelo, colpito nell’orgoglio, finse di non subire l’offesa e andò all’attacco. “Perché non mi racconti qualcosa d’interessante, anziché perderti con inutili riflessioni?” Elisabeth sorrise, sapeva d’aver colpito nel segno e questo le bastava. “Hai ragione” disse, “veniamo ai fatti. Pensavo d’aver pianificato tutto in modo perfetto, a partire dalla colazione al BB’s Restaurant. Volevo essere la più vicina al momento del ritrovamento del primo cadavere, così saremmo intervenuti noi e ci avrebbero affidato il caso. Quale modo migliore per sapere sempre a che punto erano le indagini? Così, infatti, è andata, e non potevo chiedere di meglio. Avevo pensato che la storia sarebbe stata un po’ piatta, priva di fantasia, così ho
aggiunto il dettaglio del codice misterioso. Pensavo che sareste giunti alla soluzione senza troppe difficoltà, ma mi sbagliavo, se non era per me, sareste ancora in cerca del significato recondito di quei biglietti. Poi, per qualche motivo che non mi è ancora chiaro, ho deciso di coinvolgerti come sospetto e non solo come partner, così ho iniziato a lasciare piccole prove che portassero nella tua direzione, niente di clamoroso, sarebbe stato controproducente, ovviamente, ma sufficienti affinché la scientifica riuscisse ad individuarle. Ho iniziato col pelo nella corda, in realtà un tuo capello raccolto dal poggiatesta della nostra auto. Il o successivo doveva essere un’impronta di scarpa, ma quella sera ho avuto delle complicazioni e pensavo che la cosa fosse saltata poi, grazie alla buona sorte, quel genio di Sophie ha rintracciato un’impronta parziale nel sangue che nemmeno io pensavo di aver lasciato, e tutto ha ripreso il suo scorrere normale, tutto è rientrato nella pianificazione originale.” Marcelo, copiando l’atteggiamento precedente della collega, non dava segno di reazione, cercando di mantenersi freddo e distaccato, come se non fosse lui il bersaglio di quell’inganno. Elisabeth guardò per un attimo Marco, rendendosi conto di quanto sconvolto fosse. “Stava funzionando tutto per il meglio” disse, tornando a concentrarsi su Marcelo, “devi ammettere che l’idea dei nodi non era male, sapevo che avevi fatto il marinaio ben prima che tu me lo raccontassi e ho pensato che un tocco esotico sarebbe stato carino, anche se, all’inizio, non era previsto un tuo coinvolgimento diretto, ma, una volta messa in atto la scena, anche quello diventava parte integrante della sceneggiatura. Devi convenire con me che l’idea della stazione radio sempre uguale e della sparizione del rum era sottile, non ero certa che qualcuno se ne accorgesse, ma i ragazzi di Stewart sono stati davvero bravi, anche se, devo ammettere, questo giochetto mi ha obbligata a recitare la parte dell’astemia, compito più difficile del previsto. È stata dura vedervi scolare quelle meravigliose pinte di birra scura ed essere obbligata a bere della schifosissima soda, quasi come are per un’idiota musicale senza poter controbattere, ma faceva parte del gioco, e volevo giocarlo al meglio.” Elisabeth si fermò ed attese, ma i due uomini non davano segni di vita, così decise di proseguire.
“Ad un certo punto ho pensato che, in fin dei conti, il colore non fosse sufficiente, ed ho voluto aggiungere una nota calda, molto calda, così ho fatto alcune foto e, all’inizio, ho pensato che spedirle ad un giornale sarebbe stato sufficiente, ma poi, viste le reazioni, ho creduto opportuno calcare un po’ la mano ed ho chiesto ad un amico virtuale di pubblicarle sul web. Non avevo idea di come farlo e di cosa sarebbe successo, ma il risultato è andato oltre le mie aspettative. Tutto stava andando come da programmi, poi è arrivata lei, la bionda da urlo, l’unica che poteva distogliere la tua attenzione da me, l’unica che rischiava di mandare tutto all’aria. Non sai quanto mi ha fatto incazzare quella stronza, mi ha innervosito a tal punto che ho fatto il primo vero errore, ho lasciato che la rabbia prendesse il sopravvento e, per quello, ci sono andati di mezzo due ragazzi innocenti, due colleghi che non avevo nessuna intenzione di coinvolgere.” “Però gli hai uccisi” commentò, freddo, Marcelo. “Vero, ma non ho avuto scelta. Mi avevano vista e avevano capito cosa avevo fatto, non ho avuto alternativa.” “Un’alternativa l’avevi.” “Farmi arrestare o uccidere non era contemplato fra le variabili.” “Mentre rimaneva valida, come alternativa, quella di rendere due bambini orfani e due donne vedove, complimenti, davvero, i miei più sinceri complimenti.” “Tu non puoi capire” disse Elisabeth. “Hai ragione, non posso capire, anche se lo vorrei tanto.” “Peccato, perché stavo pensando di smettere e trasferirmi. Mi hanno detto che ad Ensenada ci sono ottime possibilità di lavoro, la vita è semplice, ma piacevole, e non c’è estradizione, nulla a che vedere con il traffico e lo stress di una metropoli americana.” Marcelo rimase immobile, ma la luce nei suoi occhi cambiò, un bagliore tenue si attizzò come una brace scossa dal bastone e colpita dal vento. La luce aumentò e si riflesse negli strani occhi azzurri di Elisabeth.
Marcelo la fissò, risistemò le mani sulla pistola, lei aveva giocato l’ultima carta della sua partita, toccava a lui fare la sua mossa, e la fece. Si voltò di scatto e sparò. Lo sguardo di Marco era incredulo, non era paura, ma più sorpresa. Venne proiettato contro lo stipite della porta, si chinò in avanti e si afflosciò sulle ginocchia, come un sacco vuoto, rimase qualche istante sospeso in quella posizione di preghiera, poi crollò col viso a terra, gli occhi sbarrati in quell’espressione incredula e la bocca semiaperta. Un sibilo scosse l’aria e Marcelo cadde pesantemente sul pavimento. La pistola volò contro la parete e i suoi occhi, come quelli del collega, espressero tutto il suo stupore. “Non preoccuparti” disse Elisabeth, “se avessi voluto ucciderti, saresti morto, ma non puoi farti trovare illeso in questa stanza con due cadaveri e nessuna spiegazione, a proposito…” Si voltò verso l’uomo legato al letto e sparò due colpi. “Non è il caso di lasciare testimoni” disse. Si avvicinò a Marcelo e raccolse la pistola, mise tutto nella borsa e controllò la stanza. “Dichiara pure che è stato il serial killer ad uccidere Marco con la tua pistola, noi ci vediamo a casa.” Raccolse la rimanenza delle sue cose, gli sorrise ed uscì. Marcelo prese un fazzoletto dalla tasca e lo premette sulla ferita fra la spalla ed il torace, un colpo da maestro, due centimetri più a sinistra e sarebbe morto, due più a destra e sarebbe stato evidente l’errore. Cercò di rialzarsi, ma gli spari provenienti dalla strada lo fecero desistere. Si sdraiò, consapevole di quello che poteva essere successo là fuori.
Da terra vedeva il riflesso delle luci blu e rosse, sentiva le voci dei poliziotti e poteva inquadrare il vialetto che portava alla strada. Si allungò per migliorare la visuale e, appoggiato sulle mattonelle, seminascosto dalla porta, vide spuntare un braccio con un vestito rosso ed una pistola in mano. Questa volta era davvero finita.
Epilogo
Pennington chiuse il fascicolo e lo spostò di lato. Rimase a fissare la scrivania vuota senza parlare per alcuni istanti, poi si fece forza, alzò gli occhi e guardò i suoi ospiti. “Signori, vi ho convocato tutti perché ritenevo giusto che foste messi a conoscenza direttamente da me di tutto quello che è successo, dopotutto, ognuno di voi ha preso parte a quest’indagine ed ognuno, credo, si sarà chiesto come sia stato possibile tutto ciò. Oltre a questo, come avrete notato, è presente il comandante Robinson, capo del dipartimento centrale, che vorrebbe da voi alcuni chiarimenti.” Nessuno rispose. Marcelo, ancora col braccio al collo, era seduto vicino alla finestra, lo sguardo nero come la pece, gli occhi spenti, le labbra strette. Accanto a lui, Geremia e Alvin erano in attesa di ascoltare tutta la storia, ma tremavano all’idea di quello che avrebbero potuto sentire. Erano amici di Elisabeth, e non perché fosse bella, entrambi aveva superato quello scoglio che portava solo a scelte sbagliate, ora valutavano, e non credevano solo di farlo, le qualità della persona, le sue doti, il suo carattere, e sapere che si erano sbagliati entrambi era insopportabile. Dall’altro lato della fila era seduto il dottor Lecter, l’unico poco coinvolto emotivamente nel caso, ma il più desideroso di conoscere ogni singolo dettaglio. In piedi, appoggiato alla scrivania, c’era il comandante in capo, il capitano Rupert Robinson, vecchia scuola, diceva lui, vecchia mentalità, dicevano gli altri, uno di quei poliziotti tutti d’un pezzo, quelli che non capivano perché si dovessero far arruolare le donne, i neri o gli ispanici, uno a modo, insomma.
“Avete letto tutti il rapporto di Marcelo e quello degli agenti intervenuti sul posto dopo la chiamata di Beloretti, quindi, direi che è inutile soffermarsi su questo, piuttosto, se qualcuno ha delle domande, può farle, cercheremo insieme le risposte.” “Io avrei una curiosità” disse Robinson, “perché lei è vivo?” Chiese rivolto a Marcelo. “Non mi fraintenda” continuò, prima che potesse rispondere, “son ben felice che lei sia qua, mi chiedevo solo come fosse possibile che un’assassina con tanta freddezza e tanta meticolosità sia caduta in un errore così grossolano.” Marcelo guardò il comandante, poi si spostò su Pennington, per tornare poi sul suo interlocutore. “Posta in questi termini potrebbe sembrare un’accusa, più che una curiosità” rispose Marcelo con calma, “come se Elisabeth non mi avesse voluto uccidere volontariamente, ma, se così fosse, mi dovrebbe spiegare il motivo di tanta indulgenza.” “Eravate partner e, da quel che si dice, molto legati, forse troppo.” “E questo chi lo dice?” “Voci di corridoio, chiamiamole così” disse Robinson. “Un corridoio piuttosto distratto” commentò Marcelo, “Elisabeth era sposata ed io ho il massimo rispetto per certi legami, penso sia noto, non fosse altro per il fatto che anch’io sono stato vittima di una situazione del genere.” “E lei come spiega l’errore?” Chiese il comandante. “Non saprei, io stavo dall’altra parte della canna della pistola, non ho avuto tempo di preoccuparmi dell’errore, ne sono solo stato felice.” Robinson si prese una pausa, riordinò le idee e ripartì di slancio. “Lei ha detto che ha seguito Elisabeth per una sua intuizione, un presentimento, che però ha tenuto per sé, se ne è guardato bene dal condividere questa ipotesi con noi, posso chiederle perché?”
“Come ha detto lei. Elisabeth era la mia partner e fra poliziotti, cosa che forse lei non conosce, o di cui non ricorda il significato, esiste un legame stretto, anche se professionale, e non si mette a rischio la carriera di un collega per una supposizione, volevo avere una prova concreta e poi ve ne avrei parlato.” “Direi che la prova l’ha avuta, e più che concreta.” Marcelo si mosse dalla poltrona, ma la mano di Alvin lo trattenne. Si voltò verso il tenente, ma il suo sguardo lo convinse a desistere o, quantomeno, ad aspettare. “Beloretti era stato informato?” “No, nessuno sapeva nulla.” “Eppure era lì con lei.” “Non era con me, mi aveva seguito per non so quale motivo e si è ritrovato al posto sbagliato, tutto qui.” “Mi risulta che anche lui fosse un amico di vecchia data dell’agente Wright.” “E con questo?” “Non vorrei che tutta questa amicizia fosse sfociata in una azione di gruppo che poi, per qualche motivo, è degenerata in una carneficina.” L’analisi del comandante aveva fatto impennare l’adrenalina a Marcelo che ora faticava a rimanere seduto. Capiva la sua obiezione, ma non doveva spingersi oltre, rischiava grosso. “Per prima cosa, terrei a sottolineare che io e Beloretti ci siamo conosciuti solo pochi mesi fa, e ci siamo visti due volte, prima di quella sera. Non si può certo dire che eravamo amici. In secondo luogo, Beloretti ed Elisabeth non si vedevano da almeno quindici anni, non credo che avessero un legame tanto forte, e, giusto per concludere, entrambi ci consideravamo amici di Elisabeth, ma nessuno dei due l’avrebbe seguita in un’impresa tanto assurda, e che lei ci creda o no, comunque, non fa differenza.”
Robinson fece scorrere le pagine del rapporto e si fermò sull’ultima pagina. “Lei ha detto che è intervenuto quando ha capito che la sua ipotesi era esatta” disse il comandante, “potrebbe ripetermi cos’è successo?” Marcelo fece un sospiro, guardò Alvin che annuì, imitato da Geremia. “Sono entrato con la pistola in pugno ma, appena superata la porta, sono stato colpito e sono crollato contro al muro. Ero immobile con la faccia a terra e ho visto i piedi di Elisabeth che si avvicinavano e la sua mano che raccoglieva la pistola. Un minuto dopo ho sentito dei i, ho visto dei piedi superare la porta ed ho sentito lo sparo. Beloretti è caduto vicino a me, potevo vederlo in faccia. Sono rimasto immobile ed ho aspettato che Elisabeth uscisse, dopo di ché ho sentito gli spari degli agenti sulla strada e, solo allora, ho provato ad alzarmi.” Robinson non alzò nemmeno lo sguardo, voltò pagina e guardò Geremia. “Dottor Kruner, lei ha eseguito l’autopsia di tutte le vittime, cosa mi può dire?” “Le posso dire che l’uomo sul letto ed il detective Morales sono stati colpiti dalla medesima arma, trovata poi nella borsa del detective Wright, mentre il sergente Beloretti è stato ucciso dall’arma del detective Morales, come dichiarato dallo stesso nel rapporto e queste, per la cronaca, non sono deduzioni o impressioni personali, ma la fredda verità scientifica.” “Grazie, dottore, apprezzo la sua competenza ed il suo attaccamento, non serve che s’infervori.” Robinson fece scorrere le pagine del rapporto come se le stesse davvero leggendo, poi guardò Alvin. “Tenente Stewart, lei cosa mi dice.” Alvin fissò il comandante, iniziando a comprendere la voglia di Marcelo di saltargli al collo, ma si trattenne, limitandosi ad un ironico sorriso. “Tutte le analisi fatte dalla mia squadra” disse, “confermano la versione del detective Morales.” “Tutto qui?” Chiese, stupito, il comandante.
“Se vuole posso annoiarla per un’ora con i dettagli tecnici di cui capirà la decima parte, ma non credo che sia quello che sta cercando, o sbaglio?” Robinson accusò il colpo ed abbassò lo sguardo verso il fedele faldone, cercando di scomparire. Riemerse dopo pochi minuti, cercando di chiudere in fretta la faccenda. “Lei, dottore, cosa ci può dire sul detective Wright?” Lecter guardò i colleghi, poi fissò Robinson. “Ho analizzato tutta la storia di Elisabeth e, devo ammettere, mi dispiace per quanto è successo, non lo meritava, come non lo meritavano le altre vittime. Vi farò un riepilogo degli eventi che hanno portato un detective a trasformarsi in un serial killer.” Lecter si prese una delle sue solite pause interlocutorie, poi riprese il discorso. “Quando Elisabeth aveva tredici anni, suo padre s’innamorò di una ragazza conosciuta in un pub. Era bionda, bella e giovane. Lasciò lei e sua madre e se ne andò con la ragazza, scomparendo dalla faccia della terra. Sua madre finse di reggere l’urto, ma sei mesi dopo, si suicidò, impiccandosi in camera. Fu Elisabeth a trovarla e a dare l’allarme e, già questo, fu uno shock notevole per la ragazza. A completare l’opera ci si misero i servizi sociali che la diedero in affido a degli zii, lui semialcolizzato e lei mezza pazza, proprio un bel modo per aiutare un’adolescente sola.” Come consuetudine, Lecter si versò dell’acqua e ne bevve un sorso, poi riprese. “È molto probabile che, in quegli anni terribili, Elisabeth si sia creata un alter ego, una seconda personalità abbastanza forte da sopravvivere agli eventi emotivi che la stavano distruggendo. In pratica, la ragazza ha sviluppato quello che viene definito come il “Disturbo dissociativo dell’identità”. In questi casi, in un’unica persona si crea la presenza di due o più identità o stati di personalità distinte, ciascuna con i suoi modi relativamente costanti di percepire, relazionarsi, pensare nei confronti di sé stessa e dell'ambiente. Queste identità assumono in modo ricorrente il controllo del comportamento della persona e, normalmente, una di queste diventa predominante. Piano piano la nuova personalità si è impossessata del corpo ed è diventata primaria. Una volta
abbandonata la casa degli zii, Elisabeth è tornata ad una vita normale e, un poco per volta, la personalità primaria si è disgregata, lasciando spazio alla vera Elisabeth. L’avvento del detective Torres, con conseguente matrimonio, sembrava aver definitivamente spazzato via l’intrusa dalla mente di Elisabeth. Sino a sei mesi fa. Secondo le mie informazioni, circa in quel periodo, Michael Torres è scomparso in una missione sotto copertura e, ad oggi, non si hanno più notizie. È presumibile che questo nuovo dramma abbia riportato alla luce i vecchi fantasmi, vecchi dolori. Posso immaginare che, nella mente di Elisabeth, questa scomparsa sia stata vissuta come un nuovo abbandono, una replica di quanto successo con suo padre, ed Elisabeth è crollata, lasciando spazio all’altra lei, quella che l’aveva salvata da piccola e che ora si sarebbe occupata di sistemare le cose.” Lo sguardo attento del suo pubblico spinse Lecter ad un nuovo intermezzo, dando modo a tutti di riorganizzare le idee e prepararsi per la conclusione. “In conclusione” disse il dottore, “penso che nella sua paranoia, Elisabeth volesse punire tutti gli uomini sposati che avevano storie occasionali e, per farlo, si è trasformata nella bionda che gli aveva rovinato la vita. Andava nei locali e cercava uomini con la fede, andavano bene anche quelli che la tenevano in tasca, bastava poco per farli parlare. Una volta trovato l’obiettivo, lo portava in camera e gli proponeva qualche gioco erotico particolare. Non aveva alcuna difficoltà a convincerli e, una volta legati, chiamava la sua complice interna e lasciava a lei l’onore della conclusione. La sua interpretazione era perfetta, forse perché non recitava, ognuna delle due parti era indipendente e questo le rendeva assolutamente credibili. Senza l’intuizione di Morales non l’avremmo mai trovata.” Robinson attese, ma Lecter non disse più nulla, così il comandante prese la parola. “Direi che ho sentito tutto quello che mi serviva, se avessi bisogno di voi, vi contatterò.” Salutò tutti ed uscì, seguito dagli sguardi infuocati degli altri. “Direi che si è fatto tardi” disse Pennington, “andate a casa, ci vediamo domani.” Si alzarono per salutarsi, ma Marcelo uscì, senza degnarli di uno sguardo.
Salì sulla sua l’auto e si mise a guidare. Non sapeva dove andare, ma la mente lo spinse verso il mare. Senza accorgersene si ritrovò a Neptune Beach, fermò l’auto nel parcheggio davanti alla spiaggia, scese e si avviò verso l’arenile. Si tolse le scarpe e le calze ed iniziò a camminare verso sud. Il sole stava tramontando ed il mare si faceva sempre più buio, ma era sempre il mare, lui non ti sorprende, lui non ti tradisce, se lo conosci, lui è sempre dalla tua parte. Camminò per un tempo incalcolabile, poi crollò a terra, si distese a guardare il cielo, come aveva fatto tante volte da bambino, sognando una vita migliore in un posto migliore. Rimase in quella posizione, piangendo, fino a che non si addormentò. Quando si risvegliò, era notte fonda, la spiaggia era ancora deserta e tutto era come l’aveva lasciato. Si rialzò e tornò versò l’auto, ora sapeva cosa fare. Si rimise in moto e tornò verso la città, Era a metà strada quando vide lo svincolo che portava sulla FL115, in direzione dell’Atlantic, cambiò corsia e si spostò in quella d’uscita. Proseguì per una decina di minuti, sino all’Arlington Memorial Park, poi uscì dalla superstrada e iniziò a percorrere la statale, costeggiò il cimitero militare e raggiunse un piccolo boschetto. Fermò l’auto accanto al marciapiede e scese. La notte era nella sua fase finale ed il buio, per quanto presente, non era più così intenso. Si avvicinò al ridotto gruppo di alberi e s’inoltrò fra loro, percorse un sentiero per una ventina di metri e si fermò.
Osservò la lapide davanti a sé. La piccola croce in legno, gentilmente concessa dal comune, riportava solo il nome e la data della morte. Sarebbe stata sostituita dopo alcuni mesi, giusto il tempo d’assestamento del terreno, ammesso che qualcuno la richiedesse e si occue delle spese. Marcelo posò un fiore sul terreno davanti alla lapide, si fece il segno della croce ed una piccola lacrima scivolò dal suo occhio, lungo la guancia, cadendo dal mento. Tornò all’auto, era il momento. Raggiunse la Barnett Center Tower e salì verso la zona degli attici. Una volta raggiunto l’ultimo piano, andò verso la porta che conduceva al tetto, l’aprì ed uscì sull’enorme spiazzo a quasi duecento metri d’altezza. Si accostò al bordo e guardò in basso. Una colonna buia correva sino a terra, come un tunnel senza uscita. Il vento gli soffiava tra i capelli, asciugando le lacrime sul viso. Marcelo salì sul muretto e guardò il panorama. Buio Osservò i palazzi, le case e, in lontananza, il mare. Pensò a Laura, ad Alvin, a Geremia e, ovviamente, ad Elisabeth. Buio Guardò verso terra, poi guardò di nuovo il mare. Un sottile raggio rosso stava illuminando l’orizzonte e, presto, un’onda colorata sarebbe apparsa sul fondale di quella scenografia, irradiandosi per tutto il paesaggio. Chiuse gli occhi.
Buio Li riaprì e vide l’immensa massa rossa inondare tutto il mondo. Richiuse gli occhi e pensò. Buio L’alba vista dalla Torre era sempre qualcosa d’indescrivibile.
Fine