JULIA DOBROVOLSKAJA
Post Scriptum
Memorie. O quasi
Terza edizione riveduta e ampliata
Youcanprint Self-Publishing
Julia Dobrovolskaja, Post Scriptum. Memorie. O quasi
Titolo originale: Пост Скриптум. Вместо мемуаров
Traduzione di Claudia Zonghetti (Alessandra Capponi e Renata Baffi per Le badanti)
Prima edizione digitale: Youcanprint Self-Publishing - 2015
ISBN 9788891182487
In copertina: disegno di Renato Guttuso di proprietà dell’autrice
Il presente volume è stato pubblicato grazie all'interessamento del dott. Flavio Destro al sostegno e contributo di
Un particolare ringraziamento a Luigi Lombardo, che tanto si è adoperato affinché questo volume vedesse la luce.
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Indice
Premessa: L’artigiano solitario
1. Inizio dal principio, com’è giusto che sia
2. Mogučaja kučka: pochi ma buoni
3. La seconda nota stonata
4. A scuola da Propp
5. Due germanisti, un romanista e una sinologa: quattro amici inseparabili
6. La Spagna
7. La TASS, il PCUS e l’amore
8. “Si trovava in condizione di compiere un crimine” (dal Codice Penale dell’URSS)
9. Arbeit macht frei
10. Dal lager di Chovrino a quello pansovietico
11. Un marchiano errore politico: Antonio Fogazzaro
12. “Capir non potete la mia pena” (musica di Gurilëv, parole di Bešencov)
13. Per non aver commesso il fatto
14. Tiro, altro tiro… goal!
15. L’infermiera Elizaveta Semënovna e il generale Umberto Nobile
16. Traduzione e religione
17. Utile idiota
18. Amplio le relazioni culturali tra i nostri due paesi
19. …Facciamo come se vivessimo in un paese normale…
20. Sacrificherei anche mia madre…
21. Gianni Rodari
22. Marietta Sergeevna Šaginjan
23. Problemi di linguistica
24. Il violino di Nina Bejlina
25. Al gran sole carico d’amore
26. Renato Guttuso
27. Di tutto un po’
28. Lo sponsor
29. Nina Nikolaevna Berberova
30. L’amore delle tre melarance
31. La cittadina Nemirovskaja
32. La scomparsa di Majorana
33. La società di mutua ammirazione
34. Kennst du das Land wo die Zitronen blühen?
35. Il melil
36. …e ti saranno rimessi i tuoi peccati, ati e futuri…
37. La prova generale della morte
Risposte alle domande dei lettori
Post-Post Scriptum
L’autrice ringrazia di cuore Irina Čajkovskaja, che ha voluto e curato queste pagine, Mila Nortman, per l’aiuto impagabile e devoto, Filippo Gaggini, che la fa sentire un po’ più sicura in questo pazzo mondo, e Vladimir Malev, primo lettore e critico prezioso di queste “memorie o quasi”.
Premessa: L'artigiano solitario
Sono una persona poco seria. Nel senso che non mi prendo mai troppo sul serio. Ragion per cui stento a riconoscermi nei panni del memorialista. Lo so che, come vuole Solženicyn, a 86 anni è tempo di aggiungere la propria tessera al mosaico della storia, e so anche che è un dovere per chiunque si sia lasciato una vita alle spalle: non sia mai che la scrivano i vincitori, la storia, e la travisino.
Scrivi, scrivi!, mi ripetono a destra e a manca. Memento mori, mi vien fatto di pensare. Del resto, lo desideravo e me l'ero ripromesso un sacco di volte, però il tempo non bastava mai, tra due università in città diverse (altrimenti come facevo a campare?), i manuali, i dizionari, le traduzioni... Estate e inverno, senza requie. E ancora: Oggi e Domani – per quanto striminzito possa essere quest'ultimo – mi interessano più di Ieri.
Ma ormai non posso più esimermi. Dunque, se Dio vorrà che la memoria mi assista, ricorderò gli anni dell'altra mia vita (dal 1917 al 1982) e mi concedederò qualche incursione in quella che il destino ha voluto donarmi dal 1982.
Il fatto che non mi prenda sul serio ha ragioni serissime. Per indole sono un artigiano. Negli anni Sessanta trovai indegno discutere la tesi per il titolo di Candidato in scienze che mi offrivano su un piatto d'argento: mi sarebbe bastato riciclare il mio Corso pratico di italiano, già bell'e fatto. Non ho mai avuto il gusto della teoria, né avevo la stoffa della studiosa tout court.
Né è stato serio buttar giù in quattro anni un manuale universitario di lingua russa per italiani (Il Russo per italiani, appunto) sulla tratta ferroviaria MilanoTrieste e ritorno, lontana dalle biblioteche e confidando solo sulla mia memoria (che non è granché). Ma se dovevo insegnare, che non fosse su ottusi manuali
sovietici!
E non è stato forse un azzardo, da parte mia, scrivere un ABC della traduzione? Anche in questo caso, però, è stata la vita a indurmi a tanto. Non esisteva nemmeno la materia, allora! La direttrice dell'Istituto di russo dell'Università di Milano presso cui lavoravo all'epoca riteneva che traduttori si nascesse, e che dunque non ci fosse motivo di insegnare né la teoria né - tanto meno - la pratica della traduzione. Ma non era andato a bottega anche Michelangelo, per imparare il mestiere?
Tutta mia è anche la leggerezza con la quale ho accettato di scrivere un dizionario russo-italiano italiano-russo di 2500 pagine. Ossessionata dall'idea di fornire un sostegno ai traduttori, sono rimasta sette anni incollata alla sedia (e fortuna che la mia ex allieva – ora collega e amica - Claudia Zonghetti, si è assunta l'onere della parte informatica: non ce l'avrei mai fatta senza di lei). E ancora una volta ho lavorato senza schedari e senza la disciplina del lessicografo, come invece avevo fatto tempo addietro per i tascabili delle edizioni moscovite Russkij jazyk. Ero armata della sola buona volontà di chiarire come si scegliesse il sinonimo adatto, come andassero tradotti costrutti, idiomatismi, realia, neologismi, proverbi, modi di dire, similitudini…
«Si ricordi che non sta scrivendo un romanzo, ma un dizionario!» mi bacchettava il mio redattore italiano (Eppure qualcuno che lo legge di seguito, come fosse un libro, c'è, e son felice di incoraggiarlo: è una lettura costruttiva). E insisteva: «La sua premessa non è sufficientemente accademica; alla Hoepli non si usa scrivere in questo modo!».
Non gli piaceva, il mio stile "casalingo", e nemmeno gradiva la mia fervida riconoscenza per gli amici - citati uno per uno - che per sette anni mi avevano offerto sostegno morale e materiale.
Alla fine, però, l'ho spuntata e il dizionario è uscito come volevo che fosse: buono o cattivo, non sta a me dirlo. Il giorno in cui venne presentato il primo volume, il mio editore milanese - Ulrico Hoepli - era furente perché a Mosca ne era GIÀ uscita un'edizione pirata. «Scusi, sa» provai a confortarlo, «ma un ladro non ruba una cosa che non vale. Se l'hanno copiato, vuol dire che ne valeva la pena».
Tant'è.
Con i genitori e il fratellino Lev. Nižnij Novgorod, 1925.
1. Inizio dal principio, com’è giusto che sia
Sono nata sul Volga, a Nižnij Novgorod, il 25 agosto del 1917, tra la rivoluzione borghese di Febbraio e la cosiddetta proletaria di Ottobre. Non saprei dire quale, ma un qualche significato recondito in quel "tra" ci dev'essere.
Mio padre, Abram Bencianovič Bril', era il primogenito di un falegname di Vitebsk, amava gli alberi (come li amo anch'io) e in casa c'era sempre odore di trucioli. Sin dal ginnasio sognava di frequentare l'Istituto universitario di selvicoltura, mise da parte i soldi dando ripetizioni e la spuntò: preparatissimo, partì per Pietroburgo e si iscrisse al prestigioso Istituto che sfornava studiosi di boschi e foreste, riuscendo a entrare nella quota riservata agli studenti ebrei. Per mantenersi agli studi ava le vacanze estive nelle tenute di quegli scansafatiche dei suoi compagni di corso, preparandoli agli esami. Ricordo che ci raccontava di un ricco possidente, papà di uno di loro, a cui piacevano i cetrioli con il miele. E anche di come si era rovinato gli occhi a furia di studiare di notte, alla luce di una lampada a petrolio. Dovette mettersi presto gli occhiali.
Mio padre era un uomo di poche parole, una persona buona e mite che visse una vita non troppo felice e morì a 58 anni; lui e mia madre sopravvissero all'inverno atroce dell'assedio di Leningrado, ma il cuore di papà ne uscì compromesso.
Terminata l'università, nel 1916 lo mandarono nel governatorato di Nižnij Novgorod a occuparsi di mezzo migliaio di chilometri quadrati di foreste. Dunque sposò la mia futura mamma, diciottenne, e la portò tra quei boschi dove gli spettavano una casa, un mezzo di trasporto (cavallo e biroccio) e un attendente. Il suo sogno si era realizzato.
Mia madre - Vera Solomonovna Zauber - aveva un diploma da esterna al
ginnasio di Gomel' (prima di trasferirsi a Nižnij Novgorod gli Zauber vivevano in campagna) e sognava anche lei di laurearsi. Dunque si mise a studiare e delegò a Prokopij, l'attendente, le faccende di casa. L'anno seguente gli affibbiò anche la sottoscritta, appena nata.
Come possa essersi preso cura di una bimba in fasce quel campagnolo spilungone, quarantenne e scapolo, resta un mistero.
Il mio primo ricordo. Sono seduta in mezzo alle piantine di fragola (avrò avuto un anno, forse persino meno) e non riesco ad afferrarne una bella matura: non coordino ancora i movimenti. Da dietro un albero, intanto, la mamma mi osserva.
E il secondo: me ne sto sola soletta in cortile quando una capra mi carica. Io la afferro per le corna con tutta la forza che ho in corpo, e lei corre in tondo cercando di disarcionarmi. Sono talmente spaventata che non riesco nemmeno a piangere. Scoppio in singhiozzi solo quando mi ritrovo fra le braccia di Prokopij.
Ero ancora troppo piccola per comprendere i dissidi tra i miei genitori. Ma come poteva essere altrimenti? Come poteva avere voglia di seppellirsi fra i boschi una diciannovenne, mia madre, dalle pressanti esigenze interiori (così si diceva allora)?
Finì che ci trasferimmo in città, a Nižnij Novgorod: mio padre disse addio al sogno di una vita e andò a lavorare per il Sovnarchoz, il Consiglio economico nazionale. Negli anni Trenta, poi, ò a dirigere il settore programmazione di una grande cartiera di Lenin-grado. Era un gran lavoratore, non chiedeva mai nulla, nulla pretendeva né reclamava. E a mia madre questo dava sui nervi. Io ho preso da lui.
Con la sua laurea in lingua inglese, mia madre venne mandata a Sormovo, un paese nei dintorni di quella Nižnij Novgorod che nel 1932 avrebbe cambiato il suo nome in Gor’kij. Lo scrittore era rientrato in patria dall’Italia e Stalin - felice come un pasqua di averlo irretito - dispose subito di battezzare con il suo nome ogni sorta di cose: città, fabbriche, teatri, scuole, vie, biblioteche. A Gor’kij, per esempio, era intitolata la cartiera di mio padre, io frequentavo la biblioteca Gor’kij e il teatro Gor’kij e in via Gor’kij ho anche abitato.
Poi mia madre venne trasferita in una fabbrica di automobili impiantata dagli americani, a lavorare come interprete per l’ingegner Layman. Mister Layman lasciò a mia madre uno splendido inglese e alla famiglia riunita un bellissimo baule che portammo a Leningrado nell’appartamento in coabitazione – la kommunalka.
A Nižnij Novgorod a mio padre spettò una casa in vicolo Plotničij (vicolo dei Falegnami); era talmente spaziosa che io e le due figlie del portinaio tartaro ci giocavamo a nascondino. Mia madre non gradiva quella mia compagnia poco prestigiosa, ed era oltremodo disturbata dal fatto che mi venisse appetito solo quando mi invitavano in portineria a mangiare patate fritte in un fetido olio di girasole (ero una di quelle bambine odiose che vanno rimpinzate a forza). La scuola e la sezione dei pionieri, una sorta di balilla sovietici, si trovavano sulla stessa strada della clinica dov’ero venuta alla luce – la Pokrovka, la via principale di Nižnij Novgorod. D’estate c’era il campeggio dei pionieri, dove si andava da soli, senza adulti (anche io a undici anni fui eletta guida: quanta fiducia!). Forse avevano capito che i ragazzi si divertono di più e stanno molto meglio da soli. E che così facendo diventano più indipendenti e più responsabili. O forse era solo il riverbero di certe teorie pedagogiche che avevano fatto scalpore in Occidente e che alla prova dei fatti non si sono rivelate granché.
Il piano Dalton, per esempio, fu la prima causa di autentici disastri.
Funzionava così: la classe veniva divisa in squadre; in ogni squadra c’era chi studiava la matematica, chi la chimica , chi la geografia e via discorrendo. La mia materia erano le lettere, dunque le interrogazioni di russo e di letteratura erano affar mio. La conseguenza fu che con le scienze esatte ero – e sono – in pessimi rapporti, mentre agli altri componenti del mio gruppo faceva difetto la grammatica.
Ai campeggi dei pionieri la sera, attorno al fuoco in una radura del bosco, cuocevamo le patate e cantavamo a squarciagola:
Che delizia le patate – ate – ate – ate, l'ideale dei pionier! Mai le dita si è leccate – ate – ate – ate chi patate mai mangiò.
Quello era lo spirito dei tempi.
Tracorremmo il mio sesto (sesto!) compleanno in dacia, a Velikij Vrag e mio padre mi regalò una canoa a un remo scavata in un tronco d’albero. Mi portò sul fiume con un’amichetta della mia stessa età e ci disse severo:
– Con questa si va solo lungo la riva, non oltre. Mai!
Non appena si fu allontanato, io e la mia amica salpammo per “dondolarci” in mezzo al Volga: stava ando un piroscafo che si lasciava dietro delle belle onde alte. Com’è ovvio la barchetta si rovesciò all'istante, spaventandoci a morte. Non che temessimo di affogare, no. Temevamo di non riuscire a riportare a riva la barca e di non recuperare il remo che la corrente stava trascinando via. Invece la barchetta venne tirata in secco e il remo recuperato.
La scuola – insieme a tutto ciò che ci circondava – si prefiggeva di fare di noi dei “man-kurt”¹. Ricordo perfettamente una fiaccolata in prima elementare: sfilammo accanto a una chiesa in cui si stava celebrando la messa di Pasqua e a un preciso ordine urlammo con quanto fiato avevamo in corpo: “Dio non c’è!”. Durante un’intervista per il Gazzettino di Venezia, alla domanda se fossi credente citai questo aneddoto e borbottai: “C’è da stupirsi che io rispetti i dieci comandamenti…”.
E poi c’era la musica. La sorella minore di mia madre, Asja, studiava al conservatorio. Non ricordo se si sia mai diplomata; di certo a un certo punto della sua vita appese il pianoforte al chiodo e divenne medico. Trovò comunque il tempo di accompagnarmi – piccolissima – dal direttore. Levinson (accidenti, non mi sarei mai aspettata di avere tanta memoria per i nomi!) saltò subito su – avevo l’orecchio assoluto! – mi caricò in spalla e mi portò in giro per le classi (davano tutte su un corridoio ampio e luminoso) a mostrare quel portento ai suoi colleghi.
Per anni ho studiato musica di malavoglia; ma forse la responsabilità è dell’insegnante. Ormai sedicenne, invece, a Leningrado andavo di mia iniziativa fino a casa del diavolo per prendere lezioni private.
Non so come funzioni l’orecchio assoluto, ma ancora oggi sento la necessità costante di ricaricare la mia dinamo interiore con un po' di buona musica.
Già che stiamo parlando di musica… Dopo le scale, i solfeggi, la ritmica e altre amenità, lungo la via di casa i futuri Mozart si sedevano sulle loro cartellette nere con i ritratti in bassorilievo di Schubert o Beethoven e si lanciavano giù da una qualunque altura coperta di neve, intersecando come forsennati le rotaie che le giravano attorno, tra gli scamlii isterici dei tram in arrivo.
A scuola tutti dovevamo svolgere un qualche lavoro sociale, ognuno aveva il suo “incarico”. C’era, per esempio, da far uscire il giornale murale, il tadzebao, in cui festeggiare le date storiche della rivoluzione o mettere alla gogna gli assenteisti.
Venivamo educati allo spirito internazionalista – di lì a poco sarebbe scoppiata la rivoluzione mondiale, no? – e non per nulla con suo padre, un comunista americano, a Nižnij Novgorod era arrivata anche una vittima del capitale: Harry Eisman, pioniere statunitense. Giovane rifugiato politico, Harry venne invitato da noi, a scuola, a tenerci un discorso in cui sbugiardava gli sfruttatori borghesi, e anch’io scrissi una poesia (pessima) sull’argomento.
Il mondo è piccolo, si sa. Anni dopo, a Mosca, finii per caso a una serata a cui Harry Eisman, reduce del Gulag, era stato chiamato a intervenire quale “partigiano della pace”.
La prima nota stonata della mia fulgida infanzia sovietica risuonò durante il nostro trasferimento a Leningrado. A a metà strada, a Ivanovo-Voznesensk, ci fecero scendere dal treno insieme ad altre famiglie che si trasferivano altrove portandosi dietro tutti i loro averi. Gli uomini dell’NKVD trattennero il convoglio per qualche ora, fino a che non fummo tutti perquisiti in cerca di preziosi: lo Stato aveva un bisogno impellente di oro. Ci perquisivano nel solo modo che conoscevano: da carcerieri. Con cura particolare – ginecologica, direi – le donne. Ma non trovarono niente da espropriare.
Una volta a Leningrado mia madre portò al Torgsin² le riserve auree di famiglia (un anello d’oro della nonna) per comprare alla figlia ormai signorina un golfino azzurro – lana purissima! – di fattura estera e celestiale bellezza. Molti anni dopo, al MGIMO – l’Istituto universitario per le relazioni internazionali – un collega che non avevo riconosciuto mi fermò per chiedermi se ero quella stessa
Julia Bril’ "con il maglioncino azzurro" che lo aveva fatto sospirare alle serate danzanti dell’università.
Evidentemente non ebbi altro da mettere per diversi anni.
In un modo o nell’altro lo choc di Ivanovo-Voznesensk venne superato. Me presente, gli adulti non fecero mai menzione dell’accaduto. Chissà, forse in era sovietica sarebbe stato meglio non avere figli, così da evitare il solito dilemma: parlare apertamente in loro presenza condannandoli a uno sdoppiamento della personalità (solo a parenti e amici si potevano dire determinate cose, agli altri si riservava qualche commento di circostanza) oppure tacere. I miei genitori ebbero pietà di me (e di se stessi) e scelsero la seconda opzione.
C’era uno zio che io, pioniera, detestavo: era lo zio Malev, che diceva peste e corna del regime. Aveva sposato Lena, un’altra sorella di mia madre a cui devo il colore dei capelli e la voce. Solo molto tempo dopo, quando mi chiarii alcune cosette, capii e apprezzai l’intelligenza e la perspicacia dello zio. Era un geniaccio che riusciva a moltiplicare a mente anche numeri di tre cifre, ma i due arresti che subì lo prostrarono e gli istillarono una paura tremenda verso tutto e tutti.
Leningrado, dunque. La scuola all’angolo tra il Bol’šoj e il Kamennoostrovskij.
I primi appuntamenti romantici sotto l’orologio.
Gli anni della Gioventù comunista, da komsomolka (o komsomol’ska, come scrive il mio biografo, Marcello Venturi). La gioia di vivere, ovvia per un’adolescente, a cui si aggiungeva l’ottimismo d’obbligo per i sovietici, che
secondo Stalin ormai vivevano “benissimo, in allegria”. Ricordo che mi piazzavano al pianoforte sgangherato della palestra, si mettevano tutti intorno a me e attaccavano in coro, baldanzosi:
Le ragazze del gruppo son tante, Come mai di una sola è il tuo cuor? Esser puoi un comunista perfetto E in primavera la luna mirar. Mirare la luna, e perché? Già, perché, come mai, dimmi tu? Perché ora da noi Tutti giovani siaam E il nostro giovin paese amiaaam.
O qualche altra scemenza del genere.
È strano che non mi rendessi veramente conto di quanto le parole di quella canzone fossero insulse, brutte e, soprattutto, false. Fatto sta che nel 1944, in cella, la mia compagna di carcere Nina Ermakova si prese dieci giorni di isolamento per avere intonato un altro brano della stessa “opera”, vale a dire:
Grande è il mio paese natìo, colmo di boschi, prati e rivi,
non v’è al mondo un paese come il mio ove l’uomo tanto libero respiri.
Per fortuna mi capitò una brava insegnante di letteratura. Fu una voce sommessa ma viva, genuina. Impara a pensare con la tua testa! – insisteva Varvara Ivanovna Bachilina. Ciò nonostante il tema su Majakovskij con cui vinsi un premio al concorso indetto dall’Assessorato alla Pubblica istruzione non commentava lo splendido poeta lirico, ma il “poeta della rivoluzione”. Del resto, in quegli anni i giovani andavano pazzi per il roboante vate iconoclasta che si struggeva d’amore per Lilja Brik dalla fulva chioma. La conseguenza fu che cominciarono a chiamarmi “la nostra Lilja Brik”, senza – del resto – che la cosa mi disturbasse, tutt’altro! Potevo pensare, allora, che la vita mi avrebbe fatto incontrare la vera Lilja Brik a Peredelkino, dove la mia amica Tamara Ivanova, moglie dello scrittore Vsevolod Ivanov e madre del celebre linguista Vjačeslav Ivanov, meglio noto con il soprannome di Koma, aveva ceduto una parte della sua dacia a Lilja e al marito Vasilij Abgarovič Katanjan? Chi avrebbe mai detto che saremmo diventate amiche?…
All’epoca avevo già un fratellino: Lev, Lëva. I sei anni di differenza si sentivano, e io non facevo nemmeno caso a lui. Che, invece, mi guardava adorante e si vantava della sorella maggiore con gli amici. Crebbe senza che me ne accorgessi, si fece alto e bello e diventò l’astro del circolo filodrammatico della scuola, riscuotendo un particolare successo con I masnadieri di Schiller.
Con Lilja Brik nella sua daci a Peredelkino, anni '70.
Poi si iscrisse all’Accademia d’arte drammatica. Il 25 gennaio del 1945, giorno del compleanno di nostra madre, venne ucciso al fronte nei pressi di Königsberg. Aveva ventun anni. Finita la guerra mio padre andò a cercare la sua tomba e me la indicò in una lettera facendo uno schizzo con una croce. Anche io sarei andata a Königsberg, ma avrei trovato solo il campo arato di un kolchoz. Io e Saša Dobrovolskij, mio marito, bussammo a tutte le porte per scoprire dove si trovava la sepoltura di quei tre ragazzi, tre tenenti, ma nessuno seppe o volle dircelo.
Rividi Lëva un’ultima volta quando mi scrisse dopo esser stato ferito e Saša riuscì a farlo trasferire in un ospedale militare di Mosca.
Andavo a trovarlo ogni giorno: su quel viso che si era fatto più affilato c’era il solito sorriso radioso. Mi accoglieva sempre con uno sguardo adorante, mio fratelllo. E pensare che nella vita gli avevo dato così poco…
Zoppicava ancora quando lo rispedirono al fronte. Di suo mi è rimasta una piccola foto formato tessera; è in divisa, con il berretto a bustina. Nient’altro.
La sua scuola di Leningrado e l’Accademia teatrale di via Mochovaja organizzarono una mostra di sue fotografie nei diversi ruoli che aveva interpretato. Mio fratello Lev
¹ Secondo la leggenda, per poter disporre incondizionatamente del suo popolo, un satrapo d’Oriente schiacciava le teste dei ragazzi in uno stretto copricapo di cuoio, così da farne esseri senza memoria e senza volontà, degli schiavi perfetti, dei “mankurt”.
² Quelli del Torgsin – Torgovlja s inostrantsami – erano negozi che, negli anni Trenta, vendevano merci agli stranieri in cambio di valuta estera e ai russi in cambio di oro o preziosi.
2. Mogučaja kučka³: pochi ma buoni
In nona classe andavo a scuola con Volodja R. Era un tipo sui generis, diverso da tutti gli altri. Un giorno, durante la lezione di agronomia (studiavamo anche agronomia, sì), a una domanda dell’insegnante sulla gramigna Volodja si mise in posa e declamò una poesia di Apuchtin sui fiordalisi. Venne espulso. Il giorno dopo mi aspettò fuori della scuola, sotto l’orologio. E mi svelò un segreto: a casa sua (viveva con la madre dentista in un grande appartamento dove aveva un’intera stanza tutta per sé!) si riuniva regolarmente la Mogučaja kučka, il Gruppo dei cinque. Non i famosi compositori, certo, ma cinque cervelloni delle ultime classi, ognuno con il suo hobby: chi la botanica, chi la fisica, chi la biologia, chi l’astronomia. Volodja era il filosofo del gruppo e leggeva Hegel in tedesco. Ogni partecipante teneva delle relazioni su quanto studiavano, scoprivano, pensavano o inventavano. Volodja mi propose di unirmi a loro. Non c’erano “femmine” nel gruppo (e molto probabilmente non per caso), ma lui era il capo e sperava di far accettare la mia candidatura. Mi diede una settimana per pensarci.
Qualcosa scattò dentro di me, e dissi di sì. Per essere ammessi bisognava esporre il proprio credo: chi eri, perché stavi al mondo, che cosa volevi diventare, chi e che cosa apprezzavi e disprezzavi, che cosa rifiutavi e via di questo o.
Un atteggiamento tipicamente russo.
Già Dostoevskij aveva scritto: “I ragazzini russi sono sempre in cerca di soluzioni ai massimi problemi esistenziali: come vivere, in che cosa credere, che cosa odiare o adorare”. Va da sé che non avessi mai avuto pensieri simili, ergo, prima di esporre il mio credo sulla carta dovetti chiarirlo a me stessa.
Quanto alla futura professione era presto detto: sarei stata un’umanista. Per quel che concerne la Weltanschauung, dovetti (e fu la prima volta) spremermi le meningi. Non ci dormii la notte, rigirandomi tra le lenzuola in cerca di una risposta; accendevo la lampada, saltavo giù dal letto, scrivevo, cancellavo, buttavo nel cestino e ricominciavo…
Fui accettata all’unanimità, ma mi restò un dubbio: mi vollero per merito o perché ero raccomandata? Di lì a tre mesi, quando avrei tenuto la mia prima relazione, tutto si sarebbe chiarito, pensai. Ma di che avrei parlato? Decisi che l’argomento sarebbe stato la letteratura occidentale. Presi il manuale per universitari di Pëtr Kogan e cominciai a farmi largo tra l’astrusa terminologia critica, lo sfondo storico (era un manuale basato su teorie classiste) e i capolavori della letteratura mondiale. Sgobbai notte e giorno. Alla fine credetti di aver fatto una buona relazione. Mi aspettavo gli applausi, ma gli altri la presero come una cosa dovuta.
Solo diversi anni dopo capii come quello sforzo avesse segnato il mio carattere tutto sommato ivo. Non gli sono forse debitrice della cocciutaggine con cui, sola soletta, avrei compilato per sette lunghi anni il mio Grande dizionario Russo-italiano/Italiano-russo?
Il “Gruppo dei cinque” morì di morte prematura. Un giorno, il 2 dicembre el 1934, arrivò tutta trafelata Olga Fëdorovna, la responsabile della biblioteca di quartiere che riforniva il “gruppo” di libri. Quello sgorbietto che sprizzava bontà ci sussurrò: “Ragazzi, la kučka non è mai esistita, non esiste e mai esisterà. Ognuno a casa sua!” e via che andò. Il giorno prima era stato ucciso Kirov, il tritacarne delle repressioni si era messo in moto e tutti – vecchi e giovani – potevano finire tra le sue fauci.
Volodja dimagrì ulteriormente, cadde in depressione e gli trovarono un inizio di tisi. Quell’inverno la madre lo mandò dalla sua vecchia balia “a prendere un po’ di aria buona” fuori città. Andai a trovarlo diverse volte. Si consumava sotto i
miei occhi. Ci mise meno di un anno a morire.
Difficile dire se fossi riuscita a dare una forma viva al mio credo.
Non ho neanche modo di verificarlo: il foglio su cui l’avevo scritto è andato perduto e non ricordo quali parole avessi scelto per esprimere i miei pensieri di acerba sedicenne - che suppongo, comunque, assai elementari. Di una sola cosa sono convinta: le mie Tavole della legge di allora mi venivano da Puškin, Čechov e Tolstoj. In quegli anni i libri erano la cosa più importante della nostra vita, l’antidoto alla menzogna imperante.
Un esempio. Alla Facoltà di lingue e lettere alla quale mi iscrissi nel 1935 insegnavano ancora corifei del calibro di Žirmunskij, Smirnov, Gukovskij, Ivan Ivanovič Tolstoj, Propp. Poi venne il 1937.
I ranghi dei professori si fecero via via più radi. Con la stessa regolarità delle lezioni e degli esami, nell’aula magna dell’università si tenevano le accolte del komsomol per espellere i figli dei nemici del popolo. E ogni volta –come già aveva detto Puškin – il popolo taceva. Le votazioni finivano inesorabilmente con l’espulsione.
Il giorno in cui toccò a un mio amico e compagno di corso, Miron T., mi precipitai sul palco in sua difesa. Era un ragazzo dotato, anche lui diverso dagli altri, anche lui un tipo sui generis. Iscrivendosi all’università aveva taciuto il fatto che il padre era stato fucilato per sabotaggio (della sua innocenza si sarebbe saputo solo anni dopo).
Miron se la cavò con una severa nota di biasimo. Non saprei dire se lo sconto di
pena si dovesse al suo “sincero pentimento” o alle mie parole infervorate. Fu la prima volta in cui dovetti vincere la paura, e non escludo che il mio fosse puro egoismo: se non fossi inter-venuta, la coscienza non mi avrebbe dato pace.
Il resoconto sulla concezione del mondo richiestomi dalla kučka non fu vano. La formula-zione di un credo era un primo tentativo di sbarazzarsi della stretta “mankurtiana”, di far funzionare la testa. Il 25 agosto del 1968 non sarei stata tra i sette che, a detta di Havel, salvarono l’onore della Russia inalberando sulla Piazza Rossa il cartello: “Per la vostra e la nostra libertà”. Io provavo solo una cocente vergogna per la mia patria sciagurata. La mia strada non ha mai incrociato quella dei dissidenti; forse non ero giunta al loro grado di disperazione, né avevo il loro coraggio. Ero come tutti gli altri attorno a me: di notte ascoltavo Radio Londra, la BBC, leggevo il samizdat e il samizdat e le opere vietate dalla censura che circolavano clandestinamente. Stampata su carta velina, la Cronaca dei fatti correnti ti rivoltava il cuore, e quando presi in mano Arcipelago GULag capii che non avrei mai perdonato quelle atrocità.
La mia forza era la resistenza iva; nessuno è mai riuscito a farmi “vivere secondo menzogna”, a pensare, dire, scrivere o tradurre quel che non volevo. E per quanto possa sembrare un paradosso, io stavo con i donchisciotte, non con i vincitori. E donchisciottesca è anche la professione che mi sono scelta, la traduzione, che è esigente e ingrata. Lontana dai miei amici più cari e dal teatro Taganka, anche in Italia, per mia fortuna, ho trovato una valvola di sfogo: le ventiquattr’ore filate di trasmissioni di Radio radicale, l’organo del piccolo partito omonimo che ha sull’emblema il volto segaligno – tutto naso – di Gandhi, la radio fondata da un gruppo stretto attorno a due persone senza eguali, Marco Pannella ed Emma Bonino. Un grumo di acume, generosità e intelligenza, il lievito della società italiana.
Di recente, nell’ottobre del 2003, a Milano è accaduto un evento senza precedenti: i tre giorni del convegno I giusti del GULag ideato dallo scrittore Gabriele Nissim, andato a caccia di quei giusti per i quali a Gerusalemme si piantano gli alberi della memoria.
Il convegno si è tenuto al teatro Franco Parenti, un teatro povero come lo era stato un tempo il mio Taganka. E finalmente l’Italia - che ha quasi sempre ignorato i dissidenti sovietici - ha dato la parola a ospiti come Natal’ja Gorbanevskaja, Elena Bonner-Sacharova, Arina Ginzburg, vedova di Aleksandr, Sergej Kovalëv ed Elena Čukovskaja (nipote di Kornej) in rappresentanza di Solženicyn; e ancora all’associazione Memorial, a Nikita Struve e ad Aleksandr Daniel’, figlio di Julij… Sono intervenuti anche gli indigeni (siamo pochi, qua): Vittorio Strada ha parlato di Vasilij Grossman, Jurij Mal’cev (a suo tempo rinchiuso in un carcere psichiatrico) di Pëtr Grigorenko. E c’era anche l’intrepido Viktor Zaslavskij, ordinario all’università LUISS di Roma.
Ho partecipato a tutte e tre le giornate. Sempre con un groppo in gola. Era una parte di me, qualcosa che avevo nel sangue e che nei miei vent’anni di Italia risuonava a piena voce per la prima volta. Il pubblico – in prevalenza studenti delle scuole superiori, millecinquecento solo loro, – ha avuto modo di sentire come e di che cosa vivevamo e ha scoperto con profonda emozione cose che a scuola non si studiano o - meglio - che si ano sotto silenzio.
Incontrare Arina Ginzburg è stata una gioia. Fino a quel momento avevamo avuto un anello di congiunzione invisibile: lo scrittore Lev Razgon. A suo tempo Lev aveva lavorato al Detgiz (le Edizioni di libri per ragazzi) con la madre di lei, e l’aveva convinta a non intralciare il matrimonio della figlia con il dissidente Aleksandr Ginzburg (un matrimonio felice, nonostante le dure prove). Elena Čukovskaja, invece, ha consacrato il secondo giorno a me e a Bianca Balestra, o più precisamente alla presentazione presso l’Università Cattolica (di cui ero allora docente) della versione italiana da noi curata di un libro del nonno Kornej, La traduzione: una grande arte.
Dopo di che l'allegra compagnia è finita a pranzo da me.
… Il giorno nel quale fu deciso il destino di Miron conobbi per la prima volta le bassezze di cui può essere capace un essere umano.
Poco prima del momento fatidico, Miron mi chiamò da un telefono pubblico. Io ero già andata a dormire, ma lui insistette che mi vestissi e uscissi fuori, al gelo. Doveva dirmi una cosa molto importante.
Fu allora che mi confessò il triste e pericoloso segreto della sua biografia. Dalle sue parole confuse era difficile capire che cosa aveva intenzione di fare: presentarsi al comitato del komsomol per confessare oppure suicidarsi. Quando, il giorno dopo, non venne a lezione e si scoprì che aveva ato la notte fuori del pensionato studentesco, mi preoccupai: cosa gli era successo? Che fare? Decisi di chiedere consiglio all’amica Tanja I., un'intelligente biondina con un bel viso.
Aspettiamo, sentenziò lei. Si scoprì che Miron era andato fuori città, aveva vagato per tre giorni tra i boschi, zaino in spalla, ed era tornato persuaso della necessità di restare in vita e di pentirsi delle proprie colpe.
Al “dibattito” Tanja fu la prima a prendere la parola, sfogando tutta la propria indignazione. Ma che pentimento e pentimento! disse Miron era stato indotto a parlare perché la sera prima si era lasciato sfuggire la verità con una vera komsomoliana (che sarei stata io) e aveva capito che lei avrebbe fatto il suo dovere di giovane comunista (cioè la spia). Non ci vidi più e pronunciai il mio ormai celebre discorso. Tanja si sentì molto a disagio – c’era odore di ostracismo in facoltà – e si trasferì in una qualche università della Siberia. Nessuno ne ha più sentito parlare. Miron si chiuse ancor più in se stesso, continuò a non radersi anche dopo la batosta ricevuta (all’epoca la barba era ritenuta un’aggravante) e, da bravo igienista, si temprava il fisico andando in giro tutto l’anno senza soprabito e senza cappello. Mi faceva pena e gli perdonavo tutte le sue malefatte, anche di avermi reso lo zimbello dell’università staccando la mia fotografia dalla bacheca dei migliori del corso e appendendosela in bella vista sopra il letto al
pensionato studentesco. Nonostante la scenata che gli feci, si pavoneggiava con una specie di “orologio” che al posto del quadrante aveva un’altra mia, piccolissima, foto. Alla fine glielo strappai dal polso, quel suo “orologio”, e glielo buttai nella Mojka.
Gli perdonavo tutto. Diventammo amici. Sapendo che presto avrei dovuto sostenere un esame di filosofia e che, invece, me la stavo prendendo comoda a Puškino, in un centro vacanze (non potevo non approfittare di un buono-viaggio “in scadenza”), benché fosse anche lui sotto esami corse da me per aiutarmi a preparare una materia che conosceva a menadito. Miron era davvero un palmo sopra gli altri, ma ebbe ogni strada preclusa: si laureò, ma finì a insegnare letteratura nella lontana Burjatia. Non rimase a lungo nemmeno là, dato che si prese la briga di smascherare le ruberie del direttore di istituto. Quel paladino della verità e della “legalità socialista” fu sempre discriminato dalla massa imperante dei rozzi accaparratori. Neanche la burjata con cui si era sposato gli perdonò di non avere riportato dalla guerra qualche valigia di bottino. Mirono tornò con un solo trofeo: la cintura di un soldato tedesco con scritto sulla fibbia: Gott mit uns, Dio è con noi.
Divorziarono. La seconda moglie fu più umana. Gli diede dei figli, dei bravi ragazzi. Restava il fatto, però, che Miron era relegato in Siberia, per sempre.
Mi scriveva lunghe lettere con una grafia che pareva fatta di geroglifici.
Quando veniva a Mosca in cerca di giustizia – non per sé, ma per gli altri –, prima ava alle Izvestija e poi da me. L’ultima volta, prima che lasciassi definitivamente il paese, mi abbracciò e mi disse:
– Non dimenticare la tua patria, Julia!
La patria? Ma santo cielo…
³ Nella seconda metà dell’Ottocento, a Pietroburgo, cinque promettenti musicisti russi – Balakirev, Cui, Borodin, Musorgskij e Rimskij Korsakov – si riunirono nella cossidetta Mogučaja kučka (“Possente gruppetto”, abitualmente noto in Italia come “Gruppo dei cinque”)
3. La seconda nota stonata
Superati egregiamente gli esami di ammissione all’università, non trovai il mio nome nella lista degli iscritti, ma tra i “candidati”. In quel secondo elenco c’erano i neodiplomati, mentre nel primo figuravano persone più mature, exoperai, lavoratori. Ad ogni modo, poiché tutti erano ammessi a frequentare le lezioni e noi, con i nostri cervelli freschi, ci lasciavamo agilmente alle spalle la classe operaia, nessuno se ne diede gran pena. Fino a che, al termine del primo semestre, i “candidati” furono tutti espunti.
Con il cuore spezzato dal dolore e dall’offesa, dopo tre giorni ati sul divano senza mangiare né bere, senza vedere nessuno e senza rispondere alle telefonate, mi presentai in cerca di lavoro in una biblioteca di periferia.
Mia madre scrisse a Stalin. Ci pensasse lui, il batjuška, il padre buono, a rimediare a quell’ingiustizia scandalosa. Va da sé che non ebbe risposta.
Dopo un paio di settimane, in biblioteca arrivarono due mie compagne di scuola, Mirra Al’vang e Tanja Speranskaja, che erano state accettate entrambe all’università – una a chimica, l’altra a biologia – e che erano molto dispiaciute per me.
– È fatta, Julia! – mi disse Tanja gongolando. – Domani andrai a lezione!
Scoprii così che il padre di Tanja, il celebre fisiologo Aleksej Dmitrievič Speranskij (a capo dell’Istituto di Medicina sperimentale VIEM), aveva telefonato al comitato regionale del partito sistemando ogni cosa.
Tornare all’università grazie a una raccomandazione fu triste e ingiusto: i miei compagni di sventura persero l’anno.
Speranskij non era propriamente uno stinco di santo. Nel suo libro di memorie La nuda verità Lev Razgon, suo amico di gioventù, gli rinfaccia una serie di scelte e si prende gioco del fatto che il VIEM fosse stato ideato al solo e unico scopo di garantire al Grande Capo se non l’immortalità, almeno una lunga, lunghissima vita.
Personalmente, non posso dimenticare che fu Speranskij a tirarmi fuori da un baratro psicologico. Voleva molto bene al nostro quartetto di amiche – Mirra, Tanja, Marina Čumakova e me –; ci aveva sempre tra i piedi nella sua enorme casa principesca, praticamente vuota, con una splendida vista sulla Neva. Ci trovavamo lì: a fare i compiti, a preparare gli esami… Era una casa piena di dolore, quella. La madre di Tanja entrava e usciva dalle cliniche psichiatriche; la sorella minore, malata di tubercolosi ossea, se non era in casa di cura soggiornava in Crimea. Una volta laureata, Tanja si trasferì a Mosca, sposò il figlio del famoso poeta e traduttore Samuil Maršak e di lì a poco divorziò. Per un qualche strano motivo, presa la laurea in biologia non si dedicò alla scienza ma divenne segretaria di partito del Centro di ricerca a cui era stata destinata. Non c’è da stupirsi che, entrambe nella capitale, non ci vedessimo mai. Ci incontrammo solo ai festeggiamenti per i qua-rant’anni dal diploma, a Leningrado, in quella che era stata la nostra classe.organizzare l’incontro non fu un’impresa facile: eravamo sparsi per il paese, bisognava rintracciare tutti quanti e riallacciare i contatti. Ma ci pensò Mirra, una “pierre” – si direbbe oggi – come poche. Ci ritrovammo a girare commossi per il corridoio della scuola. Leggevamo nome e cognome di ognuno sulla targhetta che avevamo appesa al collo e ci riconoscevamo a poco a poco, ritrovando nei visi tratti un tempo consueti. Vennero anche due insegnanti, la mia amata Bachilina e la tedesca Frederika Ernestovna Urekki (un applauso alla mia memoria, lettore!).
Quel che disse Tanja sulla via del ritorno, in taxi, mi suonò proprio male:
– Che verme antisovietico è quel Rostropovič! Se l’è filata! E s’è portato dietro il prezioso violoncello che gli aveva regalato mio padre!
Padre e figlia Speranskij suonavano entrambi il violoncello.
E pensare che era stata una così brava ragazza, la mia amica Tanja Speranskaja! Un’allegrona, una sognatrice, una mente sveglia.
Ho una foto di noi quattro che, nell’appartamento sul lungofiume della Neva, ci prepariamo a un ballo in maschera al Palazzo di marmo. Speranskij era venuto a sbirciare e aveva riso di gusto vedendo Mirra travestita da coniglio, Tanja da Cavallino gobbo delle fiabe russe, Marina da gatto, e me conciata come Ljubov’ Orlova, la star del cinema, nel film Il circo: parrucca da marchesa, cappello a cilindro, abito nero da cavallerizza con lo strascico e, sopra a tutto quanto, la rete di un’amaca.
Non era stata Tanja, del resto, a tredici-quattordici anni, a sostenere che dovessimo assolutamente andare a Murmansk a vedere l’aurora boreale? Vivevamo in una delle città più belle del mondo, dove arrivavano da ogni continente per ammirare i capolavori di Rastrelli, Rossi e Quarenghi, per visitare Carskoe Selo e Peterhof, l’Ermitage e il teatro lirico Mariinskij e per lasciarsi incantare dalle notti bianche, ma non ci bastava: noi volevamo l’aurora boreale!
Il viaggio, però, costava. Mirra aveva denaro a sufficienza nel salvadanaio, Tanja vendette per due soldi la sua bicicletta a un ubriacone e io andai da zio Boris, il fratello di mia madre, che – magnanimo – mi diede cinquanta rubli senza chiedermi a cosa mi servivano. L’errore fatale lo commise Marina: prima di partire per Mosca in trasferta di lavoro, il padre le aveva promesso una certa
somma per il suo compleanno; lei gli scrisse di mandargliela al più presto. Il padre telefonò alla madre, Margarita Ivanovna si insospettì e fece un bel terzo grado alla figlia, che vuotò il sacco. E il viaggio tanto agognato andò in fumo.
A Murmansk, però, ci capitai più tardi: era il 1939, tornavo dalla Spagna via mare, ando per la Francia. Non per il canale di Kiel, come l’anno prima, ma prendendola larga. Mentre mi sgranchivo le gambe lungo il binario del treno Murmansk-Leningrado, afferrai qualche battuta nella tipica inflessione del vicino nord russo. Un uomo accovacciato e con una sigaretta arrotolata a mano tra i denti diceva a una ragazzina che mi stava fissando: “Metti in ghingheri un bastone, e diventa bello anche lui!”.
4. A scuola da Propp
L’astro dei miei anni di università fu il mio professore di tedesco: Vladimir Propp. Matricole ancora acerbe, non sapevamo di avere di fronte uno studioso di folclore di fama mondiale costretto a perdere tempo con noi. Nel 1928 colui che aveva scritto la Morfologia della fiaba fu tacciato di formalismo e fu vittima di tali e tante stroncature da diventare, ormai, un paria. Ma doveva pur campare e mantenere la famiglia, dunque si ritagliò una nicchia come insegnante di lingua.
Viktor Šklovskij (che, anche lui, ne aveva viste di cotte e di crude) preferì non rischiare e abiurò pubblicamente le proprie teorie d’avanguardia. Quanto se la prendeva, però, se glielo rammentavano!
Persona riservatissima per natura, Propp non si arrese: si chiuse in se stesso, si asserragliò nel suo modesto alloggio al piano terra (gli concessero un appartamento solo sul finire della vita) e continuò ostinatamente a studiare e a scrivere. Quello che d’aspetto pare-va un Don Chisciotte in miniatura, con grandi occhi tristi e il pizzetto, aveva un talento formidabile in tutto ciò che faceva; molto tempo dopo lo si sarebbe scoperto eccezionale narratore, musicista, storico dell’arte e fotografo.
Ma era soprattutto un insegnante geniale. Il segreto della sua abilità di pedagogo consisteva nel suscitare come prima cosa l’interesse per la materia fomentando, piano piano, quell’entusiasmo che può fare miracoli. Pur con un lessico risicato, l’allievo era mosso dalla voglia di esprimersi edi dimostrare di essere nel giusto, convincendo il proprio interlocutore o confutandone le tesi; dunque pescava nel proprio subconscio le parole che gli servivano e – sia pure sbagliando – riusciva a spiegarsi!
Conditio sine qua non era partire da un testo imbandito con dialoghi nelle due lingue e da materiali integrativi densi di informazioni sull’autore e il paese – tutti dati concreti per riflessioni e dibattiti.
Mi pare di vederlo ancora oggi, il caro Propp, in disparte (quando gli allievi avevano qualcosa di lungo da esporre cedeva loro il suo posto), mentre io parlo per venti minuti in tedesco, a braccio - e neanche troppo male, direi, dato che lui non riesce a trattenere un sorriso felice. Felice, era quello il suo terzo segreto: Vladimir Propp amava insegnare, amava i suoi studenti, li lodava senza fanfare per i loro progressi, seguiva la loro crescita, e loro erano felici delle sue parche lodi. Si creava una sorta di mutua ammirazione, foriera di successi scolastici.
Il regime aveva costretto in un angolo il Propp-studioso: nel 1940 era stato accusato di antimarxismo, idealismo e diffusione di idee religiose; nel 1944, quando l’università tornò da dove era stata sfollata, gli tolsero i documenti (poco importava che fosse russo, un tedesco russificato da tempo: il padre era un tedesco del Volga e tanto bastava), non ebbe più il permesso di risiedere a Leningrado e si salvò dall’arresto solo per intercessione del rettore A.A. Voznesenskij.
Quando Semën Aleksandrovič Gonionskij, direttore dell’Istituto di lingue romanze del MGIMO in cui insegnavo, mi convinse a scrivere un manuale di italiano, e quando poi il mio Corso pratico uscì, tenendolo in mano, ancora caldo di tipografia, mi accorsi che, senza rendermene conto, avevo adottato il metodo di Propp. Cosa a cui, probabilmente, si deve la sua longevità (del manuale, intendo): la prima edizione è del 1964, la seconda del 2010. Quando - alla fine degli anni ’90 - la casa editrice moscovita “Citadel’” mi offrì di ristamparlo, Dio solo sa se se non ho provato a rifiutare: era un manuale datato, scritto in era sovietica, in anni in cui l’intelligencija russa riponeva grandi speranze nei comunisti italiani “dal volto umano”.
Lev Razgon, che in quei giorni era mio ospite a Milano e ascoltò la telefonata
con il diret-tore di “Citadel’”, mi faceva dei segni inequivocabili: di’ di sì, che tanto lo pubblicano ugualmente senza darti un soldo! Alla fine il libro è uscito e mi hanno persino versato mille dollari. È stato depennato un solo testo: quello dell’Unità che illustrava l’uso dei verbi al futuro: un brano del discorso di Chruščëv a un congresso di partito dove spiegava che nel 1980 (!) i sovietici avrebbero vissuto in pieno comunismo.
Nel Corso pratico c’è anche un racconto del mio amico Marcello Venturi (che all’epoca non conoscevo ancora): si intitola Armi in fondo al mare! Ora anticomunista sfegatato, prima dei fatti di Ungheria del 1956 Marcello era stato comunista, partigiano e responsa-bile della pagina letteraria dell’Unità, e in quel racconto criticava furiosamente gli imperialisti guerrafondai. Ma diciamolo: quel che è stato è stato, così eravamo.
Ha ragione quell’italiano che, partito con un gruppo di volontari per portare aiuti ai bambi-ni di Černobyl’, mi ha scritto una lettera indignata presso l’Università di Venezia stroncando il Corso pratico di lingua italiana comprato a Mosca per degli amici russi e reo di essere troppo “rosso”: “La signora Dobrovolskaja dovrebbe viverci lei, nel paradiso sovietico. Allora sì che si renderebbe conto!”. Ho risposto a quel signore che aveva tutte le ragioni di arrabbiarsi, gli ho scritto che quel manuale era vecchio di mezzo secolo, cosa che l’editore – pur su mia espressa richiesta – non aveva precisato, gli ho fatto i complimenti per la sua mente lucida e gli ho offerto il mio aiuto; ma non ho avuto risposta. Ben mi sta. Il fatto curioso, invece, è che i giovani russi di oggi che imparano l’italiano sul famigerato Corso pratico non paiono notarne il retrogusto comunistoide: a loro non interessa! Tra l’altro è spuntata un’Associazione di italianisti Julia Dobrovolskaja. Certi che fossi ata a miglior vita da tempo, i fondatori intendevano rendere merito alla mia memoria. “Ma come? – è sbottata una mia studentessa veneziana che a Mosca aveva conosciuto Sergej Nikitin, uno degli associati: – Se tra un mese ho l’esame con lei!?”.
Un detto popolare russo recita: “Serba l’onore sin da giovane”. Facile a dirsi… La mia generazione è quasi tutta composta di “ex”. L’essenziale, credo, è non
ritrovarsi tra coloro che non cambiano mai (solo i sassi non pensano e non cambiano idea). L’essenziale è capire che cosa ci è successo e non aver paura di ammettere che abbiamo contribuito tutti – per quanto indirettamente – alle nefandezze sovietiche. Con i suoi 17 anni di lager alle spalle, così credeva anche Lev Razgon, che con Vladimir Bukovskij sarebbe stato il principale teste d’accusa a un processo al PCUS che, ahimè, non si è mai celebrato.
Le idee di Propp sono ormai carne della mia carne e sangue del mio sangue, e quando in Italia dovetti cambiare professione, are a insegnare russo agli italiani e scrivere – appunto – Il russo per italiani, lo feci a immagine e somiglianza del Corso pratico di italiano, solo più ricco di contenuti: ormai ero libera e non dovevo pensare al censore.
Da che avevo messo piede per la prima volta nella classe di Propp (correva il 1935) erano ati 29 anni – e che anni… Sperando che non mi avesse dimenticata, gli mandai una copia del Corso pratico e questa fu la sua risposta:
Leningrado, 23 gennaio 1965
Liebe Genossin Brill⁴
Mia cara Julia Abramovna,
mi perdoni questo duplice saluto. Il fatto è che io la ricordo solo in quanto “compagna”, la ricordo e la vedo ancora oggi di fronte a me, giovane studentessa intelligente, vivace, espansiva. Dal Suo libro, invece, ho imparato che è diventata Julia Abramovna Dobrovolskaja, cosa a cui sono tenuto a credere. È dunque a entrambe che mi rivolgo.
Lei non si immagina, cara Genossin Brill, che gioia viva e grande sia stato per me il Suo libro, per la cui pubblicazione Le porgo le mie più sentite congratulazioni. Erstens haben Sie etwas sehr tuchtiges gelustet⁵, ed è sempre una gioia se si tratta dei propri allievi. In secondo luogo, il ricordo che Lei serba di me mi dimostra di non aver vissuto invano, che qualcosa è rimasto, che certi semi hanno attecchito e dato frutto. Il Suo libro mi è molto piaciuto, il metodo mi sembra tanto giusto quanto interessante, e non v’è dubbio che rechi traccia delle mie idee. C’è stato un tempo, un’estate, in cui anche io ho studiato l’italiano (mi serviva per leggere dei testi di folclore), ho letto per intero Cuore e posso dire di essermi innamorato della lingua, pur avendola ormai dimenticata.
L’età avanza, ma non mi do per vinto. Sono 20 anni, ormai, che non insegno tedesco. Ora tengo dei corsi sul folclore russo.
All’università regna lo stesso disordine di sempre. Il Suo libro, spedito il 31 dicembre, mi è stato consegnato il 21 gennaio 1965.
Ich wünsche Ihnen, liebe Genossin Brill, viel Gluck und Erfolge.
Sie waren immer eine grosse optimistin, immer lebensfroh und energisch. Hoffentlich sind Sie so geblieben .
Molte, moltissime grazie! Suo V. Propp
Leggendo la stampa italiana (che mi ava Luigi Vismara, corrispondente del Giorno di Milano e “giornalista galantuomo”, come mi era stato presentato dall’amico Paolo Grassi), mi ritagliavo le recensioni alle edizioni italiane dei libri di Propp e gliele mandavo. Vladimir Jakovlevič mi ringraziò così, mesto:
CARTOLINA POSTALE
A Julia Abramovna Dobrovolskaja
Via Gorkij 8, int. 106. Mosca
Mittente: V. Propp, Moskovskij pr. 197, int. 126. Leningrado
24 II 1967
Grazie, Julia Abramovna, di essersi ricordata di me e di avermi mandato la recensione che, com’è ovvio, mi rende molto felice. Einaudi ha già pubblicato tre miei libri e sta preparando una raccolta di articoli. È triste, ma in Italia mi conoscono meglio che in URSS!
Le faccio tanti auguri.
Suo V. Propp
Di ritorno dalla Spagna, agli esami prendevo il massimo dei voti, ma non perché rispondessi brillantemente alle domande sulla materia.
I professori – che non potevano attraversare la cortina di ferro – volevano sapere quel che avevo visto. L’esame di tedesco sfociò in un commiato. “Le articolazioni della sua bocca sembrano fatte apposta per il tedesco”, cercava di convincermi (o di rimproverarmi?) Propp. Ma non potevo più tornare indietro. Lo spagnolo aveva preso il sopravvento.
Lo stesso accadde quando dovetti sacrificare la Spagna all’Italia.
Nella doppia cornicetta che ho qui, di fronte a me, ci sono due volti che ho molto cari: mio fratello Lev che sorride con il suo berretto a bustina in testa e Vladimir Jakovlevič Propp con i suoi grandi occhi tristi.
Vladimir Propp
⁴ in tedesco) Cara compagna Brill...
⁵ in tedesco) In primo luogo, quella che ha fatto è una cosa utilissima.
in tedesco) I miei migliori auguri, cara compagna Brill’, di felicità e successo. Lei è sempre stata un’ottimista, piena di gioia di vivere e di energia. Spero che tale sia rimasta.
5. Due germanisti, un romanista e una sinologa: quattro amici inseparabili
Grigorij, Griša
Inizio dalla fine. Da un necrologio su Nevskoe Vremja (Il Tempo della Neva) del 10 aprile del 2002, dove si legge: “È stato un Uomo con la U maiuscola – Grigorij Jul’evič Bergel’son. Giornalista, traduttore, redattore, pedagogo, fu corrispondente di guerra in Care-lia e Germania dal 1939 al 1945, seguì il processo di Norimberga e si prestò a organizzare i soccorsi agli scrittori tedeschi. Accusato di cosmopolitismo, nel 1947 il maggiore Bergel’son ò a insegnare nelle scuole medie. Quando le cose migliorarono, prese a collaborare con le edizioni Chudožestvennaja literatura e a insegnare presso l’Istituto universitario di Pedagogia Herzen a Leningrado. Ha tradotto Nietzsche, Hauptmann, Böll, Christa Wolf, Hugo, Fuentes… Fu persona di specchiata onestà, di una limpidezza cristallina”.
Buono, affettuoso e dolce, aggiungo io.
Solitamente i necrologi tendono a esagerare le qualità del defunto: nel suo caso è tutto oro colato. Perché il nostro amore si spense? L’unica spiegazione che mi a per la testa è che Griša e io ci assomigliavamo troppo, che eravamo della stessa pasta. Oppure eravamo arrivati all’età per amare senza essere pronti, senza sapere nulla dell’amore se non ciò che avevamo attinto dai libri. Il mio è stato uno sviluppo tardivo: ero una specie di Tanja Larina puškiniana, di fanciulla à la Turgenev, un prodotto della Russia contadina e patriarcale. O piuttosto un frutto dell’educazione sovietica, non saprei... Di certo c’era in me un’eccessiva pruderie. Sta di fatto che a vent’anni avevo qualcosa di sbagliato. Quando Evgenij N., il rubacuori della facoltà, ex pilota e “uomo vero”, mi diede un appuntamento, all’ultimo istante decisi di restare a casa adducendo come scusa i funerali dell’accademico Pavlov e i tram che avano a singhiozzo. A bloccarmi c’era anche la consapevolezza che Evgenij faceva strage di cuori...
La mia biografia sentimentale si compone essenzialmente di proposte rifiutate, occasioni perdute e storie mai cominciate. D’altro canto ho sempre avuto solo pretendenti che volevano sposarmi…
Una di quelle storie l’ho pagata cara. All’inizio degli anni Quaranta Lev Kopelev mi prese in odio - e un odio feroce - perché non avevo voluto sposare il suo miglior amico, Miša Aršanskij, il quale per quel mio rifiuto aveva anche pensato al suicidio.
L’opinione pubblica (si legga: la facoltà di lingue e lettere) che tutto sapeva e tutto capiva non mi perdonò di non aver sposato Griša. Mi dispiace, piuttosto, che per un motivo insignificante lui e io – che ci volevamo tanto bene – perdemmo i contatti e non provammo mai a ricucirli: lui viveva a Leningrado, io a Mosca e chiedevamo notizie l’uno dell’altra ad amici comuni. Quando all’inizio del 1938 un tale in abito grigio del Commissariato del po-polo alla difesa venne a scegliere gli studenti da mandare in Spagna come interpreti, il migliore di tutti, Griša, venne respinto perché aveva una zia in America. Io non ho la lacrima facile, ma piansi per l’umiliazione, la tenerezza, e anche per un certo qual senso di colpa nei suoi confronti. Lui e Lëša – Aleksej Almazov – però, si presero una bella rivincita: la sera lavoravano in un orfanotrofio per bambini spagnoli e impararono la lingua come e meglio di noi, scelti e prescelti.
Valeria, Valja
Durante la prima guerra mondiale la madre di Valja – Zoja, allora giovane infermiera volontaria – si innamorò di Vladimir Isakòvič, un ufficiale convalescente. Si sposarono ed ebbero due gemelle, Valeria e Irina (Ira), nate il mio stesso anno. Solo che un bel giorno il padre sparì. Tisica, Zoja morì di lì a poco. Delle gemelle si occupò la sorella moscovita, la bella Kseša – Ksenia Aleksandrovna Jakobson.
Il suo primo marito era stato un alto papavero dell’ente per il commercio estero, ma aveva fatto una brutta fine (lo avevano ato per le armi). Il secondo, Evgenij Rjašencev, era morto giovane dopo qualche anno di lager scontato al ritorno dalla Spagna, ma prima era riuscito ad adottare Jurij, figlio di Ksenia e ora noto poeta moscovita.
Fiera, Kseša rifiutò l’aiuto dell’accademico Mandel’štam, eminente fisico nonché zio dell’uccel di bosco, e tirò su da sola la famiglia lavorando ai ferri dei golfini che poi vendeva. Incombeva, però, una minaccia prettamente sovietica: rischiavano di perdere la casa lenin-gradese della defunta Zoja, due stanze in un appartamento in coabitazione nella Petrogradskaja storona. Dunque Kseša trasferì le ragazzine a Leningrado. Avevano undici anni quando cominciarono a vivere da sole: Kseša andava a trovarle una volta al mese. Finita la scuola, entrambe si iscrissero al dipartimento di orientalistica della facoltà di Lingue e Lettere, Valja per studiare cinese, Irina per il giapponese. La stanza di Valja divenne il quartier generale del nostro quartetto: una benedizione in una città sovraffollata in cui le famiglie vivevano pestandosi i piedi. Lëša, che veniva da fuori, abitava al pensionato studentesco.
Da quale parco fosse approdata in un angolo della stanza di Valja una ninfa di marmo che qualcuno aveva soprannominato Stella Iosifovna, resta un mistero. Assisa, nuda, in posa plastica e aggraziata, fu testimone partecipe di tutti i nostri svaghi extrauniversitari. Dalla stanza accanto, capitava che anche Irina si unisse di quando in quando alla compagnia. Al secondo anno, mentre scorreva la bibliografia da studiare, tra gli autori Valja scoprì un professore dell’Università di Leopoli, in Polonia, che si chiamava Vladimir Isakovič. Fu uno choc: il padre era ancora vivo. La seconda notizia strabiliante fu che anche a distanza di anni e di chilometri i geni dell’orientalista si erano fatti sentire.
Una volta laureata, era stata destinata a un incarico a Pechino come corrispondente della TASS. A Pechino, però, Valja non arrivò mai. Qualcuno “fece presente” a chi di dovere che il padre risiedeva all’estero.
Sposò un collaboratore della TASS, Mark Šugal; arono gli anni della guerra come corrispondenti a Chabarovsk, dopo di che tornarono a Mosca, si comprarono un appartamento in un condominio per scrittori accanto alla stazione del metro “Aeroporto” e lì vissero con rari spiragli di luce: un libro del tamizdat, un manoscritto del samizdat, una serata con la persona più arguta di tutta l’Unione Sovietica, Zinovij Papernyj, con sua moglie Lera e con Asja Berzer, preziosa redattrice e amica degli autori che pubblicavano sul Novyj Mir negli anni Sessanta. Fu Papernyj a inventare il buffo brindisi che diventò il nostro slogan: “Evviva tutto ciò grazie a cui noi nonostante tutto!”, attuale a tutt’oggi.
L’esile morettina Ira sposò Georgij Makogonenko, un bel giovine – nonché futuro luminare – in camicia ucraina ricamata, e lasciò la iamatologia per la russistica, la materia del marito. Di lì a poco Makogonenko l’avrebbe rimpiazzata con Olga Berggol’c, nota poetessa che, però, alzava il gomito e gli rese la vita impossibile. La rovinafamiglie Berggol’c si attaccava al telefono per lamentarsi del marito con Irina.
Il colpo di grazia, però, glielo inferse un nostro compagno di università: Efim Etkind, teorico della traduzione di fama internazionale. Non per cattiveria, ma per non aver pensato alle conseguenze di una frase eretica che scrisse nella prefazione a un libro che Irina stava curando per la Biblioteca del poeta, ossia che le traduzioni russe erano le migliori al mondo perché opera di gente come l’Achmatova, che non poteva pubblicare nulla di proprio in quanto invisa al regime, come Pasternal... Tolstikov, alto papavero del partito a Leningrado, richiamò severamente all’ordine la Biblioteca del poeta e Irina venne cacciata con disdoro. Se ne andò a morire a Mosca, dopo una lunga malattia, dalla sorella rimasta vedova.
Valja e io ci vogliamo bene come un tempo, la chiamo spesso e cerco di prendermene cura. La fortuna è dalla nostra parte, e ancora una volta vale la pena ripetere l’adagio: “il mondo è piccolo”. Rientrato in Patria dalla Georgia in cui è stato ambasciatore, Feliks Stanevskij, mio amico ed ex allievo, abita con la
sua Ljudmila in un appartamento nel palazzo accanto a Valja. Come se non bastasse, i due edifici sono collegati, e dunque, senza neanche mettersi il cappotto, Ljuda può fare un salto da Valja a portarle delle polpette calde, oppure è Feliks a correre da lei per chiuderle una finestrella disobbediente. Anche una criticona come Valja non può fare a meno di dire che Ljuda è un angelo caduto dal cielo.
Altri miei vecchi amici le danno una mano. Marietta Čudakova le procura versioni dall’inglese. Jurij Senokosov le ha affidato la traduzione dei ricordi dell’ex ambasciatore inglese a Mosca. Lì per lì Valja reagisce male, rosa dal dubbio che si tratti di beneficenza (anche solo per il fatto che non usa il computer e scrive tutto a mano), ma poi abbozza. Pensare che ha un talento eccezionale, un’intelligenza acutissima e un gusto impeccabile! Secoli fa, era lei l’unica tra noi, fedeli sudditi, ad aver capito l’essenza del regime sovietico. E ci era arrivata da sola.
Ksenja ci ha lasciati da tempo. È strano pensare che non sia più al grande tavolo rotondo che lei sosteneva fosse appartenuto a Rasputin. Grazie a Dio è ancora vivo e vegeto – e continua a pubblicare – Jurij Rjašencev, cugino di Valja. Quello stesso Jurij che venne a prendermi a casa di mio marito il giorno più brutto della mia vita, per portarmi via e ospitarmi in casa sua e di Ksenja, in vicolo Jazykovskij.
Aleksej, Lëša
Aleksej Almazov di Nižnij Novgorod studiava lingue romanze ed era un linguista nato. Secondo mia madre ce l’aveva scritto nel sangue che sarebbe diventato un accademico di fama. Così non fu. Il padre avvocato sparì nei lager, e anche Lëša, a suo modo, scomparve. Dopo la laurea la madre non lo rivide più. Si arruolò nei primissimi giorni di guerra. Nei pressi di Leningrado era di stanza la divisione azzurra spagnola, franchista; Aleksej venne fatto prigioniero e nominato interprete. Era fatta. Da collaborazionista il suo destino era segnato.
Lëša si ritrovò in Germania con le truppe in ritirata, dopo di che partì per l’Argentina. A Buenos Aires sposò una ragazza russa colta e gentile, Vera; si trasferirono negli Stati Uniti, a Washington. In America Lëša ha insegnato lo spagnolo. Hanno tre figli, uno è diplomatico. La loro è una famiglia solida, affiatata. Il resto della compagnia non può dire altrettanto: nessun altro ha avuto figli.
La prima volta che sono andata “all’estero” dall’Italia è stato per un concerto di Nina Bejlina (che mi aveva mandato il biglietto andata e ritorno Milano-New York) alla Carnegy Hall. La seconda è stata a Parigi, da Efim Etkind (emigrato anche lui). All’epoca era ancora viva la moglie Katja, preoccupatissima del fatto che di lì a poco Efim – professore all’Università di Nanterre – sarebbe andato in pensione. Vero è che non correva il rischio di restare con le mani in mano. Ormai era una celebrità, veniva continuamente invitato a tenere conferenze e lezioni nei cinque continenti, e sotto la sua guida un gruppo di poeti si ha pubblicato la miglior traduzione delle opere di Puškin e Lermontov. Seppi da Efim che Lëša stava a Washington e da lui ebbi il suo indirizzo.
La lettera di risposta di Lëša non tradiva un particolare stupore: sapeva già che ero “dall’altra parte”.
“Qui in America c’è mezza università di Leningrado”, mi scrisse.
Ora ci scriviamo e ci telefoniamo.
Il mio progetto di mettere in piedi uno scambio epistolar-telefonico tra vecchi amici che vivono in quattro città diverse – Leningrado, Mosca, Washington e Milano – per raccontarci che cosa ci era accaduto da che ci eravamo separati e
pubblicare, semmai, il tutto, venne accolto senza troppo entusiasmo, anzi fu di fatto respinto.
Mentre invece poteva risultare interessante.
Un altro ricordo di Etkind. Qualche anno fa venne a Milano per un convegno su Puškin. Il suo intervento fu l’ultimo, splendido, il migliore in assoluto. Il giorno seguente lui e la moglie tedesca Elke Libs rimasero a casa mia fino all’una di notte a parlare e ricordare di tutto e di più. Constatammo anche, ridendone, che non mi ero dimostrata degna della fiducia di Efim: negli anni Sessanta era stato lui a raccomandarmi per l’ammissione all’Unione scrittori dell’URSS. Ma io le avevo preferito il meno noto e donchisciottesco “Pen-club” italiano.
6. La Spagna
In Spagna hai combattuto per una giusta causa che, per fortuna, è stata una causa persa. Merab Mamardašvili
Sotto il vessillo dell’internazionalismo proletario
Fu un periodo spensierato e tremendo, l’autunno del 1937.
Spensierato perché noi “coetanei della Rivoluzione”, noi “komsomoliani degli anni Trenta” avevamo in corpo la fiamma della fede rivoluzionaria (perché era per fede che si faceva tutto quanto, fidandoci come ci fidavamo, ciecamente, di quel che ci veniva inculcato), eravamo puri di cuore e di mente, entusiasti. Insomma, eravamo cresciuti da bravi omuncoli quali eravamo stati programmati.
Ed era tremendo perché gli arresti impazzavano. Alla facoltà di Lingue e lettere vennero più di una volta a prelevare gente addirittura durante le lezioni.
I processi erano alle porte. Alcuni istituti, come quello di giapponese, rimasero senza docenti. Grande scalpore fece l’arresto di un gruppo di studenti tedeschi antifascisti miracolosamente scampati alle grinfie della Gestapo: per noi erano eroi, miti viventi… Alla Gestapo erano sfuggiti, ma dagli “organi” sovietici non c'era scampo…
“Le colpe dei padri non ricadono sui figli”, aveva proclamato magnanimo Stalin. Eccome se ricadevano. invece! Prima dell’ennesimo atto di cannibalismo, però, era buona abitudine del Gran Capo sostenere il nobile principio che stava agli antipodi, e noi credevamo alle belle parole e non vedevamo le atrocità. O meglio, sia detto francamente, avevamo paura di vederle, non le volevamo vedere. Almeno fino a un certo punto. Per istinto di conservazione o per ottusità, molti si tennero i paraocchi vita natural durante.
Ci avevano cresciuti fin dalla culla nello spirito del cosiddetto internazionalismo proletario. Chi non ricorda il commovente negretto del film Il circo di Grigorij Aleksandrov, con Ljubov’ Orlova?
L’antisemitismo era di là da venire; “giudei e bolscevichi” artefici della rivoluzione erano ancora in sella. Noi che non avevamo ancora vissuto le “annessioni spontanee”, il cosmopolitismo e i carri armati a Praga, che non avevamo letto Solženicyn e Orwell, ce l’avevamo nel sangue, l’internazionalismo.
La sua espressione più lampante fu il nostro coinvolgimento anima e corpo nei fatti di Spagna, dove il Male e il Bene – fascismo e antifascismo – erano venuti alle armi. Una trepidazione che ci faceva spostare giorno per giorno le bandierine sulla carta e che era condivisa dagli idealisti dei paesi di quel mondo inafferrabile, l’oltrecortina, in cui ognuno era libero di agire a propria discrezione, dove se si voleva andare a combattere per la giusta causa nelle Brigate internazionali bastava fare il biglietto e partire! Dall’altra parte della cortina di ferro, invece, noi non potevamo nemmeno sognarcelo.
Scacciai risentita l’ostinato Semën G. del quarto anno (io ero al terzo), che continuava a ripetermi che nello studio del preside c’era un tale venuto da Mosca ad arruolare interpreti per la Spagna.
– Figurarsi! Non farmi perdere tempo, lo vedi quante cose ho da fare!
Stavamo preparando l’aula magna per la festa d’autunno (gli universitari si dilettavano con serate danzanti). Di colpo, senza un perché né un per come, dopo una feroce persecuzione del jazz quale “rigurgito dell’Occidente borghese”, il foxtrot e il tango, il blues e la rumba – fino ad allora proibiti – ebbero l’autorizzazione a esistere. Che fosse per coprire il fragore delle fucilazioni? Le feste duravano fino all’alba, fino a quando riabbassavano i ponti sulla Neva (alzati durante la notte per consentire il aggio delle navi più grandi). Io svolgevo con grande zelo i miei incarichi “sociali”, cosa per cui le menti più lucide del nostro quartetto – Lëša Almazov in special modo – mi prendevano in giro, riservando sguardi a metà tra la gelosia e il biasimo alla mia amicizia samaritana con Miron T., igienista barbuto e marxista ortodosso.
Oltre al solito programma – le iniziative fervevano! –, quella sera avevamo preparato anche qualcosa da offrire (della verdura fresca! ) e dunque stavamo sbucciando, lavando e sistemando sui vassoi delle pittoresche nature morte di carote, rape e cetrioli. L’aula magna era stata decorata con ghirlande di rami di pino, disegni e poesie composte da Valentin Stolbov, biondo spilungone balbuziente che avrebbe fatto molta strada. Quella sera venne anche Propp; ricordo che rimanemmo a lungo a parlare, soli, nel “giardino d’inverno”, un angolino recintato da vasi di ficus.
Nel bel mezzo di quella baraonda mi mandarono a chiamare dalla presidenza. Ossignore, ma allora era vero...
Nell’ufficio del preside c’era un maggiore in borghese. Arrivai talmente su di giri che sparai il mio "Ci sto!" senza nemmeno prestare ascolto a chi mi esortava a riflettere:
– “Ci pensi bene, non abbia fretta, non è un lavoro facile, e non è scevro da pericoli… Condizione tassativa del contratto era di non farne parola con nessuno.
Ma cosa credevano? Che una ragazza ancora in casa dei genitori non avrebbe detto al padre e alla madre dove sarebbe andata per un periodo non meglio precisato? Tutto il mondo sapeva, e la stampa occidentale lo gridava ai quattro venti, che i nostri piloti e i nostri carristi stavano combattendo in Spagna, che non c’era un solo contingente repubblicano di un certo livello che non vantasse un consigliere militare sovietico. Gli unici a doverne restare all’oscuro erano i sovietici, che facevano tutti quanti il tifo per i repubblicani spagnoli. Ma perché, perché quella mania di segretezza?
A casa dissi semplicemente che sarei partita. Per un lungo viaggio, specificai.
– Vai in Spagna? – mi chiese mia madre con un filo di voce.
– Sì.
– Sei proprio sicura? È pericoloso…
Mio padre aspettava di sentire cosa avrei risposto.
– Se l’avessero offerto a voi, avreste rifiutato? Figurarsi!
Non tornammo più sull’argomento fino al giorno della partenza.
Il mio fratellino, invece, era felice e fiero della sorella.
Il maggiore aveva scelto una decina di studenti specializzandi in lingue occidentali. Avevano premura, c’era bisogno urgente di dare il cambio agli interpreti dell’Inturist, l’agenzia turistica di Stato, in Spagna da quasi due anni. Non c’erano mai stati precedenti, gli inca-ricati non erano addentro alle finezze della filologia e dunque non arrivavano a capire che era più semplice insegnare lo spagnolo a chi già conosceva una lingua romanza, il se per esempio. I criteri di selezione erano l’impegno sociale, il curriculum degli studi e soprattutto i dati anagrafici, ragion per cui il “futuro accademico” Lëša non venne nemmeno preso in considerazione (il padre era sparito nel Gulag) e Griša venne respinto quando si scoprì che la madre si scriveva con la sorella, emigrata negli Stati Uniti dal 1905.
Ci concessero una quarantina di giorni in tutto. Le lezioni si svolgevano presso l’Inturist e a tenerle era una cara persona, un anziano ebreo argentino di nome Abramson appena tornato dalla Spagna, dove erano rimaste a lavorare come interpreti le sue due figlie (la maggiore, Lina, avrebbe sposato Chadži Mamsurov, il leggendario Xanti).
Abramson conosceva perfettamente lo spagnolo, ma – ahimè – non era in grado di insegnarlo, per di più senza grammatiche di sorta.
Dopo le prime lezioni ci fu chiaro che avremmo dovuto cavarcela da soli. Io ero in preda al panico. Il tempo ava. Che fare?
Non avevo nessuno con cui consigliarmi, né potevo farlo: il mio era un “segreto di Stato”. In biblioteca presi un libro in spagnolo – mi capitò un romanzo di Pio Baroja – e cominciai a leggerlo, o meglio a decifrarlo, parola per parola, con il dizionario, andando a intuito. Anche dieci ore filate. Il primo giorno feci cinque righe, il secondo un po’ di più, e per la fine del mese avevo finito il libro. Qualcosa imparai, questo sì, ma avevo in testa una confusione tremenda. L'unica speranza era che ci avrebbero dato il tempo di ambientarci e di recuperare sul posto. Invece no. Nemmeno un giorno.
Leningrado – Le Havre – Barcellona, Hotel “Diagonal”
I quaranta giorni di ispanizzazione volarono senza che ce ne rendessimo conto. Noi interpreti di fresca nomina fummo portati a Mosca, in un’apposita base per chi veniva inviato all’estero: dovevamo essere equipaggiati e infiocchettati all’occidentale.
Come non ci conciarono!
La fama della mia eleganza mi precedeva. Possedevo un golfino azzurro del Torgsin che era costato l’anello d’oro di mia madre; e dal Torgsin veniva anche un basco bianco.
Alla base regnava un ordine esemplare, i reparti erano fornitissimi.
Ma di che? Come facevamo a sapere che cosa si portava all’estero? La cortina di ferro non aveva crepe né fessure.
Mi venne in soccorso il solito intuito. Decisi di partire con quel che avevo e di rifiutare il vestito di marquisette con le frappe, il cappellino di paglia con la rosa di madapolam e gli altri accessori della vita occidentale come la vedevano all’economato del Commissariato del popolo alla difesa.
Ci ritrovammo dei compagni di viaggio: aviatori freschi di addestramento all’accademia in Ucraina e ai quali non restava altra scelta che indossare l’“uniforme borghese” fornita dalla base. Che poi erano degli abiti grigi di covercoat, una stoffa presumibilmente inglese. i che erano orrendi, ma erano anche e soprattutto tutti uguali!
In un primo momento nessuno parve farci caso. I primi dubbi li dovemmo ai tedeschi di Kiel. La nostra nave, la Rossija, procedeva lenta per il canale; sulla destra, lungo l’argine, eggiavano ufficiali azzimati con cappelli dalle alte cupole: i nostri primi nazisti in carne e ossa. Quando si accorsero che la nave era sovietica, anche loro presero a scrutare i volti sul ponte. Non tardarono a capire (non ci voleva una gran perspicacia!) che quei giovanotti erano dei militari e che erano diretti in Spagna (altro che Francia!), e che dunque andavano in guerra. Se i nostri capi volevano mantenere il segreto – un segreto di Pulcinella – sarebbe stato bene farli restare sotto coperta.
In porto, a Le Havre, ad accogliere la motonave Rossija venne la moglie dell’ambasciatore sovietico a Parigi, una signora magrolina di mezza età con un abito scuro molto classico e una gardenia bianca all’occhiello: la prima donna elegante che vedevo dal vivo e non sul grande schermo. (All’epoca gli ambasciatori sovietici avevano ancora mogli eleganti e snelle, le stesse che – come si compiaceva Berija – sarebbero poi diventate “polvere di lager”.) Quando vide i nostri baldi giovani tutti uguali la signora restò di sasso.
– Non perdiamo tempo, compagni! – sbottò. – In albergo!
Il proprietario era una persona fidata, il suo hotel era un punto di smistamento per chi arrivava via mare da Leningrado e da Odessa, e alle stranezze ci aveva fatto il callo, lui. La mattina seguente, invece…
Era Pentecoste. Una folla festosa riempiva le strade di una Le Havre in piena primavera. L’aria sapeva di vaniglia, cioccolato e altri aromi di pasticceria. Dei piccoli lord Fauntleroy in pantaloni dalla piega impeccabile e guanti di pelle di daino camminavano compunti al fianco di sorelline che parevano bambole, mentrw papà impomatati e mamme profumate sfoggiavano astrusi cappellini coronati di fiori, penne e uccelli (“Quegli assurdi cappelli mi nascondono la Francia”, pensavo allora).
Gli uomini portavano eleganti abiti chiari come i vecchi attori del Teatro dell’Arte di Stanislavskij: con nonchalance, come da noi non sapevano più farlo.
Tra parentesi. In tutta la mia vita – ancora non troppo lunga, all’epoca – avevo visto un solo uomo elegante: il nostro professore di storia greca e romana, Lev L’vovič Rakov. Il suo abito di sartoria con il fazzoletto di un bianco accecante che spuntava dal taschino gli stava a pennello.
Anche lui lo portava con grande disinvoltura. Si muoveva da attore consumato, e quando era soprappensiero poteva anche appoggiare un piede su una sedia senza sembrare scortese. Fece anche lui la sua parte di lager. Più tardi sarebbe andato a dirigere la Grande Biblioteca pubblica di Leningrado.
Ai tavolini dei caffè sedevano coppie e famigliole altrettanto felici: mangiavano il gelato, bevevano bibite di ogni colore da bicchieri slanciati come fenicotteri e salutavano i conoscenti.
Pareva d’essere a teatro!
Dopo la Spagna guardai alla Francia prospera e satolla con altri occhi, con amarezza: avevano sangue e morte dietro la porta di casa, ma non sembravano curarsene. A Parigi restammo un mese, in attesa della Rossija. Non fu facile cambiare registro.
Ho ancora davanti agli occhi una signora matura con in testa un cappellino ornato di piume; eravamo al ristorante, il suo tavolo era accanto al mio e lei sbucciava una mela con coltello e forchetta, con gesti studiati, precisi. Un altro mondo. Non mi attiravano nemmeno i negozi, il bonheur des dames. Spesi tutto quel che avevo guadagnato in un anno in una sola giornata, prima di ripartire per Le Havre. Un solo acquisto era stato programmato: un taglio di stoffa da regalare a mio fratello Lev. Ne comperai uno color cacao, fu il suo primo – e ultimo – abito da adulto. Come gli stava bene! Nessuno osi dire che l’abito non fa il monaco: sono tutte sciocchezze. Quanto al resto, il tassista che avevo chiamato scelse lui dove portarmi. Una volta nella boutique misurai un cappotto: mi piaceva molto. Poi, però, la commessa me ne portò altri tre, uno più bello dell’altro. Alla fine la scelta si restrinse a due, ma non riuscivo a decidere.
– Li prenda entrambi e le faccio lo sconto! – mi disse la commessa, che era anche psicologa.
E mi incartò due cappotti quasi uguali.
Nel 1983, quando ci ritornai, di quella Francia non era rimasta neanche l’ombra. La folla si era democratizzata: altro che cappellini, portavano tutti i jeans!
Quella mattina di Pentecoste, invece, ci sarebbe piaciuto eggiare e osservare molto altro ancora, se non fosse che anche noi (soprattutto la squadra in covercoat) divenimmo oggetto di un’attenzione insistente e – va da sé – indesiderata. Oggi nessuno si cura degli abiti altrui, visto che per le strade delle grandi città si incontra di tutto, ma allora… Allora dovemmo interrompere le eggiate e tornare di corsa in albergo. Non mettemmo più il naso fuori dalla porta fino alla partenza per la Spagna.
E finalmente eccolo, il confine: il tunnel, Port-Bou, la Spagna.
Con le fioriere di oleandri sul marciapiede. Poca gente. Il primo spagnolo era un miliziano. Alla vista di tante “muchachas” si ringalluzzì e le parole spagnole – tonde, forti, piene di “erre” – gli rotolarono fuori dalla bocca come noccioline da un sacco. Carramba! Non restava che capirle…
– Estas casada? (Sei sposata?) – chiese il miliziano a Lilja Kazakova: era a lei che aveva messo gli occhi addosso.
Confondendo “casada” (sposata) con “cansada” (stanca), Lilja attaccò con la sua solita parlantina fitta fitta:
– Si, si, si, mucho, mucho! (che poteva anche intendersi come “sì, un sacco di volte”…).
Il miliziano fece tanto d’occhi, noi scoppiammo a ridere e anche lui rise con noi.
Da Port Bou arrivammo a Barcellona su un autobus antidiluviano.
A sinistra il turchese del mare, a destra le montagne… Visi di vecchi che sembravano immagini sacre. Bambini con occhi infossati che da bambini non erano. Era la miseria. Pittoresca, ma pur sempre miseria.
Arrivammo a Barcellona sul far della sera. Le case erano solo contorni nel buio, c’era l’oscuramento.
Nella stanza dell’albergo Diagonal – la residenza dei consiglieri e degli interpreti sovietici – l’abbondanza di specchi (coprivano finanche il soffitto) e le decorazioni esotiche alle pareti con i pavoni che facevano la ruota non stupirono più di tanto né me, né Ljuda Černik.
Non ne avemmo il tempo, del resto: la luce si spense, la sirena dell’allarme attaccò i suoi ululati e la contraerea cominciò a tuonare. Nei momenti di requie sentivamo il rombo degli aerei. Poi bum: una bomba. Bum-bum: un’altra. E un’altra, e un’altra ancora… Una stretta allo stomaco. Brutta cosa, la paura…
Che cosa bisognava fare in quei casi? Ci spiegarono che se i nervi cedevano conveniva scendere in cantina o rifugiarsi nella metropolitana.
Ma con che garanzie? Qualche giorno prima una bomba finita su una stazione del metrò aveva causato centinaia di morti e feriti.
Quando il fragore cessò e il rombo degli aerei si fece più lontano, proposi di
andare a dormire.
– Va bene, ma senza spogliarci. Perché se ci beccano…
La mattina seguente, dopo la colazione (una ciotola di brodaglia che chiamavano caffelatte), agli intepreti venne concessa qualche ora da are in città per rifornirsi del necessario, “conto tenuto delle condizioni belliche”. C’era persino qualche negozio aperto che, se paragonato al deserto commerciale sovietico, risultava persino interessante.
Solo quando, cariche di pacchi, decidemmo di tornare alla base, ci rendemmo conto che non sapevamo dove andare: non avevamo pensato a segnarci l’indirizzo dell’albergo. Cominciammo a chiedere ai anti: nessuno l’aveva mai sentito nominare. Eravamo sfinite.
Che l'avesismo già visto, quell’incrocio? Era per di là che avevamo svoltato per la rambla?… No, sbagliato. C'era da mettersi a piangere. Davvero non ci restava altro che an-dare alla polizia e spiegare che ci eravamo perse? Rimandammo quell’onta e ci sedemmo su una panchina del viale.
– Faccio un ultimo tentativo – proclamai, e andai incontro, decisa, a un ante: un gio-vane con un braccio al collo.
– Sia gentile, per favore, non riusciamo a ritrovare il nostro albergo… Abbiamo dimenticato di segnarci l’indirizzo. Non saprebbe indicarci dove si trova l’albergo “Diagonal”? – chiesi mettendo insieme quella domanda ormai rodata secondo tutti i crismi della gram-matica e del bon ton.
Sebbene dal di fuori la nostra disperazione potesse sembrare comica, il giovane ci compatì e invece di are oltre come tutti gli altri, volle approfondire la questione: com’era fatto il palazzo, com’era l’ingresso, su cosa davano le finestre…
– Aspetta un po’… Non è che nelle stanze ci sono un sacco di specchi? E dei fagiani alle pareti?
– Sì! Sì!
Gli scappò da ridere, mentre con la mano sinistra – quella sana – ci indicava:
– È là, dietro quell’angolo, il vostro “Diagonal”!
Soddisfatto della propria intuizione, il ragazzo si offrì di accompagnarci.
Il Diagonal – che in tempo di guerra era diventato un albergo, ma che era stato un postribolo – distava tre minuti a piedi.
Tre Post Scriptum
1. Il negretto del film di Aleksandrov, Il circo, lo avrei incontrato negli anni Settanta in un corridoio del Circolo dei letterati: era diventato un bell’uomo,
membro della sezione poeti dell’Unione scrittori.
Sopravvisse alle purghe.
2. La vita di Semën G., latore della lieta novella dell’arruolamento, finì in tragedia. Dopo la Spagna e la laurea, Semën fece tutta la “Guerra patria”, la Seconda guerra mondiale, tornò a casa sano e salvo, ma sposò la scrittrice Galina Serebrjakova, che rimase una comunista tutta d’un pezzo in lager e dopo. Ci incontrammo all’ennesima adunata dei reduci della guerra di Spagna. “Che cosa fai di bello?” gli chiesi. Avrei fatto meglio a evitarla, quella domanda.
“Faccio l’editing di quel che scrive mia moglie, ottempero ai miei doveri coniugali, faccio il custode nella sua dacia di Peredelkino” elencò lui, imperturbabile; e concluse: “E sto per divorziare”. Si impiccò, invece.
3. “Portate sul ponte tutti i dischi in vostro possesso. Veloci!” ordinò sulla via di casa, nel tragitto tra Le Havre e Murmansk, il commissario politico del Rossija. E noi, col cuore a pezzi, accatastammo sul ponte Leščenko e Vertinskij: addio Steppa moldava, addio Città straniere, addio Piccola ballerina… Il commissario li buttò a mare personalmente, con piacere sadico.
Dopo cena, nel salone della nave, mi misero al pianoforte e cantammo tutta la sera, a dispetto del commissario, le canzoni che ci erano state vietate. “Dovrò buttare fuori bordo anche la pianista!” scherzò. Nessuno rise.
Fatiche di guerra
Il mio primo incarico fu all’aeroporto della città catalana di Bañolas, come interprete dell’ingegnere aeronautico Vasil’ev (non so come si chiamasse davvero: tutti i sovietici avevano dei nomi di battaglia da veri cospiratori). Per il suo lavoro – all’epoca applicava spargibombe agli aerei civili – Vasil’ev aveva a che fare con un sacco di gente: al ministero, nelle officine, all’aerodromo.
Non si accorse nemmeno di quanto fossi sbalestrata. T’hanno mandata a fare l’interprete? E tu interpreta, e svelta. Vasil’ev, del resto, non faceva caso a quel che accadeva intorno a lui: la sua missione stava per terminare ed era nel particolare stato d’animo di chi comincia ad avere un eccesso di cura per la propria persona.
Non era il solo. Un giorno, a Barcellona, Saša Osipenko – aviatore impavido e futuro generale dell’areonautica – mi chiese di accompagnarlo per una questione importante: doveva cercare delle scarpe da donna color latte. La moglie Polina, eroico pilota anche lei, insisteva affinché fossero proprio “color latte”, una tinta che in Europa non si portava da tempo. Il marito devoto era pronto a frugare ogni negozio fino allo stremo. Non appena risuonò la sirena dell’allarme aereo, invece, saltò in macchina, ordinò all’autista di filare a tutto gas e tirò il fiato solo fuori città, nella villa da cui non sarebbe più uscito fino al giorno della partenza. In seguito, amici comuni che lo avevano accompagnato a Port Bou mi dissero che Saša era rimasto nel tunnel per tutte e quattro le ore in cui avevano aspettato che il treno partisse.
È fisiologico. Dentro di te una vocina ti dice: ne hai ate tante, hai salvato la pelle, perché diavolo dovresti esporti a una scheggia o a una pallottola vagante all’ultimo momento, senza che nulla venga alla tua causa? Di questa sorta di irrefrenabile istinto di conservazione – una malattia, quasi! – era preda Vasil’ev; ma io, che non avevo ancora avuto il mio battesimo del fuoco e non conoscevo la paura vera, ne rimasi scioccata.
Di colpo sull’aerodromo si udì il rombo di un aereo: ci colse di sorpresa, mentre
stavano montando uno degli aggeggi di Vasil’ev.
Il primo a rendersene conto fu proprio lui. Corse alla macchina senza dire niente a nessuno. Fu lo sportello sbattuto della sua auto a dare l’allarme. Qualcuno mi tirò via con sé in cerca di riparo, in un fosso.
È probabile che l’aereo avesse già scaricato le sue bombe, fatto sta che si limitò a qualche raffica di mitra. Non ci furono vittime.
Vasil’ev tornò a infilarsi nelle fusoliere come se niente fosse stato.
Una tale mancanza di riguardo nei confronti di una donna era imperdonabile agli occhi degli spagnoli e – caso più unico che raro! – i ragazzi dell’aerodromo si disamorarono del consejero ruso.
Per i miei gusti, inoltre, Vasil’ev era ormai vittima del consumismo.
Faceva continuamente avanti e indietro dai negozi per comperare e cambiare i suoi acquisti. La sera, poi, si chiudeva in camera sua, e le serrature delle valigie schioccavano fino a tarda notte. Non che ci fosse niente di male. In Russia lo attendeva una famiglia che aveva bisogno di tutto – ma proprio di tutto – eppure lui aveva l’aria d’essere spilorcio. Non lo sopportava nemmeno la nostra padrona di casa, Maria Luz, governante dei proprietari in fuga della villa nella quale ci avevano alloggiato: una vecchia taciturna, piatta come un’asse da stiro e sempre vestita di nero. Per qualche tempo fu ostile anche con me, ma poi qualcosa le fece cambiare atteggiamento e la sera, quando tornavo, trovavo sempre sul comodino qualcosa da mangiare.
Tra noi si creò un legame che somigliava all’amicizia.
Una sera che mi incontrò sulla porta dopo che ero andata a farmi un bagno – per fortuna c’era un laghetto, accanto alla villa, e ci si poteva immergere per togliersi di dosso la polvere – Maria Luz si cavò di bocca, sussurrando come suo solito, quel che da tempo aveva nel cuore:
– Una ragazza per bene non dovrebbe lavarsi tanto spesso!
Che c’entra il latte?
Avevo una settimana di esperienza professionale alle spalle quando da Barcellona giunse un fonogramma: eravamo attesi al comando dell’aviazione. Strada facendo, in macchina, mentre Vasil’ev scribacchiava dei numeri su una scatola di sigarette con un mozzicone di matita, io trafficavo con gli appunti come una matricola prima dell’esame.
All’incontro c’era molta gente; per mia fortuna Vasil’ev non intervenne, limitandosi ad ascoltare quel che gli traducevo all’orecchio.
A riunione finita ci raggiunse un tenente canuto che gli allungò un acto, un documento da firmare.
– Cosa c’è scritto? Svelta, non farmi perdere tempo! – mi metteva fretta Vasil’ev.
In effetti non c’era tempo per gingillarsi: a Bañolas ci aspettava un sacco di lavoro da sbrigare. Eppoi non è che mi avesse chiesto chissà che cosa: dovevo leggermi due paginette dattiloscritte e fargli un riassuntino affinché lui capisse se andavano firmate o meno. Più di tanto, però, io non ero in grado di fare, e capii che mi ci sarebbero volute almeno un paio d’ore col dizionario. Del resto, non potevo certo correre il rischio di sbagliare, inguaiando Vasil’ev.
Non so ancora come riuscii a capire di che si trattava. Intùito? Mobilitazione di tutte le mie risorse, comprese quelle inconsce, in una situazione estrema? Una spiegazione logica non c’è. Nemmeno sapevo quali fossero stati gli antefatti di quell’acto (trattative, discussioni, scontri…): ce l'avevo davanti e basta, in forma di contorto gergo burocratico stampato fitto e stretto su carta velina…
Fatto sta che quando tornammo a Bañolas e corsi a riferire il contenuto del documento al mio consulente di fiducia – il meccanico Fernando Blanco – gli ripetei parola per parola i clichés burocratici che quella mattina avevo visto per la prima volta nella vita. Fernando, che più di chiunque altro sapeva quanto fosse misero il mio arsenale traduttivo, restò a bocca aperta.
Quella volta me la cavai. Ma si può forse sperare che i miracoli si ripetano? La giungla inestricabile dei termini specifici, dei realia, della fraseologia colloquiale e del linguaggio popolare mi stringeva d’assedio e mi bloccava.
– Leche! – sentivo ripetere centinaia di volte al giorno quando qualcosa non andava. “Che c’entra il latte?”, mi domandavo. Consultai il dizionario: niente. E se chiedevo lumi a qualcuno, si mettevano a ridere. Come potevo indovinare che quella parolina innocente serviva per bestemmiare?
Tra l’altro, noi russi siamo convinti che non ci siano lingue al mondo con imprecazioni peggiori delle nostre. Niente di più falso, ma l'abbaglio scolora solo man mano che ci si addentra nella realtà di un’altra lingua.
Io, però, mi ci stavo addentrando troppo lentamente, o per lo meno così credevo. La cosa più difficile era star dietro alla velocità fulminea della loquela spagnola: se pronunciate a un ritmo tre volte superiore al consueto, anche le parole note diventavano irriconoscibili. Di quel che si diceva a tavola capivo, nel migliore dei casi, la metà, tanto quei discorsi erano fitti di paroline “sdrucciole” che Abramson non ci aveva insegnato e che Pio Baroja non aveva vissuto abbastanza per conoscere.
Solo dopo un mesetto cominciai a sentirmi la terra sotto i piedi.
Ero come la ranocchia della favola. Finita in un bricco di panna acida con un’amica della sua specie che incrociò le zampe e andò a fondo, la ranocchia tanto dimenò le zampette che la panna diventò burro, consentendole di saltare fuori e di avere salva la vita.
Chissà quanto ancora avrei sbattuto le mie, di zampe, senza l’aiuto degli amici spagnoli: gli addetti dell’aerodromo, gli operai dell’officina e l’indimenticabile Maria Luz. Ad aiutarmi con particolare perizia e metodo fu Fernando Blanco, detto Cervellone, che prima della guerra frequentava la facoltà di chimica. Ho conservato a lungo un notes con i suoi disegni: aveva messo un numero accanto a ogni parte dell’aereo e in calce aveva aggiunto una legenda con le definizioni nelle due lingue. In seguito avrei scoperto che era un sistema adottato da tempo da Duden, celebre lessicografo tedesco: tutti i traduttori usano i suoi dizionari illustrati in diverse lingue.
A Bañolas, però, io e Fernando pensavamo di aver scoperto l’America.
– Te l’immagini? La guerra finisce, io vengo a Mosca, cammino per strada e chi ti incontro? La mia amica Julia! – fantasticava Cervellone durante la siesta, all’ombra dell’ala di un aereo. Faceva un caldo bestiale. Di fronte a noi, in un casco da pilota, avevamo il “dessert”: delle nocciole (l’aeroporto era circondato da piante di noccioli e olivi).
Il miracolo si compì davvero. Due anni dopo ci incontrammo, ci scontrammo, vicino al Teatro dell’Arte di Mosca. Restammo lì un bel po’, abbracciati, tra lo stupore dei anti. Eravamo senza fiato per la gioia e la meraviglia: eravamo vivi! Il sogno si era avverato! Dopo di che, continuando a tenerci per mano, finimmo al Caffè teatrale, che gli spagnoli di Mosca chiamavano “Caffè Madrid”, dove restammo fino a che non chiuse i battenti, mai stanchi di raccontarci quel che ci era successo.
Fernando mise radici a Mosca, intraprese la carriera accademica, divenne dottore in scienze chimiche, si sposò, ebbe dei figli. Morì nel suo letto, ma prematuramente, di cancro. Era una bella persona.
Il comandante di brigata (“kombrig”) Vekov
A decidere il mio futuro di interprete fu Pavel Ivanovič Malkov, a capo della rappresentanza commerciale sovietica in Spagna. Viveva a Barcellona col figlio ventenne Saša, era ospitale e generoso. Compativa, aveva care e - all'occasione sfamava soprattutto noi giovani interpreti.
Quella sera nella sede della Rappresentanza si era radunata tutta la colonia sovietica: si festeggiava il quarantreesimo compleanno di Dolores Ibarruri, la Pasionaria. Arrivò con Josè Diaz, segretario generale del partito comunista
spagnolo. Erano entrambi molto provati, lui soprattutto. Quanto a lei, la cosa non appariva così evidente: era statuaria, la I-barruri, un oratore nato, un’arringatrice di folle.
Oggi si direbbe che aveva carisma. Josè Diaz era l’esatto opposto: ex fornaio di Siviglia, una faccia come ce ne sono tante, il sorriso imbarazzato, la risata soffocata.
Malkov – chissà perché – mi affidò l’onere del brindisi in spagnolo.
Dolores ne fu commossa, si tolse il foulard e me lo mise al collo. E anch’io ebbi la mia dose di complimenti… Bah.
Di lì a poco mi affidarono un nuovo incarico: fui assegnata al vicecapoconsigliere, il comandante di brigata Vekov (più o meno un generale di oggi). Vera, la sua interprete dell’Inturist, era rimpatriata e non c'era modo di trovare un rimpiazzo: lo schizzinoso comandante scartava tutte le candidate. Si fidò di Malkov e della sua telefonata di raccomandazione: il capo della Rappresentanza lo esortava a non lasciarsi scappare la sottoscritta, dato che Vasil’ev era ormai prossimo a tornare in Unione Sovietica.
Quando mi vide, il “kombrig” Pëtr Vekov – che in realtà si chiamava Večnyj e che, dunque, se i nomi si traducessero, si sarebbe chiamato “Pietro Eterno”… – mise il broncio e non lo tolse più. Era rimasto senza un’interprete esperta, ma anche senza una donna ac-canto, e io ero troppo giovane.
Vekov era sulla cinquantina: un vecchietto per i miei canoni. Il cibo locale (il piatto forte erano i garbanzos, le fave) gli aveva fatto venire l’ulcera, che lo
rendeva stizzoso. Era severo. Non solo con gli altri, ma anche con se stesso. La giornata lavorativa non aveva mai fine, per lui; le visite al fronte – ai vari comandi o in prima linea – erano sempre senza orario. Alto ufficiale sin dai tempi dello zar e docente all’accademia militare Frunze, andava scrivendo una storia della Guerra di Spagna, consapevole che quella sua esperienza poteva tornare utile al suo paese. Radunava regolarmente a Barcellona i consiglieri militari sovietici per insegnare loro il mestiere delle armi, e io avo la notte della vigilia sul pavimento della mia stanza tutta specchi a ingrandire (senza saperlo fare) le carte topografiche.
Il sonno arretrato lo recuperavo in macchina, lungo il tragitto. Delle mie esigenze quoti-diane si occupava l’autista Fulgencio, che aveva qualcosa di Prokopij, l’attendente di mio padre nei boschi di Arzamas al quale mia madre, diciannovenne, mi aveva affidato per prepararsi all’esame di ammissione all’università.
Spilungone dal viso equino, Fulgencio (di cui conservo miracolosamente una piccola foto sbiadita) aveva cura di me come di una figlia: se mi bagnavo le scarpe me le asciugava, se mi si rompeva la borsa me la aggiustava. Tutto di sua iniziativa. Senza che gli chiedessi alcunché.
Ricordo una notte in un castello medievale poco distante da Figueras.
Ai piedi della scala che porta al piano di sopra, uno a destra e uno a sinistra, si ergono due cavalieri, due armature complete di elmo con la visiera abbassata. A me assegnano la biblioteca del castello, impregnata di umidità secolare. Mi butto sul divano e vedo arrivare Fulgencio: trascina due copriporta di velluto verde polveroso con i pompon. Uno lo piega in quattro e lo usa per coprirmi, l’altro lo stende a terra, fuori della porta, per sé.
Si ha paura, in guerra? All’inizio non troppo, perché manca la consapevolezza del pericolo. Un giorno, con Vekov, stavamo attraversando di corsa un vigneto che per lungo tempo era stato zona franca. “I fiori della zona franca sono belli come pochi”, avrebbe notato a suo tempo Vysockij, grande cantautore. Non ricordo nemmeno come fu, ma mi ritrovai con le tasche piene di uva rosata sul fondo di un fosso pieno di fango, il cratere di una bomba. Mi ci aveva spinto Vekov. Non ebbi nemmeno il tempo di spaventarmi. Come per tutti, la paura di morire sarebbe venuta più avanti.
Con l'autista Fulgencio in Spagna, 1938
Tra parentesi Stalin non la volle, la valigia con la “Storia”: la conosceva già, sapeva tutto. E sull’ultimo elenco dei decorandi, quello che conteneva i nostri nomi, con l’eleganza che lo distingueva vergò: “Ci avete smerdati (sic) in guerra e volete pure le medaglie?”.
La mia, dunque, è solo una medaglia ricordo, non “al valore”.
Una decina d’anni fa,però, il primo ministro spagnolo Aznar ha voluto rimediare all’ingiustizia invitando in Spagna tutti gli interpreti russi ancora in vita e concedendo loro la cittadinanza onoraria. Ma io ero lontana, ormai, non ero più della partita.
Di Aznar seppi per caso. A Madrid per lavoro, Rafael’ Matevosjan (prorettore dell’università di Erevan, ex dottorando di mio marito e nostro grande amico) sentì parlare russo nella hall del suo albergo. Si avvicinò a un gruppo di vecchiette e, scoperto chi erano e perché si trovavano in Spagna, fece il mio nome.
– L’abbiamo cercata dappertutto! – starnazzarono quelle, in coro.
Rafik Matevosjan era una persona splendida. Prima di emigrare in Italia lasciai a lui la biblioteca e l’archivio del mio povero marito, Semën Gonionskij, padre della latinoamericanistica russa e insegnante dei docenti di oggi, i quali – sia reso loro merito – venerano la sua memoria e celebrano regolarmente le
ricorrenze. Il caro Nikolaj Diko, per esempio, non manca mai di mandarmi le copie dei loro interventi e dei loro articoli.
Il rappresentante commerciale Malkov era la bontà fatta persona. Di origini umili, ma di cervello fino. Un omone dal viso tondo, paffuto. Quando sapeva che Vekov e io eravamo a Barcellona – ogni tanto tornavamo, per lavarci e cambiarci d’abito – mi telefonava e mi suggeriva come fare a ritagliarmi almeno una serata libera.
– Digli che gli ho trovato le matite Faber – mi consigliava. Vekov aveva un debole per la cancelleria, e quella “perdita di tempo” mi era dunque concessa.
Alla Rappresentanza commerciale si stava bene e c’era sempre da mangiare: un’oasi in quella città oscurata e affamata. Malkov mi faceva sempre il terzo grado:
– Allora? Come va? È dura?
Non so se avesse in mente la guerra o il comandante Vekov… Dina Kravčenko – interprete del consigliere capo Sapunov e dunque un po’ capo anche lei – calcava la mano ancora di più:
– Se proprio non ce la fai, a di qua, che qualcosa ci inventiamo.
Io me la cavavo con una battuta, ma il comandante non era davevro una persona facile. Io, però, ero convinta che stesse facendo una cosa necessaria, e dunque lo
aiutavo come potevo: questo era l’essenziale. Mi accorgevo che non stava bene, che l’ulcera lo faceva dannare, perciò quando esplodeva cercavo di non prendermela. Ma non mi trattava sempre come un padre. Una notte mi svegliai con la sua faccia china sulla mia.
– Pëtr Panteleevič, no… – lo implorai, e lui girò i tacchi. Da quella notte Fulgencio prese l’abitudine di sistemare il proprio giaciglio accanto alla mia porta.
L’anno dopo, a Mosca, saputo dai giornali che Malkov era stato nominato presidente della Camera di Commercio, andai a fargli gli auguri e a ringraziarlo di tutto. Ci abbracciammo, avevamo gli occhi lucidi. Anni dopo mio marito Semën mi avrebbe raccontato che negli anni Quaranta, dopo la guerra, lui e Malkov stavano lavorando a Bogotà, in Colombia, Semën all’ambasciata e Malkov alla Rappresentanza commerciale. Malkov si lamentava di soffrire d’insonnia.
– Mia moglie mi fa bere uno sciroppo di zucchero – diceva – ma non mi è d’aiuto, sogno i diavoli… Come il Boris Godunov di Puškin: "Vedo ragazzini insanguinati"…
Il buon Malkov non riusciva a dimenticare che, giovane soldato dell’Armata rossa, era stato nella squadra che aveva fucilato i Romanov.
Pëtr Panteleevič Vekov-Večnyj morì di morte naturale e fu sepolto al cimitero Novodevič’e. Sapunov finì fucilato, come tutti quelli che l’avevano preceduto.
Anche gli altri consejeros finirono dentro in quanto si erano trovati “nella
condizione di commettere un crimine”, come recitava il Codice Penale dell’epoca.
Il generale Campesino
La Buick con i ghirigori mimetici si avvicina alle porte del casolare. Sono le dieci in punto. Il “jefe”, il capo, ama la puntualità. Siamo attesi, le porte si spalancano all’istante. Addossati al muro di un lungo edificio a un piano, seduti o semisdraiati, ci sono dei tipi dall’aspetto baldanzoso: l’entourage più stretto del generale Campesino.
Ci fanno entrare. Le imposte sono chiuse, la stanza in penombra.
Da dietro un massiccio tavolo da pranzo ci viene incontro un uomo tarchiato, scuro di carnagione, con la barba nera e gli occhi di Otello.
Il viso è cupo e teso e ha muscoli da pugile sotto una camicia sbiadita color kaki.
Il ’38 non è il ’36, l’esercito repubblicano è ormai un esercito regolare, e le gesta eroiche a cui inneggiavano stampa e canzoni all’inizio della guerra sono ormai di intralcio. L’indomito Campesino, però, non lo capisce.
Cacciarlo o farlo dimettere è impensabile, oltre che controproducente da un punto di vista politico. Se ogni bambino dell'Unione sovietica che gioca alla guerra vuole essere Čapaev, ogni ragazzino spagnolo vuole essere Campesino. Dunque si decide di mettere il generale agli arresti domiciliari in una fattoria
vicino a Barcellona, previa solenne promessa di “perfezionare la propria preparazione teoricomilitare”.
A fargli da precettore non viene destinato un uomo qualunque, ma Vekov, alto ufficiale con esperienze in epoca zarista nonché vice del consigliere capo.
Quell’incarico non gli va giù, è palese. Ha un sacco di cose da fare, il telefono squilla ogni minuto, c’è gente che lo aspetta. Ma gli ordini sono ordini. Formale e cortese come sempre, con una lieve smorfia di disappunto, il comandante comincia la sua lezione. Io cerco di tradurre come meglio posso, sfoderando la terminologia militare da poco appresa. Non ano nemmeno cinque minuti che Campesino lo interrompe:
– O-o-oh! A questo proposito posso raccontarvela io, una bella storia!
E senza attendere l’autorizzazione, inforca la sedia e ci rovescia addosso una slavina di ricordi ancora caldi. Era un narratore nato, le parole gli uscivano di bocca come un torrente in piena, senza intoppi, con mille metafore e mille sfumature. Imitava alla perfezione i diversi accenti, la calata della moglie Juana e la voce nasale del sacrestano.
La facondia spagnola mi ha sempre incantato. Un vero oratore era, per esempio, il nostro Fulgencio, che era un normalissimo meccanico con un’istruzione minima (Sia detto tra parentesi: non c’è racconto sulla Spagna in cui non venga lodato il primo amico fedele di ogni sovietico in quella guerra: l’autista). Guidatore spericolato e incorreggibile, a ogni soro riusciva a gridare all’indirizzo di chi si lasciava alle spalle una giustificazione dettagliata – autentica poesia in prosa – inneggiante alla traductora che aveva con sé, alle sue grandi responsabilità e al suo bellissimo paese lontano dove la falce e il martello venivano sopra ogni cosa.
– Immaginatevi la scena – si infervora Campesino. – Noi che facciamo irruzione in Comune, cioè nella tana del nemico, nel quartier generale, e i signori ufficiali che di lì a qualche minuto sono lesti a offrirci di loro iniziativa mitraglie e casse di munizioni! Poi, ci mancherebbe, ho dovuto comunque farli fuori tutti, è ovvio…
Il comandante di brigata guarda l’orologio già da un po’ e lo liquida con un secco:
– Ha finito?
Solo allora l’allievo lascia la parola al precettore. Ma è talmente eccitato, talmente ebbro della propria eloquenza, da non riuscire a concentrarsi per molto tempo ancora. Continua a smaniare e a chiedere il permesso di “aggiungere qualcosa”.
Alla fine è di ottimo umore: si è sfogato. Lì, del resto, non ha nessuno con cui parlare. I suoi uomini le conoscono già tutte, quelle storie. Ci accompagna fuori. Con un sorriso smagliante e gli occhi che sprizzano scintille, tuona arrotando la “erre”:
– Tor-r-rnate a tr-r-rovarmi! Vi pr-r-rego! Ne sar-r-ei felice!
Sulla via del ritorno nella Buick regnava ogni volta un silenzio imbarazzante.
Il comandante era palesemente irritato dal mio entusiasmo per “i deliri di quella Shehérazade”.
– Non è da escludere che ci metta del suo, ma che talento! – insistevo io, convinta.
Le mie emozioni mandavano su tutte le furie Vekov, che faceva del suo meglio per “asciugarmi”, per inaridirmi. Voleva che lavorassi come un computer e cercava di perfezionarla, quella macchina, senza perdonare la minima svista e senza mai una parola di incoraggiamento.
Spuntò una contraddizione. Una delle prime mansioni del comandante Vekov era di raccogliere materiale sulle operazioni di guerra. Lui studiava, analizzava, sistematizzava, illustrava. Dovevano essere dati freschi, raccolti sul campo. I comandanti spagnoli gli mandavano le rispettive disposizioni, ma a Vekov non bastava: per lui erano importanti i contatti diretti, che però otteneva a fatica sia perché non parlava spagnolo (e perché avrebbe dovuto, visto che aveva l’interprete?) sia perché era di una pasta completamente diversa da quella indigena. Io invece ero positiva, socievole, e gli spagnoli di ogni grado tenevano alla mia compagnia.
– La prossima volta vieni da sola. È inutile che te lo porti dietro! Quel che gli serve lo posso dare anche a te – dichiarò un giorno con gran disinvoltura e in presenza di Vekov il comandante di corpo d’armata Josè del Barrio.
A scanso di complicazioni, traducendo smussai quella mancanza di tatto, il capo non se ne accorse ma arrivò pian piano, da solo, alla conclusione che poteva risparmiare del tempo prezioso mandandomi in loco da sola. Dunque, oltre a fare da interprete durante incontri di lavoro e trattative varie, oltre a una sfilza di traduzioni scritte (articoli e capitoli di libri) e oltre alle carte topografiche da
ingrandire per le lezioni del comandante, svolgevo anche mansioni da PR, facendo la spola con Fulgencio da un corpo d’armata all’altro. Vekov non mi mandava mai dove si combatteva, era escluso. Sotto le bombe e sotto il fuoco d’artiglieria Vekov non faceva una piega – intrepido. Anche io ero calma (in apparenza: mi vergognavo a mostrarmi pavida) ma la mia calma era superficialità, per lui, che nei luoghi più caldi non mi faceva allontanare d’un o. Tutto il resto me lo delegava a cuor leggero. Potendo, mi avrebbe rifilato volentieri anche le lezioni con Campesino…
Non era difficile indovinare che dentro di sé il comandante Vekov – lui che all’Accademia Frunze insegnava a centinaia di futuri ufficiali – era sdegnato dal dover dare quelle che lui stesso definiva misere ripetizioni. E non dubito che l’idea di mandare me con le lezioni per iscritto l'avesse persino sfiorato… L’allievo però poteva avere delle domande o – più probabilmente, dato il tipo – delle obiezioni antiscientifiche. L’insegnamento non dava grandi risultati comunque: gli attacchi partigiani di Campesino alle pietre miliari della scienza bellica non conoscevano flessioni.
– L’argomento della lezione di oggi è la testa di ponte, cabeza de puente – traducevo io in simultanea cercando inconsapevolmente di evitare le pause; bastava un attimo di incertezza e l'allievo avrebbe attaccato con l’ennesima storia apionante. Era sempre pronto, lui. Aspettava il momento buono, e se c’era troppo da attendere per dire la sua, si incupiva e smetteva di ascoltare.
L’astio reciproco montava ed era inevitabilmente alla ricerca di una via di sfogo. Il pretesto fu proprio la sventurata cabeza de puente. Campesino non riteneva di avere eguali al mondo quale esperto di “ponti”, e si prese la briga di dimostrarcelo. Seguì il racconto di come, in barba agli ordini del suo capo (“che era forte nella teoria, ma sospettosamente cauto nella pratica”) e con un rapporto di forze di uno a dieci, non solo aveva saputo assicurare una testa di ponte, ma aveva anche preso una stazione ferroviaria con tanto di convoglio carico di farina e lenticchie. Perché non aveva obbedito agli ordini? si chiedeva da solo. Perché per lui la cosa più importante, ancor più importante della sua stessa vita,
erano gli interessi della patria.
In un altro momento Vekov avrebbe provato a spiegargli pazientemente che contravvenendo all’ordine Campesino aveva mandato all’aria i piani del comando e che la sua vittoria parziale non era stata determinante per le sorti della guerra. Quella volta, invece, non aprì bocca, fece un gesto rassegnato e si voltò dall’altra parte. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio, e Vekov ne era consapevole.
La lezione sulla testa di ponte fu l’ultima. La guerra si stava avviando verso la sua tragica conclusione. Le truppe di Franco si avvicinavano a Barcellona.
Che film meraviglioso potrebbe diventare la storia di Valentin Gonzales, minatore dell’Estremadura divenuto generale dell’esercito repubblicano spagnolo e sovietico! Ma come dividere il bianco dal nero, il nero dal rosso, gli amici dai nemici, e – in fin dei conti – il bene dal male?
La massima “conoscere per deliberare”, caro il mio Marco Pannella, è solo di quelli come te, che appoggiano l’orecchio a terra come il capo di una tribù indiana e ascoltano gli zoccoli dei cavalli per capire che cosa succederà e decidere come comportarsi.
Oppure di Orwell. Che arrivò in Catalogna per “ammazzare almeno un fascista” (“se ne ammazziamo uno per ciascuno, prima o poi finiranno”), ma che nel 1936 aveva già capito che Stalin stava, sì, liquidando i vecchi bolscevichi a Mosca, ma intanto istillava il terrore anche in Spagna. Tra Barcellona e Madrid i compagni spagnoli fucilarono migliaia di anarchici (il leader, Andreas Nin, morì per le torture subite), liberali, repubblicani e socialisti. Dal canto loro, i sovietici decimarono gli alti gradi del proprio esercito, ambasciatori, rappresentanti commerciali, giornalisti.
Orwell non riuscì ad ammazzare neanche un fascista, ma una pallottola di Franco gli traò la gola. E a Barcellona – nel 1937 dopo il ricovero in ospedale – trovò perquisizioni, arresti, fucilazioni sommarie per accuse di trockismo, spionaggio e sabotaggio, e pochi di coloro che come lui erano venuti da tutto il mondo per combattere Franco. Ne fu inorridito. E 1984 è lo specchio profetico di quel raccapriccio.
Le avevo attorno a me quelle vicende, mi giungevano sotto forma di brandelli di conversazioni e di allusioni. Maria Luz aveva visto distruggere le chiese e sterminare i sacerdoti e mi raccontò di monasteri e tenute saccheggiate e di ricchi e nobili ammazzati. E di omicidi che continuavano affinché in Spagna tutto fosse pronto per l’arrivo dei Soviet. Le prove erano ovunque.
Un giorno i franchisti ci mandarono una cassa con il corpo di un nostro pilota smembrato. Intanto i loro giornali pubblicavano fotografie di intrepidi soldati con in mano la testa mozzata dei nemici. Tra l'altro, nelle nostre file i primi a morire erano sempre i migliori, come l’ungherese Máté Zalka (il generale Lukács), e la cosa era sospetta. Il dubbio che durante gli attacchi ci fosse qualcuno che colpiva alle spalle i propri compagni non era poi così lungi dall'avere un fondamento…
All'epoca tutte quelle notizie mi ronzavano in testa, sconclusionate, ma poi finirono per depositarsi in fondo al pozzo della memoria e lì rimasero assopite. Sarebbero riaffiorate in seguito, dopo un lungo letargo nel mio subconscio.
L’inizio del 1939. L’esodo. Sulla strada verso il confine se si muove un’intermina-bile, mesta colonna stremata di donne, vecchi, bambini, storpi, senza più la forza di trascinarsi dietro i loro miseri averi, abbandonati sul ciglio della strada. Attacchi aerei, mitragliate e cadaveri, cadaveri ovunque…
Una mattina, nel dormiveglia – avevamo ato la notte in una cittadina catalana – mi stupii di sentire una colonna a o di marcia (gli spagnoli non lo impararono mai, il o cadenzato, che era roba da tedeschi).
Era quel che restava delle brigate internazionali, finalmente autorizzate a far ritorno al fronte. Nel novembre del 1938 il governo spagnolo aveva disdegnato i loro servigi per ragioni diplomatiche e chi aveva potuto era tornato in patria. Tedeschi e italiani non avevano dove andare e furono sistemati in una sorta di “centro di accoglienza” nella Catalogna del nord. Ora, disarmati o quasi, stavano tornando a combattere fino alla morte.
Da Barcellona ci portarono al confine se in piccoli gruppi. C’era stato un accordo, probabilmente, e i terribili fucilieri del Senegal non crearono ostacoli e ci fecero are.
Post scriptum. Nel 1938 tutta Barcellona (più morta che viva) sparlava di Josè del Barrio: la splendida, biondissima stella del musichall Maruja era a un o dal suicidio perché lui l’aveva lasciata.
Visto un suo spettacolo, era impossibile non ammirarla. Ma che uomo irresistibile era, quel Del Barrio?
Quando, con Vekov, capitai nel suo quartier generale, restai di stucco: il comandante era un omino dal viso insignificante, con sopracciglia a triangolo (tali e quali a quelle di Charles Aznavour, ora che ci penso!) su occhietti tondi e nerissimi. La prima impressione, però, era ingannevole, e me ne resi conto dopo un istante: l’omino con le sopracciglia ad accento circonflesso era un osso duro. Era stato un pezzo grosso, mi dissero, un leader sindacale, e adesso era fra i
comandanti migliori.
Del Barrio si permise subito un complimento piuttosto rozzo.
Gli feci capire che aveva sbagliato indirizzo. Ogni nostro incontro successivo, soprattutto a tavola, fu uno spietato, reciproco punzecchiarsi.
Ma non avevo speranza con lui: la sua intelligenza, la sua capacità di osservazione, oltre a un irresistibile senso dell’umorismo e a una particolare grinta tutta virile, erano disarmanti. Che serva da lezione a tutte le donne: la bellezza è un optional, in un uomo.
All’inizio del 1939, quando la nomenklatura repubblicana spagnola si preparava a riparare a Mosca, Del Barrio mi lasciò senza fiato:
– Io non parto. E ti consiglio di fare altrettanto. Vuoi venire con me?
– Dove?
– In un posto dove si parli spagnolo.
– Ma chi sono io, per te?
– Tutto.
– ?!
Vent’anni dopo un collega spagnolo professore al MGIMO mi raccontò che Josè del Barrio viveva in Messico ed era diventato un imprenditore miliardario.
Poi lo arrestarono…
È un ritornello che accompagna buona parte delle storie di chi visse sotto Stalin. E c’è sempre qualcuno che per eccesso di buon senso pone una domanda insensata: “Perché?”. Perché mettevano dentro una contadina che raccoglieva le poche spighe rimaste dopo la mietitura nel campo di un kolchoz, o un qualunque Ivan Denisovič che in tempo di guerra era arrivato tardi al lavoro, o un burlone che da ubriaco aveva disegnato la barba su un ritratto di Stalin, lo si può anche intuire. Com’è anche evidente perché Stalin aveva voluto eliminare Bucharin, “prediletto del partito”, Kamenev o Zinov’ev: erano suoi concorrenti.
E fu, di nuovo, per tenere in pugno i mariti che Stalin spedì in lager la moglie del presidente dell’URSS Kalinin e quella del capo del governo Molotov. Perché, poi, nei lager marcirono decine di migliaia di soldati sovietici ex prigionieri di guerra? Per non essersi suicidati quando il nemico li aveva fatti prigionieri.
Più difficile è capire come sia stato possibile decapitare le forze armate alla vigilia di una guerra che sarebbe costata decine di milioni di vite umane (e che costrinse Stalin, a un certo punto, a cavare di prigione i generali che non aveva ancora ato per le armi).
Al KGB avevano un programma preciso: per far sì che il paese vivesse nel terrore servivano tot arresti pro capite. E a garantire un raccolto ubertoso era un ente sinistro con un nome che pareva uscito da un gioco di ragazzini: SMERŠ (Smert’ špionam – Morte alle spie). L’ostello del Komintern, l’hotel Lux di via Gor’kij 10, a Mosca, si svuotò: né Togliatti né Dolores Ibarruri intercedettero per i propri compagni.
Non c’è da meravigliarsi, dunque, di quel che sarebbe successo a uno spirito libero come Campesino nel paese dei Soviet. Fu probabilmente riflettendo al riguardo che nell’aprile del 1939, mentre eggiava con lui sul ponte della nave Siberia che portava da Le Havre a Leningrado i cittadini sovietici e i comunisti spagnoli (militari e dignitari sindacali e di partito), lo scrittore Il’ja Erenburg gli lasciò intendere senza mezzi termini di non aspettarsi grandi cose: il socialismo era in là da venire.
I contrasti sovietici – i vertici che si ingozzavano e il resto della popolazione alla fame – risultarono subito chiari a Campesino. Perché solo a lui era stata riservata un’accoglienza trionfale con l’inno e i discorsi? Perché a tutti gli altri era stato vietato di scendere dal treno nelle stazioni intermedie? Dov’erano la libertà, l’uguaglianza e la fraternità, o la tanto agognata giustizia sociale? Ad attenderlo a Mosca c’era Stalin in persona con una decina dei suoi più stretti collaboratori. Poi vennero le visite al Comitato Centrale, al Komintern, al Cremlino. La nomina a maresciallo onorario, l’ordine di Lenin.
Il colpo di grazia fu un ricevimento pantagruelico al Cremlino. A un cenno di Stalin Chruščëv si mise a ballare il gopak, la danza ucraina. Il divertimento preferito del capo supremo era che ogni ospite altolocato strisciasse carponi sotto un tavolo lungo dieci metri scolandosi prima e dopo un bicchiere di vodka.
Campesino prese a calci tre o quattro sedie in un profluvio di imprecazioni, dopo
di che lasciò la sala.
– Via di qui, torno in Spagna a rinfocolare la resistenza! – disse. Non si era reso conto che la cortina di ferro si era richiusa, non capiva d’essere finito in trappola.
Quel che Campesino provò in terra sovietica lo abbiamo scoperto dalla sua autobiografia⁷. A noi decidere quanto ci sia di vero: con l’esperienza sovietica alle spalle, abbiamo il metro, gli strumenti e il fiuto per farlo.
Che accade a quel punto?
Invece di resistere sui monti della Spagna, Campesino – una tigre in gabbia – si ritrova insieme ai generali Lister e Modesto, di cui ha poca stima e che sono ligi al governo sovietico, nel centro vacanze per le alte sfere del governo di Monino. Nell’agosto del 1939 vengono ammessi tutti e tre come uditori all’Accademia militare Frunze, la stessa in cui aveva insegnato il comandante Vekov.
Campesino (sotto il falso nome di Pëtr Antonovič Komissarov: per segretezza!) ci resta un anno e mezzo, di mala voglia, furioso perché la sua borsa di studio è di 1800 rubli mentre la paga mensile di un operaio arriva appena a 300.
– Nessuno ha mai vinto una guerra grazie ai libri – insisté, anarchico fino all’ultimo. Le uniche lezioni che ascolta compunto sono quelle del generale Žukov (c’era qualche affinità, tra i due).
L’aria attorno a Campesino si fa greve dopo il patto Hitler- Stalin, riguardo al
quale (va da sé) nutre seri dubbi.
In quegli stessi giorni subisce un duro colpo: i compagni sovietici gli riferiscono (inventandoselo) che Juana e i figli sono morti, che i soldati di Franco hanno lapidato lei e sparato ai bambini. È in quello stato di profonda depressione che un giorno, all’uscita dell’Accademia, viene fermato dalla diciannovenne Tat’jana, che gli dice quanto lo ammiri e gli chiede un giudizio sul suo spagnolo, lingua che sta studiando all’Università di Mosca. Lì per lì Campesino pensa che gliel’abbiano messa alle costole. Ma la solitudine e la ferita che ha nel cuore sono terreno fertile per fugare le esitazioni e chiudere un occhio sul fatto che Tat’jana sia un’affiliata devota del komsomol, nonché figlia di un generale. Due mesi dopo sono marito e moglie. Ma la nube continua ad addensarsi sulla testa di Campesino. Fino a che, un giorno, due uomini dell’NKVD lo portano al Komintern per celebrare un “processo d’onore”. I testimoni dell’accusa sono Lister, Modesto e Dolores Ibarruri, l’accusa è anarchia, trockismo, totale incomprensione del marxismo e del comunismo. Tirano in ballo anche il suo “comportamento antipartitico” durante il banchetto al Cremlino. Le conseguenze sono l’espulsione dall’accademia, l’arresto, la Lubjanka. Tat’jana, che aspetta un bambino, gli procura un appuntamento con il presidente Kalinin grazie all’amica Svetlana (figlia di Stalin). Kalinin farfuglia che farà qualcosa, ma aa altro a cui pensare: il 22 giugno del 1941 Hitler attacca l’Unione Sovietica.
Durante il trasferimento in un’altra prigione Campesino scappa, si confonde tra la folla, prende un treno e finisce a Taškent. Lì viene scoperto e mandato nella lontana Kokand, dove imperversa un’epidemia di tifo. A Kokand lo raggiunge Tat’jana, moglie fedele, con Manuel, che ha un anno e mezzo (e che si chiama, dunque, come il figlio di Campesino e Juana). Il bambino prende il tifo e muore. La tragedia avvicina ancora di più moglie e marito, ma Tat’jana deve tornare a Mosca. Procuratosi un aporto falso, Campesino si lancia in un viaggio impensabile: Kokand – Samarcanda – Ašchabad – Krasnovodsk – Mosca, riuscendo a cavarsi da situazioni disperate grazie alla foto in divisa da generale sovietico che gli ha portato la moglie. A Mosca, però, non può tornare a casa, è troppo pericoloso, dunque trascorre le notti sul lungofiume della Moscova o in compagnia di qualche prostituta. Alla fine decide di uscire allo scoperto e di presentarsi al segretario del partito comunista spagnolo Josè Diaz. Scopre dalla
segretaria di Diaz che è stato giustiziato nel 1942 per aver preso le parti dei suoi compagni: lo hanno buttato da una finestra a Tbilisi, dov’era sfollato, simulando un suicidio. Campesino scrive a Stalin: “Se sono un traditore, che mi fucilino, ma sono un soldato e le finezze della politica non fanno per me: datemi la possibilità di combattere”.
E torna a casa a cuor leggero, dalla moglie e dalla figlia Valentina, nata da venti giorni appena. Lo arrestano di nuovo e di nuovo lo portano alla Lubjanka. Dove subisce fino a sedici ore di interrogatori al giorno. Campesino è allo stremo, ma non firma i verbali.
A un certo punto lo liberano. Ci deve essere qualcosa sotto, pensa. “O credono che li porterò dai miei complici” riflette, “oppure Tat’jana ha ottenuto qualcosa”. È pedinato, rico-mincia a vivere come un barbone. Decide di chiedere un appuntamento al generale Žukov: è quella, l'unica via d'uscita.
– Porti pazienza, non è ancora il momento, la Spagna può attendere – lo esorta Žukov. Quello stesso giorno Campesino si mette in contatto con due amici aviatori, Campiglio e Lorente, che si procurano tre divise da ufficiali dell’NKVD comprandole dalle mogli dei čekisti. Partono tutti e tre per Baku e di lì arrivano ad Ašchabad. La meta finale è l’Iran.
Il 30 agosto ano la frontiera iraniana, ma Campiglio zoppica, non può proseguire e chiede agli altri che lo lascino dov’è. Campesino se lo carica in spalla e il viaggio prose-gue; nei villaggi dell’Iran trovano gente cordiale, ma Campiglio non ce la fa e si stacca dal gruppo. A Teheran si consegnano agli inglesi, che non credono al racconto di Campesino e sospettano che i due siano spie sovietiche.
Dall’ottobre del 1944 al gennaio del 1945 Campesino è di nuovo in prigione, in
attesa che verifichino la sua identità. Una volta stabilito che quel fuggiasco è davvero Valentin Gonzales, gli inglesi non vogliono credere che abbia rotto i ponti con i comunisti.
Un giorno, durante l’ora d’aria, Campesino e Lorente attaccano le guardie, scappano e – pur feriti gravemente – camminano tutta la notte verso sud, verso l’Iraq. Il 5 febbraio incappano in una pattuglia sovietica. Il viaggio di ritorno, da Tbilisi a Mosca, lo fanno su un vagone bestiame zeppo di detenuti, senza cibo né acqua.
E sono di nuovo la Lubjanka, Butyrki, la prigione di transito sulla Krasnaja Presnja e il lager: una miniera a Vorkutà. È una baracca di zombie, di cadaveri ambulanti. Campesino vede una sola uscita da quel tunnel: diventare un minatore stachanovista. L’NKVD, però, non crede che si sia rieducato (o “riforgiato” come si diceva allora).
L’anno dopo capita un incidente in miniera: un crollo. Campesino riporta seri danni alla spina dorsale e diverse ferite alle gambe. A capo della commissione medica c’è una dottoressa, un tenente dell’NKVD che gli concede sei mesi di esonero dai lavori più duri, lo cura e ne fa il suo amante. “Non aveva nulla di umano”, ricorda lui. La ricompensa è il trasferimento in un posto più caldo. Nel giugno del 1947 Campesino viene trasferito da Vorkutà a Samarcanda. Sconta la condanna nel lager di Ašchabad facendo il becchino nella “casa della morte”, la baracca di chi è allo stremo. Lo salva il medico del lager, un ex pilota tedesco che aveva combattuto in Spagna con la legione Condor.
– Avevamo un profondo rispetto per te – confessa al nemico di un tempo.
Si commuovono e fraternizzano.
La notte del 6 dicembre 1948 la terra è scossa da un tremendo terremoto: le baracche crollano. L’amico Achmed, uzbeco, lo mette in guardia:
– Non ti muovere, che li ammazzano, quelli che non son crepati.
All’alba escono da sotto le macerie e i cadaveri e puntano verso il confine iraniano. A-chmed, che conosce il turcmeno, procura cibo e vestiti. E finisce ucciso da un cecchino sovietico. A Teheran Campesino arriva solo. Ci trova gli americani, che gli credono. I medici dell’ospedale militare impiegano tre mesi a rimetterlo in piedi.
Il Cairo. La Germania. L’Italia. La Francia. I “compagni” che ovunque accolgono le sue parole con una levata di scudi: bugie, calunnie ai danni del paese del socialismo. Nel 1950 testimonia al processo a David Rousset, analogo a quello a Kravčenko.
– Sapete che alla fine del 1948 in Unione Sovietica c’erano venti milioni di detenuti? Per voi l’URSS è un mito, mentre in realtà è la più grande prigione del mondo!
Non gli credono, gli riservano giusto dei sorrisetti di scherno: “Delira!” commentano tutti. Fino alla morte di Franco, nel 1975, Campesino sopravvive facendo il muratore a Metz, in Francia.
Quando al figlio Manuel, a Madrid, capita sotto gli occhi un articolo sul Campesino che vive a Metz, la famiglia decide che si tratta di un impostore. La
figlia, però, va a verificare di persona se il sedicente Campesino ha il tatuaggio che la madre le ha descritto.
Che l’ha, e la famiglia si riunisce.
Non lo incontrai più, Campesino, anche se avrei potuto: sono libera, in Italia, dal novembre del 1982 e lui è morto nell’ottobre del 1983 (a 78 anni).
Post Scriptum. Il 27 marzo del 2004 le Izvestija hanno pubblicato a firma di Sergej Nechamkin due paginoni di materiali “Per i 65 anni dalla fine della guerra civile in Spagna”. Titolo: “Il barbuto Campesino è di nuovo tra noi!”. Sottotitolo: “Hanno collaborato la figlia di Campesino, Viktoria Kravčenko [alias Valentina – Ju.D.], lo storico Andrej Elpat’evskij e la scrittrice Elena S’janova”. L'articolo è corredato da diverse fotografie che ritraggono Campesino negli anni della guerra civile: a cavallo, a un’adunata, al quartier generale, con la moglie russa Ariadna Džan [alias Tat’jana – Ju.D.] – figlia del colonnello circasso Džan, ex intendente di Budënnyj (morta nel 1999) – e con la loro figlioletta di due anni Viktoria Kravčenko (nata nel 1944), ora medico e attivista del Centro Ispanico di Mosca. Si cita l’ultima lettera di Campesino ad Ariadna (che, terrorizzata, distrusse le altre), dove la implora di concedergli dieci minuti con la figlia di due anni.
Nel 1983 “i funerali di Campesino divennero il simbolo della riconciliazione nazionale – scrive il corrispondente della TASS. – Ci andò tutta Madrid. Dietro la bara venivano due colonne: da una parte gli ex repubblicani e dall’altra gli ex franchisti, che rendevano l’estremo omaggio al più degno dei nemici di un tempo”.
⁷ El Campesino, Jusqu’à la mort, Maurice Padiou Albin Michel, Paris 1978. 59
7. La TASS, il PCUS e l’amore
Alla TASS, l’Agenzia telegrafica dell’Unione Sovietica, le mie mansioni di assistente presso la Redazione informazioni consistevano nel leggere ogni giorno i giornali in lingua spagnola, inglese, tedesca, italiana e se per aggiornare lo schedario relativo all’America Latina, alla Spagna e all’Italia. Serviva ai giornalisti che scrivevano di guerra, colpi di Stato, cambi di governo ecc. Con il tedesco e lo spagnolo me la cavavo bene, con il se un po’ meno: l’avevo sentito per un mese a Parigi, avevo letto una grammatica a mo’ di romanzo e anche qualche romanzo vero e proprio. L’italiano, per fortuna, somiglia allo spagnolo, ma l’inglese… Mi mangiavo le mani per aver sempre alzato le spalle quando mia madre si offriva di insegnarmelo! Gli altri ritenevano un privilegio averla come insegnante, mentre io continuavo a rimandare e finii per perdere un’occasione. Dell’inglese, dunque, avevo una conoscenza mediocre e più che altro iva (eppure negli anni Sessanta tradussi un libro di Franck, Anna Pavlova, sulla vita della grande ballerina russa morta in Inghilterra).
Chavinson, direttore della TASS, si era messo in testa che avessi una vena giornalistica e mi costrinse a scrivere. Giornalista non lo sono diventata, ma mi è rimasto un interesse costante per la buona stampa e il bisogno quasi fisico di leggere i giornali, materiale prezioso per un traduttore, che è sempre tenuto a sapere tutto. Nei giornali, del resto, c’è la vita in tutte le sue sfaccettature.
Un giorno venni convocata all’ultimo piano dal caporedattore della contropropaganda – Tek Melamid (padre di Aleksandr, artista della pop-art russa che avrebbe fatto fortuna in America in coppia con Komar). Quando mi fu spiegato di che si trattava, me ne tornai svelta svelta ai piani bassi. Da quell’ufficio usciva la famigerata “dizinformacija”.
Poco dopo il mio ingresso alla TASS, il comitato di partito e il sindacato cominciarono i preparativi per la raccolta delle patate. In era sovietica ogni
fabbrica, ente o scuola era tenuto a dare il proprio contributo per salvare il raccolto di patate, piatto forte (quando non esclusivo) dell’alimentazione patria. I kolchoz le piantavano, le patate, ma non avevano braccia a sufficienza per raccoglierle. E poco importava quanto venisse a costare allo Stato ogni singolo tubero (i “volontari” continuavano a ricevere lo stipendio anche durante il raccolto!). A metà strada tra la barzelletta e la storia vera, c'è la storia di un dottore in scienze che - così si narra - non dimenticava mai di infilare il suo biglietto da visita nel sacco che riempiva.
Nell’elenco di redattori e impiegati il mio nome era tra i primi. Šubnikov, il mio capo, un uomo buono come il pane, si mise subito in allarme, temendo che non ce l’avrei fatta. Provò a chiedere che mi depennassero o mi spostassero all’anno seguente, ma non ci fu nulla da fare. I miei boccoli dorati, il vitino di vespa e la pelle di porcellana davano sui nervi alle burbere matrone del comitato di partito: “Che si rimbocchi le maniche, quella cicala in abiti parigini!”, deliberarono.
Le patate si sarchiavano con la vanga e con le mani, sotto la pioggia e con il sole. Dormivamo in una grande stalla, sulla paglia. La sera tornavamo con le ossa rotte, tanto da non sentire né i morsi delle pulci né quelli della fame. La mia nuova amica, la redattrice Zina Lukovnikova (la nostra "amicizia da tubero" è durata tutta la vita, fino alla sua morte), andava al villaggio a comperarsi del latte, ma io il latte non lo tollero.
Alla faccia delle malelingue, non solo non mi scoraggiai, ma fui, anzi, tra le prime quanto a produttività. Šubnikov gongolava più di me.
La vita a Mosca durante la guerra era dura. Da mangiare c’era poco. Alla TASS ci davano una tessera per pranzare al ristorante Russkaja kuchnja (Cucina russa), in via Gor’kij 10. E chi aveva vecchi e bambini a carico si portava a casa in un barattolo la metà di quel pasto già di per sé misero.
I miei genitori sopravvissero per miracolo al blocco di Leningrado e vennero sfollati in Siberia, a Prokop’evsk. Nell’ospedale militare di quella cittadina lavoravano Asja e il marito Oskar Michajlovič Sorkin, un medico straordinario, che procurarono ai miei un alloggio ac-canto al loro. Mio padre e mia madre si fecero l'orticello, pian piano tornarono in forze e si trovarono un lavoro. Andai da loro alla prima occasione. E vidi con i miei occhi la grande madre Russia…
“Paese mio, come t’hanno ridotto!” mi venne fatto di dire con le parole dolenti della poetessa Zinaida Gippius.
All’epoca mi iscrissi all’allora Partito comunista dei bolscevichi. Ce l’avevano tutti, la tessera (quasi si fosse trattato dell’iscrizione al sindacato) e la presi anch’io: era un riflesso condizionato.
Molto più complicato fu rinunciarvi, quarant’anni dopo. Dal partito non si usciva, l’unica via era l’espulsione.
Non posso fare a meno di ricordare un caso eccezionale, quello di un amico mio e di Lev Razgon, Evgenij Aleksandrovič Gnedin, ex diplomatico ed ex galeotto, che una sera a cena, a Peredelkino, ci confidò un suo sogno.
– Fra poco compio 80 anni. Scrivo una bella letterina - "Signori miei, non condivido il vostro modo di pensare" - la infilo in una busta insieme alla mia tessera di partito e la spedisco al comitato di zona.
Scoppiammo in una sonora risata. Non gli credevamo. Invece la spedì, quella lettera. Non gli accadde nulla: l’era Gorbačëv era ormai alle porte. Tra l’altro, nel 1991 con Ales-sandra Capponi, una mia ex allieva, di Gnedin abbiamo
tradotto le memorie (Uscita dal labirinto, con una prefazione di Sacharov).
La norma voleva che, essendo in procinto di lasciare il paese, io venissi espulsa dal partito. Mi saltò la mosca al naso: dove stava scritto? La mia era stata una richiesta di dimissioni, non di espulsione per colpe mai commesse. Al comitato di partito dell’Unione scrittori erano basiti: ma come, con quarant’anni di anzianità! È una follia! Al comitato di zona mi tennero delle ore in corridoio mentre confabulavano per decidere che fare di quella cocciuta. Alla fine si rassegnarono e andò come volevo che andasse.
Anche un ex galeotto saggio e navigato come Lev Razgon arrivò a capire solo in veneranda età a quale partito eravamo iscritti:
– Se ci pensi bene– sospirava – li abbiamo temuti per tutta la vita, ed erano solo una banda di criminali usurpatori…
Vero è anche che noi della cosiddetta intelligencija creativa non disdegnavamo i privilegi che ci erano riservati: i centri vacanze (ivi compreso Karlovy Vary), il policlinico efficiente, le pubblicazioni… Dunque, in misura e con consapevolezza maggiore o minore, eravamo conniventi con il regime e dobbiamo farci carico di questa responsabilità. Come i nostri colleghi italiani rispetto al Partito nazionale fascista, del resto. Alcuni, come si celiava all’epoca, lo facevano “per necessità familiari”, altri perché credevano fermamente che il fascismo fosse un bene per l’Italia. Una volta caduto Mussolini, nel 1943 l’Italia divenne di colpo un paese di antifascisti. Solo pochi ebbero e hanno il coraggio di ammettere il proprio attimo di annebbiamento. Un esempio sia Indro Montanelli – principe del giornalismo italiano e impavido fondatore, nel 1973, de Il giornale, quotidiano di destra – gambizzato per questo dai brigatisti rossi. O Giorgio Albertazzi, che ha ammesso pubblicamente di aver aderito, giovanissimo e per mal compreso amor di patria, alla Repubblica di Salò, poi condannata dalla storia.
È dunque chiaro che (se non sono diventati dei “post-comunisti”) molti della mia generazione sono degli “ex”: ex comunisti (dopo Budapest, dopo Praga, dopo il crollo del muro di Berlino, dopo la fine ingoriosa dell'URSS) ed ex fascisti. L’essenziale è vedere final-mente chiaro e maturare. Per dirla all’italiana, l’essenziale è togliersi le fette di prosciutto dagli occhi.
…Alla TASS ogni tanto ci davano dei buoni per la banja Sandunovskaja, la sauna, il bagno a vapore pubblico. Come faceva, però, chi aveva la pessima abitudine di lavarsi tutti i giorni?
In piazza Arbat, dove all’epoca c’era un mercato, un giorno comprai un grande bollitore di latta. Lo appendevo pieno d’acqua calda sopra una vasca rimasta a lungo inoperosa, e tiravo la cordicella che avevo attaccato al becco, creando una sorta di “doccia”. Amici e amiche accorrevano a casa mia per lavarsi e si fermavano per il "banchetto" che seguiva.Ogni tanto, con qualcuno di aggio da Prokop’evsk, i miei mi mandavano miglio, miele e burro chiarificato. Per chi non lo sapesse, la kaša dolce di miglio col burro è il vero cibo degli dei!
Quanto all’alloggio, dopo molte traversie ebbi fortuna: una conoscente di Zina – Tat’jana Artamonovna detta Teteška – un’anziana signora resa vedova dal Gulag, mi vendette una delle due stanze di sua pertinenza in un appartamento in coabitazione di una palazzina di vicolo Antip’evskij 4 (proprietà dello Stato, è ovvio), e mi fece ottenere la residenza come sua parente. Le finestre della mia stanza davano sul museo d’arti figurative Puškin. Che strano effetto mi fece, anni dopo, camminare su quel parquet… Costruita nel 1828 dalla principessa Obolenskaja, la palazzina era ormai di pertinenza del museo e vi erano esposti i ritratti della collezione di Svjatoslav Richter. Mi pare ancora di vederla, la mia stanza: il divano su cui dormivo, l’armadio di lato e un po' più giù la scrivania…
Per andarci ad abitare vendetti tutto ciò che avevo: i vestiti, allora introvabili,
valevano oro. Mi tenni giusto lo stretto indispensabile.
Teteška era sola al mondo, spaventata a morte, e mi si affezionò.
Su quello sfondo più che spartano si svolgeva comunque una sorta di vita “mondana”. Tutto cominciò con l’arrivo a Mosca di una conoscente che era stata allieva di mia madre all’Istituto Universitario Hercen di Leningrado: Mary Morton. Era una di quelle ragazze inglesi che, se sono belle, lo sono da far girare la testa: alta, bionda e di una classe impeccabile con la sua camicetta candida e il tailleur blu scuro, sempre lo stesso da che ho memoria di lei.
La famiglia del minatore inglese Morton si era trasferita a Leningrado negli anni Venti rispondendo all’invito che la nota reazionaria lady Astor aveva rivolto agli operai del suo paese: che andassero a vivere qualche tempo in URSS per raccontare, poi, se fosse davvero un paradiso in terra per la classe operaia. Il minatore Morton, accompagnato dalla moglie e dai due figli – Mary e suo fratello –, si vide assegnato un appartamento signorile non lontano dalla Cattedrale di Kazan’ ed elargiti benefici di cui godeva solo la nomenklatura.
Morton non tornò in Inghilterra e di lì a qualche anno morì di tubercolosi cronica. Mary perse il marito, ufficiale di marina, all’inizio della guerra e si arruolò insieme al fratello nella Flotta del Baltico. Anche il fratello rimase ucciso, e Mary e sua madre vennero sfollate con un grosso contingente di leningradesi in Crimea, dove di lì a poco sarebbero arrivati i tedeschi. Speravo tanto che fosse tornata in Inghilterra, ma tutti quelli a cui chiesi conferma scossero la testa: nessuno sapeva dirmi che ne era stato di lei.
A Mosca Mary tornò per incontrare il cognato, Boris Kuznecov, che sarebbe diventato un eminente studioso e storico della scienza. Boris era sposato con Sulamif’ (Mita) Messerer, ballerina del Teatro Bol’šoj e zia della futura étoile
Maja Pliseckaja. Ddunque cominciarono le visite incrociate, le serate in compagnia. Del nostro gruppo facevano parte alcuni attori del Teatro dell’Arte – Janšin, sposato con l’attrice del Teatro zigano Ljalja Čërnaja, Chmelëv…
Qualcuno abitava in via Gor’kij 6, altri vivevano in albergo, al Metropol’.
Di solito ci si vedeva da questi ultimi, l’albergo era riscaldato meglio. Si beveva alcol puro, diluendolo con l’acqua.
Poi al mio orizzonte spuntò Vladimir Jachontov, attore, o come si diceva allora “dicitore”. Fu un gran impertinente: ero seduta in prima fila, e quella sera recitò solo per me. Finito lo spettacolo, ringraziò con qualche inchino, saltò giù dal palco, mi si avvicinò, mi prese per mano e disse:
– Andiamo!
Come se ci conoscessimo da chissà quanto.
Che le donne gli piero era cosa risaputa, e io detesto i donnaioli, eppure rimasi stregata dal suo splendido one-man-theatre e non potei che fargli eco:
– Andiamo…
E andammo. Andammo a eggiare sul lungofiume, tra un ponte e l’altro della Moscova. Mi recitava – e come recitava! – poemi e poesie, atti unici che metteva
insieme lui stesso… Non mi chiese niente, non gli interessava chi fossi. Mi riaccompagnò a casa, mi baciò ossequioso la mano e se ne andò. Quale non fu il mio stupore quando la mattina seguente, uscendo per andare al lavoro, lo trovai accanto all’ingresso, ancora una volta – o forse solo "ancora" – in frac. Di mattina, d’estate! (Scoprii poi che non era stravaganza, la sua, ma pura necessità: non possedeva un abito decente).
Mi accompagnò fino a viale Tverskoj e, baciatami ossequiosamente la mano, se ne andò. Continuò così per una settimana. Dopo di che ci furono altri due incontri: una cena sul tetto del Grand Hotel (poi demolito) e una gita fuori città su un’imponente decappottabile con alla guida un autista che – era palese! – non faceva quel tragitto per la prima volta… ammo anche una serata in casa mia, in vicolo Antip’evskij: fu un dono del destino. Stava preparando un nuovo spettacolo, Che disgrazia l’ingegno di Griboedov, e lo “rodò” davanti a me.
Vladimir Jachontov amava scandalizzare. Un giorno, in aeroporto, mentre aspettava di partire notò un gruppetto di signore vestite sobriamente: scoprì che erano insegnanti di letteratura russa e attaccò discorso.
– Mi immaginavo quelle vestali – mi raccontò – che si sforzavano in ogni maniera di togliere agli allievi il gusto per la poesia. Dunque chiesi loro quale metodo applicassero nelle interrogazioni. Prima gli studenti rispondono alle domande, mi dissero, dopo di che ci fanno un riassunto scritto…
– E come avete affrontato la poesia di Puškin (e la recitò, pronto): “No, non apprezzo il godimento tumultuante, / L’estasi sensuale, la demenza, il furore, / Il gemere, le grida di giovane baccante, / […] Oh, quanto tu più cara, più soave”…
Le vestali si allontanarono di gran carriera, che era appunto quel che voleva il provocatore: sconcertarle, metterle in imbarazzo.
Affinché la sua storia non finisse con il solito ritornello – “Poi lo arrestarono” – Jachontov si suicidò buttandosi dalla finestra.
Andò così. Dall’estero, in tournée, era tornato a Mosca un pianista suo compagno di scuola, che lo cercò e lo invitò in albergo. Jachontov, ovviamente, lo raggiunse. Fu immediatamente convocato si può immaginare dove. Seguirono tentativi di arruolarlo come confidente, minacce…
…In quello stesso 1944 entrai (tardivamente) nella fase dei sentimenti e delle decisioni mature. L’ingegnere militare Michail (Miša) Aršanskij, già citato amico di Lev Kopelev (che nelle sue memorie ne pubblica un ritratto a tutta pagina), mio boyfriend di allora e cavaliere senza macchia e senza paura, beveva ma non reggeva l’alcol: bastavano un paio di bicchieri per fargli perdere ogni sembiante umano.
Di ritorno da un viaggio di lavoro a Londra, mentre scartavo i regali si consolava dicendo: – È per farmi perdonare le mie debolezze, se così si possono chiamare!
Mi aveva portato il tanto desiderato Via col vento di Margareth Mitchell e degli stivali imbottiti di pelliccia, una sciccheria mai vista per le donne sovietiche, che d’inverno si infilavano sopra le scarpe degli orrendi stivali di feltro, i boty.
A proposito di Via col vento, fu la mia collega Tat’jana Alekseevna Ozerskaja, matrigna di Andrej Tarkovskij in quanto seconda moglie del poeta Arsenij, a tradurre in russo quel romanzo che aveva fatto scalpore in tutto il mondo. Per venticinque anni, però, non poté vederlo pubblicato. L’ideologia sovietica, notoriamente “libertaria”, sosteneva che la Mitchell vi avesse idealizzato la schiavitù.
Miša era una persona piena di contraddizioni: il suo carattere debole andava di pari o con un’autentica nobiltà d’animo. Quando Kopelev finì nel Gulag, Miša e un altro loro amico comune – Valentin Levin – scrissero una lettera di malleveria al Comitato Centrale del PCUS. Per ingenuità? No, per obbedienza a due regole auree: “non posso tacere”, e “gli amici si riconoscono nel momento del bisogno”.
Vennero espulsi dal partito, degradati e cacciati dal lavoro; non vennero arrestati, ma le loro sorti furono compromesse per sempre.
Dire a Miša il solito “Amo un altro” fu durissimo, per me. L’unica mia giustificazione fu che non lo illusi, che non finsi, che gli scrissi come stavano davvero le cose. Lui tornò di corsa dal fronte (un’aggravante: lui era in guerra e io, intanto…). Ci chiarimmo su una panchina di viale Tverskoj, con lui che sperava ancora di ricucire… Fu allora che mi meritai la maledizione di Lev Kopelev, spaventato all’idea che Miša si piantasse una pallottola in fronte.
Non so se Lev ne avesse il diritto e se fosse davvero nel giusto, ma con gli anni si addolcì. A guerra finita ci vedevamo spesso con lui e Raja in una dacia a Žukovka, come anche a Peredelkino, dagli Ivanov, e poi, negli anni Ottanta, a casa mia a Milano.
Miša si trovò un’ottima moglie, un dottore in scienze con una bella dacia a Komarovo, nei pressi di Leningrado.
L’“altro” era Saša Dobrovolskij. Aveva dodici anni più di me ed era una persona importante, ma mi corteggiò rincorrendomi come un ragazzino. Facevamo la stessa strada per andare al lavoro - io a piedi da vicolo Antip’evskij a viale
Tverskoj, lui con la macchina di servizio da via Marx e Engels (chissà perché quella stradina scialba con un nome ecclesiastico, Krestovozdviženskij, era stata poi dedicata ai due padri fondatori…) - e mi aveva notato. Non mi ero mai chiesta perché quella “macchina, non un taxi, rallentava il o”⁸, per dirla con Galič, il cantautore. Saša era consapevole che non ero tipo da lasciarsi rimorchiare per strada, quindi rintracciò una comune conoscente, anche lei interprete in Spagna: Ella. E fummo presentati con tutti i crismi.
Il nostro amore fu come un turbine sin dal primo giorno. Non avamo un solo istante libero dai rispettivi impegni senza che ci trovassimo a parlare, a confessarci, a scoprire con entusiasmo stupefatto affinità di gusti e di pensiero: eravamo due anime gemelle. Sbocciammo entrambi, e tutto il resto parve lontano, lontanissimo… Saša mi metteva a parte di scoperte sorprendenti:
– Hai gli occhi come due stelle marroni…
E insieme guardavamo dall’alto e da lontano – oh, sì, da distanze quanto meno siderali – la sfera verdissima che chiamavamo mondo.
La notte tra il 7 e l’8 settembre del 1944 la ai – caso raro – in vicolo Antip’evskij. A-spettavano solo quello: si presentarono in tre, all’alba, con la responsabile di condominio a far da testimone (tutto come si conveniva e secondo la legge) e mi porsero un ordine di perquisizione e di arresto. In corridoio spuntò per un attimo il viso disfatto di Teteška.
– Prenda le sue cose!
– Neanche per idea! Lasciate che parli con chi di dovere, e mi dovrete riportare a
casa seduta stante!
Come no…
⁸ Da Lenočka, canzone di Aleksandr Galič.
8. “Si trovava in condizione di compiere un crimine”
(dal Codice Penale dell’URSS)
Prima di descrivere il giorno del mio debutto alla Lubjanka ho riletto il capitolo “Lasciate ogni speranza o voi che entrate” del Primo cerchio di Solženicyn e mi sono stupita, per l’ennesima volta, della memoria fotografica del grande dissidente e scrittore, della riproduzione fedelissima del susseguirsi di stati d’animo del carcerato.
Con me non sfoderarono tutto l’arsenale come con Volodin: lui era un diplomatico, io un pesce piccolo. Non è nemmeno da escludere che il fatto di avere alle spalle qualcuno che aveva accesso al telefono governativo e aveva parlato personalmente con Berija possa avere influito sulle scelte dei carcerieri. Vero è anche che la risposta di Berija era stata: “Non siamo più nel Trentasette, se l’hanno presa vuol dire che un motivo c’è…”
Dal canto mio non ebbi mai modo di "parlare a chi di dovere".
Quelli che mi facevano entrare in cella e richiudevano la porta alle mie spalle, o che me ne lasciavano uscire per occuparsi del mio primo “trattamento” non erano persone ma automi, “uomini-marionette”, per dirla con Solženicyn.
Non mi fu ordinato di spogliarmi nuda, come a Innokentij, non mi tastarono ogni cucitura degli abiti, non mi guardarono in gola, nel naso, nelle orecchie o nell’orifizio anale in cerca di un indirizzo o di una fiala di veleno, non mi rasarono i capelli e non mi tolsero i vestiti per disinfettarli: continuai a indossare il mio abito grigio perla di gabardin ben stirato. La mia furia – “sono una
cittadina sovietica, che diamine!” – risulta palese dalla fotografia di fronte e di profilo acclusa al mio dossier, ma si stemperò nel corso delle molteplici procedure della carcerazione.
Nella cella di smistamento ci sono uno sgabello e un comodino. Di tanto in tanto tolgono la chiusura che ostruisce lo spioncino. La lampadina da 200 watt acceca.
La porta si apre stridendo.
– Cognome, nome e patronimico, anno e luogo di nascita – chiede un tenente con le mostrine azzurre.
Gli rispondo. La porta si chiude con fragore.
Di lì a poco torna a stridere. Un altro mi fa:
– Cognome, nome…
– Li ho appena detti!
– Cognome, nome…
Alzo la voce, irritata. Imibile, quello annota qualcosa in una scheda,
probabilmente una mia descrizione.
La porta è chiusa. Appoggio la testa sulle mani. Irrompe una donna con i gradi:
– Su la testa!
Dopo un po’ spunta un basso grado in camice grigio.
– Cognome, nome…
Mugugno qualcosa.
– Fuori! Mani dietro la schiena!
Nella stanza dalle pareti color kaki c’è un attrezzo per misurare la statura.
– Può rimettersi le scarpe! Mani dietro la schiena! – e via, di nuovo in cella.
Arriva l'ennesimo funzionario, ma questa volta ha un camice bianco:
– Cognome, nome, patronimico… Prenda le sue cose!
Non ne ho. Mi porta alla doccia, viscida di anni di sporcizia.
Non mi lavo, resto accanto al getto ed esco dallo stanzone. E mi riportano in cella.
Una ragazza con i gradi mi consegna una ricevuta: in data 8 settembre del 1944 Ju.A. Bril’ consegna alla prigione interna del ministero per la Sicurezza dell’URSS un orologio, un notes, una penna, un portacipria, un pettine, tot rubli…
– Fuori senza roba!
Un ufficio con le tende tirate, scrivanie e poltrone. Mi fanno sedere in mezzo alla stanza e accendono le luci sui due lati: mi fotografano.
A quel punto chi mi ha accompagnato prende le dita della mia mano destra e, uno per volta, le a su un cuscinetto impregnato di inchiostro nero; me le fa allargare, le preme su un modulo e poi le stacca bruscamente: restano cinque impronte nere. Stessa procedura con la sinistra.
– Si lavi le mani, quello è il rubinetto!
L’inchiostro-catrame non va via.
Sul modulo, sotto le impronte digitali, c’è una scritta: “da conservarsi in eterno”. In eterno! Torno in cella. E tutto ricomincia. Lo spioncino, lo stridore e la solita ingiunzione:
– Cognome… Prenda la sua roba. Fuori!
E mi accompagna via, schioccando la lingua di tanto in tanto. Intuisco che è un modo per evitare che gli arrestati si incontrino.
– Faccia al muro!
A un certo punto mi spintona in una garitta di compensato verde e mi ci fa restare fino a che un altro prigioniero non è ato.
Corridoi, scale, porte, porte, porte… La mia porta, finalmente. Il tizio fa tintinnare la chiave e mi fa entrare in una cella a due posti. Su una branda è seduta una giovane donna dal volto esangue.
– Prima della ritirata non ci si può sdraiare! – è l’ultimo ordine che sento prima che la porta sbatta. Lo spioncino rimane aperto qualche altro secondo. Poi si chiude.
È quel che ricordo (e che non dimenticherò mai).
A colpire il Volodin di Solženicyn furono i gradini consumati: “Quanti piedi,
quante volte dovevano essere ati qua sopra per consumare così la pietra” dice. A me rimase impressa la sincronia di quelle migliaia di persone, di quella micidiale catena di montaggio. Quanto durò il mio primo giorno? Molto, forse quarantott’ore.
Poi la rabbia si dissolse e restò una stanchezza infinita. E per quanto strano (sciocca che ero!) non dubitai per un solo istante che tutto si sarebbe chiarito e quella stessa ZIM blu mi avrebbe riportato a casa.
– Mi chiamo Neddy, Nadežda Neugebauer – si presentò la mia compagna di cella.
E incominciò subito a istruirmi su come dormire, come mangiare, come uscire per l’ora d’aria, come tingermi le labbra con un pezzetto di barbabietola pescato nella sbobba, come aggiustare le calze con una lisca di pesce usata a mo' di ago. Era un'esperta, lei, che era stata arrestata il 22 giugno del 1941. Per una qualche ragione, invece, non si era ancora abituata agli interrogatori. Quella stessa sera, quando la mandarono a chiamare dopo la ritirata, si tirò su le calze di seta, sottilissime, con le mani che le tremavano; non riusciva nemmeno a infilare il piede nelle scarpe (di vernice). Poi sfilò da sotto il materasso la gonna “stirata”, se la mise e si fece un impercettibile segno di croce.
Alla fine avevo davanti una trentenne alta, snella e ancora piacente. Che metamorfosi!
In un anno tra lager e prigione ebbi modo di osservare i detenuti.
Eccezion fatta per i delinquenti comuni, gli altri erano sovietici normali, persone
di vario valore, ma tutte innocenti. Neddy Neugebauer era l’unica a cui si addiceva un’accusa di spionaggio. Da quel che mi disse seppi che era figlia di una coppia di emigrati bianchi, che aveva frequentato il ginnasio russo a Praga, che aveva sposato il tedesco Neuge-bauer e che con lui se n’era andata in Germania.
Alla vigilia della guerra avevano deciso di trasferirsi in URSS eavevano ottenuto il visto. Speravano di sistemarsi a Mosca, invece venne loro vietato di risiedere nelle grandi città e si ritrovarono nella sperduta Arzamas, dove trovarono lavoro in una fabbrica di giocattoli. Il marito aveva le mani d’oro e trasformò la stamberga in cui vivevano in una villetta con tutte le comodità. Poi scoppiò la guerra e finirono entrambi in prigione.
In lager mi aprirono gli occhi (da sola non ci sarei arrivata): Neddy era una “chioccia”, un’infiltrata, una "talpa", insomma. Dunque tutto quel che ci eravamo dette in cella era stato da lei riferito all’inquirente. O forse no, soprattutto sul finire.
Intanto Saša si tormentava, in preda alla disperazione. Berija era stato drastico e Teteška gli aveva riferito che mi avevano portata via così com’ero, senza abiti pesanti. Dunque doveva trovare il modo di farmeli avere e, dato che solo i parenti più stretti potevano portare pacchi ai detenuti, scrisse a mia madre per farla venire a Mosca da Prokop’evsk (e sarebbe stato un lungo viaggio) mentre lui metteva insieme un pacco e si precipitava da Ella.
– Conosco un vecchietto che glielo può far avere – gli disse lei, che poi lo rassicurò ulteriormente: il pacco era giunto a destinazione.
Saša, però, era un’anima in pena, e un giorno si presentò senza preavviso nello scantinato ammuffito in cui viveva Ella. Entrò e restò di stucco: il contenuto del
mio pacco era sparpagliato per la stanza.
Non c’è bisogno di aggiungere che da quel giorno Ella smise di esistere, per noi. Non era una cattiva persona e mi voleva bene, ma era sola e senza mezzi, e il diavolo ci aveva messo lo zampino. Mi dispiace non averla perdonata. Sembrava avere una vita ben avviata, Ella: aveva sposato un noto studioso e aveva tirato su due bravi ragazzi, un maschio e una femmina. Ma poi, un giorno, si tagliò le vene…
Non conosco la vera causa del suo gesto. Ma avrei dovuto perdonarla comunque e andare a dirglielo di persona.
Ma torniamo in cella. Non subito, di lì a qualche giorno – quella era la tattica – il giudice istruttore mi mandò a chiamare. Era il maggiore Kovalenko, un tipo segaligno di mezza età che urlava e imprecava a tutto andare, ma che con me – eccezion fatta per qualche scatto d’ira – fu abbastanza corretto. Mi ufficializzò un’accusa di alto tradimento ex articolo 58-1a: la pena prevista era la fucilazione o quindici anni di lager a regime speciale. E il tira e molla ebbe inizio.
Per poter stilare un verbale gli toccava trattenermi qualche ora.
Ogni volta cercava blandamente di persuadermi a confessare, ma poi di punto in bianco cominciava a strillare e a battere i pugni sul tavolo. Uno dei tanti interrogatori lo dedicò al mio “contatto” con un militare americano. Quel contatto c’era effettivamente stato. Dalla TASS stavo andando a mangiare alla Russkaja kuchnja, quando all’angolo tra viale Tverskoj e via Gor’kij venni fermata da un soldato americano sui vent’anni, un coetaneo di mio fratello Lev. Mi chiese come arrivare non ricordo più in quale vicolo. Prima di me si era rivolto ad altri anti, che però non lo capivano; avendo ottenuto una risposta circostanziata, ne era stato felice e si era profuso in ringraziamenti.
Di ritorno dal pranzo, raccontai del soldatino ai miei colleghi: il fratello del gran capo del popolo ungherese Rakoši, mio dirimpettaio di scrivania, e l’intelligente e professionale Zina J. Io e Zina avremmo persino potuto diventare amiche, se non fosse stato per una caratteristica che lei stessa si riconosceva: era un’invidiosa cronica.
– Smettila, altrimenti crepo d’invidia – mi interrompeva spesso.
Fu uno di loro due – o di propria sponte, o sotto pressione – a riferire dei miei pericolosi legami americani.
Dopo circa un mese Kovalenko ò l’incarico al suo vice, un piccolo tenente strabico che prima di mettersi al servizio della polizia segreta si era laureato in storia all’Università di Mosca (come tenne a farmi sapere durante il primo interrogatorio) e che aveva una gran voglia di chiacchierare di cose che con l’istruttoria non c’entravano.
Era la consuetudine: la polizia segreta sceglieva i migliori laureati di ogni facoltà attirandoli con un ottimo stipendio e con il “côté romantico” della professione cekistica. Me lo confermò anche Senja, che con una laurea da ingegnere ferroviario ebbe due offerte di lavoro: dalla polizia segreta e dall’istituto per diplomatici.
Scelse il secondo.
Io e lo Strabico, dunque, avamo ore e ore a conversare amabilmente.
Quando sentiva che Kovalenko stava entrando nel suo ufficio oltre la parete, il tenente scattava in piedi e cominciava a urlare in modo del tutto innaturale, a dire il vero: “Se punti i piedi è peggio per te! Farai meglio a confessare!”, e altre amenità del genere.
Non appena la porta dell’ufficio accanto si chiudeva, il tenente riattaccava come se niente fosse stato:
– Dov’eravamo rimasti? – riprendeva.
L’inchiesta si arenò. Kovalenko non riusciva a racimolare nemmeno una parvenza di accusa e ò alle maniere forti: per vedere se mettevo giudizio mi mandò alla prigione militare di Lefortovo.
Quando ci salutammo, Neddy pianse. Non solo perché con i pacchi di Saša – il companatico della “razione” settimanale del Comitato centrale su cui campavano intere famiglie della nomenklatura – si era rimpolpata e aveva ripreso colore, ma anche perché con me stava bene e canticchiava felice e contenta la poesiola che avevo composto per il suo compleanno. Prima degli interrogatori, però, tremava più che mai. Evidentemente Kovalenko cercava in ogni maniera di strapparle le deposizioni che gli servivano contro di me, ma lei, per la prima volta nella sua sciagurata vita di “chioccia”, si ostinava a tacere. Non so se e quanto abbia danneggiato altre persone: io non posso dire nulla di male sul suo conto.
La prigione di Lefortovo era una bara di ferro e di pietra. Una prigione a regime severissimo. Mi toccarono altri tre mesi di interrogatori senza senso né costrutto, pesanti soprattutto di notte. Qualcosa avevo imparato: ora i verbali li leggevo per bene, non come prima, che mi limitavo a scorrerli. Sapevo che potevano infilarci
di tutto.
Alla fine mi chiamarono per firmare il “201”, la presa visione dell’inchiesta ormai conclusa e delle deposizioni dei testimoni. Non tutte, è ovvio: la pratica non conteneva la denuncia a mio carico firmata da un amico di Miša, noto scrittore per ragazzi nonché delatore. C’era, invece, un lungo panegirico di Miša Aršanskij.
Quando lessi: “per non aver commesso il fatto, ma conto tenuto che si trovava in condizione di poterlo commettere, le si fa carico dell’articolo 7 comma 35” (da 3 a 5 anni di lager), mi si annebbiò la vista. Stupida! E io che speravo ancora nella ZIM! Per la seconda volta in vita mia pronunciai un discorso infuocato. La prima volta era stato all’università, in difesa di Miron, la seconda fu un’arringa d’accusa.
Quando si firmava il “201” doveva essere presente il procuratore della sorveglianza, che nel mio caso - il procuratore Nikitin - aveva presenziato senza fiatare anche a qualche interrogatorio; solo una volta mi fece rilevare quanto fosse stato umano nel permettere che mi consegnassero gli ottimi stivali di feltro e pelle, i burki, che Saša aveva fatto fare per me. Rimase in un angolo ad ascoltare la mia filippica, allungando di tanto in tanto una mano come a dire “calma, alt”.
– Chi vi ha dato il diritto, chi vi ha autorizzato a trasformare delle persone normali in anti-sovietici? – esplosi. – Verrà il giorno in cui dovrete risponderne al popolo!
Soddisfatto di aver portato a termine quella pratica barbosa, Kovalenko mi interruppe:
– Ma perché si scalda tanto? Tre anni voleranno! Vedrà che ci rincontreremo davanti a una tazza di tè!
– Io con lei non lo voglio bere, il tè. E non voglio nemmeno respirare la sua stessa aria!
– Basta così! Mani dietro la schiena – e mi fece portare via.
All'udire la condanna Šuročka Vostrecova, la mia compagna di cella, mi saltò al collo:
– Che fortuna! Capitasse a me…
Šuročka era stata scalognata: doveva una condanna ex articolo 58 comma 10 (dieci anni di lager) a una barzelletta, e se la prendeva con la sorte:
– Che cosa m’è toccato di buono, nella vita? Sempre a fare la segretaria, sempre al servizio incondizionato e completo dell’ennesimo superiore!
Fui prelevata il giorno seguente:
– Fuori con la roba!
E via, sulla Marusja – il cellulare – fino a Butyrki, in una grande cella in cui le detenute erano stipate come sardine. Di notte, sui pancacci, ci si poteva girare solo all’unisono. A Butyrki incontrai una redattrice della TASS che conoscevo, la Račinskaja: indossava una pelliccia con una toppa di mezzo metro di lenzuolo sulla schiena. Era allo stremo, una dochodjaga, una cadavere ambulante. E scambiai qualche parola con le figlie di due celebri comandanti: Svetlana, figlia di Tuchačevskij, e Mirra, figlia di Uborevič. Erano maggiorenni, figlie di nemici del popolo e dunque pronte per la galera. Svetlana e Mirra furono mandate a Chovrino, ma di lì a un paio di settimane i capi ci ripensarono: due cognomi tanto altisonanti non dovevano risuonare così vicino a Mosca. Dunque le ragazze vennero spedite in capo al mondo. Svetlana si salvò come da copione: sposò un vertuchaj, una guardia del lager. Una volta libera se lo portò a Mosca, lo rese padre, lo sopportò, ma una bestia resta sempre una bestia: il marito morì alcolizzato.
Andai a trovarla, a Mosca. Era amica della mia “matrigna” (donna tenerissima e anche lei “vedova del Gulag” - il marito aveva prestato servizio con Tuchačevskij -, Lidija Ivanovna Kulešova rese più dolci gli ultimi anni di vita di mio padre).
Qualche giorno dopo toccò anche a me:
– Con la roba!
Mi portarono nella cella in cui si attendeva la sentenza. C’erano già altre detenute. Ma non c'era niente su cui sedersi. Rimanemmo in piedi per ore. C’era una signora magrissima, l’anziana vedova del primo ministro della Federazione russa Sulimov – fucilato –; e c’era una giovane armena loquace con un grosso naso, Svetlana Taptapova, che si vantava di avere un aggancio – un’altra armena – al Soviet supremo.
Fui tanto sprovveduta da chiederle se sapesse se la guerra era finita, e lei mi rovesciò addosso un profluvio di informazioni inventate di sana pianta, come avrei scoperto più tardi. Bugiarda cronica, Svetlana "confessava" di tutto con grande disinvoltura e soddisfazione, e fece intendere all’inquirente di aver nascosto delle armi sotto il pavimento di casa. Glielo rivoltarono senza trovare niente, tirarono giù qualche moccolo e non fecero più caso alle sue rivelazioni. All’inizio degli anni Settanta io e Senja la incontrammo a un concerto al Circolo degli scienziati; era col marito, il professor Lunz, noto carnefice di dissidenti nell’Istituto di psichiatria Serbskij. La dissidenza era una malattia della psiche e come tale andava curata: era questa, la sua teoria.
Un giorno portarono una ragazza alta e bionda: era Nina Ermakova, coimputata della Taptapova e del figlio della Sulimova. Quella compagnia di universitari – che comprendeva alcuni figli adolescenti di “nemici del popolo” (come la Ermakova, figlia di un grosso dirigente d’azienda ato per le armi, oppure Lena Bubnova, figlia del ministro della Pubblica istruzione, fucilato anche lui) finì agli arresti con un'accusa di terrorismo perché erano soliti incontrarsi a casa di Nina, al 48 di quella via Arbat dove ava Stalin diretto al Cremlino. E anche se durante l’inchiesta si scoprì che tutte le finestre di casa Ermakov davano sul cortile, li incastrarono comunque con l’accusa di aver cantato le lodi di film americani. Nel 1944 l’allora fidanzato di Nina e futuro sceneggiatore Valerij Frid e il suo amico e coautore Julij Dunskij (destinati a diventare assai famosi) erano allievi dell’Istituto di cinematografia. Si fecero tutti e due dieci anni a Intà. Il lager minò la salute di Julij che, tormentato dall’asma e non solo, alla fine si sparò.
Un giorno la porta cigolò e, con un foglio in mano, entrò il segretario della trojka, il tribunale speciale che processava in contumacia. Io, Nina e Svetlana Taptapova fummo condannate a tre anni di lager.
Non restammo a lungo nella prigione di Butyrki.
– Fuori con la roba! – e su un camion (“Sul cassone e non sporgetevi!”) ci fecero attraversare la città fino a Chovrino (che ora è periferia di Mosca) e al suo complesso metallurgico: il lager.
Pur senza sporgermi sentii con le viscere che fuori del furgone la vita continuava, che fuori del furgone c'era una città, c'erano uomini, donne e bambini, c'era la libertà. Una sensazione paragonabile solo all’amara dolcezza che provavo quando, alla Lubjanka, mi portavano sul tetto (nel terrazzo recintato) per l’ora d’aria: dal basso giungevano i rumori di Mosca, i clacson delle macchine e, ogni tanto, persino una voce umana…
9. Arbeit macht frei
La scritta che sovrastava l’ingresso ai campi di concentramento nazisti (Arbeit macht frei
– Il lavoro rende liberi) era l’immagine speculare dei Campi di lavoro correzionale sovietici: se lavorerai (gratis, per puro amore verso la patria sovietica), se ti redimerai, sarai liberato. Nel frattempo però, crepi di fame, freddo e fatica, è quasi scontato. Sopravvivere è solo una questione di fortuna.
Una baracca fetida, una giacca e un paio di pantaloni imbottiti e incredibilmente luridi e sono una zek fatta e calzata. Quando si tratta di distribuire il lavoro io e Nina finiamo a costruire la banja, o più esattamente allo sterro. Il nostro compito è trasportare cinquantasessanta chili di calcestruzzo per volta. Davanti c’è Nina – una sportiva, tra le migliori della facoltà di matematica (avreste dovuto vederla fare il ponte!) – e dietro io, mogia, con le dita intirizzite che afferrano spasmodicamente i manici.
Puntuale come un orologio, mia madre continuava a spedirmi i pacchi con le razioni del Comitato centrale, dunque io e Nina avevamo di che sfamarci. Un giorno Zina Lukovnikova ci portò i pirožki, delle focaccine ripiene. Ricordo che ne misi in bocca subito uno al tavolo della distribuzione e ammutolii: avevo appena addentato un biglietto…
Di lì a poco mi concessero una visita: era Saša. A Berija aveva detto che ero sua moglie. Durante l’inchiesta, quando a me avevano domandato chi fosse lui, io avevo risposto: “Un buon conoscente”. Ma eravamo stati spiati ed era inutile mentire. Berija, tra l’altro, lo disse chiaramente a Saša:
– Trovati una sposa più adatta!
– L’ho già trovata – tagliò corto lui, che si presentò a Chovrino per chiedere formalmente la mia mano.
– Non è il caso, Saša mio… – cercai di dissuaderlo. – La mia vita è rovinata, perché vuoi rovinare anche la tua?
– Ma che rovinata e rovinata! Fra tre anni ce ne andremo da qualche parte in Siberia a piantare patate! Ce la caveremo, vedrai…
Per sua fortuna, il ministro con il quale Saša lavorava era una brava persona, altrimenti i guai sarebbero cominciati molto prima. Boris L’vovič Vannikov – ministro agli armamenti per il quale Saša gestiva decine di grandi fabbriche dell’industria ottica – era finito in gale-ra anche lui. Stalin lo aveva tirato fuori all’inizio della guerra facendolo portare al Cremlino, una notte, direttamente dalla Lubjanka. Barba rasata, taglio di capelli comme il faut, vestito decente: dalla sera alla mattina Vannikov tornò quello di un tempo. Ma quando, il giorno dopo, Stalin gli telefonò a casa (i Vannikov vivevano al piano di sotto rispetto a Saša, in via Marx ed Engels) e, calcando sul suo accento georgiano, gli disse:
– Domani, compagno, le tocca tornare al lavoro! – Vannikov si rifiutò:
– Non posso, Iosif Vissarionovič, non sto bene.
– Sentitelo – obiettò Stalin. – Qualche giorno di galera e non sta bene!. Guardi che ci sono stato anche io, in prigione!
– Lei, però, c’è stato quando c’era lo zar. A me, invece, m’han messo dentro i compagni! Alla fine si presentò al lavoro. Il giorno seguente, ma tornò...
Vannikov non dimenticò mai che, al momento dell’arresto, una sola persona in tutto il ministero si era rifiutata di firmare le accuse fasulle a suo carico. Quella peprsona era Aleksandr Dobrovolskij. Fu lui, Vannikov, nel giardino della sua dacia sontuosa e lontano da quei muri che – si sa – avevano orecchie, a rivelarci un atroce segreto: a Birobidžan stavano tirando su delle baracche per gli ebrei. Se il 5 marzo del 1953 Stalin non avesse tirato le cuoia, gli ebrei sovietici sarebbero stati dati in pasto alle zanzare ed esposti a 50 gradi sotto zero come gli ingusci e i ceceni.
Razgon amava ripetere che, sulla piazza di fronte al Municipio di Mosca, invece del monumento a Jurij Dolgorukij – che non si è ancora capito se l’avesse fondata o distrutta, Mosca – avrebbe dovuto ergersi un monumento ad Aleksandr Dobrovolskij. Fu davvero una mosca bianca, in quegli anni vili. Il suo curriculum non ha nulla di eccezionale: nato a Odessa in una famiglia modesta, andò a studiare a Mosca e si laureò in ingegneria ottica. Aveva capacità organizzative eccezionali. Era un top-manager, si direbbe oggi.
…Di lì a un mese la fortuna mi arrise: la fabbrica di Chovrino ricevette una piccola centrale elettrica americana e c’era urgenza di tradurre le istruzioni. Dunque mi tolsero dallo sterro e mi trasferirono in un ufficio a tradurre. Voleva dire tornare ad avere un sembiante umano, togliersi la giubba sudicia, lavarsi, rimettersi i propri vestiti.
L’occhio esperto del sarto Smirnov, che prima di unirsi ai galeotti aveva dettato
legge quanto alla moda maschile della capitale dal suo regno nella sartoria del ministero degli Esteri, notò subito il mio cappottino se. Mi si avvicinò, tastò il tessuto e schioccò la lingua:
– Bellissimo lavoro!
Il celeberrimo sarto di un tempo serviva ora il capo del lager Momulov e i suoi accoliti. Fra le sue incombenze c'era anche quella di cucire i palloni di cuoio per l’orso che intratteneva gli ospiti di Momulov prima degli spettacoli dei detenuti. Il cast vantava cantanti, attori, ballerini e circensi di entrambi i sessi, tutti professionisti altamente qualificati che Momulov si premurava di accaparrarsi fra le celebrità arrestate a Mosca. Ma aveva un asso nella manica: suo fratello era il vice di Berija, quindi la troupe di Chovrino veniva rimpinguata continuamente dai migliori talenti sulla piazza.
Ma torniamo al manuale di istruzioni. Un bel giorno mi consegnarono il ponderoso volume delle istruzioni e un dizionario inglese-russo e mi ordinarono: traduci! Facile a dirsi: io di tecnica non capivo un’acca. Per fortuna la brava gente non manca mai. In lager, ai lavori comuni, c’era anche un certo ingegner Dikan’skij, un tipo strano e trasandato all’inverosimile che, quando tutti approfittavano dell’intervallo tra la fine del lavoro e la cena per lavarsi e grattarsi via almeno il primo strato di sporco, si arrampicava sul suo pancaccio e leggeva. E da bravo papà rimproverava me e Nina che perdevamo tempo con inutili abluzioni.
Il bibliomane Dikan’skij mi salvò la vita. Letteralmente. Fu solo grazie a lui che cominciai a tradurre quelle benedette istruzioni dall’americano in un russo incerto, poco convinta che con la mia versione la centrale elettrica avrebbe mai potuto funzionare. E se così non fosse stato, avrei fatto sicuramente una brutta fine.
Mentre Dikan’skij divorava un libro dietro l’altro, Nina (che nel frattempo era stata nominata disegnatrice) correva a incontrare Mark, un “terrorista” suo pari. Aveva diciannove anni, Nina… Alla fine la stazione elettrica si mise in moto. Ma se da una parte era una gioia, dall'altra voleva dire che il mio lavoro “pulito” in ufficio aveva ormai i giorni contati.
La fortuna mi girò le spalle e, finii in un reparto con a capo un ex detenuto in carriera: quanto di peggio si possa immaginare. Per rimettermi in riga “intellettuale dei miei stivali che non sei altro” - il sadico si inventò un lavoretto semplice semplice, ma insostenibile. Non era nemmeno un lavoro. Era piuttosto una vessazione senza senso: dovevo tirare un’asta in un quaderno ogni volta che la macchina sputava un componente finito. E non c'era modo di distrarsi: a fine giornata il suddetto incaricava qualcuno di verificare il numero di pezzi finiti e quello delle mie aste. “Lavoravo” nel turno di notte, e di giorno non riuscivo a chiudere occhio. Stremata, smisi praticamente di dormire. Sarebbe finita male, molto male, se per una qualche perturbazione amministrativa non fossi stata spostata alla galvanizzazione, a lucidare i pezzi in nichel delle automobili. Fetido e senza ventilazione, quel reparto mi parve il paradiso.
A quell’occupazione mi trovò intenta, mentre andava nello sgabuzzino del caporeparto, l’ingegnere Michajlov, un consulente di Mosca. Che Dio lo protegga se è ancora vivo, o che gli conceda la pace eterna se è morto! Chiese informazioni sul mio conto, dopo di che pregò il caporeparto di cedermi a lui adducendo a pretesto una montagna di testi in se che dovevano essere tradotti. Serva della gleba che ero, venni dunque ceduta a lui, e per lui mi misi all’opera, a tradurre articoli di ogni sorta tratti da riviste scientifiche si. È molto probabile che a Michajlov le mie traduzioni servissero meno di niente, e che la sua sia stata solo e soltanto un’opera buona, buonissima.
Per non tradire lui e me stessa, feci finta di non rendermene conto e sgobbai indefessamente fino al mio ultimo giorno di lager, che venne nell’agosto del 1945 con l’amnistia concessa in seguito alla vittoria sugli occupanti nazisti.
L’amnistia era estesa ai detenuti con una pena non superiore a tre anni, e io e Nina vi rientravamo perfettamente. Quell’estate pareva non avere mai fine, ma alla fine ò.
– Prendi la roba che esci! – mi ordinarono una calda mattina di agosto.
– Vai, vai, e non dimenticarti di chiamare i miei! – mi ripetevano a destra e a manca, e per farlo avevo imparato a memoria un'infinità di numeri di telefono.
Tutte cercavano di toccarmi, anche quelle che non conoscevo. Perché se tocchi qualcuno che ha fortuna, ne avrai anche tu. Nel 1980, nell’intervallo di un concerto al Conservatorio, mi avrebbe chiesto il permesso di toccarmi anche Irina Emel’janova, figlia dell’Ivinskaja (la Lara del Dottor Živago): dopo venticinque anni di divieti avevo ricevuto il visto per l’Italia. …Dunque esco…
Corro verso l’uscita, per la prima volta sola e senza sorveglianti, presento il i, supero di corsa la guardiola… E trovo Saša accanto a una ZIL nera che luccica al sole. Mi prende tra le braccia e non mi lascia più.
– Via di qui, presto! – quasi lo supplico.
So che ci stanno spiando dalle crepe della recinzione: le disgraziate rimaste dentro ne hanno di strada da fare, ancora…
Nina (l’avrebbero rilasciata il mese dopo) mi raccontò che molte avevano pianto, commosse da quel lieto fine e con lo strazio nel cuore.
10. Dal lager di Chovrino a quello pansovietico
Via, via di qui, presto, a casa! Casa: che parola straordinaria… Ci teniamo per mano e Saša sprona l’autista che già sta pigiando sull’acceleratore... Anche lui è su di giri.
A casa trovo fiori di tutti i colori, le dimensioni e i profumi, fiori sui tavoli, sui davanzali, sul pavimento, ovunque…
Ma sta succedendo proprio a me? Un pizzicotto, datemi un pizzicotto!...
Saša chiama in ufficio, al ministero, e dice che quel giorno non ci andrà.
Poi il vuoto. Evidentemente la memoria è congegnata in modo tale da non serbare traccia di ciò che va sotto il nome di felicità.
La prima cosa che affiora dalle stratificazioni remote della mia coscienza di allora è l’Ufficio dell’anagrafe, una stanzetta anonima del soviet di quartiere.
Tra quei quattro muri spogli si svolse una procedura stringata. All’epoca il matrimonio non era ancora un rituale; l’officiante con il nastro a tracolla, il corteo nuziale dietro a un’auto nera presa a noleggio, i palloncini sul cofano e il putto sul radiatore, nonché l’apoteosi – la visita alla tomba del Milite ignoto – vennero dopo, sono tradizioni sovietiche nate a tavolino. Non avevamo ancora esaurito gli argomenti, avevamo tanto da dirci, ma bisognava pensare al futuro. Non c’era tempo da perdere: di lì a poco Saša sarebbe dovuto partire per un
viaggio di lavoro in Germania e non poteva lasciarmi da sola e senza le carte in regola.
Con l’attestato di scarcerazione mi spettava il “meno sedici”, ossia il divieto di risiedere nelle sedici maggiori città dell’URSS.
Andammo al commissariato di polizia di zona. Ci accolse il capo, un anziano burbero con la divisa consunta. Notai che aveva gli occhi buoni. Possibile? Un gendarme con gli occhi buoni?
Ci guardò: eravamo ovviamente tesi, ma – c’era poco da nascondere – raggianti. Ci guardò a lungo, soprappensiero; girò e rigirò tra le mani il mio attestato e mugugnò:
– Due fotografie ce le avete?
– A casa sì.
– Andate a prenderle.
Poi diede un’occhiata all’orologio che aveva sul muro, del tipo di quelli che si tengono in cucina, e aggiunse:
– Veloci. Mancano quaranta minuti alla chiusura.
Ci precipitammo a casa. Avevo il cuore in gola: e se me l’ero sognato, di avere delle fotografie? Per fortuna le trovai e via, tornammo indietro di corsa. Ci restava ancora qualche minuto. Il burbero buono non ci cacciò, ci fece accomodare nel suo ufficio, telefonò a qualcuno e lo sentimmo dettare gli estremi della mia carta d’identità.
Il documento che strinsi in pugno di lì a qualche momento era immacolato, tale e quale a prima che mi arrestassero.
Era accaduto tutto così in fretta che non ringraziammo con il dovuto trasporto il nostro benefattore. Del resto, come si fa a ringraziare per un miracolo?
Qualche giorno dopo Saša partì: andò a smontare e spedire in URSS il colosso ottico tedesco Zeiss ICON. Lui che era un civile, per l’occasione dovette indossare l’uniforme: lo fecero generale. Alto e prestante com’era, la divisa gli donava moltissimo.
La generalessa (io) rimase sola nel suo grande appartamento vuoto da scapolo (mia madre era tornata a Prokop’evsk a sistemare le sue cose).
In casa non c’era nemmeno una scrivania. Però – che lusso! – tra il soggiorno e la camera da letto c'era una porta a specchio che dava l’impressione di entrare in un armadio. La nomenklatura di allora aveva un debole per quel tipo di porte, e anche Saša aveva pagato pegno.
COn i mobili in noce che riportò dalla Germania (una scrivania, alcune librerie e
qualcos'altro ancora) non ci mancò più nulla. Con le mie mise tedesche, su quel nuovo sfondo avevo un’aria decisamente borghese.
La cantante Julia Šklovskaja – zia di Nina Bejlina e amica di mia madre – si preoccupò persino:
– Cos’è, vuoi farti mantenere da tuo marito in eterno?
No. Certo che no. E non lo voleva nemmeno Saša. Ma come faceva un avanzo di galera quale ero a trovare lavoro? Per qualche tempo, dunque, rimasi nella mia gabbia dorata, a fare la signora e a sfoggiare abiti nuovi. A chi gli chiedeva quale fosse stato il criterio di scelta delle mie mise Saša rispondeva:
– È semplice. Nelle boutique mi davano una rivista di moda e io sceglievo i vestiti delle ragazze più carine!
E a questo punto ho un altro vuoto di memoria…
Non potrò mai dimenticare, invece, l’episodio seguente.
Un giorno squilla il telefono:
– Sono la segretaria del colonnello Momulov. Glielo o.
Rimango di sale. Il primo pensiero è che quando Saša tornerà non scoprirà mai che cosa mi è successo e dove sono finita. Non mi a nemmeno per la testa che Momulov non ha più alcun potere su di me.
– Salve! Come sta? – segue, appena smussato, nel tono di comando che ben conoscevo e che non ammetteva repliche. – Ho una cosa da chiederle. i da noi domani verso le undici!
È finita. Peccato, è durata davvero poco.
Che avrà da chiedermi? Mi spremo le meningi, non ci dormo la notte. Mi alzo all’alba e penso a che cosa portare con me nel caso in cui… Dio mio, Dio mio, perché succede di nuovo?
Dalla stazione ferroviaria di Chovrino al lager c'è un quarto d’ora a piedi. E lo uso per congedarmi da quanto incontro: addio alberi, addio cielo azzurro, addio uccelli, addio… Com’è bella la vita, se si è liberi!… Il cielo non era mai stato tanto blu, né il cinguettio degli uccelli era mai stato tanto insistente e squillante…
Sul viso della segretaria è stampato un sorriso (figurarsi, ne era davvero capace?!). Quando mi vede Momulov si alza da dietro la scrivania e mi stringe la mano, galante: non avrei mai sospettato che fosse capace di tanto. Mi fa accomodare di fronte a sé e viene subito al dunque:
– Il lager di Chovrino verrà spostato, a giorni arriveranno qui i prigionieri tedeschi e ci serve un interprete. Per l’assunzione e la secretazione ci vuole un sacco di tempo, mentre lei (e qui sorride malizioso) è già dei nostri, dunque
potrebbe mettersi subito all'opera
Già, io ero già “secretata”. Meglio di così…
Pensa Ju, pensa, trova una via di scampo, altrimenti sei spacciata…
Avevo notato da tempo che, pur mancando di spirito di iniziativa, in situazioni estreme mi mettevo in moto. Dunque gli faccio una contro-proposta:
– A cosa le servo, io, quando tra i suoi detenuti c’è l’ingegner Dikan’skij, che conosce perfettamente il tedesco?
– Davvero? – Momulov preme un pulsante. Entra la segretaria: – Vedi un po’ se abbiamo un certo Dikan’skij (leggasi: vedi se è ancora vivo).
Segue qualche minuto di conversazione mondana: che cosa danno al Bol’šoj, non è che sono stata allo stadio a vedere Dinamo-Spartak…
La segretaria si affaccia sulla porta dell’ufficio e gli riferisce che sì, hanno ancora un Dikan’skij. Scampato pericolo. Non mi sarei stupita di ritrovarmi completamente bianca di capelli, in quelle ventiquattr’ore…
Deciso a fare il galante fino in fondo, Momulov ordina al suo autista di riaccompagnarmi a casa. Sulla via del ritorno traggo due conclusioni. La prima è che, senza volerlo, c’è scappata un’opera buona: il bibliomane Dikan’skij – che
teneva la vita coi denti – non sarebbe crepato a cinquanta gradi sotto zero a Vorkutà.
La seconda, che dovevo fare come diceva Čechov e scrollarmi di dosso lo schiavo che avevo in me. Alberi, cielo, uccelli: siete miei, ho pieno diritto su di voi. E che diamine!… Quei giorni mi venne a trovare un ragazzo di Chovrino, uno dei salariati, che mi portò un biglietto di Nina. Le preparai un pacco con cognizione di causa: sapevo bene che cosa metterci. Di lì a poco venne rilasciata anche lei.
Nina, purtroppo, non trovò un poliziotto che assecondasse un moto dell’animo e dunque dovette andarsene a Gor’kij, dove aveva una zia. Con il “meno sedici”, però, non poteva vivere in città, e si procurò la residenza nel paesino di Bor, sull’altra riva del Volga. Si iscrisse a Ingegneria; per frequentare le lezioni a Gor’kij doveva attraversare il fiume su un vaporetto, il finlandese. Durante uno di quei viaggi, in autunno inoltrato, il finlandese troppo carico si rovesciò e andò a picco. Si salvarono in pochi, i più resistenti, e tra loro c'era anche Nina. C'era da credere che fosse iniziato un periodo di buona sorte. Che per prima cosa significò una storia d’amore con un docente di fisica teorica di Mosca, quel Vitalij Ginzburg recentissimo Premio Nobel.
Happy end: si sposarono. Ma per quanto provasse a procurare alla moglie il permesso di risiedere a Mosca, finché il Boia restò in vita Vitalij non ci riuscì. Dovettero vivere separati per molti anni.
11. Un marchiano errore politico: Antonio Fogazzaro
Nel 1946 all’Istituto universitario di lingue straniere Maurice Thorez – detto comunemente Injaz – venne introdotto l’insegnamento dell’italiano. La responsabile era la nota linguista, lessicografa e italianista Sof’ja Vladimirovna Guerrier, figlia del ministro zarista della Pubblica istruzione nonché fondatore dei Corsi Guerrier, la prima università femminile della Russia. Non ricordo chi mi riferì che la Guerrier desiderava vedermi. Per aspetto (era magrolina, curatissima e portava uno jabot di pizzo all’altezza del primo bottone della camicetta di seta bianca appena ingiallita), educazione e cultura pareva uscita dall’Età d’argento. Se conosceva perfettamente l’italiano era perché il padre le aveva fatto frequentare l’università di Genova e portava la famiglia in vacanza a Nervi.
Sof’ja Vladimirovna Guerrier
Profondendosi in complimenti e mostrando al contempo grande risolutezza, la Guerrier mi propose di insegnare italiano al primo anno.
– Ma non conosco la grammatica! – confessai. Tra me e me, intanto, pensavo a come spiegare a quella squisita marziana che con il mio ato di galeotta l’ufficio personale non mi avrebbe fatto nemmeno avvicinare all’Istituto.
– Sciocchezze! – tagliò corto lei. – Questa è la grammatica del Migliorini. Oggi la studia e domani l’insegna.
Data l’estrema necessità, l’ufficio personale mi accettò e mi tollerò per ben quattro anni. Quanto all’insegnamento, avevo la mia bacchetta magica: l’eredità di Propp. Difficile a credersi, ma ce la feci. Tra l’altro, le studentesse di quel primo anno, le cavie su cui imparai a insegnare, hanno poi a loro volta insegnato l’italiano. Tutte quante. Col tempo scoprii di amare quel che accade alle persone quando studiano e imparano ciò che prima non sapevano; scoprii, insomma, che il mestiere dell’insegnante è il più bello del mondo. Dai tutta te stessa, ti svuoti quasi per imboccare gli altri, ma poi sono loro a nutrire te rendendoti più di quel che hai dato, soprattutto sotto forma di soddisfazione per i successi ottenuti. Di norma i miei allievi diventano amici. Alcuni sono entrati nella mia vita e ci sono rimasti per sempre, altri sbucano nei posti e nelle situazioni più impensate, ed è sempre una gioia, sempre un nutrimento.
All’ennesima riunione della cattedra di lingue romanze, Zinaida Ivanovna Stepanova, la direttrice, docente di lingua se, invitò i colleghi a scambiarsi le esperienze e a frequentare le rispettive lezioni.
– Io che ho i capelli bianchi – disse, – andrò dalla Dobrovolskaja. Mi dicono che abbia un metodo assai efficace!
Ornella Arturovna Labriola, una grassona occhialuta, unica madrelingua (la mamma era una Skvorcova, il papà Arturo Labriola, napoletano), non resse a una tale ingiustizia e scrisse una delazione a mio carico al ministero dell’Istruzione, in cui rendeva noto che avevo commesso un marchiano errore politico: fra i miei testi avevo proposto alle studentesse una novella del cattolico ultrareazionario Antonio Fogazzaro. Il ministero diede disposizione di adottare le misure del caso.
Pensare che il marito russo di Ornella era stato inghiottito dal Gulag e che dunque anche lei aveva sperimentato sulla sua pelle a che cosa poteva portare una delazione! Ma si vede che il complimento esagerato che la Stepanova mi aveva fatto con tanta levità d’animo l’aveva ferita al punto da smuovere la sua bile napoletana.
La Guerrier mi mandò a chiamare, mi disse che la successiva assemblea dei docenti avrebbe preso in esame la questione e mi supplicò di pentirmi. Pur se con meno fervore, me lo chiese anche la Stepanova:
– Che cosa le costa? Così sarà tutto risolto!
Non ne volli sapere; la mia resistenza iva si mise in moto.
Quel processo pareva non voler finire. I colleghi pronunciarono parole di fuoco,
indignati dalla mia cecità politica.
C’è un equivoco, mi difendevo io. Il racconto – Fogazzaro descrive un’epidemia di colera nel suo paese natale, poco distante da Vicenza – era servito a mostrare la quotidianità contadina, a tracciare interessanti figure popolari. In Colera io non vedevo niente di sovversivo e dunque non avevo niente di che scusarmi. Punto.
La Stepanova prese atto che non avrei cambiato idea. Ma non aveva alcuna intenzione di perdere un’insegnante e riuscì a insabbiare la faccenda.
A proposito… Quando, qualche anno dopo, le edizioni “Progress” pubblicarono un’antologia di novelle italiane, la raccolta comprendeva anche – e senza scandalo alcuno – Colera.
I miei cari amici Renato e Claudia Cevese hanno una casa negli stessi luoghi in cui visse e scrisse Fogazzaro, autore di uno dei migliori romanzi della letteratura italiana moderna, Piccolo mondo antico. In quella casa in mezzo al bosco, sulle montagne che sovrastano Vicenza, trascorro da molti anni il mese di luglio; lì abbiamo scritto la Grammatica russa (Morfologia e Sintassi), l’unica che tenga conto della forma mentis grammaticale degli italiani. Anche se un erudito l’ha accusata d’esser troppo tradizionale, si vende come il pane, dunque la nostra è stata una scelta azzeccata.
Nel 1950 la storia di Fogazzaro tornò a galla. In quell’anno maledetto i docenti dell’Injaz – me compresa – vennero cacciati in massa.
Le motivazioni erano le più svariate, sempre assurde, e la colpa era ogni volta la
stessa: soggiorni all’estero e, va da sé, il “punto cinque” – la nazionalità ebraica – sulla carta d’identità. Era già l’epoca dello sterminio dei “cosmopoliti senza radici” (gli intellettuali ebrei) e si avvicinava quella degli “assassini in camice bianco” (ossia i luminari dell’ospe-dale del Cremlino accusati di aver attentato alla vita dei collaboratori di Stalin).
Gli studenti insorsero, non volevano saperne di lasciarmi andare, scrissero una petizione in alto loco e presero definitivamente in odio la povera Labriola, che già non avevano in simpatia. Uno dei loro atempi preferiti era entrare in un negozio di alimentari e chiedere della labriola secca.
– L’ho finita – rispondeva la commessa per non are da incompetente.
Sof’ja Vladimirovna mi telefonava spesso e mi chiedeva di are a trovarla. Viveva in un vicolo dell’Arbat, in una palazzina di legno a un piano che era stata di suo padre e che a furia di aggiunte era sproporzionata per la lunghezza. Alle spalle dell'edificio – tanto prima o poi quella casa una volta signorile e ora fatiscente sarebbe stata abbattuta, ne erano sicuri! – avevano costruito una scuola a più piani che incombeva su quel residuo del ato. Negli anni Venti, senza aspettare che le mettessero in casa degli estranei come nel bulgakoviano Cuore di cane, rimasta sola con la sua vecchia governante, Sof’ja Vladimirovna prevenne il probabile sopruso e prese a vivere con sé quelle che riteneva delle brave persone. Per anni e anni cercò di donare la palazzina al Municipio di Mosca – non era più in grado di mantenerla e di riparare il tetto – che però non voleva accollarsene le spese e tergiversava. Tenne per sé una stanza stipata di mobili in mogano con il letto nascosto da un paravento (tutte cose che probabilmente aveva care) e un bugigattolo per la vecchia njanja, la tata.
Un giorno il mio Saša, che amava pescare nel ghiaccio, catturò un bellissimo pesce persico. Lo portai a Sof’ja Vladimirovna. Fu una gioia senza fine. Mi raccontò che nello stagno della loro tenuta, ovviamente espropriata, ce n’erano di tali e quali…
Amavo ascoltare Sof’ja Vladimirovna e la sua amica, l’ex attrice Smirnova: amavano prensersi in giro – con indulgenza l’una verso l’altra e con spietata ironia verso se stesse – per i tanti acciacchi che le assillavano e per l'ostinata appartenenza a un mondo demo-dé. La Smirnova, con le gambe che non le reggevano, non poteva più fare a meno del bastone, ma in quei momenti tornava a essere la creatura splendida di un tempo. Quanto al resto, erano entrambe lucidissime, con un interesse quasi famelico per ciò che avevano intorno. Sof’ja Vladimirovna Guerrier, poi, era una lavoratrice indefessa. Basti ricordare il valore del dizionario italiano-russo che compilò da sola!
Nella prefazione al mio dizionario russo-italiano ho scritto: “Desidero ricordare con gratitudine Sof’ja Vladimirovna Guerrier, illustre italianista e lessicografa russa: fu lei a farmi intraprendere questo cammino nei lontani anni Cinquanta”. La frase è finita sotto gli occhi di V. Venkin, che sulla Guerrier stava scrivendo un libro. Sapendo che era diretta a Milano, Venkin chiese a T. Žukovskaja – collaboratrice della Casa-museo di Marina Cvetaeva a Mosca – di rintracciarmi e intervistarmi. Così è stato.
Pare che io sia rimasta l’unica persona nancora in vita ad avere conosciuto Sof’ja Vladimirovna Guerrier.
12. “Capir non potete la mia pena” (musica di Gurilëv, parole di Bešencov)
Appartengo al novero di coloro che ritengono indispensabile il superfluo: il mio attaccamento alle cose è inversamente proporzionale alla loro utilità. Questa fu la “base teorica” che usai per giustificare il rifiuto che opposi ai benefici elargiti alla nomenklatura: dalla dacia di Stato dietro un alto recinto e completa di servitù quando non di proiezionista, al prestigioso centro vacanze di Barvicha o ad altri posti scicchissimi. Ogni volta che Saša mi diceva: – Non si raccapezzano del perché non ci prendiamo la dacia! E se quest’anno cedessimo? Insistono… – io svicolavo senza troppe spiegazioni.
Le vacanze le facevamo “alla ventura”, di solito con i Ginzburg: salivamo sulla nostra Pobeda e via, in cerca di un po’ di caldo e di pesci da pescare. Qualche migliaio di chilometri al volante non ci costavano nessuna fatica.
Vitalij (Vitja), che di solito – e per sua stessa ammissione – era un tappetino con la moglie, in vacanza si smentiva e sgridava Nina perché fumava troppo. Dal canto suo lei si lamentava che senza una papirosa in bocca le venivano il mal di testa e la nausea. Vitja la chiamava “patolodèa” (e una dea la considerava davvero), e la rimproverava per aver dimenticato a casa la macchina fotografica. Nei giorni buoni era sempre in vena di scherzare, sempre con la battuta pronta. La sera, oltre alle carte avevamo anche un gioco “intellettuale” e apionato: giocavamo ai “personaggi famosi” (chi citava più celebrità con il nome che cominciava per una determinata lettera). Il 25 agosto festeggiavamo sempre insieme il mio compleanno; ricordo che una volta per l’occasione ci mangiammo un cocomero da otto chili!
Capitava anche qualche incidente.
Una volta, per esempio, Nina perse un ferro da maglia e non ci fu pace fino a che l’attrezzo non venne ritrovato e lei poté continuare a sferruzzare. Ad Archipovka, invece, imperversava Tarzan, il film americano, e i ragazzini ci perseguitavano offrendoci delle incisioni su pietra con Tarzan e Jane. Il nostro padrone di casa, poi, ci raccontò che all’ospedale di Gelendžik erano ricoverati almeno una ventina di “tarzan” con braccia e gambe rotte: a strapiombo sul fiume c’erano dei rampicanti che facevano pensare a delle liane dell’Africa selvaggia...
Che bizzarria: questo ha conservato la mia memoria. Altre cose - cose più importanti -sono invece evaporate.
Fu un periodo di grandi acquisti di libri. La libreria di Saša era piena, ma ci trovai anche le opere complete di Potapenko (e mi tornò in mente Čechov: “Domenica verrà a trovarmi il dio della noia: Potapenko”). Saša leggeva di tutto, specialmente romanzi stranieri.
– Senti cosa scrive Galsworthy (all’epoca tutti andavano pazzi per la Saga dei Forsythe): “Dio ha dato a Irene occhi marrone scuro e capelli color dell’oro; è una strana combinazione che attira gli sguardi degli uomini, ed è segno di un carattere debole”. Un carattere debole, tu?!
Non potevo sperare di trovare lavoro. Dunque mi diedi alla traduzione letteraria. Fu ancora la professoressa Guerrier a intuire quel mio bernoccolo: lesse la mia opera prima, una no-vella di Giovanni Verga, mi diede la sua benedizione, e – novità! – la casa editrice Chudož-estvennaja literatura la pubblicò con la mia firma. Prima d’essere riabilitata, infatti, a firmare le mie traduzioni erano amici e conoscenti con la fedina pulita. Il corposo volume del Partito popolare italiano di Candeloro, per esempio, uscì a nome di Ornella Misiano.
L’accorto responsabile della sezione esteri del Centro di informazione scientifica – i suoi collaboratori dovevano saperle, le lingue! – scritturò lo stock completo di coloro che erano stati cacciati dall’Injaz. Con un contratto fasullo, però, e pagandoci due soldi. Accettammo tutti anche se la sede era a casa del diavolo.
Mi volle anche l’Istituto di storia dell’architettura dell’Accademia delle Scienze. Gli allievi erano tutti sulla settantina, ma che erudizione, che menti! Era intelligencija allo stato puro. Tra noi scattò subito un’affinità elettiva. E con la più giovane – Anna Ivanovna Opočinskaja – restammo amiche per molti anni, anche dall’Italia…
Il mondo, si sa, è piccolo: esperta di Palladio, la Opočinskaja venne a Vicenza per conoscere un luminare del campo, Renato Cevese, e tramite lui ebbe il mio indirizzo milanese. Nel frattempo la longa manus del regime aveva raggiunto anche Saša.
Vannikov non poté nulla, e colui che era stato a capo dell’industria ottica finì a gestire una fabbrichetta di poco conto. Saša se l’aspettava.
– Che fortuna! – faceva il gradasso per tenermi su di morale. – Finalmente potrò andare a pescare quando voglio!
Mi amava alla follia e mi faceva soffrire. La gelosia non gli dava pace, lo divorava. Non era no vere e proprie scenate: si limitava a non rivolgermi la parola per qualche giorno. E né l’affetto, né le suppliche di chiarirci riuscivano a smuoverlo da quello stato. Quando c’era gente – e in casa nostra gli ospiti non mancavano mai – tutto filava liscio, ma quando la porta si chiudeva, calava il buio. Poi, così come era cominciato, quel silenzio penoso finiva, lui riprendeva a
comportarsi come se nulla fosse stato e io tiravo un sospiro di sollievo.
– Io vorrei una bambina e la chiamerei Daša! – mi decisi a proporgli, un giorno.
Silenzio.
– Oppure un maschio, e lo chiamiamo Kostja!
Nessuna risposta. Molto tempo dopo capii che temeva una pessima eredità genetica. Quella, dunque, era la nostra vita: felice in apparenza, infernale in realtà. Nessuno capiva la mia pena. Le chiacchiere, le lamentele sul caratteraccio di mio marito non erano cosa da me, che tacevo nella speranza che Saša capisse di potersi fidare e allentasse i freni. Andavamo a teatro, al Conservatorio. Ornella e Carolina Misiano ci portavano gli ospiti italiani (con Chruščëv al potere non pareva più così pericoloso), dunque facemmo amicizia con il corrispondente dell’Unità Giuseppe Boffa e con la moglie Laura. Andammo persino in vacanza insieme in Carelia, una volta, nel Centro vacanze per compositori: le sorelle Misiano, Valja con Mark e Irina, i Ginzburg, i Boffa col figlio Massimo. A pescare pesci nel lago Ladoga e granchi in un torrente. Un giorno poco mancò che gli uomini accopero un critico musicale, la Čičerina, figlia del primo commissario del Popolo agli Esteri. Ecologista sfegatata, una mattina all’alba aveva liberato gli avannotti pescati dai nostri uomini e lasciati in una rete sotto un ponticello.
Eravamo a cena dagli amici Ginzburg con la solita squadra – Dau (Landau), Lifšic, Gol’danskij, Evgenij Feinberg e le rispettive consorti – quando sentimmo per radio la notizia dell’arresto di Berija.
Ricordo che l’illustre fisico Lev Landau (anche lui con un po' di Gulag alle spalle) aveva un interesse speciale per i misteri del Cremlino e rimase fulminato dalla ghiotta notizia.
...Lo ripeto, a vederci io e Saša eravamo una coppia ideale, ma quando poi restavamo soli toccava all’ennesimo scoppio di gelosia, a un silenzio di pietra, alla disperazione più cupa. Se ne avessi saputo di più, avrei capito che non si trattava di pessimo carattere, ma di una vera e propria malattia. Avrei trovato uno psichiatra e avrei cercato di farlo visitare. Ma la Mosca di allora non conosceva la psicanalisi e io portavo la mia croce. Per tanti anni – sedici – l’idea di divorziare non mi sfiorò nemmeno. Come potevo lasciarlo dopo quello che avevamo ato, dopo quello che aveva fatto per me, dopo tutti i suoi sacrifici? Diventai, come dice l’Achmatova, “gialla ed epilettica, trascinavo a stento i piedi (…) per il suo amore arcano”. L’occhio destro ammiccava per un fremito involontario – un tic nervoso – e l’insonnia bruciava le mie notti.
Andai da Ksenja.
– Ksešen’ka, sono al limite, che cosa devo fare?
– Pianta tutto e vieni a stare da noi!
Il giorno dopo Jurij Rjašencev, il figlio di Ksenja, venne a prelevarmi e mi portò in vicolo Jazykovskij. Mi cedette la sua stanza e nei mesi che vissi con loro dormì in soggiorno, sul divano.
Io ero prostrata. La sera, al tavolo rotondo e “rasputiniano” si raccoglievano gli amici di Jurij – il regista Mark Rozovskij, il poeta Oleg Čuchoncev, lo
spiritosissimo Il’ja Suslov. Provavano sempre - e spesso invano - a convincermi a unirmi a loro.
Non so da chi Saša avesse saputo dov’ero. Si presentò che era una larva. Ci abbracciammo, in lacrime. Che non sarei tornata lo capì da come reagii a una sua proposta:
– Saliamo in macchina e buttiamoci a tutta velocità contro un muro o contro un albero! – disse.
– Va bene. Sono pronta – risposi.
Appoggiò i miei palmi sulle sue palpebre umide di lacrime, sospirò e uscì. Non lo vidi più, fino al giorno del suo funerale.
Lo chiamavo una volta l’anno, la notte di San Silvestro. Avevo l’impressione che aspettasse quella telefonata per dodici mesi. Viveva solo, non si risposò mai. Ci scambiavamo qualche frase banale e ci davamo appuntamento all’anno seguente, con il cuore a pezzi per un dolore ormai cronico.
Ho vissuto la mia vita con il peso di una colpa imperdonabile sul cuore.
Signori, non divorziate. È peggio che morire…
13. Per non aver commesso il fatto
Grazie a Chruščëv venne anche il giorno – il 21 settembre del 1955 – in cui mi convocarono in procura per informarmi che la mia pratica era stata riesaminata e la condanna del Tribunale speciale cassata “per non aver commesso il fatto”. La ZIM blu era arrivata, alla fine, ma ci aveva messo quasi undici anni…
Il procuratore mi rivolse sentite parole che con ogni probabilità aveva ripetuto molte altre volte: eravamo tanti, e la notifica della riabilitazione veniva consegnata non solo a chi era sopravvissuto, ma anche ai parenti, postuma.
La reintegrazione nel partito seguiva automatica. Ci fu chi mi rimproverò: Come fai a tornarci! Io però mi ero intestardita. Me l’avevano presa? Che me la restituissero, la tessera! Avrei pensato poi io a che farne. Del resto la mia sovieticità non si era ancora esaurita. Dopo diciassette anni di carcere e lager anche Lev Razgon, il nostro saggio rabbi, pretese che lo riammettessero nel partito.
Alla riabilitazione seguì l’invito a insegnare all’Istituto di Relazioni internazionali del mini-stero degli Esteri dell’URSS – il MGIMO – che sfornava diplomatici e giornalisti di politica internazionale. Tra le mura di quel prestigioso Istituto universitario ai nove anni, gli anni del “disgelo”. All’epoca vi studiavano solo allievi maschi; le ragazze furono ammesse solo quando la figlia di Molotov, Svetlana, ebbe l’età per entrarvi. Quella stessa Svetlana che, entrando nel partito, alla domanda della commissione su chi fossero i suoi genitori rispose: “Mio padre è Vjačeslav Michajlovič Molotov, ministro degli Esteri, la madre non ce l’ho”. (Stalin aveva messo dietro le sbarre la Žemčužina, moglie di Molotov e dirigente dell’industria profumiera: una mossa utile per tenere al guinzaglio il marito).
A capo dell’Istituto di lingue romanze c’era Semën Gonionskij, che poi divenne preside di facoltà e che quando ci sposammo andò a lavorare presso l’Istituto di etnografia dell’Accademia delle scienze.
I professori di lingue erano bravissimi, uno meglio dell’altro.
Quanto agli studenti, ce ne erano di varie tipologie: per essere ammessi al MGIMO bisognava soddisfare tutta una serie di requisiti anagrafici, ma soprattutto politici. Una piccola percentuale di posti era riservata ai ragazzi di origine proletaria oppure provenienti dai paesi “fratelli”.
Una sera mi trovavo al pensionato studentesco. Ero ospite di Elizov, un mio studente di famiglia contadina. Gongolava: un po’ per essere entrato al prestigioso MGIMO, un po’ perché avevo accettato il suo invito e poteva offrirmi la sua prelibatezza preferita.
– Gli piace, a lei, il cacao? – mi chiese, mettendo a nudo il russo sgrammaticato degli inurbati.
Eppure l’esame di letteratura italiana volle sostenerlo in lingua anche se non era obbligato. Il corso io dovevo tenerlo in italiano, quella era la norma, ma l’esame poteva essere sostenuto anche in russo. Elizov fu promosso a pieni voti.
Non c’erano molti stranieri: Grundt – tedesco della DDR – l’ungherese György Réti – che poi avrebbe tradotto nella sua lingua il libro di Marcello Venturi Via Gor’kij 8, interno 106 (ribattezzandolo Julija – una leggenda vivente) – e due cinesi che adoravano le canzoni napoletane. Alle serate filodrammatiche di cui ero regista e che si tenevano in tarda primavera come una sorta di “saggio
finale”, i due eseguivano in duetto “O sore mio” e “Catalì” (scambiavano sempre le “r” con le “l”…). Alëša Bukalov ricorda ancora a memoria il suo ruolo in Pinocchio! E, permaloso, mi rimprovera a tutt’oggi di averlo bocciato all’esame di letteratura italiana perché non aveva letto I promessi sposi.
Pur assomigliandosi, i due cinesi erano persone molto diverse: uno ha fatto carriera, l’altro si è arenato ai gradini più bassi della gerarchia diplomatica. Diventato console a Milano, il primo venne a sapere che ci abitavo anche io e mi cercò tramite l’ambasciata sovietica, dove però non seppero – o piuttosto non vollero – dirgli nulla. Allora gli venne un’idea geniale: cercare il mio numero di telefono sull’elenco (che non esisteva né in URSS, né in Cina, ragion per cui non ci aveva pensato subito). Un bel giorno si presentò da me con moglie e regali al seguito. Leda Vismara e io eravamo in terrazza a bere il tè sotto il glicine in fiore. Emozionatissimo, il console le raccontò di quando era stato mio allievo. Andava tutto per il meglio: bevevamo tè cinese, ricordavamo i giorni ati…
Fui io a rovinare tutto quanto. A un suo invito a visitare la Cina, risposi:
– Aspetto che ci arrivi la democrazia.
Diventò un’altra persona. E ringhiò:
– È tutta colpa dei giornali! Mentono! Come osano dire che in Cina non c’è democrazia!
– E Tienanmen?
Ci salutammo senza entusiasmo. Quando mi invitò al ricevimento che l’ambasciata cinese organizzava per la festa nazionale del primo ottobre declinai la cortese offerta con un biglietto.
Finì male, dunque. E dire che mi aveva cercato con tanta foga…
Del secondo cinese mi raccontò Alëša Bukalov, suo compagno di corso. Entrambi in Somalia per le rispettive ambasciate, si incontrarono a un ricevimento diplomatico. All’epoca i rapporti tra Cina e URSS erano tesi, e il mio cinese aveva paura di rivolgere apertamente la parola a un diplomatico sovietico. In coda per un cocktail si mise alle sue spalle e gli sussurrò:
– Lascio un libro sul tavolo, prendilo e fallo avere a Julia Abramovna Dobrovolskaja… Alëša eseguì.
Era un libro italiano, non importa quale. Fu un libro-saluto.
Gli studenti arrivavano da me diciottenni, tra di noi si instaurava un clima di fiducia, mi portavano a conoscere le fidanzate, chiamavano Julia le figlie, mi mettevano a parte dei loro guai, mi coinvolgevano nel dolore dei divorzi e mi presentavano le seconde mogli, le definitive…
Crescendo, i ragazzi capivano che essere miei amici comportava una certa dose di coraggio, o per lo meno una forma mentis indipendente. Nel canonico MGIMO io ero l'incarnazione di un non so che di “eretico”. Fra chi imboccò subito quella strada senza esitazioni di sorta ci ono Aleksej Bukalov (ora direttore dell’ITAR TASS a Roma, una natura genuina, la bontà fatta persona) e Feliks Stanevskij (asciutto fuori, ma ricco dentro, ambasciatore in pensione e
corrispondente da Mosca - in italiano! - del giornale milanese Il Foglio).
Altri sono usciti allo scoperto molto tempo dopo, durante la perestrojka.
Uranov, console in Vaticano dopo Jurij Karlov, durante un convegno ecumenico al mona-stero di Bose entrò nel refettorio, mi vide e si precipitò ad abbracciarmi. Che cosa stava accadendo? Chi era quel vegliardo con la barba bianca e fluente? si chiedevano gli altri commensali. Quando spiegò che ero stata la sua insegnante, scoppiarono tutti a ridere. Una delle tante presentazioni del libro di Venturi Via Gor’kij 8, interno 106 si è tenuta in una sala rinascimentale del Comune di Genova. In quell’occasione era presente anche la protagonista del libro, cioè io. La prima persona che vidi entrando fu un mio ex allievo, ora console russo a Genova: Valerij Karasëv con la moglie.
Sapeva da tempo che vivevo a Milano, e io sapevo che lui era a Genova.
Tra le due città c’è un’ora e mezza di macchina, ma in tutti quegli anni non ci eravamo mai visti: lui, personaggio ufficiale, diplomatico cresciuto alla dottrina del niet, non poteva certo avere contatti con una come me, che avevo abbandonato – e dunque tradito – la patria socialista.
Valerij fu il primo a parlare e la sua metamorfosi mi stupì: potere della perestrojka! Avevo di fronte, e così il pubblico di Genova, una persona perfettamente normale!
– Questa mattina – iniziò commosso (e tale restò fino alla fine) – ho telefonato a mia madre a Mosca e le ho detto: “Mamma, sai chi vedrò oggi? Julia Abramovna Dobrovolskaja!” Mia madre è rimasta senza fiato. Sono emozionato
anch’io, perché la signora Dobrovolskaja è stata la mia insegnante… La prima lezione fu un vero choc, per noi. Non iniziò con l’alfabeto italiano, come tutti ci aspettavamo; lei ci chiese di ascoltare la melodia della lingua, di cogliere suoni e cadenze che il russo non conosce, e ci recitò a memoria Dante:
Tanto gentile e tant’onesta pare
La donna mia, quand’ella altrui saluta,
Ch'ogne lingua devèn, tremando, muta
E li occhi non l’ardiscon di guardare…
Era impossibile non volerle bene. Per farla breve, la signora Dobrovolskaja è stata testimone al nostro matrimonio e abbiamo chiamato Julia nostra figlia…
Con quelli che da allievi sono diventati amici per la vita – Alëša e la sua Galja, Feliks e la sua Ljuda – ora ci siamo scambiati i ruoli: sono loro, adesso, a prendersi cura di me.
E sono persino un po’ gelosi l’uno dell’altro. Emotivo com’è, György Réti se la prende con i suoi ex compagni di corso perché lo tengono alla larga, nonostante io provi a intercedere per lui. Quando accaddero i fatti di Ungheria, György, al primo anno di corso, venne a chiedermi consiglio: doveva restare a Mosca o tornare a Budapest? Gli risposi che se al posto mio ci fosse stata sua madre, gli avrebbe detto di restare dov’era.
Diventammo amici. Io sorvolavo sulle sue stramberie da ungherese: i migliori poeti del mondo erano ungheresi, i migliori calciatori idem, per non parlare degli scienziati: tutti premi Nobel… Una volta laureato lo mandarono, scapolo, in Cina. Quando dalla Cina tornava a Budapest – o viceversa – faceva scalo a Mosca e ava a trovarmi. L’ultima cosa che mi disse fu che aveva sposato Anna, una maestra, e che stavano bene insieme. Dopo di che sparì per molti anni. Prima fu destinato all’ambasciata ungherese d’Albania (a cui ha dedicato un libro), poi finì in altri paesi alla periferia dell’Europa. Chiuse il suo curriculum a Roma. Non ha fatto carriera: è troppo impulsivo, creativamente indomito.
Ci siamo ritrovati qualche anno fa a Bogliasco, vicino a Genova, al Centro studi ligure per le arti e le lettere, una sorta di Peredelkino all’italiana, tre belle ville che ospitano gratuitamente “creativi” di ogni sorta, artisti e letterati da tutto il mondo. È un’eredità di Leo Biaggi de Blasys, avvocato svizzero delegato alla Croce Rossa Internazionale.
Anni prima, presentata e introdotta dai professori dell’Università di Genova, vi avevo trascorso alcune settimane anche io, a sfacchinare sul dizionario. Réti ci andò a finire un libro sui legami culturali tra Ungheria e Italia. Con la direttrice, la signora Quaiat, l’ex diplomatico e ora letterato ungherese parlava in un italiano talmente fluente, che la signora si profuse in complimenti.
– Ho avuto una brava maestra – le spiegò.
– Julia Dobrovolskaja? – indovinò lei.
Contenti di quella scoperta, decisero di trascinarmi a Bogliasco per una
rimpatriata. Era giugno, c’erano gli esami, ma riuscii a ritagliarmi qualche giorno e ci rivedemmo.
Per concludere, Réti tradusse in ungherese il libro di Venturi e l’editore ci invitò a Budapest per la presentazione. György ci ospitò a casa sua, Anna ci viziò e il figlio András ci fece le fotografie, rivaleggiando con i professionisti della TV. Un retrogusto piuttosto amaro ce lo lasciò l’ultimo incontro nella sede dell’associazione Ungheria-Italia, situata molto pomposamente in quella che era stata la sede del parlamento ungherese. A presiedere l’incontro c’erano l’autore del libro (Marcello Venturi), la protagonista (io), il traduttore nonché ex allievo della protagonista (Réti) e il regista della riduzione cinematografica di un racconto di Venturi, La vacanza del tedesco. Proiettarono il film: un bel film, con una splendida attrice.
Nel mio intervento chiesi al pubblico – la sala era gremita – di tenere in debita considerazione che lo scrittore italiano Marcello Venturi aveva sacrificato al loro Paese la propria carriera di scrittore quando nel 1956, in seguito ai fatti d’Ungheria, aveva rotto con il partito comunista condannandosi all’isolamento e all’ostracismo.
Non ci fu alcuna reazione. Solo a cena – una lauta cena per tutti i presenti – una vecchietta smunta mi sussurrò in russo: “Ha fatto bene a ricordare i fatti del ’56”.
Come sarebbe? Il ’56 è un tabù? O è un tributo alla pacificazione nazionale, come è accaduto in Spagna con la guerra civile?
14. Tiro, altro tiro… goal!
La porta, purtroppo, era la mia, e come portiere io non valgo nulla.
Perché tante delazioni a mio carico, santo cielo!? Sono una persona pacifica, io, tranquil-la, sempre pronta a dare una mano…
È anche vero che la realtà sovietica era intrisa di “delazionismo”: il nostro paese è l’unico al mondo a vantare monumenti a una spia (quel Pavlik Morozov che aveva denunciato il padre perché kulak, contadino agiato). La scuola dell’odio si frequentava sin da piccoli e proseguiva per tutta la vita, tappa dopo tappa: crescendo, eravamo chiamati a odiare l’idra della controrivoluzione, gli emigrati bianchi (e poi gli emigranti tout court), i nemici di classe – borghesi, capitalisti e, appunto, kulaki, nemici del popolo – Trockij, Bucharin e compagnia bella, o i cosmopoliti senza patria (leggasi: gli ebrei)…
A salvarmi da quell’epidemia di odio furono probabilmente i geni di mio padre, che amava gli alberi.
Quella volta a pugnalarmi alle spalle furono la mia amica Ornella Misiano e la sua sodale Anna P. Scrissero una lettera al rettorato accusandomi di plagio. Se l’Ornella (Labriola) dell’Injaz non aveva potuto sopportare che mi lodassero, quest’altra Ornella aveva perso il sonno per via del Corso pratico di italiano. A pensarci bene, le due Ornelle avevano una cosa in comune: erano entrambe vedove del Gulag, entrambe vittime. Tanto più incomprensibili, dunque, sono i loro istinti antropofagi.
Le sorelle Misiano – Carolina e Ornella – erano arrivate a Mosca negli anni Venti con i genitori, emigrati politici. Il padre sco era membro della Direzione del PCI e a Mosca era il responsabile del Fondo di mutuo soccorso operaio internazionale, un’organizzazione che sosteneva il movimento comunista nei paesi capitalisti.
Caso più unico che raro, sco Misiano morì nel suo letto. Durante l’ennesima campagna di epurazione, invece, le due sorelle furono iscritte nel novero dei “cosmopoliti senza patria” (pur se cittadine sovietiche, restavano delle straniere) e vennero licenziate. ata la tempesta, Carolina fu accettata presso la cattedra di storia dell’Università di Mosca, mentre Ornella divenne insegnante di italiano all’Injaz (ma di insegnare non aveva alcuna voglia). Io, è ovvio, le davo una mano con consigli e materiali. Ci “imparentammo” persino: il cane delle Misiano ebbe dei cuccioli e me ne rifilarono uno – “te lo lascio 24 ore, non di più!” – un cucciolo di un mese, Bimba, che una volta cresciuta sembrava la sorella gemella di Lajka, il cane morto nello spazio. Visse quattordici anni, io e Senja non ce ne separammo mai. La sogno ancora oggi: Bimba si è persa, io non riesco a trovarla e mi sveglio con i sudori freddi.
I tiri in porta, però, furono preceduti da una brutta storia. Un bel giorno il collega docente di se – G. – che era sostenuto dal “triangolo” formato da comitato di partito, sindacato e rettorato, usurpò il posto di direttore di istituto a Natal’ja Ven’jaminovna Alejnikova, ottima insegnante ed esperta di lingua se (nonché interprete simultanea) che l'aveva legittimamente ricoperto fino ad allora. E lo fece alla luce del giorno e di fronte agli altri colleghi, che come al solito non aprirono bocca.
Era una vigliaccata, lo sapevano tutti, ma l’unica a dirlo a voce alta fui io. G. mi prese da parte, in un angolo del corridoio, e mi propose senza mezzi termini di promuovermi a Candidato in scienze.
– Non c’è problema: può usare il suo manuale, come tesi.
– Non sono in vendita!
Il nostro scambio di vedute finì lì.
E pensare che era un intellettuale, un teorico della traduzione… Era persino capitato che ci scambiassimo dei favori: se le ore di buco coincidevano, io insegnavo l’italiano a lui e lui il se a me. Che cos’era successo? Era impazzito? Oppure aveva avuto disposizioni dall’alto di scalzare la Alejnikova che non aveva la tessera di partito?
Sia come sia, G. diventò direttore e diede immediatamente seguito alla sua vendetta contro di me e convocò una commissione presieduta da G. Turover, docente all’Injaz. L’accusa di fondo era che avevo incluso nel mio manuale di italiano una poesia di Gianni Rodari che chi insegnava prima di me aveva lasciato nello scaffale insieme ad alcuni ritagli dell’Unità. A coronamento di tutto, G. mi accusò di aver utilizzato la sua teoria della traduzione. Anche Ornella fece sentire la sua voce sdegnata.
Turover capì la situazione, spiegò il significato della parola plagio e la bolla di sapone scoppiò.
– Ornella, siamo o non siamo amiche? – sbottai. – Perché non me l’hai detto in faccia quel che ti rodeva dentro?
– Non ne avevo il coraggio…
– Di scrivere la delazione ce l’hai avuto, però!
A quel quel primo tiro ne eguì un altro, più violento e più mirato.
G. scoprì che avevo dato da tradurre agli studenti un’intervista all’Achmatova uscita sull’Unità dopo la consegna del premio Etna-Taormina. Il giornalista le aveva domandato se era vero che in patria i suoi versi non venivano pubblicati da anni. Lei aveva confermato. G. fece il giro di tutti i vertici del triangolo, ebbe il loro consenso e convocò una riunione del corpo docenti. Un mio simpatizzante mi avvertì di quelle trame e mi consigliò di prevenire il colpo. Facile a dirsi! Come portiere non valgo una cicca. Decisi, però, di are dal prorettore Ermolenko, che mi guardava con favore.
– Le cose stanno così e così – gli dissi. – Senta, ma il XX congresso c’è stato o no?
– Certo che c’è stato – mi rispose salomonicamente Ermolenko, – ma la delibera del Comitato centrale sull’Achmatova e Zoščenko non è stata abrogata!
Con un’espressione contrita sul volto, G. comunicò ai professori riuniti che nel nostro istituto c’era stato un caso increscioso di calo della vigilanza politica e bla bla e bla bla. Concluse esprimendo la speranza che la compagna Dobrovolskaja avrebbe ammesso l’errore e l’avrebbe scontato con il suo onesto lavoro.
La compagna Dobrovolskaja si infuriò:
– Sapete cosa vi dico? Dovremmo genufletterci di fronte ad Anna Achmatova. E non solo per il premio Etna-Taormina, ma perché è un grandissimo poeta ed è l’orgoglio del nostro paese. Sono convinta che lo pensiate tutti quanti, ma che abbiate paura a dirlo. E io vi disprezzo per questo. Quanto a G., non intendo avere niente a che fare con il provocatore che è!
E me ne andai sbattendo la porta.
Con ciò la mia attività pedagogica ebbe fine. I colleghi che mi chiamavano pi per dirmi quanto fossero fieri di quel mio gesto impavido li interrompevo alla prima parola: conigli! Mi cercarono diversi istituti universitari, ma quando riempivo il modulo si scopriva che non avevano più bisogno di un’insegnante.
Mi rimase solo un seminario per giovani traduttori all’Unione scrittori, a puro titolo di volontariato.
La palla, dunque, andò in rete. In primo luogo perché, da brava sovietica, non riuscivo a immaginarmi una vita fuori dal collettivo, e in secondo perché avevo perso il mio status sociale. Per farla breve, ero distrutta. Senja stentava a farmi entrare in testa che sbagliavo a prendermela, dato che avevo ben due professioni. E davvero per molti anni avevo lavorato per due, con il mio carico didattico da svolgere e con le traduzioni per gli editori. Il mio status sociale, inoltre, mi era garantito dall’appartenenza all’Unione scrittori (dunque non potevano considerarmi una "parassita").
Divenni, dunque, una libera professionista. Sempre a voler ammettere che la parola “libero” avesse diritto di cittadinanza in URSS.
L’anno dopo, clamorosamente e “per suo espresso desiderio”, G. venne sbattuto fuori dal MGIMO: in Francia per un viaggio di piacere, l’avevano beccato a letto con un uomo, cosa per la quale – secondo il codice penale sovietico – gli sarebbero spettati tot anni di lager. Invece G. si trasferì tranquillamente in un altro istituto universitario di Mosca. A-vranno tenuto conto dei suoi ati servigi.
Con Natal’ja Alejnikova, il marito Goracij (Gora) e la piccola Nataša (un metro e ottanta di figliola) rimanemmo amici fino al giorno della mia partenza. Natal’ja insegnava al ministero degli Esteri e faceva l’interprete simultanea ai convegni internazionali, mentre Gora -ottimo traduttore tecnico dall’inglese - incantava tutti come pianista improvvisatore. Furono loro a portarmi in dono un amico, l’attore del teatro delle marionette di Obrazcov Zinovij Gerdt, e fu una vera gioia. Obrazcov mi scritturò come interprete per la tournée italiana e mi chiese di aiutare Gerdt a preparare in italiano il suo cavallo di battaglia: il presentatore Aplombov del celebre Concerto insolito. In tournée in Italia, va da sé, non mi lasciarono andare, ma in Italia il Concerto insolito ebbe un successo strepitoso, e lo dovette in larga misura alla pronuncia impeccabile di Gerdt. Che, tra l’altro, interpretò quel ruolo con ana-logo successo anche in altre lingue. Prima di partire per un viaggio in Libano, Siria ed E-gitto preparò la variante araba con la studiosa Tat’jana Pravdina, che divenne la sua ultima, definitiva, consorte.
Una volta ci invitarono entrambi a un seminario sul doppiaggio per il cinema, lui a parlare agli attori, io ai traduttori. Per un errore del programma arrivammo al centro di doppiaggio, fuori città, alle undici del mattino invece che alle quattro del pomeriggio. Non aveva senso tornare a Mosca, dunque ci riservarono una saletta e - per farsi perdonare l'errore - non facevano che portarci prelibatezze dal bar.
Zinovij Gerdt era un beniamino dei russi. Tornato invalido dalla guerra, lui che era un attore drammatico e che ora zoppicava vistosamente, ò alle marionette e raggiunse una maestria sorprendente.
Mi ricordava il mio corteggiatore spagnolo, Jose del Barrio: insignificante d’aspetto e unico per cervello e fascino. Quanto ad arguzia, poteva concorrere solo con un altro Zinovij: Papernyj. Ma Gerdt aveva un dono straordinario: una voce magnetica e densa da violoncello, un tenore baritonale con una vena di raucedine. Dietro le quinte del teatro Obrazcov, alla televisione o al cinema era impossibile non riconoscerlo.
– Zjama, è vero che quando facevi l’attore con Rozov e Pluček (era stato proprio Pluček, il regista, a dirmelo), prima della guerra, ballavi come Fred Astaire?
– Roba d’altri tempi… Senti questo, piuttosto…
E si mise a recitare versi di Pasternak come nessun altro sapeva fare. A proposito: anche Pasternak aveva una voce da violoncello…
Poi cambiò genere e cominciò a raccontare barzellette (spesso le inventava lui stesso, ed erano così spiritose e azzeccate che facevano il giro dell’Unione Sovietica). Verso le quattro del pomeriggio mi facevano male gli zigomi a furia di ridere, e invece dovevo tenere una lezione a chi già sapeva tutto su come tradurre il lessico colloquiale per i dialoghi cinematografici (erano bravissimi). Del resto, e tengo a dirlo, bravissimi sono anche i doppiatori italiani, i migliori d’Europa!
Zinovij Gerdt è morto qualche anno fa. Ha lasciato una sedia vuota nel mondo dell’arte. Di recente ho cercato il numero di telefono di Tat’jana Pravdina, che vive in una dacia dei dintorni di Mosca, e l’ho chiamata:
– Tanja, sono Julia da Milano!
– Julia da Milano! E come facevi a sapere che siamo qui in una ventina a festeggiare il compleanno di Zjama?
– Telepatia…
Lo ricordano, gli vogliono bene, scrivono di lui. E io con loro.
15. L’infermiera Elizaveta Semënovna e il generale Umberto Nobile
Tra l’autunno e l’inverno l’influenza è quasi inevitabile. In Europa la chiamano cinese o asiatica. Nelle cartelle cliniche dei lavoratori sovietici si scriveva: forte catarro delle vie respiratorie superiori.
E nessuno sapeva come curarla.
Siccome la tosse – secca, canina, sfiancante – mi durava già da un mese, fu deciso di ricorrere al rimedio della nonna: le ventose. Si tratta di un realia russo che – come il pallottoliere e il samovar – necessita di una spiegazione nel testo (Dio ci scampi e liberi dalle note a pié di pagina, un’ammissione di incapacità professionale e una violazione dell’integrità del testo).
Applicare le ventose è semplicissimo. Quel giorno, dunque, dal policlinico dell’Accademia delle Scienze arriva un’infermiera, una signora appesantita dagli anni e con la tipica espressione mesta dell’ebrea attempata.
Parla poco. Si assicura che le ventose siano saldamente attaccate alla mia schiena e resta lì, seduta, ingobbita, muta. È stanca, sta riposando, penso io. Da dietro le palpebre pesanti osserva con occhi indifferenti la nostra “living room”, il soggiorno. C’è un po’ di tutto, in quella stanza, compreso un talamo quadrato che occupa quasi un terzo dello spazio utile. E ci sono le librerie stipate di libri e dizionari, il tavolo da pranzo e il mio “bancone da lavoro”, dietro al quale trascorro buona parte della giornata. Lo sguardo di Elizaveta Semënovna si sofferma sull'infilata di ante che occupa tutta una parete ed è la dimostrazione lampante della mia frivolezza: sono armadi finlandesi nuovi e bellissimi. Ad attirare la sua attenzione è anche una chitarra che avevo comperato in un paesino oltre i Carpazi, in un negozio di articoli sportivi dove in un angolo erano
ammonticchiate paia su paia di scarpe da ginnastica e in quello opposto il sogno di ogni cantautore in erba: chitarre a sette rubli!
La reazione più vivace, però, la suscita una pila di giornali italiani.
– Chi è che legge l’Unità? – chiede Elizaveta Semënovna con la sua voce strascicata.
– La sua paziente – risponde mio marito.
– Ma come? Conosce l’italiano? – si ringalluzzisce Elizaveta Semënovna. – Anche io! Lo sto studiando.
Trattenendo a fatica i commenti indelicati che si affollano con impazienza sulla punta della lingua – del tipo “alla sua età” e “a che le serve” – il marito della malata si informa riguardo al manuale che Elizaveta Semënovna utilizza per studiare la lingua di Petrarca.
– Il Corso pratico di Julia Dobrovolskaja – risponde.
Io non partecipo al loro scambio di entusiasmi, non mi sento granché a mio agio con la faccia immersa nel cuscino, ma vedo che Elizaveta Semënovna cambia espressione, si trasfigura sotto i nostri occhi, prende forza, si raddrizza persino. E comincia a raccontare.
Così fu che conoscemmo le pagine più radiose, il leitmotiv della sua vita.
In gioventù Elizaveta Semënovna aveva lavorato come infermiera all’ospedale del Cremlino. Un giorno – era il 1933 – al reparto di chirurgia dove prestava servizio portarono un consulente del Cantiere costruzioni dirigibili, il generale italiano Umberto Nobile. I medici chiamati a consulto dissero che il malato era in condizioni critiche se non disperate, e Nobile si preparò – per l’ennesima volta! – a morire. Si comunicò, persino. Da che era stato fondato, l’ospedale del Cremlino ne aveva viste di cotte e di crude, ma un sacerdote – anzi un vescovo – cattolico (se ne trovò uno presso l’ambasciata di Francia) ancora non ci aveva messo piede! A detta di Elizaveta Semënovna quell’episodio “fece scalpore”. Nobile sopravvisse. I medici del Cremlino erano bravi, l’operazione andò bene. Il decorso post operatorio dipendeva molto dalle cure, e l’infermiera “Elisabetta” fece tutto ciò che era in suo potere per assistere il generale. Divennero amici per la vita. Il giorno del compleanno del padre, Maria, la figlia del generale, dedicava sempre un brindisi “Alla salute di Elisabetta, che ha salvato la vita a papà”.
Da quel momento, in qualunque circostanza si trovasse, in qualunque paese, in qualunque continente lo portasse il destino, Nobile non dimenticava mai di mandare un saluto alla sua amica moscovita.
Ricevere quelle cartoline patinate era una gioia, ma anche un rischio.
– Ora è normale, nessuno ha più paura, ma allora… – strascicava le parole Elizaveta Semënovna. – Io vivo al piano terra e, ve lo giuro sulla mia vita, ogni volta che sotto la mia finestra si fermava una macchina, la sera tardi, pensavo che fossero venuti a prendermi. A-desso è diverso. Le dirò di più: sa che il generale mi ha invitato ad andarlo a trovare a Roma? Di sicuro non mi lasceranno andare, però…
– Chi è che non la lascia, Elizaveta Semënovna?
– L’OVIR. LUfficio visti e autorizzazioni. La prima volta che ci ho provato mi hanno chiesto una sfilza di scartoffie. Per esempio un foglio in cui si diceva che il signor Nobile aveva soldi a sufficienza per mantenermi durante il soggiorno e per pagarmi il viaggio. Quando gliel’ho portato, mi hanno chiesto in che relazione ero con Nobile. È un carissimo amico, gli ho risposto. Ma lì non le capiscono, certe cose… E non mi hanno lascaito partire. Io, però, continuo a prendere lezioni di italiano, non si sa mai. Vado da Olga Nikolaevna Figner, la nipote di Vera Figner, la rivoluzionaria. La conosce?
– Come no! Abbiamo insegnato insieme all’Injaz. Continua ad avere uno zoo in casa?
– Non mi dica niente! Ha un gatto, un cane, un pappagallo, una tartaruga, dei serpenti. Un odoraccio…
La rassegnazione tutta russa di quella donna ebrea ci commosse.
Mio marito, persona pratica che non riconosceva altra bontà che quella delle opere buone, scrisse al Comitato centrale del PCUS a nome di Elizaveta Semënovna. In pratica tradusse in burocratese quello che le aveva sentito raccontare. La settimana seguente la voce che sentimmo al telefono era meno strascicata del solito, anzi, era persino un po’ concitata:
– Che cosa volete che vi porti da Roma? Parto per tre mesi! All’Ufficio visti mi hanno rimproverata: hanno detto che mi ero rivolta alle persone sbagliate. A sentir loro la mia richiesta era stata accolta da tempo. Voi che ne dite?
– Una cosa sola: buon viaggio!
Quando a Roma uscì il ponderoso volume di memorie di Umberto Nobile, La tenda rossa, di lì a poco lo ricevetti anch’io: l’autore desiderava ardentemente che le sue “memorie di neve e di fuoco” uscissero anche in quella Russia che tanto amava. Cominciò una corrispondenza fittissima. Le buste con la sigla della Camera dei deputati (Nobile era stato eletto alla Costituente) contenevano recensioni, materiali aggiuntivi per l’edizione sovietica, fotografie. Non starò a descrivere buche, fossi e tranelli della via crucis che doveva affrontare chiunque proponesse una traduzione. Le edizioni Mysl’ tergiversavano. Alle Progress, si trovò finalmente una persona qualificata che lesse la Tenda rossa in italiano, approvò il volume giudicandolo redditizio, lo ridusse di una metà e diede l’“imprimatur”, così che nel giro di qualche anno (!) chi voleva avrebbe potuto leggerselo in russo. Ormai lontano dalla realtà sovietica, il generale Nobile non riusciva a capacitarsi del perché – se la traduzione era cosa fatta – ci volesse tanto per pubblicarla.
– Non si può far niente per accelerare? – mi chiedeva. – Temo di non vivere abbastanza per vederla!
Gli feci capire che la cosa migliore era mantenere il controllo. Aspettare. E il generale aspettava.
A Capodanno mi mandò gli auguri e un invito di questo tono: “A Dio piacendo, Umberto Nobile festeggerà tra poco il suo ottantottesimo compleanno; egli invita caldamente i parenti e gli amici più cari a fare festa con lui il 21 gennaio 1973, alle ore 20, in via Monte Zebio 28. Ci sarà una cena sobria ma gustosa, con vini pregiati e ottimo champagne. L’invito non è disinteressato: gli ospiti che ancora non posseggano il libro del festeggiato, La tenda rossa, ricordi di neve e di fuoco, sono pregati di procurarselo a prezzo modico. Per vostro maggior
tornaconto, su ogni copia verrà apposto un autografo. L’autore apporrà la dedica solo dopo essersi sincerato dell’avvenuta lettura. Astenersi da omaggi floreali”.
Sono dispiaciuta di non poter terminare questo racconto con l’antico adagio “io c'ero e son qui a raccontarvelo…”.
La mia pazienza infinita stupiva Elizaveta Semënovna. Da persona ormai navigata, nei suoi toni si insinuavano note baldanzose.
– Allora, quand’è che si va a Roma? – esordiva a ogni sua conversazione, telefonica e non. Era convinta che io, un’italianista, dovessi andare in Italia a tutti i costi. Che fosse un mio dovere. Un dovere non solo mio, anzi.
– Anche le domestiche degli accademici di Belle arti sono state in Italia e io non ho ancora visto Michelangelo! – sospirava Ernst Neizvestnyj, scultore sovietico di fama mondiale, ma - ahilui - inviso alle alte sfere perché lontano dal realismo socialista.
Umberto Nobile non visse fino al 4 marzo 1980, giorno in cui mi concessero finalmente di andare a Roma a ritirare il premio della cultura, quattro anni dopo che mi era stato assegnato. Gertrude, la vedova, mi portò al cimitero e io lasciai sulla sua tomba un bel mazzo di margherite. Sono stata diverse volte da Gertrude, in via Monte Zebio 28, a Roma. Ex bibliotecaria dell’Unesco, Gertrude non solo si è presa cura in modo scientifico, tedesco, dell’archivio del generale, ma non ha mai respinto gli inviti che riceveva. È andata fino in Scandinavia per inaugurare i monumenti al grande conquistatore del Polo Nord e ha sempre presenziato ovunque celebrassero le date storiche della sua vita.
L’ultima volta che ci siamo viste già si spostava su una carrozzella. Ero con Alëša Bukalov. Regalò a entrambi un cappellino da baseball con la scritta Ubi vice aquilei Umberto Nobile e un orso bianco sulla coccarda, in ricordo di quello vero della Tenda rossa.
E scrisse a El’cin, quando le dissero che il rompighiaccio “Krasin” che aveva salvato i naufraghi del dirigibile “Italia” era destinato alla demolizione: il “Krasin” è stato salvato e ora è un museo.
Con Maria ci sentiamo raramente, purtroppo. I miei studenti, però, si sorbiscono in ogni salsa il racconto dell’epopea della Tenda rossa: cerco di attizzare il flebile fuoco della memoria meglio che posso.
16. Traduzione e religione
Le case editrici e gli organi di stampa che pubblicavano traduzioni privilegiavano immancabilmente due tematiche: i romanzi sulla classe operaia e quelli antireligiosi. Ne ho sulla coscienza uno per tipo: A proposito di una macchina di Giovanni Pirelli e Il chierico provvisorio di Virgilio Scapin. La Macchina la proposi io stessa, andando incontro ai desideri del mio datore di lavoro, la rivista Inostrannaja literatura (Letteratura straniera). Avevo delle attenuanti: il libro mi era stato mandato e raccomandato da Vittorio Strada, che non aveva ancora rotto i ponti con il PCI. Siamo tutti degli “ex”, come ho già detto!
Quanto al Chierico, l’iniziativa, una volta tanto, era stata dell’editore.
L’autobiografia di Scapin era di una sincerità disarmante e ammaliatrice. Descriveva il dramma di un giovane che, sul punto di prendere i voti, viene sopraffatto dai dubbi, comprende di non avere la vocazione e, da persona onesta, lascia la chiesa.
Qualche anno dopo feci il nome di Scapin chiacchierando con un suo conterraneo, Goffredo Parise, autore che ho tradotto e caro amico. Scoprii che proprio da Parise si era presentato il giovane spretato con il suo manoscritto sotto braccio, e che proprio Parise lo aveva aiutato a cavarne la redazione definitiva e a pubblicarlo. Il mondo continuava a essere piccolo, piccolissimo…
Con il contratto firmato, mi misi al lavoro. Quel libro che di primo acchito non mi era parso difficile si rivelò un osso duro. Gli amici mi prendevano in giro: “Ogni volta che traduci, il libro che hai per le mani è il più difficile che ti sia mai capitato”. Forse era davvero così. Ma Il chierico provvisorio mi diede molto da
fare: c’erano tanti realia che non conoscevo e un’infinità di termini legati alla liturgia cattolica, alla vita monastica.
Dovevo trovarmi un consulente. Dalla casa editrice mi consigliarono di interpellare il sacerdote della chiesa cattolica di via Malaja Lubjanka. “Si chiama Michail Michajlovič, il telefono è questo, ma devi aspettare che torni da Roma, dal concilio Ecumenico. Ci vorrà una settimana” mi dissero, dotandomi di una lettera di presentazione del Consiglio per le questioni relative ai culti religiosi.
La settimana seguente, puntuale come un orologio, mi accomodo nella sagrestia della chiesa. Sorge poco lontano dall’unico monumento di Mosca – quello a Dzeržinskij – ac-canto al quale gli innamorati non si danno mai appuntamento, come aveva argutamente notato Gianni Rodari.
L’anziano sacerdote – alto, smunto, viso minuto – si lamenta delle mille cose che ha da fare:
– Non riescono a trovare un sostituto, io sono vecchio e mi pesa fare la spola tra Mosca e Vilnius! (era anche priore del duomo della capitale lituana).
Il suo lessico è assolutamente laico e aggiornato, parla russo con un lieve accento, ma fluentemente, come tutti gli oriundi del Baltico che abbiano studiato in epoca zarista. Risponde prontamente alle mie domande, si profonde in mille dettagli, ogni tanto salta su, va verso un armadio e ne trae i ferri del mestiere: paramenti, oggetti sacri.
– Questa è la dalmatica – mi illumina e si stringe al petto un trequarti di pizzo come fanno le clienti dei grandi magazzini davanti allo specchio. Poi, senza
neanche farmi finire la domanda (ha capito al volo che cosa mi serve), fugge dalla sagrestia e prende a destra, verso l’altare, dimenticandosi di avvertirmi che io, là, non ci posso mettere piede.
Dopo un’ora e mezza capisco che è tempo di andare, lo ringrazio e mi congedo.
– Ci sarebbe molto altro da dire, ma alle cinque sono atteso al Comitato di partito…
Era strano sentire quella cadenza sovietica sbrigativa in bocca a un sacerdote, in una chiesa.
– Senta – aggiunse. – Non è che mi scriverebbe un telegramma in italiano per i padri carmelitan? Ho abitato da loro durante il Concilio e vorrei mandare gli auguri di Natale… All’entrata, accanto al banco delle candele, una donnina senza età - una beghina - sibilò:
– L'ha tirata per le lunghe, eh? Guardi c'è solo lui, qui, e se tutti se la prendono comoda come lei…
Che cosa avrebbe detto se avesse saputo che Michail Michajlovič aveva risposto solo a una parte delle domande del mio elenco, le più generiche, mentre i realia più prettamente italiani erano rimasti irrisolti?..
Il redattore editoriale – uno di quelli che non faticavano troppo – diede prova di inattesa perspicacia:
– Mandiamo la traduzione a Tartu. Copnosco qualcuno che può aiutarci, là.
Il testo fece avanti e indietro in un tempo inspiegabilmente breve. La revisione era impressionante quanto a puntualità e scrupolo. Our man in Tartu non solo aveva saputo rispondere a tutte le mie domande, ma – di sua sponte – aveva raffrontato la traduzione con l’originale dalla prima all’ultima riga. Probabilmente aveva qualche interesse personale per quel libro. Citerò il aggio più lusinghiero del commento che accompagnava il lavoro: “Ovunque si nota un approccio creativo, lo stile dell’autore è stato conservato, la traduzione abbonda in scelte convincenti. I fraseologismi dell’originale sono stati sostituiti dalle espressioni russe corrispondenti. Non starò a citarle, ma per ogni evenienza e per il redattore, le soluzioni migliori sono state indicate nel testo con dei segni a margine. In breve: la traduzione è precisa, ma anche letterariamente degna”.
Seguivano, però, aspri rimproveri: avevo sbagliato a tradurre termini e realia della vita religiosa e monastica, e il recensore mi accusava di negligenza, poiché si trattava di espressioni che potevano “essere rinvenute nei libri in lingua russa e anticoslava sulla liturgia della Chiesa cattolica, la cui migliore edizione è uscita a cura del mio ex padre spirituale, il reverendo Schweigl”. “Certo” concludeva assolvendomi almeno in parte, “non è questo il luogo per muovere delle accuse alla traduttrice, in quanto nemmeno volendo sarebbe riuscita a entrare in un noviziato o in un ordine monastico”.
A lasciarmi definitivamente di stucco fu il fatto che Aleksandr Viktorovič Kurtna (era quello il nome del consulente di Tartu) avesse saputo decifrare alcuni realia d’epoca fascista. Era un esperto di teologia, di latino ecclesiastico e di liturgia cattolica, e per di più conosceva perfettamente la storia della Resistenza italiana. Chi era quel personaggio più unico che raro? Nella lettera di ringraziamento che gli mandai non nascosi quanto la sua erudizione mi avesse colpita e mi dissi curiosa di conoscerlo.
Di lì a poco Kurtna venne a Mosca per lavoro, mi telefonò e ò a trovarmi. Trascorremmo la serata a parlare, fino a tardi, io, lui e Senja.
La sua biografia basterebbe per un'intera collana di romanzi d’avventura. Qualcosa aveva messo sulla carta, aveva anche provato a pubblicarlo, ma gliel’avevano “storpiato a tal punto” da costringerlo a giurare a se stesso che “mai avrebbe scritto delle memorie”. Aleksandr Kurtna raccontava con entusiasmo, ma in modo discontinuo, tenendo per sé ciò che più ci interessava. Io avrei voluto notizie sul suo periodo italiano, e lui invece insisteva:
– Senta, piuttosto, che cosa ho ato alla Kolymà!
Della Kolymà già sapevamo molto. Kurtna era di madre russa e padre estone; alla metà degli anni Trenta si era laureato in teologia all’università di Tartu e da lì era stato mandato a completare la sua istruzione in Vaticano.
– A proposito, guardi questa cravatta! È un souvenir, me l’ha mandata Paolo VI. Gli insegnavo il russo quand’era ancora cardinale.
Il discorso cadde su Curzio Malaparte.
– L’ho conosciuto – disse Kurtna en ant. – Dividevamo la stessa cella.
Una figura complessa, il giornalista e scrittore Curzio Malaparte. Fascista accanito e spirito libero, per le sue violente esternazioni antifasciste finì dentro diverse volte; a farlo rilasciare era sempre il ministro degli Esteri e genero di
Mussolini, Galeazzo Ciano.
Perché, invece, fosse finito in galera un giovane teologo estone e chi lo avesse aiutato a uscire era solo materia di congetture.
Caduto Mussolini, Kurtna si era impegnato nella Resistenza.
– Ma non mi confonda con padre Doroteo, il lituano! Era lui a portare il mitra sotto la tonaca, non io – precisò Aleksandr Viktorovič non senza malanimo. Di padre Doroteo, ora bibliotecario a Vilnius, avevano scritto molto e i suoi meriti partigiani venivano universal-mente riconosciuti. Mentre Kurtna era rimasto nell’ombra.
– Io non ho compiuto grandi imprese.
– Sì, però…
– Capitava tutto per caso. Le faccio un esempio. A Roma avevo un’amica, la segretaria dell’ambasciatore tedesco. Una sera stavamo cenando in una trattoria quando lei mi sussurra: “C’è una pattuglia. Va’ a fumare in cortile fino a che non hanno finito di controllare i documenti”. o per la cucina ed esco. Accendo una sigaretta. Mi guardo attorno e poco distante vedo due camion carichi di casse coperte da un telone: sono armi, è chiaro. Gli autisti parlottano sottovoce. Tendo l’orecchio: sono ucraini! “Ehi, ragazzi!” gli faccio. “Come ci siete finiti, qua? Andiamo a berci un goccetto, dai!” I “ragazzi” fecero un salto indietro, impauriti, ma io seppi dissipare i loro timori e alla fine accettarono l’invito. Li feci sedere, gli presentai la mia fräulein, ordinai e mi precipitai a telefonare ad alcuni amici affinché corressero a prendere in consegna i camion. Tutto qui.
Come vedete, non ci voleva una particolare audacia, una grande destrezza. Alla Kolymà, invece…
Quando i combattenti sovietici della Resistenza italiana vennero rimpatriati – ex prigionieri di guerra che dai lager e dalle tradotte naziste erano fuggiti sui monti, unendosi ai partigiani – anche Kurtna finì tra loro. Nel profondo del cuore speravano tutti che le sofferenze e il sangue versato sarebbero stati tenuti in conto. Nessuno, invece, scampò al Gulag.
A Mosca Kurtna fu accolto con tutti gli onori e alloggiato da gran signore all’Hotel Nacional, ma il suo posto nel primo cerchio era già stato prenotato. Lo sbatterono in quella Kolymà al cui confronto il resto era un gioco da bambini.
Dieci anni di lager gli costarono la salute, i denti, i capelli. Penò anche dopo, a casa, in Estonia. Bussò alle porte delle case editrici, ma col suo curriculum non c’era niente da fare. La moglie insegnava canto e guadagnava una miseria. Kurtna studiò la congiuntura e in tempo record imparò le lingue che all’epoca, in Estonia, nessuno sapeva: il serbo, il croato, lo sloveno. Solo allora cominciò a trovare lavoro. Nelle case editrici capirono di avere a che fare con un letterato di talento, un poliglotta e un linguista serio, un uomo di grandissima erudizione e dalla memoria prodigiosa. Kurtna tradusse in estone decine di libri da lingue diverse, parecchi anche dall’italiano.
Quel "teologo provvisorio" divenne membro dell’Unione scrittori e si stabilì a Tallinn. Quanto al chierico provvisorio Scapin, a Vicenza la libreria più popolare è la sua. Quando gli mandai due copie dell’edizione russa del suo libro tramite Parise, mi ringraziò con una lettera gentile in cui, tra l’altro, provava a tastare il terreno per capire se le edizioni Progress avrebbero pagato anche lui con un invito a Mosca come era accaduto con il suo conterraneo: voleva venire in URSS, Scapin. Mi informai, ma i sovietici non avevano alcuna intenzione di pagare dei diritti a un “pope ignoto”.
Milena Tonello, mia allieva a Ca’ Foscari, è di Vicenza. Le chiesi se conoscesse il libraio Scapin.
– A Vicenza lo conoscono tutti! Tra le altre cose, è anche presidente della Confraternita del baccalà (che, com’è noto, insieme alla polenta è il piatto forte cittadino).
Gli telefonai da Milano. Mi invitò ad andare a trovarlo, sarei stata ospite sua e della moglie. “Un o per volta!”, mi schermii. Feci, tuttavia, una sosta a Vicenza di ritorno da Venezia. La libreria di Scapin si rivelò essere minuscola, ma di grandi tradizioni. Il proprietario era ancora un bell’uomo. Mi invitò nel retrobottega e mi chiese subito, senza tanti preamboli, perché non l’avessero mai invitato a Mosca. E io gli rivelai, finalmente, il motivo reale: il suo libro era stato pubblicato solo perché credevano che fosse ateo. Ne fu molto sorpreso: non ci sarebbe mai arrivato, da solo. Se qualcuno avesse sentito quel nostro colloquio fitto fitto nel reprobotega della libreria non avrebbe creduto che ci stessimo accalorando tanto per fatti di vent’anni prima!
Di Kurtna ci siamo trovati a parlare per caso con Valerio Riva, autore dell’Oro da Mosca, ex redattore per le edizioni Feltrinelli e responsabile dell’edizione italiana del Dottor Živago. Saputo che conoscevo Kurtna, mi mandò dei materiali d’archivio sui quali stava lavorando per il suo ultimo libro e da cui si capiva chiaramente che in Vaticano Kurtna aveva fatto la spia per l’URSS e la Germania.
Accidenti!
17. Utile idiota
L’affermazione “un letterato è un libero professionista” in Unione Sovietica era un ossimoro. O l’uno, o l’altro: o pubblichi, o sei libero.
Il poeta leningradese Iosif Brodskij provò a scrivere liberamente e finì in prigione: senza un contratto per la legge sovietica si era “parassiti”.
Chi aveva alle spalle una produzione letteraria considerevole si salvava dall’accusa perché membro del Grupkom dei letterati presso le edizioni Chudožestvennaja literatura (anche io ne feci parte per qualche tempo). Era un’associazione più alla mano, più semplice e più umana dell’Unione scrittori (che era una specie di ministero), ma non ne garantiva i privilegi. Con l’Unione scrittori, invece, si poteva andare a scrivere e a are le vacanze nelle cosiddette “Case di creatività”, nei Dom Tvorčestva di Koktebel’, Peredelkino, Male-evka, Jalta.. Chiunque, a Mosca, bramava di frequentare il Club dei letterati e di curarsi al policlinico per scrittori, dove non si era costretti a fare lunghe ore di coda come altrove. Ma bisognava chiudere gli occhi su molte cose. Ideata nell’Ottocento da Dostoevskij come un sindacato, in era sovietica l’Unione scrittori non salvò né difese nessuno dei suoi iscritti, semmai diede una mano a distruggere i malvisti garantendo a chi di dovere il controllo sulla letteratura. L’Unione scrittori contava migliaia di associati. La questione è: potevano esserci migliaia di veri scrittori in un Paese per quanto immenso come l’URSS? Il buon senso suggerirebbe di no. La sezione traduttori – con i suoi duecento membri – era la migliore, la più colta, non per niente minacciavano continuamente di scioglierla.
C’era molto di ambiguo, insomma, in quel porto che dava riparo a noi free-lance, a noi liberi professionisti. Ancora più ambiguo era il mio nuovo ruolo quanto al rafforzamento dei legami culturali tra l’URSS e l’Italia. Per molti anni fui la prestigiosa interprete del ministero della Cultura e dell’Associazione per
l’amicizia tra l'URSS e l'Italia. Quando arrivavano ospiti di riguardo di fronte ai quali il ministro Ekaterina Furceva e il responsabile dell’URSS-Italia Lev Kapalet volevano vantarsi (sbandierando l'alto livello culturale dei rispettivi enti), io diventavo una specie di geisha in grado di sostenere una conversazione su qualunque argomento e di tradurre – in simultanea, consecutiva o chuchotage – di fronte a una platea o a una riunione affollata.
Tre o quattro volte l’anno, dunque, se non di più, lasciavo per una settimana o dieci giorni il mio “banco” da lavoro e facevo compagnia – dalla mattina presto alla sera tardi – al direttore della Scala Ghiringhelli, al pittore Guttuso, allo scultore Manzù, al compositore Nono, all’architetto Gregotti, al critico d’arte Brandi, al regista Squarzina, al maestro Abbado, alla cantante Renata Tebaldi, all’impresario Emi Moresco e a tanti tanti altri. Perché acconsentii? Certo non per amor di lucro. La retribuzione per quel lavoro non facile era di 3 (tre!) rubli al giorno, dunque prettamente simbolica (Paolo Grassi insistette affinché avessi ciò che mi spettava per la tournée russa del Teatro La Scala, ma sarebbe stato in nero, e non accettai).
La vita del traduttore letterario è una vita da eremita, si sa. Fino a che riuscivo a combinare traduzioni e insegnamento, la mia era un’esistenza armoniosa, ma quando poi mi ritrovai tappata in casa…
Tra l’altro, visto che non mi lasciavano andare in Italia, avevo bisogno di una mia little I-taly che mi aiutasse per la lingua e per una conoscenza pur minima del Paese, altrimenti come avrei fatto a tradurre? Per molto tempo il pozzo di ogni mia scienza fu l’Unità, l’unico quotidiano italiano venduto in URSS. Nel profondo del cuore, inoltre, pensavo di poter fungere anche io da pozzo quanto alla vita sovietica. Quale che fosse il mio ospite italiano, dicevo sempre ciò che sapevo e ciò che pensavo, incurante dei microfoni piazzati ovunque. “Chi vive senza rabbia e tristezza / non ama la sua patria”, diceva Nekrasov. E io parlavo e spiegavo, senza capire di essere un’ “utile idiota”, in quanto così facendo i miei italiani erano portati a pensare che in URSS ci fosse libertà di espressione.
E invece? Invece il disgelo di Chruščëv era finito ed era iniziato il ferale ventennio di Bre-žnev, la stagnazione, con i suoi rigurgiti di stalinismo. Chruščëv era relegato nella sua dacia. Libero di far lavorare il cervello, si rese conto di aver combinato un pasticcio, al Maneggio, durante la mostra degli artisti contemporanei (“Siete tutti dei pidirasti”, aveva gridato di fronte a un quadro di Fal’k, dunque convocò uno a uno tutti coloro che aveva offeso, a cominciare da Ernst Neizvestnyj, si disse pentito e si scusò. Tempo libero ne aveva a volontà, e lo usò anche per dettare al genero le sue memorie, sgrammaticate ma oneste. Le ho qui davanti a me, sullo scaffale, due volumetti di tamizdat.
Quando Chruščëv morì e i compagnucci di un tempo gli vietarono le mura del Cremlino, la vedova a chi ordinò il monumento funebre per il cimitero di Novodevič’e? A Neizvestnyj. Donna intelligente, Nina Petrovna Chruščëva approvò la metafora dello scultore che aveva rappresentato il marito come un Giano bifronte, con il volto metà chiaro e metà scuro di chi aveva, sì, spalancato le porte dei lager sovietici, ma anche represso la rivoluzione in Ungheria.
Ad aprirmi gli occhi sul mio ruolo di "idiota" fu Efremov, regista del Teatro dell’Arte.
L’Associazione per l’Amicizia tra i popoli si preparava ad accogliere un folto gruppo di teatranti italiani: attori, registi, critici, drammaturghi. Galja Kolobova, persona degnissima dell’Associazione suddetta, aveva posto una condizione: la pago io, però mi date (!) la Dobrovolskaja. Gliela diedero. Mi diedero.
Galja chiamò a consulto alcuni direttori artistici dei teatri di Mosca per stabilire quali spettacoli mostrare agli ospiti. Io proposi i pezzi forti della stagione in corso: Il maestro e Margherita al Taganka e la Storia di un cavallo del leningradese Teatro Tovstonogov, in tour-née a Mosca. Efremov si infuriò:
– Perché dargli a bere quel che non è? Che si guardino quel che c’è davvero a teatro: merda!
– E allora io che c’entro? Se le cose stanno così, non vi servo… – obiettai ragionevolmente.
La forza di inerzia ebbe la meglio. Stilammo il programma degli spettacoli (lavorammo in due, Galja e io, gli altri ci sarebbero stati solo d’intralcio), come anche l’elenco di chi sarebbe intervenuto ai dibattiti, e garantimmo la traduzione simultanea: mobilitai gli allievi del mio seminario all’Unione scrittori. Ne uscì un programma coi fiocchi.
I teatranti italiani cominciarono a litigare già sull’aereo che li portava a Mosca: “Squarzina, sua moglie e qualche altro papavero ce li avranno, i biglietti per il Taganka, noi invece…”. Su mia richiesta il buon Ljubimov (“fosse stato qualcun altro, ma per gli italiani…”) sostituì una prova con una matinée e offrì il suo Maestro e Margherita a tutti gli ospiti – quelli appena arrivati e quelli “moscoviti” – aggungendo gli amici di Galja e i miei.
Il mio amico Pluček, direttore artistico del teatro della Satira, ci accolse a braccia aperte. Però Ma è esistito Ivan Ivanovič di Nazim Hikmet e Tërkin all’altro mondo di Tvardovskij glieli avevano tolti dal repertorio e il Suicida di Erdman era stato proibito dopo la prova generale. Riuscimmo comunque a vedere Che disgrazia l’ingegno, con Andrej Mironov nel ruolo di Čackij.
Durante il pranzo al Circolo degli attori mi capitò molto opportunamente di imbattermi in Tovstonogov.
– Georgij Aleksandrovič – gli dissi, – Ljubimov ha fatto una matinée apposta per gli italiani, mentre per la sua Storia di un cavallo abbiamo quattordici biglietti in tutto…
Tovstonogov scrisse subito un appunto per il suo amministratore: “Fa’ entrare 68 persone senza posto prenotato”. Alla fine tutti riuscirono a sedersi. Io mi piazzai all'ingresso, ac-canto al poliziotto di guardia, onde evitare che si intrufolasse qualche portoghese; ciò non di meno molti riuscirono a entrare comunque e vennero a ringraziarmi nell’intervallo.
Per i moscoviti la Storia di un cavallo – splendido lavoro di due miei amici, il poeta Rjašencev e il regista Rozovskij – era un evento. Si trattava di un musical (e il musical era un genere del tutto nuovo, per noi) tratto da Cholstomer di Lev Tolstoj, che tenne a lungo il botteghino anche a Broadway.
Una decina di fortunati riuscirono a vedere anche Sono venuto a darvi la libertà, tratto dall’epopea su Stepan Razin, con testo di Šukšin e regia di Spesivcev. È impossibile descrivere la gioia dei miei sinistroidi quanto alla forma e al contenuto: Spesivcev, gli attori del suo studio teatrale e i ragazzi della scuola vicina avevano restaurato un locale in un palazzo che doveva essere abbattuto; nelle tre file dell’anfiteatro c’era posto per ottanta spettatori, la “scena”, il palcoscenico, era appesa al soffitto con delle funi e gli attori venivano pagati dall’amministrazione del caseggiato.
Gli ospiti italiani erano entusiasti, convinti che ne avessimo da vendere, di teatri come quello di Spesivcev.
Dopo ogni spettacolo le discussioni sbocciavano spontanee, così come le conferenze stampa, perciò quando fu l’ora del convegno, avevano tutti le pile scariche.
A Rozovskij, solitamente brillante ma quella volta soporifero, consigliai dalla sala:
– Mark! Perché non canti, piuttosto?
E lui cantò. Una, due, tre canzoni, i song della Storia di un cavallo: fu travolto da un’ovazione di applausi.
La discussione si accese attorno al ruolo della parola e del testo in teatro. Tatjana Bačelis, nota critica teatrale, duellò con Squarzina, il quale riteneva che in Russia il testo fosse sopravvalutato. “Ingenui che siete! – diceva lui. – Così vi esponete a pericoli maggiori. È la parola l’elemento più vulnerabile. Fidatevi di chi ha imparato qualcosa dalla censura fascista!”.
Pluček incantò tutti ricordando i suoi primi i con Mejerchol’d.
Gli interpreti, invece, mi delo un po’: non tutti erano all’altezza, e molte sfumature andarono perse. Tanja Zonova e Viktor Gajduk, invece, furono perfetti.
Tra parentesi. Qualche giorno fa mi ha telefonato un professore di Firenze che conosco:
– Di recente ho tenuto delle lezioni a Mosca, al MGIMO – mi ha detto. – La responsabile della cattedra di Storia della diplomazia, la professoressa Zonova,
mi ha dato per te il suo ultimo libro, Il modello contemporaneo della diplomazia, e mi ha pregato di farti sapere che hai deciso tu il suo destino.
Lì per lì mi sono meravigliata, ma poi mi è tornato in mente che un giorno, al MGIMO, all’inizio dell’anno accademico, avevo visto una ragazza in lacrime alla porta della presidenza. “Che hai? – le avevo chiesto. – Cosa ti hanno fatto?” “Sognavo di studiare italiano, e invece mi hanno spedito a finlandese!” E giù lacrime. Andai dal preside e lo convinsi.
È così che il Caso decide il destino delle persone.
Come già accaduto con architetti, cineasti e scrittori, anche il convegno dei teatranti ebbe fine. Con la differenza, però, che quella volta provai un senso di vuoto più forte del solito, un senso di stanchezza mista a dubbi. E me ne andai a Peredelkino, a tirare il fiato al Dom Tvorčestva, vicino a Lilja Brik e Vasja Katan’jan, vicino agli Ivanov, ai miei.
Quando gli raccontai cosa eravamo riuscite a fare, Naum Grebnev – brillante poeta e traduttore – mi paragonò al tedesco di una vecchia barzelletta. Un se, un inglese e un tedesco sono condannati alla ghigliottina. Il se è fortunato: la ghigliottina si inceppa e, come previsto in quei casi, viene liberato. L’inglese ottiene che il suo ultimo desiderio sia esaudito: vuole andare alle corse dei cavalli e bere un whisky. Che cosa chiede il tedesco? “Prima cosa foi ripara bene ghigliottina, ja?”.
Di recente sono stata a Roma con Mila Nortman per assistere a un concerto di Nina Bejlina. Ospite dei Bukalov, la vita mi ha dato un esempio lampante di ciò a cui ha portato la mia “utile idiozia” sotto forma di un libro postumo di Giuseppe Boffa: Memorie dal comunismo. Storia confidenziale del quarantennio che ha cambiato il volto dell’Europa. La dedica di Laura Boffa dice: “A Galja e
Alëša, con amicizia e senza alcun pentimento” (il corsivo è mio – Ju.D.). In copertina ci sono Laura e Beppe sulla Piazza Rossa. Tra le altre fotografie ce n’è una dell’autore con la moglie, le sorelle Misiano, Ira Isakovič e la sottoscritta, seduti su un paio di massi sulla riva del lago Ladoga. Così leggo alle pagine 22 e 23:
“…ed è di lei (di me – Ju.D.) che ora vorrei soprattutto parlare perché oggi vive in I-talia, e a lei Marcello Venturi ha dedicato un libro basato sui suoi racconti. Di Venturi ho stima come uomo e come scrittore. Coetanei, lavorammo insieme negli anni ’40 nella redazione milanese dell’Unità. Ho fiducia sia in lui che in Julia.
Eppure…
A Julia ci ha unito un grande affetto sincero e, credo, reciproco.
Quante serate, giornate, vacanze abbiamo trascorso insieme. Quanti amici comuni abbiamo avuto. Quante confidenze ci siamo scambiati.
Andai a parlare ai suoi alunni, cui insegnava l’italiano in scuole di prestigio. Molti sono diventati diplomatici o giornalisti e mi è poi capitato di incontrarli, sia a Mosca sia in giro per il mondo, e tutti mi parlavano di quelle mie visite ai suoi corsi. Ci affezionammo anche al suo primo marito, Saša Dobrovolskij, un uomo che ancora adesso non esito a definire eccezionale: cresciuto tra i besprizornye, l’infanzia abbandonata dell’epoca della rivoluzione, era arrivato a essere uno dei capi dell’industria sovietica degli armamenti e, quando lo conoscemmo, dirigeva una grande fabbrica moscovita di strumenti ottici. Era un uomo robusto, squadrato, di larghe spalle, burbero e gentile, di poche parole, ma di forti sentimenti, che ha lasciato in noi una duratura impressione di grande rettitudine morale.
L’aveva del resto dimostrata col suo amore per Julia quando questa aveva conosciuto le pesanti attenzioni della polizia staliniana, episodio di cui fummo presto al corrente. Soffriva di gelosia – lo sapevamo, lo vedevamo – e questo finì col rovinare il loro matrimonio.
Quando si separarono, lo perdemmo di vista, se non per fugaci e occasionali incontri, ma gli conservammo tutta la nostra stima.
Perché mi dilungo in tanti particolari? Perché i miei ricordi non coincidono con quelli del libro di Venturi. Sì, certo, vi ho riconosciuto diversi episodi importanti che anche a noi furono raccontati.
Ma non c’è affatto nella mia memoria quella oppressione plumbea che pesa su tutto il racconto. Anche a noi erano note le traversie del ato di Julia. Con lei soffrimmo per quelle che incontrerà più tardi, ma non possiamo dissociare queste immagini da altre, di serenità, di entusiasmo, di gioia di vivere. Il quadro rimasto è quello della ricca tavolozza di altre intense umane esistenze. Ora, può darsi che la memoria mi inganni. Gli storici sanno quanto relativa sia la sua affidabilità come fonte. Non pretendo di avere ragione. Ma non posso nemmeno mettere da parte la mia testimonianza, perché mi aiuta a revocare con tutta l’attendibilità di cui sono capace un’epoca oggi chiusa, che tuttavia non merita di essere dimenticata”.
Ogni commento NON è superfluo. Se la menzogna imperante, il vivere sorvegliati, le delazioni, i trecento lager e i milioni e milioni di vittime dell’“impero del male” non creavano un’atmosfera di “plumbea oppressione”, perché mai – mi verrebbe da chiedere a Beppe, storico e autore di opere fondamentali sulla storia dell’URSS – perché mai due milioni di cittadini sovietici, alla prima occasione e in primo luogo per amore dei figli, hanno lasciato i loro focolari e si sono tuffati nel gorgo dell’emigrazione? Come pure la
tua amica Julia, “spensierata, entusiasta, gioiosa”, con i suoi sessantacinque anni suonati? Bisogna essere davvero sordi di cuore per inventarsi un ato radioso da sostituire alle speranze infrante di un radioso futuri. Come si fa a non capire – dopo tanti anni – che in era sovietica il ritrovarsi tra amici era un fenomeno sociale (che non per niente oggi, in condizioni diverse, va scemando), che era una nicchia in cui nascondersi per scambiarsi informazioni autentiche e in cui un individuo immancabilmente sottostimato poteva realizzarsi? Beppočka – così lo chiamava Ljuda Chaustova-Stanevskaja – non c’è più. La settimana scorsa, al Senato della Repubblica, a un anno dalla morte del senatore Boffa, Arrigo Levi ha aperto e chiuso il suo intervento con le parole: “Mi manca”.
Io ruppi ogni rapporto con lui e Laura (aveva ragione Razgon, sono un’intollerante e non so perdonare) dopo che lui mi gridò: “Ripeti a pappagallo la propaganda reazionaria!”. La mia colpa era stata quella di aver condiviso l’opinione di coloro che credevano che i brigatisti rossi e i comunisti avessero un unico “album di famiglia”.
Avremmo certamente continuato a litigare, dunque preferii prendere le distanze. I tentativi degli Stanevskij di favorire un riavvicinamento non portarono a nulla.
Ma non ho dimenticato che, quando abbandonai il paradiso sovietico, di tutti gli italiani “rossi” miei amici solo i Boffa mi dissero: “Sappi che, qualunque cosa accada, casa nostra è casa tua!”. Se anche fossero state solo parole, nessuno dei postcomunisti che si erano tanto profusi in buoni sentimenti nei miei riguardi ebbe mai a pronunciarle oltre a loro.
E sono lieta, avendone l’occasione, di essere ancora parte della vita di Laura e di condividerne la gioia, come per esempio quando è uscito un bel libro scritto dal figlio minore, Sandro: Sei una bestia, Viskovitz!
I dubbi quanto all’utilità di smascherare le nefandezze sovietiche mi assillavano sempre più. E se fossero stati sforzi sprecati? Come scoprire se c’era un qualche ritorno? Che cosa riportavano a casa i dirigenti delle quindici sezioni dell’Associazione Italia- URSS che ogni due anni venivano a frequentare un seminario in cui “nunziavo” loro la cultura sovietica? Perché la sorella Associazione URSS-Italia aveva tanto insistito sulla mia partecipazione, sapendola anticonformistica? Le tornava forse utile?
C’era, poi, un nuovo problema: il fatto che da parte italiana la mia presenza fosse posta ogni volta come condizione imprescindibile insospettì la parte sovietica. Dopo aver ricevuto un telegramma da Paolo Grassi che recitava “Fissare la data dell’incontro a seconda della disponibilità della sig.ra Dobrovolskaja”, il presidente della Radio-TV sovietica, Lapin, andò su tutte le furie. Il caso sfociò in un episodio comico.
Paolo mi rimproverava sempre un “immarcescibile pessimismo russo”. Io non credevo che la sua idea di far trasmettere dalla televisione italiana (in qualunque forma, in diretta o registrato) il Maestro e Margherita nella messa in scena di Ljubimov potesse diventare realtà. “Ljubimov non può uscire dall’URSS, le alte sfere lo odiano, il Taganka”, gli dicevo. “Sciocchezze”, si arrabbiava lui.
Un bel giorno all’aeroporto di Šeremet’evo sbarcarono due uomini della RAI. Se la memo-ria non mi inganna, uno si chiamava Scarano e l’altro Silva. Mi ritrovai alle costole, non so a che scopo, anche un certo K., interprete ufficiale della Radio-TV sovietica.
All’hotel Ucraina, a un tavolino del ristorante deserto (era un’ora strana, tra il pranzo e la cena) trascinavamo una conversazione sul tempo e il clima russo e su Dostoevskij, del quale gli ospiti giunti a Mosca per la prima volta erano grandi estimatori.
Nel bel mezzo di quella conversazione di estremo spessore udimmo uno squittio. Ddap-prima sommesso, poi sempre più forte, che diventò un sibilo. K. si sbottonò di getto la giacca e frugò nella tasca interna. Non servì. Stizzito, corse via dal ristorante.
Perché il suo microfono avesse sibilato a quel modo resta un mistero, per me. I miei due italiani rimasero di sasso: le avevano lette nei gialli, storie simili, ma che fosse appena successo a loro… Io scoppiai in una risata inarrestabile, fino alle lacrime.
Fu il povero K. a riportarmi a casa.
– Quasi quasi mi dimetto… –farfugliò prima di andarsene.
Probabilmente non era un KGBista in pianta stabile e probabilmente aveva scarsa dime-stichezza con i ferri del mestiere. E probabilmente aveva avuto quell’incarico perché Lapin voleva scoprire che cosa avevo da dire in gran segreto agli emissari italiani, così da smascherare quella signora senza la quale Paolo Grassi non muoveva un o.
La sera portai i miei due ospiti al Taganka. Il giorno dopo non ci fu nessuno, tra i pezzi grossi, che volle incontrarli, e i due tornarono a Roma con un pugno di mosche. Vedi, caro il mio Paolino – gli dissi tra me e me, – “la Russia non si intende con il senno, / né si misura col comune metro: / La Russia è fatta a modo suo”. Volendo, come continuano quei versi di Tjutčev tradotti da Tommaso Landolfi, “in essa si può credere soltanto”.
Post Scriptum. Non so che cosa abbia fatto il KGB del mio archivio - modesto,
ma ben selezionato. Ci ho messo una pietra sopra e me ne farò una ragione: non voglio davvero avere a che fare un'altra volta con quella gente. Però mi piange il cuore per lettere, fotografie, biglietti e bigliettini inestimabili, versi e curiosità varie che non avrei dovuto affidare al presuntuoso Rosario: "Sono un VIP, non mi perquisiranno mai". Lo perquisirono eccome, e si presero la piccola valigia che gli avevo dato.
Per un caso fortuito in quella valigia non è finito (e si è dunque salvato) il biglietto di un teatro, una testimonianza eloquente dell'epoca. Ce l'ho qua, davanti a me: è un i per il teatro Taganka, per uno spettacolo di Jurij Ljubimov: Vysockij. E ricorda i i per certi luoghi segretissimi e secretati. "Ingresso singolo", c'è scritto sopra e "Da esibirsi su richiesta" (di eventuali funzionari d Era il 1982el KGB, va da sé). C'è scritto proprio così: nero su bianco…
Lo proibirono, quello spettacolo. Ha dovuto attendere la perestrojka per calcare le scene.
Era il 1982. Quell'autunno - per sfuggire all'asfissia - me ne andai. Per sempre.
18. Amplio le relazioni culturali tra i nostri due paesi
Il mio primo cliente fu il direttore del Museo di Palazzo Venezia, a Roma, Giovanni Carandente. Purtroppo, però, le prime ciambelle non vengono mai col buco. Tutto pareva scorrere tranquillo, fino a quando quel fine critico d’arte non chiese al direttore della Galleria Tret’jakov di mostrargli il Quadrato nero di Malevič (e dunque di violare un tabù). Si vide rispondere con un gesto sprezzante che poteva significare solo: “Ma di che sciocchezze ti interessi!”. Il mio storico dell’arte chiese di andarsene seduta stante.
Non visitò nemmeno l’Ermitage: non ritenne adeguato al suo rango raggiungere Lenin-grado in uno scompartimento ferroviario a quattro posti. Fu poco duttile, insomma.
In previsione del freddo moscovita, sua sorella gli aveva sferruzzato una grossa sciarpa di lana cammello e prima di partire il professore me la regalò; quindici anni dopo fu alquanto commosso nell’apprendere, da una lettera speditagli da Milano, che la conservavo ancora. Di solito non mi attacco alle cose e non mi è difficile separarmene; anzi, le regalo persino con piacere. Se posso, però, non mi separo mai da quelle con un valore affettivo.
Fu, poi, la volta di Antonio Ghiringhelli, il Dottore, il sovrintendente alla Scala. Era arrivato a dirigere il teatro milanese il giorno dopo che la Wehrmacht e i fascisti avevano abbandonato la città: il teatro era stato bombardato e ridotto a un cumulo di macerie. Ghiringhelli era ricco, poteva contare sulle entrate della sua fabbrica di scarpe. A voler credere alle malelingue, pare che si fosse arricchito fornendo all’esercito gli scarponi con la suola di cartone con i quali Mussolini mandò le sue truppe sul Don. E si sa come andò a finire. Vero è, comunque, che Ghiringhelli rimise in piedi La Scala a sue spese, senza aspettare i sussidi dello Stato, ma potendo contare sul contributo dello scenografo Nikolaj Benois e della figlia di Šaljapin. Restò al timone per un quarto di secolo, rieletto
per ben undici volte, senza mai prendere un solo stipendio.
A Mosca veniva spesso, vuoi per stilare accordi quanto alle tournée, vuoi in veste di membro delle giurie dei concorsi per voci nuove o per nuovi ballerini. In tutta la mia vita non ho mai sentito tanta musica lirica come quando lavoravo con lui.
Ghiringhelli era un grande fan della Furceva, il ministro della Cultura dell’URSS. Se paragonata ai suoi colleghi di nomenklatura, Ekaterina Furceva era una vera signora (o per lo meno non era una zoticona come gli altri). Le “gaffe”, però, capitavano comunque.
– Vede, sarebbe bene che per la tournée aveste in repertorio solo opere italiane… – disse a Paolo Grassi, sovrintendente alla Scala e successore di Ghiringhelli, al momento di accordarsi per la tournée del 1974.
– La Scala ha mai presentato opere di compositori non italiani? – si stupì Paolo Grassi.
– Come no! Dove la mette Cio-cio-san?
Paolo Grassi non fece una piega. Come il suo predecessore, anche lui aveva un debole per la Furceva.
O un altro caso. Accadde quando Maria Callas, dimagrita di venticinque chili e senza più voce, portò a Mosca la Medea di Pasolini per mostrarla al ministro
(che sperava volesse acquistarla).
– Vuol venire a vedere la Medea della Callas? – mi telefonò la segretaria della Furceva. Al ministero della Cultura cercavano di indorare i miei tre rubli al giorno raddoppiando l’affabilità dei toni. “Ah, la nostra bella signora!”, mi accoglieva sempre la Furceva.
La segretaria mi invitava, melliflua, ad assistere alla proiezione di un nuovo film quando sapeva benissimo che avrei pagato di tasca mia, pur di vederlo. Facevo o non facevo la simultanea nelle cabine soffocanti dei cinema durante i festival? Era o non era l’unico modo per aggiornarmi sulla più recente produzione cinematografica? Non dimentichiamo che l’intelligencija russa andava pazza per il neorealismo. Quando tradussi per le edizioni Progress il libro di Giuseppe Ferrara Nuovo cinema italiano, ebbi accesso a tutto lo stock, ma in gran segreto, perché si trattava di copie pirata. Non mi concessero di invitare nemmeno mio marito. Che rabbia. Mandavo giù l’offesa e me li guardavo da sola, unica spettatrice.
Ma torniamo nell’ufficio spazioso della Furceva dove era stato approntato lo schermo. Ci sediamo una accanto all’altra, sul divano: la Callas, il ministro e io. Con la Furceva che mi bisbiglia all’orecchio: – Chi sarebbe, questa Medea?
Glielo spiego brevemente, bisbigliando anch’io. Dopo una decina di minuti ne ha abba-stanza.
– Una tazza di tè con le ciambelle? – propone l’ospitale padrona di casa, troncando ogni speranza di acquisto alla più grande cantante che il mondo abbia mai avuto.
La Furceva aveva una debolezza da nouveau riche, e cioè il culto dei potenti del mondo con i quali aveva a che fare per lavoro: teste coronate, presidenti, miliardari….
Una volta che il Bol’šoj ospitò un concorso di danza, l’anticamera del ministro della Cultura si riempì di coreografi di fama mondiale in attesa d’essere ricevuti. Nel suo studio, però, la Furceva stava mostrando all’amico Ghiringhelli dieci grossi album foderati in pelle con le fotografie di un recentissimo viaggio in America: “Questa sono io sullo yacht di Tizio… Guardi, dall’oblò si vede lo yacht di Onassis e Jackie Kennedy… Qui sono con la regina d’Olanda!…”.
E così per un’ora buona, dimentica dei coreografi.
Durante la decade dell’arte georgiana perse ogni freno, e a un banchetto ospitato in una delle sale interne del Bol’šoj si lasciò andare a commenti lusinghieri sul proprio fascino e sui corteggiatori che aveva in alto loco.
Che dire? C’era da crederle. Era una bella donna: ben fatta, curata, elegante. Ex operaia tessile, unico ministro donna del governo sovietico, con Chruščëv ebbe per parecchi anni una poltrona. Tuttavia, quando Chruščëv venne defenestrato e il marito, viceministro degli Esteri, la lasciò,la Furceva si ritrovò sola sia in casa sia in quel nido di vipere che era il governo dell'URSS, e si suicidò.
Quanto fosse difficile e ambiguo il ruolo che mi ero assunta fu evidente quando lo scultore sco Messina (il cavallo che troneggia di fronte alla sede romana della RAI è opera sua) mi chiese un consiglio: "Ora ti siedi e mi dici se gliele devo regalare o no". Messina aveva portato in Russia diverse sue opere per una mostra da tenersi prima al Museo Puškin di Mosca e poi all’Ermitage di Leningrado. Chiacchierando con il console sovietico a Milano, aveva accennato alla possibilità di donare alcune sue opere al popolo russo. Poeta oltre che
scultore, Messina era cresciuto amando Tolstoj e Dostoevskij e coltivando apionatamente il mito della Russia. Ma da persona intelligente e informata e, soprattutto, da gran osservatore qual era, capiva perfettamente che di quella Russia era rimasto ben poco.
Che cosa potevo rispondere? Che quel paese-mostro non era più lo stesso e non era degno del suo generoso dono? E che, però, i russi non c’entravano e la cortina di ferro li tagliava fuori dall’arte del resto del mondo?…
– Regalagliele – fu la mia risposta.
Si tolse un peso dal cuore. E donò le sue splendide sculture.
A una parete di casa mia c’è ancora un acquarello di Messina: una ballerina di cinque anni con il suo tutù verde pallido, trasmigrata per miracolo da Mosca a Milano.
Una volta in Italia lo chiamai subito. Come mi sentii salutare?
– Uh, che peccato! Qualche giorno fa ho ordinato i loculi al cimitero. Averlo saputo, ne avrei preso uno anche per te…
Era la reazione sana di un uomo convinto che ognuno fosse libero di scegliersi dove vivere e che in quel mio “trasloco” non vedeva niente di speciale.
La moglie Bianca non era più tra noi; il suo profilo dal collo di cigno è il simbolo del Museo Messina. sco viveva con Paola, la figlia di primo letto di Bianca. Dopo la morte dell’adorata moglie, quell’omone che spostava agilmente grossi blocchi di marmo si spense del tutto.
– Da che è morta la mamma è diventato un altro, una persona difficile – si lamentava Paola.
– Vieni a vedere che cos’è rimasto di me! – mi invitò sco.
Ricordo una conversazione. L’avevo chiamato per una questione delicata. Strehler era nei guai: gli avevano trovato in casa della cocaina, rischiava la prigione. I colleghi si (Strehler dirigeva il Teatro d’Europa e soggiornava spesso in Francia) avevano scritto una petizione al governo italiano in difesa del “Giorgio nazionale”. E di conseguenza anche il “Piccolo” si era messo in moto con un’altra petizione.
Mi telefonarono:
– Julia, tu che hai tanti amici, procuraci qualche firma!
Feci il giro dei nomi più altisonanti. Moravia disse subito di sì. Parise si rifiutò: “È un po’ che non firmo più niente”, mi disse. “Piuttosto vieni a trovarmi a Ponte di Piave, che non so quanto durerò ancora, a questo mondo…” (ancora non mi perdono di non essere partita il giorno stesso!).
Messina fece le bizze:
– Perché ti dai tanto da fare per quel guitto?
– Ma sco! Strehler lo fa di professione: è un grande regista e un grande attore. E poi era amico fraterno di Paolo Grassi…
– Va bene, se la metti così, firmo.
Mi scopro a pensare che in queste pagine non riesco a rivivere senza un sorriso la mia missione di “propugnatrice della cultura”. Lo scetticismo ha la meglio e tra le mie opere buone fa immancabilmente capolino un gogoliano “muso di porco” sovietico.
Oltre ai membri della sua delegazione, il sindaco di Bologna Zangheri aveva portato a Char’kov, città gemellata con la sua, un ricco assortimento di golosità bolognesi che sperava di far assaggiare alla “gente comune”. La sua democraticità, però, cozzava con gli usi sovietici, e alla cena di congedo si accomodò solo la nomenklatura cittadina. Il giorno dopo, quello della partenza, un arrabbiatissimo Zangheri mi rifilò un enorme parmigiano pregandomi di “distribuirlo ai moscoviti”.
In quei giorni a Char’kov l’unica mia valvola di sfogo fu Daisy Lumini, che raccoglieva e cantava le canzoni delle varie regioni d’Italia. Impegnai ogni minuto libero a rimare in russo il folclore italiano, e al concerto, dietro le quinte, lessi il testo russo prima che Daisy eseguisse le canzoni alla chitarra. Il suo recital fu il pezzo forte di tutto il programma del gemellaggio.
Una storia analoga accadde con la Settimana italiana a Bakù, gemellata con Napoli. I napoletani non avevano badato a spese e avevano riempito un intero aereo. Cosa non avevano portato! Pelletteria e scarpe, gastronomia, semi di fiori e ortaggi, una mostra di acquerelli della scuola di Posillipo, una sfilata di moda, una squadra di calcio…
Donarono alla città anche un forno per la pizza. Gli ospiti avevano pensato di prepararne e offrirne a tutta la città alla viglia della chiusura della Settimana italiana. La gente di Bakù se la rideva all’idea di quell’open day. Ebbero ragione: i “comuni mortali” non vennero ammessi in pizzeria, gli ingredienti vennero incartati per benino, imboccarono la porta di servizio e furono caricati su silenziose Volga nere che partirono verso destinazioni ignote, ma non troppo.
La ferrea gerarchia sovietico-orientale mi scioccò sin dal primo giorno: anche tra chi ci ospitava c’era chi andava in autobus e chi in automobile, chi pranzava in sale extra-lusso e chi insieme agli altri avventori. All’inaugurazione della Settimana italiana, alla Filarmonica qualcuno mi bisbigliò all’orecchio che in ultima fila c’erano due poliziotti venuti dalla provincia che avevano combattuto tra le file della Resistenza italiana. Il mio consiglio di farli accomodare al tavolo della presidenza venne snobbato: persone insignificanti (che certamente s’erano anche fatte qualche anno di lager) sedute accanto ai notabili, figurarsi!… Ci si limitò a una stretta di mano tra gli ex partigiani sovietici e il capo della delegazione italiana.
Siamo giusti, però. Capitava anche qualcosa di buono. Come la tournée della compagnia Proclemer-Albertazzi, che mi richiese capacità poliedriche e una dedizione totale. Fu la prima esperienza del genere nel mio curriculum. Un’esperienza splendida, lo dico subito, che tuttavia iniziò con un o falso. Il responsabile della tournée, uno zoticone del ministero (spesso si trattava di ex addetti del Gulag: chiusi i lager, li riciclavano al ministero della Cultura, che “non richiedeva particolari qualifiche”), non si era preso la briga di verificare se esistevano delle traduzioni russe dei testi in repertorio: l’Agamennone di Alfieri
e Come tu mi vuoi di Pirandello.
Non erano mai stati tradotti. Lo zoticone se li tenne sei mesi nel cassetto e mi chiamò qualche settimana prima che la tournée avesse inizio. “Con la sua esperienza…”, cercò di placare la mia ira, convinto che mi bastasse sedermi in cabina per cominciare a parlare in versi. C’era poco da fare: prima mi infuriai, poi mi arresi. Sgobbai giorno e notte. E ce la feci. Fortunatamente la traduzione mi riuscì e segnò l’inizio, una volta tanto, di un fortunato concorso di circostanze.
Vennero organizzate due prove generali affinché accordassi il testo russo all’originale italiano e li sincronizzassi al meglio cercando di seguire il labiale.
Anna Proclemer e Giorgio Albertazzi. Sono due attori, ma sono anche intellettuali.
E sono belli e innamorati. Anna indossa un abito grigio, bianco e rosso di plastica. È truccata pesantemente, come se dovesse andare in scena. Mi stupisce sedendosi sul gradino di una scala trasandata in pelliccia di visone.
– Non fa niente – scherza lei, – non è mia, la pelliccia, me l’ha prestata un’amica. Qualche giorno fa mi hanno ripulito la casa!
Loro, le star, hanno un codazzo di fan. C’è anche la figlia di Anna, Antonia Brancati, una ragazza un po' in carne. I rapporti tra loro sono tesi; Antonia non perdona alla madre di averla lasciata a Catania, bambina, con il padre Vitaliano. Per quanto il suo fosse stato un matrimonio d’amore, Anna non aveva retto ai ritmi familiari ed era tornata al teatro, a una vita su quattro ruote…
E se Giorgio ha una sua tattica - non perde occasione per parlare in toni ammirati di Brancati scrittore - Anna ce l’ha con l’indolenza della figlia: se vuoi fare la traduttrice, la rimprovera, studia, invece di ciondolare.
Questo dietro le quinte. In teatro, invece…
Il teatro Malyj è esaurito, non c’è un posto nemmeno a pregare.
Io faccio la simultanea dal palco centrale. Ho la traduzione davanti agli occhi e vedo il palcoscenico per intero: gli attori, i loro gesti… Non posso chiedere di meglio! In sala visi conosciuti: Rajkin, Ljubimov… Ci sono anche i miei Bukalov, i miei Stanevskij. Il pubblico non trattiene gli applausi a scena aperta; alla fine del primo atto sono uno scroscio, alla fine dello spettacolo un uragano, e quando per il bis Anna (che aveva studiato russo all’Università di Roma) recita la lettera di Tat’jana a Onegin è un’ovazione, il pubblico è in piedi.
È così per tutte le dieci sere che recitano.
Ho lo scarso pudore di pensare che parte del merito sia stato anche mio. In cuffia il pubblico sentì una traduzione calibrata come volume e come ritmo e che non copriva le voci degli attori: quella di velluto, da baritono di GiorgioAgamennone e quella pastosa da contralto di Anna-Clitemnestra.
Vengono poi altre dieci serate a Leningrado, con un successo analogo se non maggiore e tra un pubblico commosso e riconoscente. La compagnia è di ottimo umore, anzi entusiasta. A me va un po’ peggio. La cabina per la simultanea del
Club del primo piano quinquennale (che nome, per un teatro!) pare un armadio, non è areata, è in piccionaia. Non ha una finestra sul palco, ma una fessura, e gli attori restano fuori dal mio campo visivo. Nell’intervallo scendo nel foyer e sento:
– Ragazzi, sapete chi sta traducendo? Julia Bril’!
E quei “ragazzi” dai capelli brizzolati mi circondano e mi riempiono di baci e abbracci: sono i miei compagni di università. Da bravi filologi mi spiegano il segreto di tanto successo per una compagnia straniera: allo spettatore, mi dissero, non arriva solo il contenuto, ma anche la forma, il timbro delle voci, i suoni della lingua più melodiosa del mondo.
Quanto a Giorgio (Amleto premiato dagli inglesi e splendido interprete di Dostoevskij) mi chiese di fargli incontrare un esperto russo dello scrittore. E folgorò la professoressa Fonjakova, dottore in scienze, per erudizione e meticolosa conoscenza non solo delle opere dello scrittore, ma anche dei dettagli della biografia, degli interventi pubblici, della corrispondenza, delle varianti ai testi.
Anna e Giorgio batterono tutta la Pietroburgo di Dostoevskij, andarono a Pavlovsk e a Puškin. “Bello e triste”, fu la loro impressione.
Giorgio voleva distribuire ai giovani attori russi i rubli che guadagnava e aggiungerci anche qualche lira. Raffreddai i suoi entusiasmi: un sovietico poteva finire in galera se lo trovavano in possesso di valuta estera.
– Tornàte, piuttosto. Avete fatto la gioia di molti!
Nacque un’amicizia anche con Paola Borboni, una delle “grandi vecchie” che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita. Quella volta recitava la parte della zia di Elma, la protagonista del testo di Pirandello. Trent’anni prima Elma, la primadonna, era stata lei. Sempre con la battuta pronta, le sue freddure erano diventate d’uso corrente.
Grande attrice e donna di successo, non aveva voluto farsi una famiglia. Fondava una compagnia, andava in rovina, vendeva i suoi gioielli per pagare i debiti e ricominciava.
Ha vissuto una lunga vita, e negli ultimi anni non le è mancato il conforto di un giovane compagno.
Con Anna e Giorgio ci rincontrammo nel 1980, quando finalmente mi lasciarono venire a Roma. Giorgio venne a prendermi in albergo, vicino a piazza Barberini, su una Cinquecento scalcagnata. Mi fece accomodare nel loculo accanto a sé e mi spiegò:
– Ho una Mercedes, ma questa è più facile da parcheggiare. E abbiamo anche una tenuta fuori Roma. Ma che cosa ce ne facciamo, io e Anna, se non ci andiamo quasi mai? Io ho i film, lei le tournée…
Quella sera, a cena nella tenuta in campagna, ci aspettavano Anna e Antonia col marito. Fu una serata di ricordi. Scoprii che la tournée russa era rimasta nel loro cuore, e che non avevano mai più provato nulla di simile, né prima né dopo.
Nel 1995 Anna mi mandò la sua biografia fresca di stampa: Lettere da un matrimonio. Si tratta essenzialmente delle lettere che le scrisse il marito – scrittore eccezionale, e il libro ne guadagna. Le risposi con una lettera che era una vera e propria recensione.
La sua storia d’amore con Albertazzi finì, la loro collaborazione artistica si ridusse al minimo. A Milano andai a un loro spettacolo: un testo inglese tradotto da Antonia, che nel frattempo aveva fatto esperienza di traduttrice e si era riavvicinata alla madre. In scena Anna era praticamente quella di un tempo. La sua classe eccelsa le permette di non recitarsi addosso…
– Non dimenticarti di are da Giorgio – mi disse come viatico, in camerino. – e non far caso a come è diventato!
La voce era lievemente irritata. Di dove veniva quella ruggine tra loro?
ai da Albertazzi. Gli anni erano trascorsi anche per lui: la voce non era più la stessa, pareva sbiadito. A sentire i giornali scandalistici, aveva un debole per le ragazzine. Mi accolse dicendomi:
– Sai che mi sono dato alla politica? Sto con Fini…
Eccola lì, la causa della ruggine: la politica.
Nella primavera del 1972 mi chiamò Kapalet, dell’Associazione Urss-Italia.
– Stiamo aspettando una delegazione parlamentare dall’Italia, li portiamo in Siberia e in Uzbekistan. Vuol venire? Le piacerà, vedrà. Non dovrà preoccuparsi di niente. A tradurre ci penserò io, lei sarà nostra ospite. Sarà un viaggio premio.
Dunque trascorsi una settimana in compagnia di cinque onorevoli.
L’anima del gruppo era Oscar Mammì (repubblicano e futuro ministro delle Comunicazioni), un campione di ironia. Gli davo venti copechi per ogni battuta riuscita, come usavamo fare tra amici. Fu subito contagioso. Una volta lo sentii che contrattava con Virginio Rognoni, democristiano:
– E no, la battuta sulla Piazza Rossa che si sbianca e la Casa Bianca che arrossisce vale almeno un rublo, altro che venti copechi!
Nulla, nemmeno la noia mortale della visita al Gosplan (con gli alti papaveri barbosi che cantilenavano i loro interventi) riuscì a scalfire quel buonumore. La delegazione gradì anche il goffo carnevale - ufficialmente detto “giorno del funerale dell’inverno” - allestito nella filiale dell’Accademia delle Scienze di Novosibirsk, con la fisarmonica, i tre eroi dell’epos russo, le figlie dei boiardi, i bliny col caviale e la gita in trojka a chiudere degnamente il tutto. È così, purtroppo, che gli italiani immaginano la Russia, ed è la migliore spiegazione del successo italiano di un film fasullo come Oči čërnye, di Nikita Michalkov. Della serie: “Se è questo che volete, eccovi serviti!”.
– Io ho le gambe corte, per questo quando sono seduto assomiglio a Corghi (del PCI – Ju.D.). Sappiate, però, che i grandi uomini come Cesare, Napoleone e Lenin erano tutti bassottelli – mi assicurava Mammì.
Il socialdemocratico Amadei, invece, imparò a bere vodka alla russa, cioè a pasto e non dopo, “per digerire”. avamo molto tempo a tavola. I siberiani offrirono agli ospiti ogni ben di Dio. Avrebbero voluto rimpinzarli, fieri, dei cetrioli che coltivavano nelle serre in mezzo alla tajgà, ma gli unici ad apprezzare quel prodigio dell’agricoltura eravamo io e Kapalet, noto buongustaio: gli italiani non condividono quella ione tutta russa.
Dopo qualche bicchiere cantavamo in coro Quel mazzolin di fiori.
Una volta Maria Teresa (comunista) improvvisò un duetto con Corghi e intonò Bandiera rossa. Quando toccò a “Evviva il comunismo e la libertà!”, Mammì finse un’espressione stupita e commentò:
– Ma come, l’uno e l’altro insieme? Impossibile!
Da Novosibirsk a Taškent c’erano tre ore di volo e uno sbalzo termico di cinquanta gradi, da -25 a + 25. Ma i vasi sanguigni che avevamo all’epoca seppero adattarsi alla bisogna. A Taškent ci attendeva un altro tipo di nomenklatura, quella uzbeka. Taškent è immersa nel verde, le strade sono gallerie di fogliame. C’è anche un monumento al terremoto: un volto d’uomo che stranamente ricorda Mussolini. Quartieri nuovi. Una fabbrica di oggetti d’arte. Un concerto del gruppo Guzal’… E poi via, su una carretta di aereo fino a Samarcanda. Il Centro dell’astrakan è una meta imperdibile, per questo ci caricano tutti su una Čajka imponente preceduta da una macchina della polizia e filiamo a sirene spiegate, a tutta birra, ando anche col rosso. Poi tocca alla tomba di Tamerlano, al mercato (con zucche e angurie gigantesche), alle cupole turchesi delle moschee…
Un caleidoscopio di sensazioni cromatiche, sonore, olfattive…
L’eredità di quel viaggio sibero-uzbeko è un’amicizia duratura con Virginio Rognoni, pavese, professore di diritto, e con sua moglie Giancarla, donna cordiale, alla mano, giurista anche lei (sua ex studentessa, lavora all’Istituto di medicina legale). Hanno quattro figli, tre naturali e uno adottivo. Virginio (che a casa chiamano Gingio) è stato ministro degli Interni negli anni “di piombo” delle Brigate Rosse, poi ministro della Difesa. È uscito indenne da Mani pulite ed è rimasto qualche anno lontano dal lavoro; poi, però, lo hanno nominato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura.
Il mio ventennio italiano ha ormai delle tradizioni radicate: Capodanno con Marcello e Camilla a Campale Molare; agosto ancora con loro, ma nel monastero di Badia di Tiglieto; il 25 agosto a casa, a Milano, per la conference call di compleanno (con i miei amici sparsi per il mondo che mi chiamano per farmi gli auguri); Natale dai Rognoni. La mattina del 25 Virginio a a prendermi e mi porta a Pavia; poi, in una cerchia familiare che si allarga ogni anno, c’è il pranzo. La sera lui e Giancarla mi riportano a Milano.
È al mio vecchio, caro amico Gingio che va tutta la mia riconoscenza per avermi portato via dalla prigione sovietica facendosi beffe degli sbirri (come racconterò nel dettaglio più avanti).
Ma non mi va di finire qui il capitolo.
E allora? Allora racconterò di come aiutai Beppe Vannucchi (della RAI) a trasmettere il Boris Godunov dal Bol’šoj.
Io e Beppe ci intendemmo subito. Non solo perché me lo mandava Paolo Grassi e non solo perché avevamo un sacco di amici in comune, in Italia.
Condividevamo gusti e ioni. Beppe è uno spilungone occhialuto, è persona di talento, giornalista, musicologo. Il padre voleva che fe l’avvocato, invece lui correva ad assistere alle prove del Piccolo o ad ascoltare quelle della Scala: la musica era la sua malattia. Ci chiudemmo in casa mia per dodici ore, lui riempì un taccuino con i miei racconti su Puškin, Musorgskij e “dintorni”, e digerì subito tutto quanto. Un metabolismo eccezionale, da vero professionista! Con i ragazzi della TV sovietica, tutti bravissimi, andarono subito d'accordo.
La trasmissione sarebbe potuta partire direttamente dal furgone della RAI parcheggiato fuori del teatro, ma i sovietici dovevano filtrare. Così il mezzo della RAI trasmetteva a quello sovietico che aveva accanto, che a propria volta trasmetteva a Ostankino, il centro televisivo, e di lì in Italia. Ma tutto andò per il meglio. E andò così.
Beppe e io siamo nel palco di prima fila di fronte al palcoscenico.
– Sistemami la cravatta, mi sta sempre storta – mi chiede lui, un po’ nervoso.
Dopo di che comincia a descrivere l’opera a grandi linee. Per metà legge, per metà va a braccio, con maggiore – brillantissima! – libertà nei cinque minuti di intervallo tra le scene. Miracolo: microfono, auricolari, funziona tutto! Non c'è unsolo momento di vuoto, le parole scorrono come ruscelli. Accendo la lucina. Verso un po’ di caffè dal thermos. Gli anticipo i nomi propri: si sa che gli accenti russi sono ballerini. Prima della fine del primo atto corriamo verso il palcoscenico lungo un corridoio sotterraneo: una maratona, dato che è lontano. Strada facendo spuntano alcuni uomini del KGB che vogliono sapere chi siamo (il Bol’šoj è un teatro di regime, ha un palco governativo).
Abbiamo in programma alcune interviste. Beppe mi aveva chiesto di preparare qualche domanda. È entusiasta di ciò che gli propongo: – Brava, a me non
sarebbe venuto in mente!...
Parla il primo macchinista di scena: – Salutatemi il signor Ragazzi, il mio collega della Scala. Abbiamo lavorato insieme due volte…
Beppe: – Ci starà sicuramente guardando!
Il più simpatico è il cantante Artur Eisen-Varlaam.
Beppe chiede ai colleghi russi di “frugare con le telecamere dietro le quinte” e subito una voce mi gracchia nell’auricolare: – Perché diavolo fate vedere quegli stracci, quella robaccia!
Hanno mille occhi, quelli là. Prima della fine del secondo atto torniamo sul palcoscenico: c’è l’intervista con la primadonna, la Archipova, con il basso Nesterenko, con il tenore P’javko. P’javko azzarda qualche parola in italiano.
Tutto fila liscio, senza strafalcioni, senza forzature. Professionalmente impeccabile. Sono bravissimi anche Volcic che trasmette dalla hall e Citterich vicino al busto di Šaljapin. Sipario.
Barcollando per la stanchezza raggiungiamo la hall, dove ci aspettano Demetrio ed E-duarda Volcic, Piero e Marisa Ostellino, Stefano e Pucci Rastrelli, Citterich. Grassi ha già telefonato da Milano: “Tutto splendido!”. I Volcic ci invitano da loro. Eduarda mi sussurra:
– Non ho niente in casa, ma ci inventeremo qualcosa…
Ci inventiamo di are a casa mia, io ed Eduarda, con la macchina di lei, per prendere quello che ho in frigo. Il dessert è un barattolo di marmellata di mele e nespole che la nostra Natal’ja Michajlovna ha appena preparato. Quindi voliamo tutti a casa Volcic.
Beppe Vannucchi seppe trasformare uno spettacolo polveroso e vecchio di più di quaranta anni in un vero bijoux: prodigi della ione e del talento!
Post scriptum. La sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico, erede di una grande famiglia teatrale, ha lavorato con i più celebri registi italiani. Fu contenta di avermi accanto alla cerimonia di consegna del Premio per la cultura, in Campidoglio (nel 1987). Quando sentì il mio nome, si voltò di scatto:
– Cercavo proprio te! Mi hanno detto che solo tu puoi aiutarmi a chiarire una certa questione…
Lei, sceneggiatrice di Oči čërnye, era stata invitata a Mosca da Nikita Michalkov.
Al Circolo dei cineasti l’avevano praticamente linciata. E lei non aveva capito perché.
Perché, dunque?, mi chiedeva.
– Per i Michalkov, Suso. L’intelligencija russa ne è stufa marcia.
19. … Facciamo come se vivessimo in un paese normale…
Vivere in Unione Sovietica era umiliante. Perché umiliante era vivere attanagliati dalla paura. Man mano che i nostri (rischiosi) legami culturali si ampliavano, io e Senja face-vamo mosse sempre più azzardate: io ero in corrispondenza con gli autori che traducevo, e quando poi venivano a Mosca, se non dormivano da noi, con noi avano la giornata; amavano molto la nostra casa e si affezionavano a Senja, conversando in un misto di italiano e spagnolo. Per andare a trovare Luigi e Leda Vismara, che vivevano nel “ghetto” per stranieri del Kutuzovskij prospekt, bisognava are il posto di controllo all’ingresso. Luigi ci veniva a prendere in macchina e poi sfrecciava accanto alla garitta. Avrebbero anche potuto fermarlo, e se ci avessero beccato, chissà…
Solo il filosofo Merab Mamardašvili, persona veramente libera, si permetteva di parlare facendosi beffe delle cimici. Poi lo rispedirono a Tbilisi.
Ci vergognavamo ad avere paura, ma bisognava scegliere: o ci si tappava in casa, oppure si osava.
– Sai che ti dico? – mi propose Senja. – Facciamo come se vivessimo in un paese normale!
Facile a dirsi…
Se gli ospiti erano gli amici di sempre (con gli stranieri temevamo una figuraccia), coprivamo il telefono con un cuscino sperando ingenuamente che “quelli” non riuscissero a sentire.
Paolo Grassi ci fece scoprire un particolare inquietante: sotto di noi, al piano terra, a lato della porta d’ingresso, c’era una finestra sbarrata da una lastra di ferro. C’eravamo ati accanto per anni senza farci caso… Un'altra cosa a cui avevo imparato a non badare erano i volti dei anti: mi faceva troppo male. Mi resi conto a Milano di quella mia abitudine: come mai non guardavo chi mi ava accanto? Ormai la ragione era stata rimossa…
Era un’afosa notte di luglio, dunque. Rimasto da noi fino a tarda ora, Paolo Grassi se ne andò e vide che la lastra di ferro al piano terra era stata rimossa e la finestra spalancata; all'interno del locale scorse una “postazione” telefonica. Proprio sotto di noi!
La mattina presto squillò il telefono.
– Ho delle cose da dirti. A quattr'occhi, però – mi avvertì Paolo il cospiratore. Fu così che scoprimmo di vivere su un vulcano.
Quando ci cambiavamo per andare a un ricevimento in ambasciata, il refolo freddo della paura finiva “giù, nella fossetta toracica”, come dice la Cvetaeva, relegato là, senza che osassimo confessarlo nemmeno a noi stessi.
Perché ci lasciavano fare? I contatti con gli stranieri erano vietati, e se proprio non se ne poteva fare a meno, bisognava chiedere l’autorizzazione a chi di dovere, cosa che noi non facevamo mai. Non escludo che fosse, anche quella, una sorta di “sindrome dell’utile idiota”: caro il mio Occidente calunniatore, non vedi di quanta libertà gode l’intelligencija sovietica? Son tutte bugie della BBC, di Radio Liberty e compagnia bella!
Ricevere un invito in ambasciata e rifiutarlo adducendo come scusa l’emicrania o il troppo lavoro lo si poteva fare una volta, forse due, ma a lungo andare ci si vergognava.
A un certo punto a Mosca arrivò il nuovo ambasciatore cileno Pacheco con la moglie – giovanile, bella e intelligente – e una nidiata di bambini.
Si affezionarono subito a Senja e a me, e ci invitavano ai ricevimenti in ambasciata o a casa loro: di giorno, di sera, con o senza bambini. Sorse, dunque, un problema: se viviamo in un paese normale, è normale ricambiare l’invito. O sbaglio?
Senja comperò al mercato un grosso pezzo di carne di vitello. L'arrosto era il cavallo di battaglia della nostra Natal’ja Michajlovna, per non parlare dei pirožki, le sue insuperabili focaccine ripiene. Dunque non facemmo una brutta figura.
Il giorno dopo Pacheco telefonò ai colleghi:
– Perché dite che i sovietici hanno paura di invitare stranieri a casa loro? Storie. Volete una prova? Ieri sera siamo stati a cena dai Gonionskij!
Qualche tempo dopo Pacheco chiese a Senja di portarlo con sé al seggio elettorale: gli interessavano le elezioni. Il candidato era uno solo, ma a votare si andava comunque, a scanso di complicazioni. Io mi precipitavo la mattina presto, mossa da spirito di carità: la giovane impiegata del Gosplan – l’ente
presso il quale si trovava il nostro seggio – mi supplicava di presentarmi prima delle dieci: – Devo lascaire mia figlia di tre anni a casa da sola, sia gentile…
È probabile che il nostro Pacheco sapesse già tutto delle elezioni, ma voleva comunque verificare di persona. Senja ci pensò su: portare un ambasciatore in un seggio senza un'autorizzazione ufficiale era davvero troppo. Chiamò il ministero degli Esteri. Telefonò a un viceministro che conosceva e che prese una decisione salomonica:
– Te ne assumi tu la responsabilità!
Saputo di quell’ospite di riguardo, il presidente del seggio diede ordine di comperare dei fiori e di stendere una atoia. E vincendo la paura, Senja si presentò con l’ambasciatore
Vincendo la paura ebbe inizio anche la mia lunga amicizia – sono quasi quarant’anni, ormai! – con Marcello Venturi e la moglie, la scrittrice Camilla Salvago Raggi. Avevo tradotto per le edizioni Progress un romanzo di Marcello che si ristampa a tutt’oggi, Bandiera bianca a Cefalonia, la storia d’amore tra un ufficiale italiano e una ragazza greca sullo sfondo dell’eccidio della Wehrmacht (dopo che l’Italia firmò l'armistizio con gli alleati, a Cefalonia i tedeschi sterminarono novemila tra soldati e ufficiali italiani).
L’ultimo capitolo lo tradusse la mia collega Zlata Potapova, dunque andammo insieme a incontrare l’autore e la moglie. Trascorremmo la mattina in giro per monumenti: andammop al Cremlino e alla Casa-museo di Lev Tolstoj a Chamovniki. Al Cremlino Camilla mi indicò un’onorificenza zarista e sbottò:
– Ce ne abbiamo una uguale, a casa nostra! (l’aveva ricevuta il nonno ambasciatore, il marchese Salvago Raggi).
Giunse l’ora di salutarci. E Marcello annunciò:
– I nostri ospiti, l’ambasciatore argentino e la moglie, vi vorrebbero a pranzo!
(I Venturi erano arrivati a Mosca su invito dell’amico Jorge Casal, ex console argentino a Genova).
Ci fu un istante di panico al limite dello svenimento: dovevo trovare una scusa e rifiutare. Erano persone normali, non avrebbero capito. E se avessero capito sarebbe stato persino peggio. Con le ginocchia che mi tremavano, ma con tutta la nonchalance che riuscii a sfoderare, mi spremetti un:
– Con piacere, grazie!
Jorge e Beba erano due intellettuali: lui architetto, lei letterata. Per metterci a nostro agio, Beba ci mostrò la casa che lei stessa aveva arredato: moquette bianca, mobili bianchi…. Anche la mia Ksenja aveva una camera da letto di betulla bianca della Carelia, però all’antica, con le dorature, mentre quelli erano mobili ultramoderni.
Beba si era concessa solo qualche macchia di colore qua e là: i cuscini, i quadri…
Bene, la tremarella era ata.
A tavola, fu Jorge a farmi perdere la bussola. Venne fuori che conosceva Senja. Gli ambasciatori dell’America latina erano tutti amici suoi e sempre gli strappavano notizie di prima mano sul loro Paese: il professor Gonionskij – che non poteva lasciare l’URSS – le pescava dalla stampa latinoamericana che consultava per diverse ore al giorno nella biblioteca “secretata” per addetti ai lavori.
– Dobbiamo assolutamente vederci! – si rallegrò il padrone di casa.
E arrivò un invito a cena. Poi un altro, e un altro ancora…
A qualche anno di distanza Marcello e Camilla tornarono a Mosca ospiti dell’Unione scrittori perché il mio collega ucraino Perepadja aveva tradotto alcuni libri di Venturi (a proposito, una traduzione di Perepadja di Via Gor’kij 8, interno 106 è stata pubblicata sulla rivista di letteratura straniera Vsesvit nel 2000).
Molta acqua era ata sotto i ponti. Nel novembre del 1974 Semën, Senja, se n’era andato. Sul più bello, a 57 anni. La colpa della sua morte prematura è tutta del regime. Bombardato da influssi negativi e con decenni di mortificazioni al suo amor proprio, un uomo di normali ambizioni non poteva non risentirne anche nel fisico. Con quelli come lui il cancro ha vita facile.
Avevamo entrambi alle spalle un fallimento familiare.
Io annaspavo nel mare della vita rischiando di andare a fondo ogni minuto. Lui era più forte: vide che mi mancava il respiro, mi afferrò e mi trascinò con sé. Arrivammo a riva sfiniti, ma quando poi tirammo il fiato, ci prendemmo per mano e ripartimmo insieme. In due è più facile sopravvivere.
Andavamo d’amore e d’accordo. Lui si alzava presto, lavorava qualche ora e poi mi veniva a svegliare con il vassoio in mano.
Quando a Zina Pluček dicevano che era uscita la mia ennesima traduzione, lei sbuffava:
– E ci credo! Senja le porta il caffè a letto!
Programmando le nostre giornate, facevamo di tutto per trascorrere insieme più tempo possibile. Senja si faceva in quattro perché non perdessi tempo con le faccende domestiche, che mi tenevano lontana dal “banco di lavoro”. Dalla spesa e dal cucinare mi esonerava Natal’ja Michajlovna, che dopo tanti anni con noi era ormai di casa (viveva con la famiglia della figlia, che le faceva pagare la luce e il gas!).
– Ci vengo lo stesso, da lei, anche gratis! – mi disse quando rimasi sola. E davvero si presentò ogni giorno, fino a quando partii per l’Italia.
Faticai a a riprendermi dalla sua morte. Soffrivo di allucinazioni sonore (mi pareva di sen-tire la chiave che girava nella porta) e di un’insonnia feroce.
Dopo i funerali Valja Isakovič ò qualche notte da me. Rimasta sola, non distinguevo più il giorno dalla notte. Vidi una luce in fondo al tunnel solo in seguito a un fatto.
Sono i primi giorni di primavera. È il crepuscolo. Sento distintamente un gemito. Il primo pensiero: è Senja… Un altro gemito, un altro ancora… Starò impazzendo? Rimasi a lungo ad ascoltare, poi lo seguii, quel suono. Veniva da oltre la parete, da sotto il soffitto… Era sempre più disperato: fatemi uscire, fatemi uscire! Telefono agli addetti alle riparazioni: ottengo risatine e beffe. Tremo tutta. Ossignore, è l’anima di Senja che vuole liberarsi…
Alla fine si presentano due ragazzotti, due idraulici. Uno sale sulla scala e comincia a tastare la parete fino a trovare la grata della ventilazione; la estrae con uno scalpello, ci infila un braccio fino al gomito e tira fuori un piccione mezzo morto e tutto coperto di ragnatele.
La povera creatura si zittisce all’istante. Non vuole nemmeno bere. La portano via…
Da quel giorno cominciai a sciogliermi pian piano. Ricominciai a rispondere alle telefonate, a vedere gente.
Mi scrissero i Venturi. Stavano per venire a Mosca. Un giorno, finalmente, mi telefonarono dall’Hotel Pekin:
– Siamo arrivati. Quando ci vediamo?
L’Unione scrittori aveva messo alle loro costole Afanasij, italianista e gran confusionario: era per colpa sua che non riuscivano mai a raggiungermi.
Rimandammo l’incontro al loro ritorno da Kiev.
Sospettai che ci fosse sotto qualcosa. E avevo ragione. Era il quarto anno che mi negavano il visto per andare a Roma a ritirare il premio. La mia benefattrice Tamara Aksel’, traduttrice dal ceco e responsabile di partito per la sezione traduttori, mi trascinò letteralmente dal segretario dell’Unione scrittori – Markov – a sollevare la questione. La risposta di Markov fu lapidaria:
– Gli italiani avrebbero dovuto consultarci, prima di decidere di premiarla …
Mi alzai senza proferir verbo e me ne andai.
– Se vuoi ci penso io – mi propose Moravia. – Scrivo un bell’articolo sul Corriere della Sera…
– Per carità, sarebbe peggio…
Quello fu lo sfondo contro il quale si svolse la seconda visita di Marcello e Camilla. Di ritorno da Kiev, un sabato mattina mi chiamarono dal Pekin:
– Siamo tornati. Dunque?
– Dunque venite a pranzo da me. Vi aspetto all’una!
Di lì a poco chiamò Afanasij:
– Allora oggi veniamo a pranzo da lei?
Faccio violenza alla mia natura ospitale e scandisco:
– A pranzo da me vengono i miei amici Venturi. Con lei, Afanasij, sarà per un’altra volta… Lui insiste:
– Allora le mando l’interprete!
– Non mi serve l’interprete. Lo parlo, l’italiano!
– Mi dispiace, è già uscito.
– Com’è uscito di lì, uscirà anche di qua.
Ma Afanasij non demorde.
– Non è che deve fare rapporto, Afanasij caro? – sbotto io.
– Lei mi offende, Julia Abramovna… E sia. Però mi prometta che non parlerà del premio!
– Avrebbe altri argomenti di conversazione da suggerirmi?
Sapevo che esisteva una regola non scritta: i traduttori letterari che incontravano i loro autori erano tenuti a farlo in presenza di testimoni ufficiali. Io la stavo violando.
Suonano alla porta: è l’interprete. Lo congedo su due piedi. Poi telefono a Marcello. Che aveva assistito alla mia conversazione con Afanasij, qualcosa aveva colto e si era preoccupato.
– erai dei guai a causa nostra!
– Me ne infischio. Venite!
Vennero, il pranzo fu gustoso, la conversazione anche.
Ovviamente non potei evitare lo scandalo. Il lunedì seguente mi telefonò Tamara Aksel’:
– Che cosa hai combinato? Alla Commissione esteri stanno affilando le unghie. Il capo è su tutte le furie: “Cos’è, la Dobrovolskaja non aveva un piatto di minestra in più?”.
Avevo violato un tabù. Marcello e Camilla se la ricordano ancora, quella storia. E ricordano anche quanto aveva bevuto Afanasij durante il viaggio in Ucraina: mezzo litro di vodka appena sveglio, cognac dopo pranzo e ancora vodka prima di coricarsi. Così per tutto il viaggio.
Altrettanto fece in Italia. Afanasij accompagnava tre membri dell’Unione scrittori esperti di prosa di guerra, e una sera chiese a Marcello Venturi di fermarsi per la notte. La villa che Camilla ha ereditato dal nonno diplomatico a Campale, tra i colli pittoreschi del Monferrato, è spaziosa, e Marcello non se la sentì di rifiutare. Sul far del giorno sentirono dei rumori in salotto. Quatti quatti, in pantofole e vestaglia, Marcello e Camilla scesero giù e si trovarono faccia a faccia con Afanasij che stava svuotando il bar.
Morì di cirrosi.
20. Sacrificherei anche mia madre…
Agli esordi della mia attività di traduttrice le edizioni Molodaja gvardija mi proposero di tradurre I giorni della nostra vita, i ricordi di Marina Sereni, moglie di Emilio, tra i fondatori del Partito Comunista italiano. Perché no, pensai, la storia di una vita è sempre interessante. E accettai.
La madre di Marina, un’ebrea russa, era fuggita con la figlioletta dalla Russia zarista dopo che il marito rivoluzionario era stato giustiziato.
Si era stabilita a Roma, aveva preso in gestione una pensioncina e aveva tirato su la figlia. La diciottenne Marina si era poi innamorata di Emilio (Mimmo) Sereni, figlio del medico di corte del re Vittorio Emanuele III. Il dottore aveva due figli: uno diventò marxista (Emilio), l’altro un sionista di spicco (Enzo). Emilio e Marina si sposarono e vissero una vita da rivoluzionari di professione con tanto di clandestinità, arresti, galera…
Come tutta la letteratura straniera, anche l’edizione russa dei Giorni della mia vita andò esaurita in un attimo e arrivò fino alla lontana città siberiana di Abakan, nella scuola dove insegnava il mio compagno di università Miron T. Nel circolo letterario che dirigeva, quel libro venne letto a voce alta e tanto apprezzato, che i ragazzi mi elessero a membro onorario. Mi mandarono la spilletta di appartenenza, fatta da loro, e mi chiesero di aiutarli a scrivere alle figlie di Marina, loro coetanee. Consigliai vivamente di contattare la famiglia Sereni tramite l’Unità e voltai pagina.
Molti anni dopo, nella libreria Porta Romana al piano terra del palazzo di Milano dove abito (anche in Via Gor’kij 8, a Mosca, al "mio" piano terra c’era una libreria) mi capitò per le mani Il gioco dei regni, un libro di Clara Sereni. Lo
sfogliai e capii che l’autrice era la figlia di Marina. Lo comprai, lo lessi, e constatai amaramente di essere stata per l’ennesima volta un’ “utile idiota”.
Che cosa venni a sapere dalle memorie della figlia? Quanto era stato omesso, o forse nascosto, nei ricordi della madre Marina, che si fermano al 1951.
È il 1937. Emilio Sereni e la moglie stanno per partire per l’URSS.
Il loro non è un viaggio come tanti, è una
“…missione, un riconoscimento (…), un’attesa grandissima” che Emilio bramava con grande emozione..
Il paese del comunismo gli diede il benvenuto con l’arresto e la prigione… Lui non se ne stupì, sapeva delle idee perverse di Stalin quanto ai controrivoluzionari, ma era d’accordo con lui e con il partito quanto alla necessità di essere sempre vigili anche con se stessi.
Non fece questioni di antisemitismo. Neanche quando capì che i dubbi, anzi le accuse a suo carico vertevano quasi esclusivamente sui suoi rapporti non sufficientemente prudenti con ebrei, da Hirschmann ad Abramovich a Curiel, a Eugenio Colorni. A Enzo.
Si disse e disse che tutto questo, e l’altro che si poteva intuire, era giusto, anzi necessario. Così alto era il fine (…) Tornò da Mosca convinto delle proprie scelte più che mai: la fortuna che aveva avuto – di tornare – era una conferma
(…). Insegnò a Xenia e Leuzzi (la moglie e la figlia – Ju.D.) una canzone d’amore, Sulejko (…) la prediletta di Stalin”. A Mosca “aveva trovato conferma alla tendenza già sua a discriminare, a separare in ogni momento le responsabilità di Partito dagli affetti, dalle emozioni, dalla vita.
Chissà se, in caso di necessità, avrebbe rinunciato anche a Xenia, legata a lui così indissolubilmente. (…) Di certo, proprio per quello stesso indissolubile legame, Xenia capì – forse senza neanche bisogno che le venisse chiesto direttamente – qual era il suo dovere di compagna”.
Si cita, poi, una lettera di Marina alla madre, che viveva in un kibbutz:
Parigi, 28-II-1937
Carissima mamma,
non ti sei sbagliata: il mio silenzio non era casuale; ma non temere, stiamo tutti bene qui a Parigi. Mimmo non è andato in Spagna, sebbene molti compagni adesso siano là, perché ciascuno ha il suo lavoro, e il suo lavoro adesso è qui a Parigi. Hai ragione, non è soltanto per negligenza o per qualche altra causa “esterna” che per tre mesi non ti ho scritto. C’è una ragione, ed è seria. (…) Tu sai già che da molto tempo sono attiva nelle file del Partito Comunista; ma probabilmente non ti immagini che il mio lavoro per me non è una cosa “tra le altre” ma il centro della mia vita, così come è il centro della vita di Mimmo; l’azione è per noi più importante della famiglia, più importante dei figli.
Se adesso Mimmo fosse più utile nelle trincee di Spagna che qui, non esiterei nemmeno un momento e gli direi: parti, via! E la vita di Mimmo, sappilo, mi è
più cara di qualsiasi cosa al mondo. E altrettanto posso dire per quanto riguarda le figlie. Se fosse necessario abbandonarle per andare altrove le abbandonerei…
Non meravigliarti se ti scrivo tutto questo, è che per capire una persona bisogna conoscerla, e tu dopo tanti anni puoi già forse quasi non conoscermi.
Tu mi conoscevi ancora insicura, che non sapevo quasi niente, soltanto “credevo” in Mimmo. Ora sono profondamente cambiata.
I lunghi anni di assenza di Mimmo mi hanno costretta ad alzarmi dritta sulle mie gambe, e l’anno di permanenza a Parigi mi ha dato – per la prima volta in vita mia – la possibilità di trovare la mia strada e saggiare finalmente le mie forze. Ecco perché ciò che ti scrivo lo scrivo non sotto una qualsivoglia influenza, come poteva accadere prima, ma partendo da me: ti scrivo ciò che sento già da molto tempo e ciò che penso…
Il Partito italiano lavora in condizioni estremamente dure, in piena clandestinità; perciò prima di accettare un nuovo membro bisogna essere pienamente sicuri di lui, delle sue idee, della sua onestà, delle sue capacità.
Su di me ci sono dei più – dei dati positivi – ma anche dei meno. I più sono innanzitutto i miei genitori, che durante la prima rivoluzione si sono battuti ostinatamente contro la Russia zarista; in secondo luogo il mio lavoro in Italia, con Mimmo e senza di lui; in terzo luogo la mia vita personale, semplice e chiara. Ma ho anche dei meno. Tra questi: i rapporti che ho avuto con Savinkov, uno dei più attivi controrivoluzionari; il fatto che io abbia vissuto a lungo nell’ambiente dei socialrivoluzionari, dal primo istante nemici dell’URSS; e infine il fatto che i miei parenti più prossimi, tu e la zia, anche se in voi non c’è più quella profonda ostilità verso l’URSS che nutrivate un tempo, siano dei controrivoluzionari.
(…) Ed ecco che mi si pone un problema: ho il diritto, io, in quanto membro del Partito, di mantenere rapporti con persone che possano danneggiare seriamente l’Unione Sovietica? Questa questione non si era posta fino ad ora con tanta acutezza perché solo in quest’ultimo periodo è diventato chiaro che chi non è con noi è contro di noi: il processo ai trockisti ha dimostrato fin troppo bene come sia necessario guardarsi dai nemici dell’URSS, perfino quelli non consapevoli. Credo che tu capisca quanto penoso sia per me dirti queste cose, mammina mia; ma so che capirai…
Forse per me sarà duro, forse intollerabilmente difficile are sopra un sentimento così profondo qual è l’amore per la propria madre; ma non ho il diritto di porre i miei sentimenti personali al di sopra degli interessi del Partito. Se tu avessi dimenticato la tua stessa vita, la vita di mio padre, consacrata ai suoi ideali fino all’estremo, allora ti indigneresti, diresti che nulla può valere più di una madre, e che non c’è cosa al mondo che possa giustificare la scelta fra la propria madre e qualcos’altro.
Ma io so che tu non solo ricordi i giorni della tua giovinezza, ma che sei ancora la stessa di allora, e come allora sacrificheresti per lei anche la persona a te più cara. Per questo, quando ti dico che metto il Partito al di sopra di te, non ho dubbi…
So che questo sarà duro per te, soprattutto ora che sei rimasta ancora un po’ più sola, ora che hai sempre meno forze per lottare contro le difficoltà della vita e nel momento in cui, forse, cominci a pensare alla possibilità di vivere finalmente con i tuoi figli e i tuoi nipoti. Ma nel profondo della tua anima tu non puoi non gioire del fatto che tutti i tuoi sforzi non solo non sono stati vani, ma hanno prodotto qualcosa che è degno di te e di mio padre. Magari dentro di te dirai: quanto sarebbe stato tutto più tranquillo, se non mi fossi occupata di politica, se fossi stata una qualunque donna di casa! Ma sai benissimo che non ne saresti stata contenta, come non eri contenta quando sembrava, in un certo momento, che sarei stata così io. Tutte le energie che hai prodigato per me danno ora il loro
frutto, finalmente. Ora posso dimostrartelo, e dirti quanto te ne sono riconoscente! Certo, quando penso a cosa significhi interrompere i rapporti tra noi, cioè non scriverci nemmeno due parole, ho una sensazione di terrore. Non riesco ad immaginare come questo sia possibile: io ti amo come prima, e forse di più, perché ora amo e rispetto in te non solo la madre ma anche la persona. Tu sei tutta la mia infanzia, tutta la conoscenza che ho del mondo: sei tutta la mia famiglia, e soprattutto sei mia madre. È per questo che mi ci è voluto tanto tempo per decidermi a scriverti: avevo paura di darti un dolore troppo forte, ma avevo paura anche per me. Ma noi rivoluzionari non abbiamo il diritto di esitare, o di avere paura. Se così è stato deciso, così deve essere. (…) Non ti scriverò, non mi scriverai. (…) Ai genitori di Mimmo continueremo a scrivere. Non pensare che questo dipenda da loro: se fosse necessario interrompere la corrispondenza anche con loro, non dubiteremmo neanche per un attimo…
Ti abbraccio forte…
Per il Partito sarei pronta a sacrificare anche mia madre! Accidenti, è una scelta che oltre ad avere un che di fanatico, ha anche poco di inumano.
Mi scoprii a pensare che quella lettera doveva essere stata un trauma per le figlie di Marina e volli chiederne ragione a Clara, tanto più che mi sentivo parte di quell’inganno. Mi immaginai anche la faccia di Miron e dei suoi allievi se avessero scoperto quel che avevo scoperto io…
Rintracciai il telefono di Clara tramite un’amica romana, Lia Wainstein: da Roma Clara si era trasferita a Perugia. Le telefonai.
– Parla Julia Dobrovolskaja, la traduttrice in lingua russa del libro di sua madre.
– O Signore… Che emozione… Mi faccia riprendere… Da dove mi chiama?
– Abito a Milano. Vorrei vederla.
– Anche io. Faccio fatica a spostarmi, ma verrò. Mi aspetti domani alle tre.
Alle tre in punto del giorno seguente si presentò una signora di mezza età piuttosto attraente e molto curata nel vestire. Era uno dei periodi in cui Lev Razgon era mio ospite. Gli avrei poi riassunto quello che ci eravamo dette, ma non per nulla Lev era scrittore, un “ingegnere di anime”. Molto lo aveva già capito dalle espressioni dei volti.: dal mio, inquieto (temevo di stuzzicare una vecchia ferita chiedendole di quando Marina aveva rinnegato la madre), e da quello di Clara, imperturbabile:
– Non me ne sono curata granché, di quella storia – mi disse. – Ho lasciato molto presto la casa dei miei per una sterzata a sinistra, molto a sinistra.
Dopo di che sul suo viso si dipinse un’espressione di autentica inquietudine:
– Mio marito è sceneggiatore, ha fatto un film satirico su Berlusconi…
21. Gianni Rodari
Non mi piace viaggiare da solo, diceva Gianni Rodari. Per questo si spostavano sempre in tre: lui, Maria Teresa e la figlia Paola. Rodari veniva a Mosca ogni due anni, membro della giuria del festival del cinema, sezione ragazzi.
Sergej Michalkov, scrittore per bambini sempre ligio al regime, sognava (invano, ahilui) che Rodari lo traducesse in italiano e ogni volta si metteva alle dipendenze della famiglia offrendosi come autista.
– Questo che roba è? – chiese la dodicenne Paola la prima volta che salì sulla sua mac-china.
– È un manganello, un regalo della polizia di Mosca!
Paola, ragazzina politicamente edotta al di là della sua età anagrafica, ne fu scandalizzata. Non sapeva che Michalkov si era guadagnato la riconoscenza della polizia con una filastrocca su zio Stëpa, una simpatica pertica di poliziotto. Per lei il manganello era il simbolo dell’estrema destra e della polizia che lo usava per caricare le dimostrazioni delle forze progressiste.
– Prima di giudicare un qualunque film del festival sento sempre cos’ha da dirmi Paola! – mi informò fiero il suo papà.
Quando Rodari faceva la sua comparsa in sala, il Palazzo dei pionieri esplodeva in un applauso fragoroso. Era l’unico membro della giuria a meritarsi
un’accoglienza simile. I ragazzi li conoscevano a memoria, i suoi libri, stampati in milioni di copie in tutte e quindici le repubbliche e nelle ottanta lingue dell’Unione Sovietica.
Era una fama ufficiale, dunque senza impedimenti. Un successo più unico che raro per l’establishment sovietico: uno scrittore di talento che era anche comunista.
Gianni era una persona intelligente, ergo modesta, dunque le fanfare sovietiche non lo incantarono e non si montò la testa. Tanto più che in Italia era rimasto a lungo nelle retrovie, a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte e con 365 articoletti satirici all’anno per Paese sera. Solo dopo la Grammatica della fantasia il suo paese lo apprezzò come meritava.
Nel suo autobiografico Sdraiati sulla linea, Marcello Venturi ricorda i giorni in cui lui e Rodari lavoravano alla terza pagina dell’Unità:
“Entrava Gianni Rodari, quasi in punta di piedi, come temesse di disturbare. ‛Si può’ chiedeva. Con quel suo ciuffo ribelle che gli s’impennava sulla fronte, aveva qualcosa del erotto. Veniva a consegnarmi la striscia settimanale di Lino Picco, una storia a fumetti destinata alla rubrica dei ragazzi; o a propormi la lettura della sua ultima filastrocca.
‘Prima o poi ti daranno il Premio Stalin’, io scherzavo, alludendo al successo delle sue filastrocche che venivano puntualmente tradotte in Unione Sovietica.
Rodari sorrideva. Aveva il sorriso ironico, e insieme rassegnato, di chi gode di un successo imperfetto. Sapeva – ormai lo sapevano tutti – che i più grandi
scrittori di tutti i tempi, da Platone a Proust a Kafka a Dostoevskij, Stalin li aveva proibiti. ‘E va già bene che non li ha fucilati’, buttava lì Rodari, prima di andarsene”.
Con gli anni e con un’amicizia che si andò rafforzando, io e Senja scoprimmo altre sue doti, ne fummo conquistati e finimmo per affezionarci a lui. Gianni e Senja erano amici anche senza di me.
Bisognava sentirlo, quel “erotto”, mentre difendeva con le unghie e con i denti il miglior film del festival, Pippi calzelunghe. Benché balbuziente, Sergej Michalkov lo aveva attaccato a testa bassa, rovesciando una valanga di critiche su Pippi. Istigava i ragazzi alla disobbedienza, diceva.
– Guarda che senza la disobbedienza e l’anticonformismo non c’è movimento, non c’è vita, non c’è progresso! – insisteva Rodari. E la ebbe vinta. Pippi calzelunghe, film svedese, vinse il primo premio.
Tradurre la Grammatica della fantasia fu una gioia, tanto più che la base del libro è la teoria della fiaba del mio caro Propp. Con le edizioni Progress, però, ebbi i soliti grattacapi. Il libro si apre con: “Nell’inverno 1937-38 (…) venni assunto per insegnare l’italiano ai bambini in casa di ebrei tedeschi che credevano – lo credettero per pochi mesi – di aver trovato in Italia un rifugio contro le persecuzioni razziali.”. Il redattore cambiò gli ebrei tedeschi in emigranti tedeschi. Nel capitolo Il nonno di Lenin si dice che “al saggio dottor Blank non era nemmeno ato per la testa di vietare ai bambini”... e via dicendo. Il cognome ebreo di "nonno Lenin" non poteva assolutamente figurare, era stato secretato per sempre.
Tra parentesi. Quando Marietta Šaginjan (della nostra amicizia burrascosa parlerò fra poco) stava scrivendo la sua Leniniana, scovò in un archivio la
richiesta di ammissione del nonno materno di Lenin, Aleksandr Blank, all’Accademia di medicina militare (un documento da cui risultava che era stato battezzato, altrimenti non sarebbe mai stati ammesso). Ricevette la visita di due brutti ceffi che le ordinarono di restituire la fotocopia. Marietta li accolse a letto, sotto le coperte:
– Sono vecchia e malata, che volete da me?
La fotocopia era nascosta sotto il materasso. Ma l’ordine fu tassativo: doveva distruggere quel documento.
Sollecitati da una sua misteriosa telefonata (“Dobbiamo parlare”), io e Senja la trovammo ancora a letto, sotto choc. Il saggio Senja così sentenziò: Marietta non è Solženicyn, la Leniniana non è Arcipelago Gulag, e se la sta scrivendo è per garantire casa e automobile ai nipoti ormai grandi. Se anche accludesse il testo della richiesta dei Blank, la censura glielo taglierebbe comunque.
– Stia tranquilla, Marietta Sergeevna – le consigliò. – Che lei distrugga la fotocopia o la conservi per ricordo, non cambia niente: nessuno la leggerà mai.
Il braccio di ferro con le edizioni Progress durò diversi mesi. Dovetti far leva sulla demagogia. Spiegai alla dirigenza che Rodari conosceva il russo quanto bastava per scovare tutte le manipolazioni al suo testo e che si rischiava di fargli credere che in Unione Sovietica si praticasse davvero l’antisemitismo di stato (!).
Consapevole che non avrei mai potuto riavere il “dottor Blank”, scesi a patti:
– Tenete conto che ho già ceduto per il “dottor Blank” e che l’ho sostituito col “nonno di Lenin”. Adesso tocca a voi venirmi incontro e lasciarmi almeno gli ebrei tedeschi. Badate che sono sulla prima pagina!
L'indecenza venne aggravata dal fatto che la splendida introduzione scritta su mia – auto-rizzata – richiesta da Merab Mamardašvili pareva essere andata perduta. Nessuno lo ammetteva ancora, ma alle edizioni Progress il filosofo Mamardašvili era “persona non grata”.
Rodari era al corrente di tutte le mie peripezie.
Tra l’altro, è per una ragione analoga (il cognome!) che in era sovietica non venne mai pubblicata Natalia Ginzburg. Un giorno alla redazione di Inostrannaja literatura assistetti a una discussione su come ritoccarlo affinché non paresse ebraico. Era troppo. Me ne andai imprecando.
Da parte mia, ho fatto pubblicità a Rodari anche in Italia. Nel mio Russo per italiani gli ho dedicato un capitolo. A una mia studentessa milanese, Katja N., che aveva deciso di scrivere la tesi su Propp (i miei russisti attingono spesso gli argomenti di tesi dal mio manuale) consigliai di andare a Reggio Emilia, città in cui le scuole applicano il metodo di Rodari (fondato sulla teoria di Propp) per sviluppare la fantasia dei bambini. Lei ci andò, conobbe alcune maestre, assistette a qualche lezione e tornò felice. L’esempio di Katja è uno di quelli in cui la tesi di laurea non è una formalità, ma una pagina indimenticabile della vita.
Non resta che la parte triste dei miei ricordi su Gianni.
Alle edizioni Progress era stata nominata una nuova redazione, assai bizzarra, che invitava in URSS per lunghi soggiorni vari scrittori stranieri. Li riforniva di tutto, interprete compreso, così che, raccolto il materiale necessario, gli ospiti scrivessero un libro sulla vita sovietica. Serviti, riveriti e anche pagati, che cosa avrebbero mai partorito?
Venne invitato anche Rodari. Approfittai di un paio di occasioni – forse tre – per fargli sapere che si astenesse. Non mi diede retta. Trascorremmo la mattina che seguì al suo arrivo a Mosca poco distante dal suo Hotel, il Varsavia, su una panchina del parco Gor’kij. Fui franca come sempre e gli riferii le ultime novità, poco consolanti, sul Taganka – il teatro che aveva portato una boccata d’aria fresca a noi, ormai sul punto di soffocare – e sull’almanacco Metropol’, insomma sulla nostra realtà segnata da una stagnazione sempre più plumbea. Ma soprattutto gli parlai della trappola che gli avevano teso alle edizioni Progress. Non riuscii a dissuaderlo. Anzi, insistette affinché gli fi da interprete. Sapevo che non gli piaceva viaggiare da solo, ma rifiutai. In primo luogo perché dubitavo che si trattasse di un’impresa pulita, in secondo perché non potevo lasciare il mio “banco da lavoro” per tre mesi: avevo delle scadenze da rispettare.
Partì dunque senza di me per il Caucaso settentrionale (per il caldo), dove intendeva raccogliere materiali sulla scuola sovietica. Prese in antipatia l’interprete, che travisava a proprio uso e consumo le parole di Gianni, abbastanza a suo agio con il russo per coglierlo in castagna. Era giù di corda, come traspariva dalle sue frequenti telefonate.
Tornò in dicembre (era il 1979) e si fece subito vivo:
– Posso are oggi?
Indugiai. Era il giorno che dedicavo al seminario dei giovani traduttori dell’Unione scrittori. Mi venne un’idea: – Vieni per le sei. Farai felici i miei ragazzi!
Invece dei soliti undici si presentarono in venti.
Gianni aveva una brutta cera, si lamentava del freddo. Si sedette al tavolo e parlò per diverse ore di fila, senza interruzione, di quel che aveva ato in quei tre mesi. Due delle ragazze trafficavano in cucina e ogni tanto ci portavano dei panini per rifocillarci: non c'era modo di arginarlo. Era un fiume in piena: parlò per un’ora, due, tre, ci disse del triste spettacolo della scuola sovietica, delle scuole-caserme e dei ragazzini intruppati.
– Ho fatto i salti mortali per scuoterli, ma non ci sono mai riuscito: parevano congelati…
I miei giovani traduttori ascoltavano trattenendo il fiato. Quel che stava dicendo era una sorpresa per tutti. Si aspettavano l’allegro narratore di fiabe che adoravano da che erano bambini, e invece avevano di fronte un uomo sconvolto.
Il suo sfogo durò fino alle dieci. E non terminò con il classico “Ci sono domande?”.
– Oggi è il mio compleanno… – gli tornò in mente.
Mi ricordai di avere una bottiglia di cognac intonsa e brindammo alla sua salute.
Il giorno dopo ai a prenderlo per accompagnarlo a comperare i regali da riportare a casa. Quando attraversammo il Kutuzovskij prospekt infuriava una tempesta di neve che sferzava il viso.
– Quel giorno il vento ghiacciato mi ha tagliato le gambe. È cominciato tutto da lì – ricordò in aprile, quando andai a trovarlo a Roma (c’ero arrivata, finalmente).
Il giorno dopo, un lunedì – giorno nefasto per i russi – avrebbe subito un’operazione.
– Hai paura?
– Molta. Temo che non tornerò… Fatemi fumare l’ultima sigaretta!
Il funerale venne celebrato alla fine di quella stessa settimana.
Lo piansi come un fratello.
A Mosca, quel giorno a casa mia, gli avevo chiesto se lo avrebbe scritto, il libro per cui era stato invitato.
– Mai! – rispose deciso, quasi polemico. – Anche se in tre mesi ho preso un
sacco di appunti…
Un sacco di appunti che, col titolo di Giochi nell’URSS, Maria Teresa o chissà chi altri ha ritenuto opportuno pubblicare per Einaudi. Questo è quel che vi si legge:
Mattina libera al parco Gorki, che è vicino all’albergo. Riflessioni su un certo autolesionimo sistematico (affare Godunov, caso del Metropol). La paura provoca inutili e superflue censure, manovre, ecc.: caso Ljubimov, invitato alla scala per il Boris Godunov, pressioni su altri registi per sostituirlo. “I burocrati sono più sottili, sanno le lingue, ma niente si deve muovere”. (…) Sera a casa di Giulia Dobrovolskaja, con il suo ex allievo, che lavora nella rivista “Mondo dei libri”; la moglie di questi, Galia, che lavora nel cinegiornale per i bambini (promesso un’intervista al ritorno); Adriano Aldomoreschi (giornalista – Ju.D.); (…) Giulio Einaudi, che è qui per la fiera; Gandolfo, della Finsider (Italsider – Ju.D.), che arriva ultimo (è stato a teatro: è un apionato e intenditore); un giovane filosofo, che all’arrivo lavorava in cucina per aiutare Giulia (sarà stato Jurij Senokosov, probabilmente – Ju.D.).
Conversazioni molto libere, barzellette (…) Una cosa che non sopporto è l’apparente facilità con cui giovani intellettuali vivono una doppia verità, cioè vivono nell’ipocrisia. Se hanno un alibi, è nell’assorbimento della doppia verità fin da piccoli e – a quel che dicono – nell’estensione di massa di questa doppia verità. Ma c’è qualcosa di sbagliato nella loro assuefazione, in fondo, a una recita quotidiana, a una rottura totale tra pubblico e privato. Un fatto è sicuro: non sono comunisti e non si comportano da comunisti. Pare che non vedano vie d’uscita, che aspettino solo la fine naturale della gerontocrazia…
Caro, caro Gianni! E tu? Eri tutto d’un pezzo, tu? Sapevi delle porcherie che accadevano intorno a te e cos’hai fatto? Hai sbattuto la porta, come il tuo collega dell’Unità Marcello Venturi? O sei rimasto zitto? Già…
Il fatto che tu non ci sia più è un dispiacere profondo, per me.
Anche perché, per dirla con le ultime parole del suicida Majakovskij, “io e te non avevamo ancora finito di litigare”.
22. Marietta Sergeevna Šaginjan
Sala Grande del Conservatorio di Mosca, poltrona di prima fila a sinistra del corridoio: c'è una signora bassottella con due fondi di bottiglia a cavallo del grosso naso poroso e con un amplificatore nella mano che si protende verso il direttore d'orchestra.
La mia Marietta Šaginjan - scrittrice e melomane-musicologa - era questa.
Un giorno, verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso, si accomodò accanto a me al bar della Casa dei letterati ed esordì:
– È un po' che desidero fare amicizia.
Non "conoscerla", ma "fare amicizia". Senza tergiversare. Facemmo amicizia, dunque, anzi, arriverei a dire che ci infatuammo l'una dell'altra. Ho sempre avuto una ione, lo confesso, per le vecchiette fuori dal comune (che di solito mi ricambiavano).
Al primo invito a pranzo a casa sua, dopo avere sparecchiato trascinò e issò sul tavolo una valigetta scorticata "modello anni Venti" che doveva averne viste di cotte e di crude. Conteneva la sua corrispondenza: buste strappate con dentro le lettere, cartoline, telegrammi, bigliettini. Una valigia piena.
– Qualcuno ci ha di nuovo rovistato! – esclamò la padrona di casa, staccandosi bruscamente dalla valigia.
"Il solito spettacolino!", sorrisi fra me e me. Finge, pensai.
O forse no, perché il pensiero di ogni sovietico non può che correre al KGB.
Dopo avere osservato la mia reazione ed essersi gustata la mia meraviglia, Marietta Sergeevna procedette con le spiegazioni.
– Questa è di Blok. Questa dell'Achmatova. Questa, invece, è di Rachmaninov.
E qui, non sapendo quanto fossi edotta sull'argomento - Marietta si vantava di avere avuto una storia con lui - si concesse una pausa eloquente. Sia notato fra parentesi: era perennemente innamorata. "È meglio di un ricostituente!", mi avrebbe confessato in seguito. Poi toccò alle lettere di Mandel'štam. E a una della Cvetaeva, che le chiedeva di procurarle un po' di legna: gelava, a Mosca, quell'inverno. Aveva anche un biglietto di Stalin che mostrava, però, senza alcun trasporto. Che c'era da stupirsi, del resto? Più stupefacente era, piuttosto, che le scrivessero celebrità europee del calibro di Romain Rolland e Edoardo De Filippo.
Frequentare Marietta Sergeevna era stimolante, non lo nego. Basti pensare all' "inter-mezzo musicale" che ci capitò durante una vacanza trascorsa insieme a Karlovy Vary grazie al Litfond, il fondo di assistenza ai letterati. Io avevo già preso possesso della mia stanza all'Hotel Imperial (convertito dopo la guerra in stazione termale sovietica). Marietta Sergeevna - così mi riferirono - avrebbe tardato qualche giorno. Quando finalmente comparve, mi comunicò agitatissima di avere fatto "una scoperta epocale".
Frugando negli archivi della Biblioteca pubblica di Leningrado in cerca di materiali per un libro su Mozart, aveva ritrovato per puro caso le tracce di un compositore ceco del Settecento svanito nel nulla: Josef Mysliveček. Nel suo archivio romano (riportato - probabilmente - in patria da un qualche aristocratico russo che aveva svernato in Italia) l'attenzione di Marietta Sergeevna cadde sull'Antigone. Si fece fotocopiare la partitura, stanò il libretto, dedusse che era opera di Metastasio e non sbagliò.
La moquette bianca, le sedie e i tavolini di un bianco venato d'oro della mia stanza all'Imperial finirono sommersi sotto le fotocopie. Inutile dirlo: Marietta Sergeevna mi mise subito a tradurre. La notizia arrivò in un attimo a radio e TV ceche, fece la felicità dell'Istituto slovacco di storia della musica e di tutta la musicalissima Cecoslovacchia, per la gloria di Marietta Sergeevna e del redivivo Mysliveček.
Credo di avere un buon carattere, ma andare d'accordo con Marietta Sergeevna non fu cosa facile. Era un garbuglio di paradossi che lei per prima si divertiva a esasperare. Da poetessa devota al più raffinato simbolismo - oltre che frequentarice della Torre di Ivanov, mitico cenacolo di letterati - divenne un classico ultrasovietico, autrice di romanzi e saggi di stampo realista-socialista. Sovietica fino al midollo, si concesse qualche zig-zag: a un certo punto, per esempio, prese e lasciò l' "inutile" Unione scrittori, perorandone lo scioglimento (da brava bolscevica, tuttavia, dopo una bella strigliata riconobbe l'errore). Svelò le ascendenze ebraiche di Lenin e fu perciò bacchettata (ma per la sua Leniniana si portò comunque a casa il premio Lenin). L' filostalinismo dei suoi ultimi anni di vita fu per molti una bizzarria dell'età. Eppure si sarebbe prestata ad attacchi vergognosi a Vasilij Grossman.
Il nostro redde rationem fu Ma insomma, che vuoi?, il libello che Kočetov scrisse per attaccare Vittorio Strada. Marietta Sergeevna non aveva la rivista Oktjabr' con l'opus kočetoviano e chiese in prestito la mia copia. Gliela diedi: aveva i margini costellati dei miei commenti beffardi. Andò su tutte le furie.
– La odio, la vostra intelligencija – strillò nella cornetta all'una di notte. – Non avete niente di sacro! Domani scriverò una recensione in lode di Kočetov per le Izvestija!
– Brava! Così la gente per bene le toglierà definitivamente il saluto. Come dopo il vergognoso attacco a Vasilij Grossman.
E riagganciai. Impossibile pensare a una riconciliazione, che difatti non ci fu.
Marietta Sergeevna è vissuta a lungo: è morta nel 1982, a novantadue anni. "Vecchietta inossidabile / la Šaginjan Marietta / Orecchio artificiale / dei lavorator!", la sbeffeggiavamo, senza renderci conto (cuori aridi!) che - sorda e cieca quale era - finiva per essere, piuttosto, un personaggio tragico.
Ho stampata nella memoria la sua recensione al mio Corso pratico di italiano (Mosca, 1964), che pronosticava longevo. Non si sbagliava: la seconda edizione, riveduta e ampliata, è del 2010.
23. Problemi di linguistica
Nell'estate del 1950 il Grande Timoniere Sovietico - nonché grande studioso d'ogni scienza - si diede alla linguistica. Proprio così. Non sembrò trovare di meglio da fare, in un Paese che non si era ancora ripreso da una guerra catastrofica. L'Accademia delle Scienze gli tenne bordone e la Pravda era un continuo tripudio di informazioni.
Aleksandr Spirkin - giovane esperto di lingua e pensiero - aveva una serie di domande da rivolgere a Stalin. Ma c'era un problema non da poco: Aleksandr Saša - aveva alle spalle una condanna ex art. 58 (proprio lui, un figlio del popolo come il grande Lomonosov, cresciuto in un paesino sperduto della campagna di Saratov dove la carestia l'aveva ridotto pelle e ossa; lui che, vestito di stracci ma con la benedizione della madre - "Vattene di qui, e forse ti salverai" - se ne andò prima a Mičurinsk e poi, nel 1936, a Mosca).
Con quella comdanna non c'era speranza che Stalin lo leggesse. Saša non ci pensò due volte e chiese alla moglie Katja - Katja Krašeninnikova, dottoranda in germanistica - di firmarle lei, le sue domande. E da un giorno all'altro la bella Katja finì sulla bocca di tutti, si ritrovò convocata al Cremlino (dove, appetitosa com'era, subì i corteggiamenti di diversi alti papaveri), si vide assegnare fior di onorificenze, una cattedra di linguistica e la nomina a Dottore in scienze.
Il suo talentuosissimo marito, invece, restò al palo in attesa della riabilitazione chruščëviana, che però tardava ad arrivare.
– Sua figlia come c'è riuscita? – chiese Saša a mia madre, che aveva insegnato inglese alla moglie all'Istituto di Pedagogia Lenin di Mosca.
– L'hanno chiamata e gliel'hanno comunicato – gli spiegò. – Lei non ha alzato un dito. Tuttavia, forse confidando in un qualche consiglio, fu deciso che ci incontrassimo. Arrivarono, moglie e marito. Diverse tazze di tè e un'analisi puntuale del perché e per come della condanna non bastarono a farci trovare l'idea salvifica. Che però - almeno secondo me - proprio nel "perché e per come" andava cercata.
Era andata come spesso capitava che andasse a quei tempi. Di ritorno a Mosca per una licenza (c'era la guerra e glis tudenti venivano spediti a scavare le trincee), Saša aveva trascorso la notte a casa di Nina K., una compagna di università. Un'altra inquilina della kommunalka - una tal Zajnčkovskaja - aveva origliato le loro chiacchiere, le aveva riferite a chi di dovere e Saša era stato arrestato. Come anche Nina e sua madre - colpevoli di non averlo denunciato loro per prime (durante la perquisizione trovarono a Nina una foto di Saša con la dedica: A te, compagna di idee). L'ultima pennellata al quadro: il padre della delatrice era stato un generale zarista ato per le armi e la Zajnčkovskaja e il marito avevano scontato a loro volta lunghi anni di carcere e lager. Con quella spiata la sventurata vecchietta sperava di meritarsi la fiducia di certa gente.
Ebbi un'idea: Saša doveva presentarsi dalla Zajnčkovskaja e convincerla a salvarsi la coscienza con una bella lettera in cui si diceva dispiaciuta per quanto fatto e confessava di essere stata costretta a mentire. "Non le costerà niente, ma eviterà i rimorsi e vivrà se-rena" avrebbe dovuto dirgli. Quando però si trovò davanti Saša, la vecchia si mise a strillare - "Aiuto! Mi vuole ammazzare!" - e il poveretto dovette battere in ritirata.
Alla fine ebbe anche lui l'agognata riabilitazione. E poté mostrare al mondo ciò di cui era capace.
"Il merito dell'Enciclopedia filosofica è tutto suo" riconoscono in tanti.
"Tutta la Russia ha studiato sul mio manuale" invita a non dimenticare l'ormai Accademico Aleksandr Georgievič Spirkin.
Le diatribe linguistiche, invece, sono dimenticate da tempo - loro e tutta una serie di altri assurdi e nefasti realia d'era sovietica. Scomparsi, svaporati, quasi che non siano mai esistiti.
24. Il violino di Nina Bejlina
Già nei primi anni Settanta baluginò la possibilità di lasciare l'URSS.
Le strade erano due: un finto matrimonio con uno straniero – il cosiddetto “matrimonio umanitario” – o un invito da parenti veri o fasulli da Israele. Di qui la grande richiesta di ragazze e donne ebree nubili quale “mezzo di trasporto”. Vedova, ebbi due offerte di matrimonio. Una da Merab Mamardašvili. L’altra dal regista Paradžanov, che Lilja Brik aveva tirato fuori dal lager e che era un paradosso vivente. Un giorno, nella dacia di Peredelkino di Lilja e Vasilij Abgarovič Katanjan, mi si sedette accanto e mi sussurrò:
– Andiamo in Iran? Vuoi?
A Gennadij Šmakov, artista di Leningrado, gli amici americani mandarono una giornalista cicciottella che si perse davvero la testa per quel gay irresistibile. Per poco non andò tutto a monte, ma il finale fu comunque l’America.
Partivano quelli senza zavorre (chi non aveva prestato servizio nei centri di ricerca secretati, per esempio) e partivano quelli col punto 5, cioè la nazionalità ebraica (il che, tra l’altro, non significava affatto che fossero ebrei autentici; gli ebrei russo-sovietici sono un caso a sé, in quanto – di norma – perfettamente assimilati). Ma partivano anche le loro “metà” russe. Solo gli otkazniki (cioè coloro a cui veniva negato il visto d’uscita, che erano stati cacciati dal lavoro e per anni erano rimasti nel limbo) si avvicinavano alla cultura e alla religione ebraica e imparavano l’ivrit.
Alcuni giovani otkazniki cercarono mia madre affinché desse loro lezioni di inglese. Lei acconsentì e finì contagiata dai suoi allievi. Aveva ato da tempo i settanta quando si circondò di dizionari e si mise a studiare l’ivrit. La sua vecchia radiolina Philips prendeva Israele, lei ascoltava le trasmissioni e poi mi riferiva le novità.
Cercò di coinvolgere anche me, ma l’ebraismo non trovò echi nella mia anima di agnostica irrimediabilmente russa. Da giovane, invece, mia madre aveva letto Žabotinskij e sapeva qualcosa del sionismo. Tanto che chiamò la figlia Judif, versione russa della Giuditta biblica, un nome talmente ingombrante da diventare spontaneamente Julia, o anche solo Ju. Quanto a me, crebbi senza un’identità nazionale. Era anche quella una malefatta del regime, che ti toglieva l'identità ma ti considerava anagraficamente “ebrea” con quel “punto 5” che era diventato un marchio d’infamia.
Invece della Bibbia a noi rifilavano un volume di “leggende bibliche”. Alla Bibbia vera e propria (introvabile) arrivai dopo i quaranta, e – lo confesso – per pura curiosità professionale di traduttrice.
Mi è rimasto impresso un fatto. Una sera al Taganka davano Il maestro e Margherita; dietro di me si sedettero due amici sui trenta-trentacinque anni. E uno di loro esordì tutto contento: – Oh, questa sera finalmente ci chiariremo le idee quanto all celeberrima leggenda su Gesù Cristo!
La prima volta che mi sono sentita ebrea è stata una decina d’anni fa a Gerusalemme, allo Yad Vashem, con la litania dei nomi delle migliaia e migliaia di bambini ebrei morti nell’Olocausto. Ho cominciato con gli occhi lucidi, poi sono venute le lacrime, poi i singhiozzi: non mi era mai capitato niente di simile. È vero: quel che conta non è il sangue che hai nelle vene, ma quello che dalle vene esce…
Da quella volta esorto tutti quanti a visitare Gerusalemme. Non è solo un viaggio turistico, è un fatto esistenziale, che si sia credenti o meno, giudei o cristiani.
Il funzionario israeliano all’aeroporto di Bergamo da dove partiva il gruppo di pellegrini a cui mi ero unita guardò il mio aporto, stupito:
– Non mi dica che in Israele non ha nessuno che possa invitarla!
Una frase che sottintendeva: “Come mai un’ebrea gira per i luoghi sacri del cristianesimo con dei cattolici?”. Gli spiegai che mi interessavano l’una e l’altra cosa e che ero cittadina del mondo, ma lui scosse la testa. Invece Don Roberto (il giovane domenicano che capitanava il gruppo, che era innamorato di Israele e lo conosceva a menadito) fu la cosa migliore che potesse capitarmi, soprattutto insieme alla guida Ariela, di Eilat.
Che scambi di vedute abbiamo ascoltato in pullman, spostandoci da un posto all’altro! Con Ariela continuiamo a scriverci (in italiano: è un’ebrea argentina e una poliglotta). Lei mi manda le pubblicazioni in russo, io le spedisco Oriana Fallaci e la cronaca dei tentativi filoisraeliani di Marco Pannella che insiste sull’entrata di Israele, unica democrazia del Medio Oriente, nell’Unione Europea. Nelle occasioni ufficiali i radicali italiani espongono sempre tre bandiere: l’italiana, l’americana e l’israeliana.
Tra i miei amici più cari la prima a lasciare l’URSS fu Nina Bejlina, violinista, con il figlio Emil, detto Miki, che all’epoca aveva sei anni. Non c’era altro modo per scampare al nodo scorsoio in cui l’aveva costretta la vita. Il Goskoncert, l’Ente concertistico di Stato da cui dipendevano i suoi recital, era sinonimo di mortificazione della dignità umana. Nel giro di qualche anno Nina perse i genitori e la zia Julia (amici di lunga data di mia madre), poi le morì l’amato marito Zjuta: anche lui nel fiore degli anni come il mio Senja, anche lui
bombardato da emozioni negative. Direttore d’orchestra di grande talento e grande cultura, Izrail’ Čudnovskij (Zjuta, appunto), era relegato nelle sale di Novosibirsk e Kišinëv. L’unico fratello di Nina sposò una certa Karaulova e prese il cognome russo della moglie.
Era chiaro che Nina doveva fuggire più lontano possibile. Grazie a Dio glielo concessero. Ma c’era un “però”: era rigorosamente vietato portar fuori dal Paese gli strumenti musicali. Dunque Nina mi lasciò i suoi due violini: uno comune, che sotto il suo archetto, però, produceva suoni straordinari (Nina è famosa per come riesce a cavare da un violino la musicalità dell’organo), e un altro – forse italiano – che si era comperata prima di partire vendendo il pianoforte e altri averi.
La scena di quell’“a-non-più-rivederci” all’aeroporto di Šeremet’evo è stata descritta mille volte, e non mi ripeterò. Mi sembra di vedermi, con in braccio Miki, angioletto con gli occhi distanti come quelli della madre…
Annunciano l’imbarco, Nina lo prende per mano e insieme salgono le scale verso l’uscita, si girano verso di noi… È la fine! Addio Nina, Paganini mia!
A Ostia (punto di smistamento per chi è diretto in America), Nina tira avanti a stento con il sussidio del t e lava a mano le lenzuola. Miki vorrebbe il gelato, e il cuore le si spezza a spiegare a uno scricciolo di sei anni che non ha i soldi per comprarglielo…
Una piccola gioia c’è, però. Sapendo che Nina non riesce a stare senza caffè, lo riferisco ad Anna Prina (oggi alla guida della Scuola di danza della Scala e altro dono di Paolo Grassi), che gliene manda una provvista.
Non manca nemmeno u colpo di fortuna. Nina e Miki vengono ospitati dal sacerdote melomane della chiesa americana del centro di Roma (che diventerà un suo amico carissimo) e io mobilito Paolo Grassi, allora sovrintendente alla Scala, e la mia amica Emy Moresco, impresario milanese. Balugina la possibilità di qualche concerto. Ma il violino? Nina dovette farsene prestare uno.
Paolo si offre come tramite per farle riavere il suo. Ed è sempre Paolo a dirmi chi può fare da corriere: l’ambasciatore italiano a Mosca nonché sua veccha conoscenza, Enrico Aillaud, sul punto di tornare a Milano per le ferie.
Mi accingo, dunque, a commettere il crimine. La paura è tanta, che Dio me la mandi buona.
Un aiuto inatteso mi viene da Carlo Benedetti, corrispondente dell’Unità, che mi promette di consegnare il violino nelle mani dell’ambasciatore. Devo ammettere che non mi sarei mai aspettata tanta audacia, da parte sua, e colgo l’occasione per ringraziarlo ancora una volta (tanto più che in seguito si sarebbe comportato come un coniglio di fronte a un boa). L’operazione “X” ha dunque inizio. Mi precipito al Kutuzovskij, nel miglior negozio di giocattoli, e compero due bambole tedesche, le più grosse che hanno. Tiro fuori le bambole, taglio le scatole e le unisco, raggiungendo la lunghezza del violino. Ce lo infilo, rimetto a posto i fiocchi rosa e chiamo Carlo.
– Io sono pronta. E tu?
– Arrivo.
Si precipita da me, prende la scatola e fila diretto in via Vesnin, all’ambasciata.
Dove capitò un malinteso che poteva costarci caro.
Carlo contava che l’ambasciatore, avvisato da Paolo Grassi, lo avrebbe ricevuto nel suo studio. Invece Aillaud aveva fretta, doveva uscire e i due si incontrarono in anticamera: la consegna della “bambola”, dunque, avvenne sotto gli occhi degli impiegati sovietici.
Dal canto suo l’ambasciatore pensò bene di esplodere in un: – Ma ci pensa? Una musicista che non ha il diritto di portare con sé il suo strumento…
Carlo schizzò via di lì più morto che vivo.
Una volta tanto non ci furono spiate. Scampato pericolo.
Il resto è come il finale di una favola. L’ambasciatore Aillaud arriva a Milano, Paolo a a prendere il violino, parte per Roma e va al concerto di Nina.
Quando gli applausi si spengono, Nina entra in camerino e cosa ci trova? Il suo violino, un mazzo di rose rosse e Paolo Grassi che sbuca da dietro la porta.
Ma…
a qualche mese e si scopre che nei programmi di sala dei concerti va indicato il violino su cui suona il solista e che quello che le ho mandato non è all’altezza. Serve l’altro, l’italiano. Dopo il concerto di Nina Bejlina a New
York, il critico musicale americano più autorevole, Schoenberg, scrisse: “Una grossa perdita per l’Unione Sovietica, ma un grandissimo acquisto per gli Stati Uniti!”. Noblesse oblige: ci voleva un violino adeguato.
Quella seconda volta mi venne in aiuto l’addetto culturale dell’ambasciata d’Italia a Mosca, Stefano Rastrelli. Il quale, quando si presentava ai russi, era perseguitato dalla medesima domanda: “Uh, Rastrelli! È parente dei nostri Rastrelli, padre e figlio?”.
Stefano e sua moglie Pucci non riuscivano a capire a che si dovesse tanto entusiasmo per un nome comunissimo in Toscana. Spiegai loro quanto importante fosse quel cognome in Russia, dove i Rastrelli avevano costruito mezza San Pietroburgo.
– Niente di più semplice! – mi tranquillizzò Stefano quando gli confidai quale complessa missione mi si prospettava. – Mi trasferiscono a Stoccolma e avrò un container di mobili e stoviglie da spedire. Possiamo infilare il violino tra i materassi. Se lo trovano, dirò che è mio. E non appena abbiamo qualche giorno di ferie, io e Pucci lo portiamo a Paolo Grassi.
Detto – fatto. Il fedele Luigi Vismara si fece carico della consegna nel perimetro di Mosca e il violino partì verso il mondo libero.
Ma era presto per gioire. Era gennaio, il freddo arrivava a -45°, e il container rimase inca-gliato tra i ghiacci per circa un mese. Ci persi il sonno: e se il violino si fosse spaccato come si era spaccata la montatura dei miei occhiali italiani, mentre aspettavo il filobus? Andò bene anche quella volta: merito dei materassi, probabilmente.
E Nina poté suonare con il suo violino blasonato.
Inoltre – Dio esiste! – il nostro si rivelò essere un arrivederci, non un addio. Nel marzo del 1980 riuscii ad andare a Roma. Nina non voleva presentarsi alla consegna del premio, al Grand Hotel, per paura di compromettermi (lei era un’emigrata e io una cittadina sovietica). Mi impuntai. Eravamo entrambe – per puro miracolo! – in Italia, eravamo insieme, mi aspettava un’ora di gloria e lei voleva che restassimo lontane? Mai e poi mai! Dopo la cerimonia Paolo ci portò a cena e a l ristorante stilò sul menu il programma del mio viaggio su e giù per lo Stivale, da Venezia a Marsala (avevo un visto per tre mesi).
– Andvai con la mia macchina… Questo è il pvogvamma! (aveva la stessa erre moscia di Saša Dobrovolskij).
Io mi facevo degli scrupoli: era la macchina del presidente della RAI TV, una macchina di servizio con tanto di autista e telefono (una rarità, per quegli anni) …
– Guarda che te lo devono! – ringhiò Paolo.
In quei giorni Nina avrebbe dato un concerto al Conservatorio di Milano e mi supplicò di raggiungerla. Alla schiava sovietica che ero pareva di prendersi troppe libertà, ma dopo qualche rimostranza acconsentii.
– Devo andare a Genova, verrai in aereo con me – dispose Paolo. – Di là ti ci mando in macchina.
L’aereo portò ritardo e io arrivai a Milano poco prima del concerto. Cercammo a lungo, affannosamente, l’albergo di Nina, in piazza Beccaria. Dal Conservatorio la chiamavano in continuazione, ma lei era irremovibile: – Senza Julia non mi muovo.
Alla fine arrivammo. Il concerto, con un ungherese a dirigere, si chiuse con una standing ovation. Per il bis Nina suonò la Ciaccona di Bach, la mia preferita. Mi veniva da piangere per la felicità.
25. Al gran sole carico d’amore
Il compositore Luigi Nono, allievo di Arnold Schoenberg e marito di sua figlia Nuria, usò queste parole di Rimbaud per il titolo dell’opera commissionatagli dalla Scala. Riflettendo su quale tra i registi noti fosse il più adatto a portare sulla scena quell’opera ultramoderna, Grassi e Nono si soffermarono su Ljubimov, direttore artistico del teatro Taganka, a Mosca. Grassi sapeva – aveva già tastato il terreno – che ottenere l’assenso del ministero della Cultura dell’URSS non sarebbe stato facile. Nono e Ljubimov erano entrambi sulla lista nera: Nono perché dodecafonista e maoista, Ljubimov in quanto persona libera e indomabile in eterno dissidio con tutti i comitati di partito che vigilavano sull’arte.
Grassi, però, seppe pigiare il tasto giusto: il segretario generale del PCI Enrico Berlinguer. Questi telefonò a Brežnev e, seppure a muso duro, gli interditori mollarono la presa. Conoscendo il caratteraccio di Jurij Ljubimov, forse speravano che quel tandem si sfasciasse da solo, invece il compositore e il regista si intesero all’istante. Un minuto dopo aver conosciuto Ljubimov, Nono tirò fuori lo spartito dall’enorme cartella di tela che gli aveva cucito Nuria, sparse i fogli sul pavimento dell’ufficio e cominciò a esporre il progetto per mio tramite, farfugliando un po’ come suo solito. Strisciando carponi attorno alla futura opera, i due si scambiavano brevi frasi in codice che risultarono sufficienti. L’idea piacque a Ljubimov.
Ci portarono del caffè solo quando la scena sul pavimento fu terminata. Nel frattempo Nono si mise a osservare le pareti storiche dell’ufficio di Ljubimov con le firme in pennarello di personaggi famosi da mezzo mondo, Berlinguer compreso. Tra Giancarlo Pajetta e l’accademico Pëtr Kapica spiccava un autografo di Andrej Voznesenskij:
Ogni dea par nata stanca
Di fronte alle donne del Taganka.
Un’iperbole, come sempre. Anche a me aveva dedicato un libro scrivendo: "Alla cara, divina Julia, i miei versi. Il suo Michelangelo - Andrej Voznesenskij".
I regista Jutkevič, invece, scrisse: “Jurij, ti ricordi di quando ballavamo al KGB?”. Questo perché negli anni in cui imperò, Berija tenne al servizio del KGB una troupe di stelle di prima grandezza, ivi compreso Šostakovič.
Il Taganka era apprezzato da tutto il mondo della cultura e della politica. Tra chi aveva scritto sul muro tutto il suo entusiasmo figuravano celebrità di ogni sorta: Arthur Miller e Siqueiros, Weigel e Guttuso, Laurence Olivier e Solženicyn…
All’incontro tra i due maestri presenziarono i compositori Buckò e Denisov. C’era anche Vladimir Vysockij, attore e cantautore. In un primo momento Luigi Nono non lo notò, ma quella sera stessa, assistendo all’Amleto, restò folgorato dalla sua interpretazione anche senza potersi gustare la traduzione di Pasternak. Lo impressionò anche la trovata scenica di Borovskij: un sipario massiccio color corda, lavorato a maglia, che divideva il palco in diversi scorci, dando risalto allo spazio recitativo o fungendo da trono al re o alla regina: bastava un gesto della mano per cavarne uno scranno su cui sedersi.
Il lavoro sul libretto per la regia dell’opera si sarebbe svolto a Ruza, presso Mosca, nel locale Dom tvorčestva per compositori. Dalla capitale partì una cavalcata di auto, l’intera équipe con annessi, connessi e carabattole: Nono, Nuria e le figlie (Serena di otto anni e Silvia di quattordici), Ljubimov con la moglie (Ljudmila Celikovskaja, primadonna del Teatro Vachtangov), i coreografi Vasilëv e Kasatkina (poi sostituiti dal leningradese Jakobson), lo scenografo del
Taganka David Borovskij, io e Senja.
La famiglia Nono si vide riservare la dacia del segretario dell’Unione dei compositori, Chrennikov. Borovskij, io e Senja ci sistemammo in quelli che erano stati gli uffici. Chrennikov aveva il dente avvelenato con Nono: nel 1964, durante il suo primo viaggio a Mosca, il ribelle Nono si rifiutò di iniziare il suo intervento all’Unione dei compositori fino a che non ebbero lasciato entrare in sala i giovani che gremivano il corridoio (Chrennikov temeva che Nono li plagiasse).
– Fermi tutti! Non scaricate! – risuonò improvviso l’ordine di Ljubimov, che non gradiva affatto la sistemazione prevista per lui e la consorte. – L’ideazione è stata ai massimi livelli, ma la realizzazione è di livello infimo!
L’amministratore del Centro di Ruza si attaccò al telefono e chiamò il ministero e Zagladin, al Comitato centrale del partito. Gli dissero che avrebbero mandato Supagin, alto grado del ministero. Il fiume in piena dei commenti di Ljubimov – che non risparmiava nessuno – pareva senza fine e si protrasse in un continuo crescendo per 4 (quattro!) ore. Ero preoccupata per lui:
– Basta, Jurij Petrovič, le verrà un infarto! – gli bisbigliai.
– Non si dimentichi che sono prima di tutto un attore – replicò lui, sempre sottovoce.
A sciogliere quel nodo di panico pensò il compositore Ešpaj, sbucato all’improvviso.
– Jurij Petrovič, Ljudmila Vasil’evna, prendete la mia dacia. Io devo tornare a Mosca, dove ho mio figlio che prepara gli esami all’università.
E la tempesta si placò. Da quel momento, a dispetto delle attese e delle speranze dei detrattori ministeriali, sulla terrazza della dacia di Tiška (Chrennikov si chiama Tichon, ma alle spalle lo chiamavano tutti con quel buffo diminutivo) regnarono la pace e la serenità. Si lavorava dalla mattina all’ora di pranzo e poi, dopo una breve siesta, ancora fino a cena. I famigliari eggiavano per i pittoreschi dintorni, Senja scriveva il suo libro. L’inizio non fu facile. Alle proposte registiche di Ljubimov, Nono obiettava dispiaciuto:
– L’ha già fatto Peter Brook! (oppure Svoboda, oppure qualcun altro dei famosi).
Tagliato fuori dal mondo com’era (Ljubimov era un nevyezdnòj, un prigioniero della cortina di ferro), il direttore artistico del Taganka scopriva ogni volta l’acqua calda. Ma inghiottiva l’ennesimo déjà vu senza prendersela a male ed escogitava immancabilmente qualche altra trovata interessante, sbrigliando la fantasia. Il talento di Ljubimov è un talento viscerale. Non si è laureato: il padre era un lišenec, un senza diritti in quanto borghese, e con un padre così non c’era speranza di essere ammessi all’università. Si iscrisse a un Istituto professionale per elettricisti (cosa che, tra l’altro, gli sarebbe tornata molto utile: il sipario di luce e molte altre invenzioni “elettriche” di Ljubimov sono state adottate dai registi di mezzo mondo). Il dono che aveva avuto dal cielo, tuttavia, non andò perduto: Jurij si diede alla recitazione. Si diplomò all’Istituto teatrale Ščukinskij annesso al teatro Vachtangov, e in quello stesso teatro recitò per diversi anni con ruoli da protagonista.
A decidere le sue sorti future fu lo spettacolo che mise in scena nel 1964 allo Ščukinskij, ma in qualità di docente: L’anima buona di Sezuan di Brecht. Fece scalpore e segnò la nascita di uno splendido regista innovatore.
Dopo un po’ gli concessero di portarlo in un teatro decaduto e fatiscente: sarebbe diventato il Taganka, teatro moscovita noto in tutto il mondo.
I detrattori – veri uccelli del malaugurio – affermavano che Ljubimov era regista da un solo spettacolo. Si sbagliavano. DI vero c'era soltanto che in tutto ciò che fece a partire da L’anima buona “non c’era mai niente di lecito”, come amava ripetere lui stesso.
Gli spettacoli che seguirono furono tutti splendidi, realizzati attenendosi fedelmente al copione come allo spartito di un’opera lirica e diretti dalla sua torcia elettrica in platea. Fu un’orgia di poesia: prima gli Antimondi di Voznesenskij, poi la rivolta di Ljubimov contro la routine teatrale con I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed. Era una tavolozza di generi: circo, buffonata, teatro delle ombre… E poi ancora poesia – che gioia per l’anima! – con Caduti e vivi (uno spettacolo che valse a Ljubimov l’espulsione dal partito e il licenziamento), Credi, compagno! di Puškin, Ascoltate! di Majakovskij, Pugačëv di Esenin e Amleto con Vysockij, e ancora Cavalli di legno di Abramov, Il maestro e Margherita con Smechov nel ruolo di Woland, le Tre sorelle di Čechov con la Demidova nella parte di Maša, la Casa sul lungofiume e lo Scambio di Trifonov, e ancora Gogol’, Dostoevskij… Ogni spettacolo di Ljubimov diventava un momento importante della vita di ciascuno, ci si andava più volte, lo si viveva con tutte le viscere. E il fior fiore dell’intelligencija moscovita si metteva a sua disposizione.
Tra chi non si perdeva uno spettacolo e difendeva il ribelle in alto loco c’erano gli accademici Pëtr Kapica e Andrej Sacharov. Critici letterari, studiosi di letteratura e di storia erano pronti a qualunque consulenza. Amico ed estimatore di Ljubimov fu anche il dram-maturgo Nikolaj Erdman, inviso al regime. Al polso musicale del teatro pensavano invece Denisov, Buckò, Schnittke. Un ruolo impagabile lo svolgeva anche un grande scenografo e inventore come David Borovskij.
A Ljubimov io davo quel che avevo: i miei amici italiani e l’italiano. Ed ebbi in cambio – oltre al Taganka – l’amicizia di Jurij Trifonov, di Bulat Okudžava e, last but not least, una nuova vita in Italia dal 12 novembre del 1982.
Ma torniamo a Ruza. Il compositore e il regista si affiatarono presto, il lavoro procedeva bene, svelto e ben cadenzato. La chiave che servì a dare il la al primo episodio fu una metafora della violenza: dei soldati sistemati in quadrato. Era una chiave che Ljubimov aveva mutuato da se stesso, dalla Madre (ebbene sì, riuscì a soffiare la vita anche in un testo scialbo come quello di Gor’kij, oltre che nel cervellotico Che fare? di Černyševskij). Con il tempo ci fu anche modo di svagarsi. Il ministero esaudì una richiesta delle ragazze Nono che volevano conoscere i pionieri.
Ricevettero un invito all’inaugurazione del campo per pionieri di Staraja Ruza il lager, come si diceva in URSS. O forse no, era solo il cambio di turno di luglio.
Mille ragazzini irreggimentati su uno spiazzo. Una tribuna. Il capo-guida che presenta gli ospiti e dà la parola a Serena. La quale conclude il suo intervento da oratrice esperta:
– Verrà il giorno in cui anche sulla mia Italia sventolerà una bandiera rossa come la vostra!
Io traduco. I pionieri fanno il giro della piazza marciando al o dell’oca. Seguono pi la cerimonia dell’ospitalità con il dono del pane e del sale e un concertino comprensivo di tarantella.
Niente di che, se i Nono senior non fossero stati disturbati dalla parola “lager”, che suonava funesta alle loro orecchie, dal o dell’oca nazista e, ancora, dai visi tristi dei pionieri-soldatini (la stessa cosa che avrebbe turbato Rodari anni dopo). Allora, nel 1973, non riuscii a formulare una verità semplice come un muggito (per dirla con Majakovskij): nazismo e comunismo hanno molto in comune.
L’altra gita la facemmo tutti insieme a Žukovka, nella dacia di Šostakovič. Vi ammo un'intera giornata. Šostakovič era di buon umore, ci raccontò delle cure a cui si era sottoposto a Kurgan e del celebre chirurgo ortopedico Ilizarov. Un infarto, però, aveva presto annullato i successi del dottore, e Šostakovič non muoveva più due dita della mano destra. Ma intendeva tornare a Kurgan allo scadere della "stagione delle zanzare". E mentre la moglie Irina si affaccendava silenziosa attorno alle cibarie. Il resto della compagnia si scervellava per escogitare un modo affinché il maestro potesse assistere alla prima dell’opera di Nono, a Milano.
Šostakovič restò dov’era, va da sé. Ljubimov riuscì a far are la cortina di ferro solo a Jakobson, il coreografo. Anche io restai a casa. E quanto avessero sentito la mia mancanza a Milano Nono me lo scrisse in dodici pagine di lettera (che ho donato, come tutte le altre, a Nuria e al museo Nono di Venezia).
Vincendo le resistenze sorde e farisee del ministero della Cultura, portai la famiglia Nono all’Unione scrittori per la bellissima mostra sui Vent’anni di lavoro di Majakovskij, allestita a suo tempo e poi riesumata (alla chetichella, però, perché dava troppo risalto al nome e al ruolo di Lilja Brik, vittima di decenni di damnatio memoriae). Nono, che si sentiva un po’ Majakovskij, ne fu molto colpito.
L’intervista che Volkov e Marina Rachmanova fecero a Nono per la rivista
Sovetskaja muzyka durò un’intera giornata. Scoccò subito una simpatia reciproca, e Nono si azzardò a chiedere che gli fero ascoltare la musica dei compositori sovietici contemporanei. Era musica proibita, ma Volkov acconsentì, a patto che Nono non ne faces-se parola con nessuno.organizzò un ascolto clandestino all’Unione dei compositori: restammo chiusi lì dentro per un’intera giornata, Nono e io, in una stanza con bobine di musiche di Buckò, di Tiščenko e di altri compositori delle diverse repubbliche sovietiche. Qualcuno, però, se ne accorse, lo riferì a chi di dovere e Volkov ò dei guai.
Tra parentesi. Sempre per la serie “quant’è piccolo il mondo”. Tra le fotografie che mandai alla mia intervistatrice Irina Čajkovskaja per la terza parte della sua Anima buona di Milano, ce n’è una in cui siamo immortalati sul divano dell’Hotel Metropol di Mosca: Claudio Abbado, Solomon Volkov che lo intervistava durante la tournée moscovita della Scala del 1974 e io, interprete stremata. Fu solo quando vidi la copertina di Seagull, la rivista russa di Boston su cui comparve l’intervista, che scoprii che Volkov faceva parte della redazione.
Allo scadere del nostro soggiorno a Ruza, il compositore Kara Karaev chiese a Nono di parlare della musica dodecafonica (proibita) in una vera conferenza.
Una sera dopo cena gli ospiti del Centro si radunarono sulla terrazza della dacia di Chrennikov. E vi restarono fino a oltre la mezzanotte. I Kara Karaev padre e figlio avevano tentato di decifrare i principi della musica di Berg e Schönberg e volevano che Nono confermasse le conclusioni a cui erano giunti. Tradurre la conferenza e il dibattito che ne seguì fu un compito arduo quanto quello che mi toccò all’Unione scrittori con il professor Rosiello che parlava di semiotica.
Ciò che imparai quella sera mi tornò utile quando Edison Denisov invitò Luigi Nono al Conservatorio, nella sua classe di composizione, perché tenesse una lezione di musica contemporanea ai futuri compositori sovietici. Nono si illudeva che conoscessero almeno l’ABC, ma parlò invano per due ore: nessuno
lo capì.
Dopo la lezione, nel cortile del Conservatorio, Nono attaccò Denisov:
– Come puoi tollerare tanta ignoranza?
Denisov non fiatò. Parlò invece Ljubimov, che aveva assistito alla lezione di Nono e tagliò corto:
– Fai presto, tu… Se solo sfiorasse l’argomento, lo caccerebbero su due piedi dal Conservatorio!
Lavoro facendo, nelle tre settimane a Ruza affiorarono anche alcune dissonanze di gusti e opinioni. A me, per esempio, non piaceva la lingua piatta, puramente propagandistica, del testo dell’opera, scritto dallo stesso Nono. Era musica raffinata e quanto mai complessa affiancata da formulazioni ideologiche stereotipate. A detta di molti la metafora della Comune parigina (gli scudi di legno su cui giacevano i corpi dei coristi “uccisi” che si levavano all’improvviso, a “eterna memoria”) faceva venire la pelle d’oca, era un capolavoro di regia. Il testo, invece, era burocratese puro.
Io: – Anche la poesia politica dev’essere ben fatta, altrimenti non funziona!
Nono: – Di fronte a fatti tragici, non si pensa allo stile.
Io: – Parole trite e ritrite, però, non sortiscono alcun effetto!
Nono, arrendendosi: – Non abbiamo un Majakovskij, in Italia…
Probabilmente gli avevo un camlo d’allarme: dopo aver visitato l’appartamento di Lenin al Cremlino rimase cinque minuti accanto al libro dei visitatori senza riuscire a partorire nulla. Temeva di scrivere una banalità.
Per la sua opera successiva, Prometeo, chiese aiuto al suo amico filosofo e scrittore Massimo Cacciari.
Luigi era una brava persona e un caro amico, ma mi è capitato di arrossire per lui. Nella cantina dello scultore Vadim Sidur, per esempio, dopo aver visitato il laboratorio con le sculture strazianti della sua grobart (termine che potremmo tradurre con “tombart”), Julia Sidur – moglie di Vadim – ci offrì il tè, tutti ci rilassammo e cominciò il solito scambio di idee aperto e sincero, come si usava nelle cucine dell’intelligencija moscovita.
Tutto a un tratto il celebre compositore anticonformista italiano annunciò che, secondo lui, il centro della cultura e dell’arte mondiale in quel momento era all’Havana, a Cuba.
Il giorno dopo mi telefonò Sidur:
– Ma chi mi hai portato in casa?
Io cercavo di “educare” Luigi quanto più potevo. Gli feci conoscere Lilja (e si piacquero: Lilja amava gli uomini belli) e Georgij Kostaki, greco moscovita ed economo dell’Ambasciata del Canada che possedeva una celebre e ricca collezione di pittura moderna. Visitammo il museo Skrjabin, dove Nono fu colpito da una nuovissima macchina inglese per la musica elettronica. I paradossi della realtà sovietica.
Gli organizzai un incontro in casa mia con il compositore georgiano Gia Kančeli. Prima, a Ruza, gli avevo presentato Boris Tiščenko.
Litigammo per colpa di Rachmaninov. Al Conservatorio di Mosca si festeggiava il centenario della sua nascita, e Nono aveva un posto riservato al tavolo della presidenza.
– La musica di Rachmaninov non mi interessa – disse sprezzante. – E poi, scusa, non è emigrato in America?
Cercò di farlo ragionare persino Kucharskij, alto funzionario del ministero della Cultura:
– Guardi che Rachmaninov ha sempre avuto nostalgia della sua patria, non ha mai parlato male di noi, ci ha mandato soldi in tempo di guerra…
Tenuto conto che Kucharskij non avrebbe capito, spiegai a Nono – brevemente, ma con fermezza – che non era il caso di stuzzicare il cane che dormiva e di complicare i suoi rapporti già tesi con la dirigenza: Al gran sole carico d’amore era ancora in fase embrionale. Lo convinsi a salire sul palco.
Ogni tanto Gigi chiedeva di tirare il fiato, e possibilmente sul divano di casa nostra. Si addormentava all’istante e si risvegliava fresco e rabbonito.
La mattina che seguì a una cena in casa Ljubimov in cui Vysockij non si risparmiò – era in serata di grazia e finì con la formidabile Caccia ai lupi (che cercai di rendere in italiano con la massima fedeltà) – Nono mi confessò che aveva ato la notte in bianco: quella serata lo aveva messo sotto sopra, e lo stesso era successo a me e a Senja.
Un giorno ci fu tra noi la seguente conversazione:
– L’hai letto Arcipelago Gulag, Julia?
– Certo.
– E che cosa ne dici?
– È un gran libro.
– Ma è carente dal punto di vista della struttura, è arruffato, è insulso come scrittura: è solo un’accozzaglia di orrori…
– E se quegli orrori fossero la realtà?
– Impossibile!
Non fiatai. L’alternativa era cacciarlo di casa. Ma era mio ospite…
Grazie a Dio l’anno seguente, in Italia, Gigi ammise:
– Su Solženicyn ho detto una boiata, non l’avevo capito. Perdonami… Ora mi interesso di hassidismo…
Post scriptum. Oggi, 17 aprile 2004, Il Giornale dedicata la terza pagina ai sessant’anni del filosofo Massimo Cacciari, “splendido sessantenne”, per dirla con il regista Nanni Moretti, propugnatore dei girotondi di protesta contro l’odiato Berlusconi e autore del celebre invito a D’Alema a “dire qualcosa di sinistra”.
Sentite che cosa mi è tornato in mente.
Quando, nel 1980, arrivai finalmente in Italia, Luigi e Nuria mi invitarono da loro, a Venezia. Vedere Venezia per la prima volta fu un colpo al cuore. Non sapevo ancora che nei diciotto anni seguenti avrei fatto la spola da Milano per insegnare a Ca’ Foscari, un giorno alla settimana. Non mi sarei mai abituata, tuttavia, al ripe-tersi di quel prodigio: ogni volta la città ti prepara a un nuovo, insospettabile incantesimo.
I Nono vennero a prendermi alla stazione ferroviaria, a Santa Lucia, dopo di che
mi condussero in vaporetto alla Giudecca. A cena, in un ristorantino di pesce, si radunarono una decina di amici. Alla mia destra era seduto un uomo barbuto con lo sguardo intelligente; indossava un blazer coi bottoni dorati. Il giorno dopo cenammo a casa dei Nono. C'era anche il barbuto della sera prima.
– Ho come l’impressione che tu non mi abbia riconosciuto – mi rimproverò.
– ?!
– Sono Massimo Cacciari. Ricordi che sono venuto da te, in via Gor’kij?
Era successo un pomeriggio del 1975. Rincasando trovai l’addetta all’ascensore – nonché sorvegliante ufficiale – che invece di starsene seduta al suo tavolino mi aspettava accanto alla porta con il viso paonazzo.
– Sono arrivati tre che parlano strano, cercano lei. Io non li volevo far are, gliel'ho detto che lei non c’era, a casa, ma quelli m’hanno dato uno spintone e sono saliti su. L’aspettano – starnazzò.
Difatti accanto all’interno 106, sui gradini delle scale, c’erano tre classici italiani “protestanti”: capelloni, barbuti e con i jeans stracciati.
– Sono Massimo Cacciari, un amico di Luigi Nono. Gigi non aveva con sé la rubrica e mi ha solo detto come trovarti…
– Prego, signori! Gli amici dei miei amici sono i benvenuti!
Misi su l’acqua per il tè. Non feci nemmeno in tempo a sedermi, che i tre cominciarono a spiegarmi perché e quanto fosse meglio vivere nel socialismo, piuttosto che nel capitalismo. Non mi fu possibile obiettare: avevano la verità in tasca. Quindici anni dopo incontrai Cacciari, ormai sindaco di Venezia, in una calle; al mio saluto rispose con un cenno distratto del capo. Che non mi avesse riconosciuto lui, quella volta?
Nuria Schönberg Nono mi è simpatica. Un giorno ho incontrato anche lei, per caso. Mi ha invitato a casa sua e mi ha mostrato il museo Nono, alla Giudecca. L’ha tirato su con le sue mani e c’è sempre qualche musicologo che ci lavora. Nuria è stata bravissima.
E bravissima è stata anche quando, in America, ha pubblicato uno splendido album sulla vita e le opere del padre, Schönberg.
A casa sua, poi, mi ha mostrato orgogliosa un quadro della figlia Serena: Venezia vista con gli occhi freschi di un giovane talento.
Peccato che frequentiamo compagnie tanto diverse…
26. Renato Guttuso
I giornali italiani lo definivano “il ponte ideale tra il PCUS e il PCI”, l’“ambasciatore della cultura italiana in Unione Sovietica”. Celebre artista da un lato e dall’altro fervido militante di quel PCI che faceva del comunismo una religione: difficile dire quale tra le due componenti avesse la meglio, in quel siciliano lacerato dalle ioni. La sua “sicilianità”, poi, complicava ulteriormente una natura già contraddittoria.
A Renato piaceva venire a Mosca, dove tutti facevano a gara per invitarlo: il Cremlino, l’Accademia di Belle arti, il ministero della Cultura, l’Unione delle Associazioni per l’amicizia tra i popoli…
Se mi staccavo dal mio “banco di lavoro” spesso lo dovevo a lui. Lo alloggiavano nel più prestigioso albergo di Mosca, il Sovetskaja. Da solo o con la moglie Mimise, occupava la stanza – o meglio la suite – 301 con tutti i suoi optionals (ma con un unico telefono sul comodino della camera da letto). Riteneva un dovere e una gioia far parte del Comitato del premio Lenin per la pace o firmare un accordo sull’amicizia tra URSS e Italia. Una gioia che, però, non gli impediva di notare con grande lucidità:
– Vengo qui dal 1948 e vedo sempre le stesse facce. Sono solo più rugose e più grasse… Guttuso vedeva quanto era rozza la nomenklatura sovietica, ma chiudeva un occhio. C’era una sola cosa che davvero non tollerava: non poteva sopportare che toccassero l’arte. Una volta il vicepresidente dell’Accademia di Belle arti, Kemenov, gli chiese di togliere un paio di tele da una mostra che stava allestendo: il Carretto siciliano - perché “altrimenti da domani anche i nostri giovani artisti cominceranno a raffigurare una mano che dipinge, senza la testa”, e il trittico delle donne che si vestivano - “o i nostri giovani cominceranno a dipingere donne nude”. Renato lo ascoltò, pacifico, ma poi gli fece capire chiaramente che di togliere quei quadri non se ne parlava nemmeno.
Dopo la seduta al Cremlino durante la quale si decise di assegnare il premio Lenin per la pace a Brežnev e dopo un pranzo di dodici portate, una Čajka governativa ci accompagnò poco distante, alla sezione 200 dei Grandi magazzini GUM, sulla piazza Rossa. Chi ci scortava suonò il camlo, la porticina del piano terra si aprì e fummo ammessi nel sancta sanctorum: il negozio che vendeva alla nomenklatura – e a prezzi stracciati – quel che al volgo non spettava, vale a dire colbacchi di cerbiatto, pellicce di petit gris, camicie di nylon… Uno scrittore cubano – membro anche lui del Comitato – e la moglie, poveretti, si mostrarono subito interessati e si diedero a fare rifornimento. Renato restò impalato all’ingresso. Dopo che gli ebbi spiegato dove ci trovavamo (andavo a intuizione: era la prima – e fu anche l’ultima– volta che ci mettevo piede), sbraitò:
– Portami via di qui! Presto, presto…
Il suo era uno sdoppiamento della personalità, per farla breve.
Gli artisti sovietici, soprattutto i più giovani, lo idolatravano. La giornata che trascorsero con Guttuso nello studio del pittore Viktor Popkov è rimasta nella storia. Quanto alle loro loro opere, tuttavia, Guttuso era parco di commenti.
Una volta, nel bel mezzo del chiassoso valzer delle riunioni, mi chiese la cortesia di portarlo da un artista vero. Tramite Tamara Ivanova, o meglio tramite il pittore Michail Ivanov, il figlio che Tamara aveva avuto dal suo primo marito, Isaak Babel’, trovai le coordinate di Vladimir Weisberg (che viveva sull’Arbat). Gli telefonai.
Non più giovane, appesantito, imperturbabile, Weisberg ci fece accomodare –
Mimise, Re-nato e me – nel bel mezzo di una delle due stanzette in cui viveva con la moglie maestra (che immagino lo mantenesse, dato che lui era ostacolato in ogni modo nella sua arte).
Per terra, in un angolo, c’erano alcuni solidi geometrici di gesso comperati in un negozio di sussidi didattici. Weisberg portava un quadro – una natura morta con pallide figure geometriche su uno sfondo irreale – lo appoggiava sul cavalletto e attendeva che Renato gli fe segno di portare il successivo. Dopo la terza o la quarta tela Guttuso esplose:
– Che cosa vuole fare? Perché imita Giorgio Morandi? Chiediglielo!
Renato scoprì (io lo sapevo già) che Weisberg dipingeva da una vita come Morandi senza averne mai visto i quadri. Solo di recente qualcuno gli avevano mostrato il catalogo di una mostra del maestro bolognese (e chissà come aveva reagito…).
Poco mancò che Renato scoppiasse a piangere. Urlò, farfugliò parole incomprensibili, fra le quali colsi solo un: – L’arte deve circolare, accidenti!
Si sdoppiava, Renato. Nell’estate del 1975, per i cinquecento anni dalla nascita di MIchelangelo, lo invitarono in Armenia per una conferenza; la stessa che tenne al Museo Puškin su invito della direttrice e padrona di casa, nonché sua vecchia amica, Irina Antonova. Gli va riconosciuto che il suo fu un intervento brillante, molto più acuto di quello del blasonato Argan o dello storico dell’architettura Tafuri (li tradussi entrambi: Argan fu noiosetto, Tafuri astruso: il suo fu puro funambolismo verbale). L’artista Guttuso parlò di Michelangelo avvicinando chi lo ascoltava ai progetti, ai fallimenti e alle vittorie del genio, ma guardandoli dal di dentro, dalla “cucina” di un’arte che apparteneva a entrambi. La mia traduzione simultanea dell’intervento divenne poi cartacea su gentile
richiesta del marito della Antonova (lo storico dell’arte E.I. Rotenberg).
A Erevan c’erano 40 gradi. Sul palco di un gremitissimo Circolo degli artisti vidi che la camicia azzurra di Guttuso stava diventando blu. In prima fila sedevano raggianti Rafik Matevosjan e la sua Maja.
Il giorno prima, all’arrivo, eravamo stati invitati a cena dal direttore del conservatorio, Lazar’ Sar’jan, figlio del pittore Martiros Sar’jan, orgoglio nazionale dell’Armenia. Accanto a me sedeva un uomo che non si cavò di bocca una sola parola. Qualcuno mi sussurrò che era Genrich (Larik) Igitjan, direttore del primo Museo d’arte moderna dell’URSS. Gli amici non gli toglievano gli occhi di dosso: dieci giorni prima aveva perso la moglie e il figlio quindicenne in un disastro aereo. Riferii della sua tragedia a Renato.
Dopo la conferenza ci portarono a cena fuori città per una specie di pic-nic notturno presso le rovine di un tempio del VI secolo illuminate dalla luce azzurrina di un riflettore. Un’atmosfera fiabesca. Emozionato come tutti, Renato si avvicinò a Larik e gli disse:
– Ti mando un invito, vieni a Roma da me! Puoi fermarti quanto ti pare!
Eravamo tutti commossi. Avrebbe restituito Larik alla vita.
Dopo una bella dormita, però, Renato non tornò più sull’argomento.
Gli rammentai che per invitare qualcuno servivano i suoi dati anagrafici. Lui non
fece una piega. Di mia iniziativa, quando già aveva un piede sulla scaletta dell’aereo, gli consegnai un biglietto con i dati di Igitjan. Nessuna reazione. Che fosse ancora arrabbiato perché le alte sfere sovietiche avevano ignorato il suo invito allo scultore Ernst Neizvestnyj (che ora vive a New York)? Era davvero una ferita ancora aperta? Bah! Sarebbe stato meglio se avesse seguito l’esempio di Louis Aragon, anche lui comunista fino al midollo, che dopo i carri armati a Praga non mise più piede a Mosca per anni. Lo convinse a tornare la cognata Lilja Brik: le serviva per tirar fuori dal lager il cineasta Paradžanov. Aragon arrivò, ò la mattinata al Comitato premi Lenin per la pace, e la sera riuscì a strappare a Bre-žnev la promessa di rilasciare Paradžanov. Tre anni di tentativi di Lilja furono dunque coronati da successo.
Alla premiazione di Brežnev è legato un episodio buffo.
Il grande palazzo del Cremlino, la sala gremita, applausi a non finire. Guttuso al tavolo della presidenza, Mimise e io in prima fila.
Per scacciare la noia mi infilo le cuffie e ascolto la simultanea in italiano: riconosco la voce, è della mia allieva Marina Gordievskaja. È brava, se fosse un esame le darei un bel voto. Alla fine della parte ufficiale si avvicina un assistente; ci comunica che alla cena non sono previste le consorti e che dunque devo accompagnare la moglie di Guttuso in hotel, dove verrà sfamata. Mi viene da ridere. In alto loco non sono ammesse donne: integralismo islamico puro!
Mimise non stava già bene prima di partire e non aveva nessuna voglia di venire a Mosca. Fedele ai suoi doveri di moglie, però, si era fatta forza, e ora quelli volevano che cenasse da sola in albergo!
La porto a casa mia. Dove già ci sono la famiglia Nono e Ljubimov con la moglie. È il luglio del 1973, il giorno prima della partenza per Ruza. Ci siamo
appena accomodati a tavola che arriva Renato: è scappato dalla cena ufficiale. Con lui c’è Henrich Smirnov, del Comitato centrale.
Tra parentesi. Si tratta dello stesso Smirnov da cui un giorno mi presi una bella lavata di capo. Aveva di fronte a sé il manoscritto della mia traduzione delle memorie di Paolo Grassi – Il mio teatro – in cui, en ant, l’autore scrive che la sua vicina di banco al liceo milanese Parini era una ragazza carina che si chiamava Rossana Rossanda. “Come ha potuto lasciare senza un commento il nome della Rossanda, espulsa dal PCI”. “Ce lo metta lei, se ci tiene tanto”, gli risposi in malo modo, e riattaccai. Non ne potevo più. Fu la mia ultima traduzione dall’italiano al russo.
Smirnov fu abbastanza intelligente da andarsene e noi ammo una bella serata. Re-nato fece un ritratto a ciascuno dei commensali.
La prima cosa che Guttuso faceva quando si sedeva a tavola era chiedermi notes e matita. Quando Galja Sluckaja Bukalova gli disse che il figlio di primo letto, Alëša junior, studiava violino, Guttuso lo ritrasse come un violinista adulto: quel disegno fa bella mostra di sé ancora oggi nel salotto della sede dell’Itar-TASS a Roma. Il violinista Aleksej Bits, invece, vive e suona a Vienna.
Renato mandò giù l’integralismo islamico della serata senza fare commenti.
Non era un insensibile, Renato Guttuso, anzi, era un uomo molto sensibile e vulnerabile. Morì Picasso, a cui lo univano un’amicizia profonda e affinità di idee. Per motivi suoi, la moglie di Picasso non permise a Renato e Mimise, né a nessuno degli altri amici, di prendere congedo da Pablo e lasciò tutti fuori dal cancello sbarrato. Quando ricordava quella scena – e la ricordava continuamente – Renato non si dava pace.
Ne parlò di nuovo a una cena con l’artista messicano Siqueiros.
A quella serata la rappresentanza sovietica era composta dal poeta Evtušenko e dal pittore Celkov. Tradurre il delirio millantatorio di Evtušenko fu disgustoso:
– Un giorno andai a trovare Picasso – affermava. – Ascolta, mi fa, di là ci sono duecento tele. Scegline una, quella che ti piace di più! Non me ne piace nessuna, gli faccio io. E lui: Peggio per te, valgono diecimila dollari l’una…
– Non gli credere, son tutte fandonie – mi sussurrò Renato all’orecchio.
Io, invece, continuavo a sperare che qualcuno domandasse a Siqueiros com’erano andate davvero le cose quando avevano cercato di far fuori Trockij.
Una volta Renato sentì una mia conversazione con Leda e Luigi Vismara: la mattina seguente, una domenica, volevamo andare al cimitero di Ljublinò, sulla tomba di Senja. Re-nato ci chiese di portare anche lui. Da principio credo che fosse solo curioso di vedere un cimitero russo. Ma poi, una volta sul posto, si agitò. Avevo fatto cingere la tomba con grosse catene da nave trovate al portocanale. Me le aveva procurate Boris Lukovnikov, marito di Zina, e Vadim Sidur mi aveva aiutato a sistemarle. Era una metafora di grande effetto.
Sistemare la tomba di Senja mi procurava sempre un grande sollievo. Luigi andò a prendere acqua alla fontanella per bagnare i fiori con Renato, che lo seguì piuttosto scuro in volto. Intuii il suo stato d’animo e, in seguito, ne parlai con i Vismara. Non erano state solo le catene metaforiche a spiazzarlo, ma l’intera
scena che gli si era presentata in quel normalissimo cimitero russo (ben diverso dal più “ufficiale” Novodevič’e), con i tavolini e le panchine per i visitatori (e sui tavolini – spesso e volentieri – qualcosa da mangiare per il defunto).
L’assassinio di Pasolini gli costò una profonda depressione.
“Dicano quel che vogliono, ma è un omicidio di matrice fascista” mi scrisse contro ogni evidenza.
Capitava che, con un qualche pretesto, Renato venisse a Mosca senza Mimise. Avevo quasi l’impressione che lo fe per sfogarsi: non poteva certo piangere sulla spalla degli amici di partito, del professor Sapegno o dello storico dell’arte Trombadori, né su quella dei compagni di tavolo verde a Villa Velate. La spalla di Julia, invece, era più adatta. Primo perché Julia era una tomba, secondo perché era fuori dal mondo e nessuno avrebbe mai saputo di quelle confidenze. All’epoca i dettagli intimi della sua vita privata non erano ancora di pubblico dominio. Sdoppiarsi era doloroso.
Renato non l’avrebbe mai lasciata, Mimise. Erano insieme dal 1940, dai suoi esordi, da che lui era povero in canna e lei era la bella contessa Dotti dal raffinato gusto artistico, con un salotto frequentato dal bel mondo e dagli artisti. Lei divenne tutto il suo universo: consigliera, modella, amante, moglie.
– A noi, affamati in un laboratorio freddo, Mimise portava barattoli di pesche sciroppate – ricordava Guttuso con un sorriso beato.
Poi erano venuti la fama e il denaro. E un’altra donna – Marta – per venti lunghi anni. Ex mondina, contessa anche lei in quanto moglie del conte Marzotto (il
comunista Guttuso aveva un debole per la nobiltà), sensuale e sbarazzina, era l’esatto contrario di Mimise, invecchiata anzitempo e storpiata da tre incidenti d’auto.
Renato si lamentava:
– Sono stretto in una morsa. Qualche giorno fa Marta e io stavamo tornando da Roma: io a casa mia, lei a casa sua. A un bivio Marta mi ha dato un ultimatum. Deciditi: se prendi a sinistra torni da Mimise, a destra inizi una nuova vita con me. Ho preso a sinistra e non trovo pace. Ce l’ho con Mimise, che specula sulle sue malattie, che a volte persino se le inventa, che è gelosissima e mi ricatta: “Se vai da lei, mi butto dalla finestra”. Però Marta è bella…
– Lo so, lo so – lo interruppi, – sull’Europeo ho visto una foto di un tuo quadro: lui e lei, nudi, su un tetto di tegole…
Si beava delle sue esposizioni trionfali a Mosca e Leningrado.
Una volta, durante una mostra all’Accademia di Belle arti, Lev Razgon gli chiese perché nel quadro del Funerale di Togliatti c’erano tutti, alcuni raffigurati anche cinque volte, ma mancava Chruščëv. Renato si ritrasse, non rispose. Razgon si era fatto diciassette anni di Gulag e aveva avuto salva la vita solo perché Stalin era morto prima di lui (e Lev festeggiava il cinque marzo, giorno della morte di Stalin, con laute libagioni). Per noi Chruščëv era un liberatore, per Renato colui che aveva violato quanto aveva di più sacro.
Non era mai pago di nuove conoscenze, soprattutto nel mondo dell’arte. Gli era piaciuta la grobart di Sidur e gli era piaciuto lui, Vadim Sidur. Di Kostaki aveva
apprezzato la straordinaria collezione di quadri e il collezionista con essa. Fu felice di vedere la casa di Mel’nikov in vicolo Krivoarbatskij e la casa-comune utopica di Ginzburg dietro l’ambasciata americana: Renato capiva che quella Mosca potevo mostrargliela solo io, e me ne era grato.
Gli piacevano anche i viaggi di rappresentanza in posti nuovi, lontani dal suo fatale triangolo amoroso. Gli rimase impresso un viaggio che facemmo insieme in Kazachstan. La sua memoria conservò gelosamente non tanto la Casa dell’amicizia di Alma Ata (a forma di jurta ma con un lampadario di cristallo di Boemia!), quanto una domenica di sole, in inverno, sulla tribuna dello stadio Medeo che dominava un’enorme pista di pattinaggio su cui quella sera si sarebbero svolte delle gare e dove, intanto, tutta Alma Ata – grandi e piccini – stava pattinando.
Renato avrà raccontato almeno cento volte, me presente, la figuraccia che fece alla cena di commiato. Com’è tradizione, l’ospite d’onore si vede porgere una testa di montone lessa affinché staccato – per esempio – un pezzo di orecchio, tessa le lodi di un commensale che sa ascoltare i buoni consigli, oppure, cavatone un occhio, lodi la vista acuta di un altro degli astanti.
– Per amor del cielo, Julia, inventati qualcosa… – mi bisbigliò Renato. – Mi pare d’essere uno sciacallo… Non mi sento bene…
Nemmeno io ero in gran forma, e – vergogna! – restituimmo il vassoio con la testa di montone intonsa.
Ma ci furono anche giornate, ore e minuti bellissimi, tutti da godere.
Come quelli trascorsi con Lilja Brik e Vasilij Abgarovič Katanjan.
Avevo fatto scorta di biglietti per Lo specchio di Tarkovskij, che Lilja teneva molto a vedere. Renato e io ammo a prenderli al Kutuzovskij.
– Renato, lo sa che lei assomiglia a tutti i grandi artisti? – lo lusingò Lilja.
– Lo so – abbassò lo sguardo Renato, vanitoso come tutti gli uomini di bell’aspetto.
Lilja cambiò subito tono:
– Svelto Vasja, misurami la pressione e andiamo!
La strada era lunga, fino a Beljaevo-Bogorodskoe: guai a proiettare un film di Tarkovskij in centro! Lo specchio lasciò addosso a ciascuno di noi sensazioni diverse. La catena di associazioni funzionò solo con gli spettatori russi, a Renato dovemmo spiegare molti aggi, metà del piacere del film.
Tornammo a cenare sul Kutuzovskij. Rimanemmo fino a tardi, come sempre: Renato non voleva saperne di andarsene. Tutto gli era caro in quella casa: non solo Chagall, Leger, la Gončarova, Pirosmani, Tyšler, Sar’jan e Kulakov, ma anche la collezione di burriere di porcellana e la tenda patchwork alla finestra della camera da letto, opera di Lilja, o il tappetino kitsch ricamato di perline con due papere, un regalo scherzoso di Majakovskij che invece a Lilja era piaciuto molto e che avrebbe tenuto sempre appeso accanto alla testata del letto; oppure
le miniature-soprammobili di Paradžanov fatte con foglie, bucce, radici e rametti raccolti durante l’ora d’aria nel cortile della prigione. Anche nel carcere vicino a Vinnica Paradžanov era rimasto un artista…
– Eh no, la Sicilia è appannaggio mio! – si sarebbe infuriato Guttuso nel marzo del 1980, prendendosela con Paolo Grassi che pretendeva di requisirmi durante il mio soggiorno in Italia. E Paolo dovette “cedermi” al suo rivale.
Il mese dopo volammo a Palermo in tre: Renato, Mimise e io. Ad accoglierci all’aeroporto trovammo Fabio Carapezza con i suoi occhi azzurrissimi.
Fabio era studente di legge e figlio di Marcello Carapezza, amico fraterno di Renato, vulcanologo di fama e prorettore dell’Università di Palermo. In aereo Renato mi aveva chiesto dove volessi stare, se a casa loro o all’Hotel delle Palme. Scelsi l’albergo.
– All’Hotel delle Palme! – ordinò a Fabio. – Julia, ci vediamo all’una nell’atrio, non tardare! Nella stanza trovai una grossa scatola e un biglietto di benvenuto da parte di un ignoto barone Di Stefano. La scatola conteneva un agnello pasquale di marzapane.
All’una, nella hall, Renato mi presentò il barone: un signore prestante con le tempie brizzolate che ci accompagnò al ristorante dell’albergo e ci fece accomodare al tavolo per sei sempre a sua disposizione.
Ero molto curiosa: chi era quell’uomo? Seppi che il barone Di Stefano viveva stabilmente all’Hotel delle Palme, nella suite con terrazza all’ultimo piano. Molti anni prima era stata la mafia a condannarlo a quella sorta di raffinato ergastolo
con cui lo puniva per una qualche mancanza commessa in giovane età. La sua reclusione non era solitaria, anzi: il barone aveva sempre ospiti. Chi non incontrai al suo desco nei dieci giorni trascorsi a Palermo! Persino due mature sorelle russe, due aristocratiche venute dall’America (una delle quali era sposata con un nobile siciliano). In quei dieci giorni Renato, Mimise e io non riuscimmo mai a concederci un’uscita, eccezion fatta per l’incontro con Leonardo Sciascia che avevo programmato già a Roma.
È mia profonda convinzione che Sciascia sia l’unico scrittore veramente europeo dell’I-talia contemporanea. Le traduzioni russe del Giorno della civetta, del Consiglio d’Egitto e di alcuni racconti sono opera mia. Lui non veniva a Mosca. Ci scrivevamo. Dunque quel nostro incontro a Palermo sarebbe stato il primo. Ero preoccupata: ci saremmo intesi?
Renato era più preoccupato di me. Il perché, all’epoca, non avrei saputo dirlo. Insistette affinché l’incontro avvenisse a casa loro, e non in albergo. Per me non faceva differenza.
Il giorno seguente, come d’accordo, alle dieci del mattino aspettai Sciascia in casa Guttuso. Lui entrò, fece un saluto freddo, giusto un cenno del capo, e mi disse:
– Se non ha nulla in contrario, domani la o a prendere a quest’ora all’Hotel delle Palme.
Salutò di nuovo freddamente, di nuovo con un cenno del capo, e uscì.
Trascorsi con lui l’intera giornata. Mi ò a prendere e mi portò alle edizioni
Sellerio, una sua creatura. Moglie e marito Sellerio pubblicavano sotto la sua guida libri di grande qualità. Sette anni dopo mi ritrovai con Elvira Sellerio nella sala del Campidoglio a ricevere (io per la seconda volta) il Premio per la cultura.
Sciascia mi portò a pranzo a casa sua. La moglie Maria era una cara signora, paffutella, molto ospitale, una maestra in pensione. L’illuminista Sciascia non poteva che avere una moglie insegnante! Poi ammo nel suo studio e parlammo a non finire di libri, dell’arte di tradurre, della Russia, dell’Italia, della vita…
– Se dovessi trovarmi in uno stato di non libertà, emigrerei!
Fu la prima e ultima volta che sentii un italiano pronunciare una frase simile.
A tarda sera, già sull’uscio, mi infilò in tasca dei fagottini di dolci siciliani.
Che cosa avesse separato amici di lunga data com’erano Guttuso e Sciascia lo seppi molti anni dopo, dai giornali. A Palermo presi semplicemente atto di quella strana situazione: Guttuso che cercava di incontrare Sciascia e Sciascia che lo respingeva sdegnato. A suo tempo anche Leonardo Sciascia aveva pagato un tributo alla sua epoca accettando di entrare nel Consiglio comunale di Palermo tra le file del PCI. Non durò: lui e i comunisti erano agli antipodi.
– Se bisogna scegliere tra la verità e la rivoluzione, noi scegliamo la rivoluzione – diceva Pajetta.
– Io scelgo la verità, non c’è dubbio – si era dissociato Sciascia.
Quando Guttuso scoprì che alle elezioni del 1979 Sciascia si sarebbe presentato con il partito radicale di Pannella, gli scrisse che “gli era venuto il dubbio che la sua amicizia non fosse mai stata profonda e vera”. Sciascia gli rispose: “Io non ho dubitato della tua nemmeno quand’ho saputo che parte avevi preso riguardo ai fatti d’Ungheria e ai carri armati sovietici a Praga… Convinto come sei di avere la verità in tasca, hai deciso di riportarmi sulla retta via. A suo tempo l’Inquisizione è nata così”.
Lo strappo definitivo sfociò in uno scandalo. La commissione parlamentare che indagava sull’omicidio Moro ascoltò Andreotti. Sciascia gli domandò se condivideva l’opinione espressa dal segretario generale del PCI Berlinguer in una conversazione con lui e Guttuso, ossia che le Brigate rosse avessero dei legami con la Cecoslovacchia (che a sua volta aveva legami con si sapeva bene chi). Berlinguer querelò Sciascia per diffamazione; Sciascia lo denunciò per calunnie e chiamò a proprio testimone Guttuso. Guttuso si schierò con Berlinguer (il partito sopra ogni cosa!). La procura di Roma sospese le due cause: quella contro Sciascia perché erano le opinioni di un parlamentare, e quella contro Berlinguer perché “le affermazioni fasulle di Sciascia non avevano intenti calunniatori”. (Vent’anni dopo si sarebbe scoperto che un dirigente del PCI era stato mandato a Praga per protestare contro il sostegno della Cecoslovacchia alle Brigate rosse).
Renato sperava di approfittare della mia presenza per rappacificarsi con Sciascia: lo strappo col suo vecchio amico siciliano lo affliggeva. E, senza volerlo, mi ritrovai coinvolta.
Renato e Mimise vennero a Mosca un’ultima volta nell’autunno del 1982. Ho delle fotografie di noi tre nella stanza del Nacional e sulla terrazza con vista sul Cremlino. Già sapevo che di lì a poco me ne sarei andata. Renato non poteva condividere quella mia decisione. Da emigrata sarei stata la confutazione vivente
dei suoi ideali.
La vita confermò i miei timori. Pur sapendo che vivevo a Milano, non si fece mai sentire. Da traditrice della patria comunista che ero diventata smisi di esistere, per lui. Vero è che un paio di volte l’anno ava a trovarmi una vecchia conoscenza, Marcello Carapezza. Chissà se Renato me lo mandava per assicurarsi che non stessi morendo di fame… Io avevo sue notizie dai giornali, che ormai gli tagliavano i panni addosso. Dai giornali seppi anche che aveva il cancro, che Mimise, al suo capezzale in clinica, era stata stroncata da un ictus e che tre mesi prima di morire Renato aveva adottato Fabio lasciandogli un’eredità da trecento miliardi di lire.
Renato voleva molto bene a Fabio; gli voleva bene come un padre.
Il fatto che lui e Mimise non avessero avuto figli era sempre stato un grosso cruccio, per lui. Dopo la morte di Mimise, Renato non volle più vedere Marta. Al suo fianco restarono monsignor Angelini e, di tanto in tanto, Giulio Andreotti.
– L’ho solo aiutato a morire – rispondeva il cardinale alle domande dei giornalisti che volevano sapere se Guttuso si era convertito.
Ricordo che Renato tornava continuamente su una questione: la chiesa non gli perdonava la sua Crocifissione, con i corpi nudi e Maria Maddalena svestita ai piedi della croce.
Con Guttuso nel suo studio di Velate, 1981.
– Scusa, secondo te cosa dovevo mettergli addosso? – insisteva lui, cercando per l’ennesima volta di strapparmi un’opinione che non avevo.
Quel che credo è che, al pari di Oriana Fallaci, Renato Guttuso fosse un cristiano non credente.
Come spesso accade in questi casi, spuntò un figlio naturale, un certo Antonello, che avanzava pretese sul cognome Guttuso. I nipoti di Mimise volevano, invece, la villa di famiglia a Velate. Tutti, a partire da Marta, accusavano Fabio di aver approfittato di Guttuso quando era malato e incapace di intendere e di volere. Il tribunale si espresse a favore di Fabio Carapezza. Il padre Marcello sarebbe morto anche lui di cancro, poco dopo. Solo Marta, gioviale come prima, ogni tanto compare in televisione.
Che cosa mi è rimasto di Renato? Questi brandelli di ricordi, una stampa – delle rose nere, una natura morta (un acquarello) con una dedica commossa e commovente, i ritratti a matita che faceva a tavola, sui fogli del mio notes. Uno struggente senso di pietà per lui e Mimise, e di pena per la sua fine indegna e scandalistica.
E anche una protesta sorda e inestinguibile contro la peste del 1917 che ha infettato l’intero pianeta avvelenando la vita di molte generazioni, non solo della mia.
27. Di tutto un po’
San Benedetto del Tronto è una cittadina sulla costa Adriatica dove per la prima volta in vent’anni mi sono concessa delle vacanze pasquali.
Come molti lavoratori, mi prendo una camera in un alberghetto a pensione completa. A farmi compagnia c’è la cara Nataša Mar’ina Čajkovskaja, che studia medicina all’Università di Ancona (non troppo distante da lì). Ci diamo alla bella vita, ci abbuffiamo di gelato. È più caldo di quanto ci saremmo aspettate per il mese di aprile. Nataša cammina per chilometri e chilometri, scalza, sulla sabbia del litorale.
La cittadina è scialba, ma ha viali di palme splendide e si vanta di possedere la più alta d’Europa. Ho portato con me il libro di Umberto Eco sulla traduzione. E questo è quello che mi è tornato in mente a lettura ultimata.
I primi anni Settanta. Una sala del Club dei letterati di Mosca; a un massiccio tavolo di mogano siedono alcuni ospiti italiani, sette intellettuali compreso l’ormai famoso Eco, il meno famoso D’Agata (che ricordo perché la recensione che scrissi sulla Inostrannaja literatura per il suo Il corpo prima di tutto mi era valsa le lodi del grande russista Rozental’), Piero Buttitta – giornalista e scrittore (di cui avevo Il volantino), il professor Rosiello, milanese, e l’elegantissimo Furio Colombo (con moglie americana al seguito), che per molti anni ha rappresentato il capitalista Agnelli a New York e che ora dirige l’Unità postcomunista e nutre un odio viscerale per un altro capitalista, Berlusconi. Più una cinquan-tina di scrittori sovietici.
L’argomento della discussione – “Letteratura e contemporaneità” – è affrontato in maniera assai diversa dalle due parti. Il professor Rosiello, che apre le danze,
si concentra sulla semiotica, che all’epoca in URSS non conosceva quasi nessuno. Dopo un po’, preso dal panico, il mio collega Bogemskij si alza e se ne va senza proferire parola. Tocca a me. Comincio a tradurre, balbetto le poche frasi che capisco. Un incubo.
A un certo punto un omone calvo seduto alle mie spalle prende a suggerirmi gli esatti corrispettivi russi, e con tale cognizione di causa che finalmente torno a sentire la terra sotto i piedi. È il filosofo e poliglotta Merab Mamardašvili.
Viktor Borisovič Šklovskij, seduto di fronte al professore italiano con la faccia paonazza di chi rischia un colpo apoplettico, attende impaziente che quello finisca e gli urla:
– Poteva risparmiarsi i soldi del viaggio! L’ho già scritto io mezzo secolo fa!
Uno shock. Attimi di scompiglio generale.
È difficile che ospiti stranieri e scrittori patri sapessero che Šklovskij aveva scritto quei saggi brillantissimi ma che, per evitare l’infausta etichetta di formalista, li aveva poi rinnegati.
– Maestro… Le sue opere sono sempre al posto d’onore, per noi, le abbiamo sempre presenti – farfuglia Rosiello.
È Eco a salvare la situazione.
– Datemi una scatola di fiammiferi! – chiede, ed espone chiaramente, come a dei bambini di prima elementare, il principio dell’analisi semiotica di un’opera letteraria, aiutandosi con i fiammiferi che spezza prima in due, poi in tre, poi in quattro.
Una spiegazione magistrale, bisogna dargliene atto.
La discussione che segue prende una strada battuta e si concentra via via sul ruolo della letteratura nell’edificazione del socialismo. Gli italiani si intristiscono. Alla cena di congedo avrebbero comunque convenuto che era valsa la pena di venire a Mosca per conoscere Merab Mamardašvili.
Durante una pausa dei lavori avvicinai Merab per ringraziarlo di avermi tratto da un grande impaccio e ne approfittai per chiedergli se conosceva qualcuno a cui si potesse rivolgere la mia amica Lena Nemirovskaja, che si tormentava sola soletta sulla sua tesi di dottorato dedicata alla semiologa americana Susan Langer.
– Come no! Che chiami Jurij Petrovič Senokosov, mio vice alla rivista Voprosy filosofii. Questo è il numero…
La conseguenza fu che Merab e io diventammo amici e, con mio marito Senja, testimoni alle nozze di Lena e Jurij.
Il destino ha voluto che nell’aprile del 2003, insieme a Dire quasi la stessa cosa di Eco uscisse La traduzione: una grande arte di Kornej Čukovskij, tradotta da Bianca Balestra e dalla sottoscritta.
L’argomento è lo stesso, ma sono due libri distanti come il cielo (della semiotica) e la terra. Nel febbraio del 2004 sono stata invitata alla presentazione del libro di Eco nella milanese Casa della cultura, in piazza San Babila.
Tra parentesi. Sovietismi come “Casa della cultura” sono vivi a tutt’oggi, tanto quanto cretinerie del tipo “piccolo padre”, che dovrebbe essere la traduzione di batjuška (parola che significa 1. pope 2. [popol.] padre 3. caro mio). Ma così ha attecchito. A Milano c’è un ristorante che si chiama, appunto, Piccolo padre e che è tutto sui toni del rosso. Dubito che, aprendo il locale, il proprietario avesse in mente di celebrare lo zar. Piuttosto un altro “padre”: Stalin.
Oltre a Umberto Eco, molto invecchiato – al par mio, siamo onesti! – da che ci eravamo incontrati sulla porta della Biblioteca civica Sormani di Milano (quando si era vantato: “Lo ascolterai per merito mio, Jurij Lotman, l’ho portato io, in Italia!”), al tavolo della presidenza sedevano il redattore della casa editrice Bompiani e un giornalista dal cognome breve: Mo. Una noia, tutti e tre. Chiesi il microfono e raccontai di come ci eravamo conosciuti. Il pubblico si animò: finalmente qualcosa di vivo.
– È successo nel 1971 – precisò Eco (Se lo ricordava, dunque!), che accompagnava ogni nome che citavo con il ritornello: – Non è più fra noi… Non è più fra noi…
L’umore della serata fu quello.
Io mi comportai come mai si dovrebbe. Spiegai alla sala gremita, tra cui molti giovani, che a tradurre si imparava non con il libro di Eco, che è per studiosi, ma sulla Grande arte di Čukovskij, edizioni Cafoscarina.
Ebbi molti applausi, venni accerchiata e tempestata di domande.
Insomma, rubai la scena a Eco. Una volta tanto è capitato anche a me, eremita. Aveva ragione Razgon: sono come il monaco Pimen, il cronista del Boris Godunov.
Il giorno dopo la mia allieva Claudia Zonghetti ricevette alcune telefonate: diversi colleghi traduttori le dissero che, se non fosse stato per una signora bionda, alla conferenza di Eco sarebbero tutti morti di noia.
Una “signora bionda”, ecco cosa sono! Degna figlia di mio padre, che non sapeva far udire la sua voce. Una lavoratrice indefessa e senza voce era, però, anche la madre della “signora bionda”, che tante volte – e invano – aveva chiesto al marito maggior spirito di iniziativa.
Insomma, è un’eredità pesante, la mia.
Aaccanto all’inerzia, tuttavia, nel mio carattere fa capolino ogni tanto una certa temerarietà. Fui la prima - per esempio - a buttarmi col paracadute dai 32 metri della torre del Parco della cultura di Leningrado.
Il tuffo col paracadute era obbligatorio per avere il certificato di Abile al lavoro e alla difesa. Il ragazzo più aitante e sportivo del nostro gruppo tergiversò a lungo, dopo di che scese all’indietro la scala a chiocciola, perdendo la faccia tra le compagne di corso che sospiravano per lui. In piscina mi buttavo di piedi o di testa dal trampolino elastico da sei metri. E facevo equitazione al maneggio di
Leningrado. Vero è che la mia cavalla, Venere, si metteva al centro e tossiva per un bel po’. Che altro? Ah sì, l’esempio più lampante della mia audacia fu un salto da un treno in corsa. Accadde così.
Una mia compagna di corso, Lena Grigor’eva, era un tipo un po’ particolare; prima dell’università aveva lavorato nella segreteria di Kirov e aveva assistito, suo malgrado, all’assassinio del politico da parte di un certo Nikolaev. Tutti i presenti finirono in galera; lei, ragazzina, dopo un po’ venne rilasciata. Finita l’università, se ne andò lontano, a Chersones, nei pressi di Sebastopoli, e con il marito e la madre si stabilì in una saklja, l’abitazione tipica del Caucaso, accanto agli scavi dell’antica città romana. Io e Senja ammo da loro un’estate.
Un giorno Lena mi chiamò e mi propose:
– Vado a Leningrado e o per Mosca, vieni alla Stazione Kievskij, che così ci salutiamo! Perché no… Andai, trovai la sua carrozza e ci accomodammo tranquille e serene pregustandoci un bel tête-à-tête. L’inserviente non sapeva quanto si sarebbe fermato il treno, ma promise di informarsi e di venircelo a dire. Non fece in tempo: di lì a poco il convoglio si mise in moto. La fermata successiva era Vyšnij Voločok, a metà strada tra Mosca e Leningrado. Il vagone era in subbuglio.
Oltre a me c’era un altro ospite imprevisto, un ufficiale di marina venuto a salutare il padre. Corse a cercare il capotreno, ma intanto il convoglio prendeva velocità. Ci mancava solo quello! Vyšnij Voločok! All’una Senja sarebbe tornato a casa per pranzo e non mi avrebbe trovato… Uscii sulla piattaforma, aprii lo sportello e saltai giù, tra la neve, senza pensarci due volte. Ricordo che l’unica preoccupazione era di non rovinarmi gli stivali di camoscio, delicatissimi! Non caddi nemmeno: mi ritrovai sui binari tra la stazione Kievskij e la Belorusskij.
Mi arrampicai su un dosso coperto da una spessa coltre di neve, e nel giro di un quarto d’ora ero di nuovo tra la gente. In una lettera alla sorella Valja, tra le altre notizie Irina Isakovič le scrisse: “È arrivata da Chersones Lena Grigor’eva. È completamente fuori di testa. Si è inventata che Julia è saltata giù da un treno in corsa…”.
Sono una fifona risaputa, dunque, ma quando ci vuole ci vuole…
Torniamo, però, a Merab Mamardašvili. Dire che fosse un corpo estraneo nella realtà sovietica è troppo poco. Filosofo di levatura europea, svettava su di essa come Gulliver sui lillipuziani. In quello che, di fatto, era un paese-prigione lui viveva da uomo libero: incontrava senza troppi problemi chiunque volesse, beveva whisky con gli ambasciatori, con il corrispondente del Corriere della Sera Piero Ostellino, con quello del Giorno Luigi Vismara e con quello della RAI Demetrio Volcic, e nei loro salotti pieni di “cimici” ripeteva le stesse cose che diceva a noi amici, intorno al tavolo della cucina.
Per gusti e preferenze era un Diogene. Dottore in scienze (titolo accademico importante, in Russia), se solo avesse voluto avrebbe potuto trascorre le vacanze in qualunque località riservata agli accademici, ma per non vederli, quei palloni gonfiati, preferiva partire alla ventura. Con Jurij, Lena e la loro figlia Tanja affittavano due stanze a Pitsunda con la latrina nell’orto. Una volta ci trascinarono anche me.
Io, Lena e Tanja arrivammo qualche giorno dopo l’insediamento degli uomini.
– Che cosa si mangia, qui? – mi interessai. Sapevo che le tavole calde del posto non erano frequentabili: bastava vedere come lavavano le stoviglie.
– Andiamo al mercato e comperiamo formaggio di capra sulguni, pomodori e pane lavaš – mi riferì allegramente Jurij. Tiravano la cinghia, insomma. Mi feci prestare una grossa pentola dalla padrona di casa e cucinai del boršč per qualche giorno. Se la mangiarono tutta in una volta, quella minestra gustosa di barbabietole, con Jurij che provò a nascondere la pentola sotto il letto: sul fondo era rimasta un’altra mezza scodella di minestra. Dopo i bagni in mare non ci si poteva nemmeno togliere di dosso la salsedine. Io scaldavo l’acqua in un bollitore e mi lavavo nell’orto.
Anche io e Senja facevamo le vacanze alla ventura. E per lo stesso motivo. Partivamo in due macchine, o con i Ginzburg, o con i Lukovnikov, oppure con Aleksandr e Zel’ma Grunt, studiosi di storia e nostri vecchi amici. La meta era la natura russa, quella vera, quella della Russia profonda, della Russia centrale: dormivamo in tenda in riva a un fiume o a un lago, cucinavamo sul fuoco, pulivamo pentole e padelle affumicate con la sabbia. Ma era bello e soprattutto molto più igienico. Affrontammo viaggi lunghissimi. Una volta con i Lukovnikov percorremmo 6.500 chilometri fino a Leninakan, poco lontano dal confine tra l’Armenia e la Turchia, ospiti di parenti di Rafik Matevosjan. È vero che in quei casi Senja prenotava alberghi inaccessibili ai comuni mortali – per quanto miserrimi – lungo tutto il tragitto. “Parla il vicepresidente dell’associazione URSS-America Latina” diceva. “Mi prenoti due stanze lux” (di lusso non erano proprio, ma di certo erano più decenti delle altre). Sesamo si apriva sempre: la parola “vicepresidente” sortiva il suo effetto.
A Pitsunda mi ammalai: brividi, febbre. Mi prese il panico: guai ad ammalarsi in un posto come quello!
Entrò Merab:
– Dov’è il ritratto?
Intendeva quello di Stalin che avevo staccato appena avevo messo piede nella stanza (Pitsunda è in Georgia, madre orgogliosa di cotanto figliolo).
– Sotto l’armadio – mugugnai avvolta nella coperta.
Merab rimise il ritratto al suo posto. Come Benedetto Croce, non era superstizioso, però… Aspettai che andasse a farsi un pisolino – era l’ora della siesta – e scesi in spiaggia. Camminai quaranta minuti sulla ghiaia incandescente (quell’anno avevo studiato un po’ di yoga) e verso sera ero bell’e guarita.
Tra la nostra catapecchia e il moderno albergo-torre della cittadina era simbolicamente situata la tenuta cinta da un alto muro della dacia governativa di Chruščëv: ai “turisti-faida-te” come noi era riservato giusto un centinaio di metri di spiaggia con i pini, la principale attrattiva di Pitsunda.
Nella torre-albergo soggiornava, a carico dell’Unione scrittori, un mio vecchio conoscente, lo scrittore italiano Aldo De Jaco. Gli presentai la mia compagnia, e da quel giorno ci incontrammo quasi ogni sera. Ricordo l’amaro stupore del compagno De Jaco quando Lena gli mostrò il punto 5 sulla carta d’identità.
– È la prima volta in vita mia che sento di un documento su cui vada indicata la confessione religiosa.
Il nostro comunista dal volto umano non poteva credere ai suoi occhi. Approfitto dell’occasione per ringraziare un’ennesima volta Aldo. Nel 1976 fu lui, a capo del Sindacato degli scrittori italiani, a promuovere la mia candidatura al Premio della cultura della Presidenza del Consiglio dei ministri. Da quel premio ebbe inizio il mio cammino verso la Libertà. Nell’autunno del 1982, a Roma per
vedere i miei amici Malev appena emigrati, durante una cena in trattoria gli raccontai come ero riuscita a lasciare l’Unione Sovietica.
– Non capisco perché ti sei dovuta sposare per finta! Io ti avrei sposata per davvero…
– Aldo caro, dimentichi che sei già sposato… – precisai.
Due post scriptum
1. Scacciato da Mosca, Merab tornò a Tbilisi dalla madre e dalla sorella. Una volta l’anno, però, il preside della facoltà di psicologia dell’Università di Mosca (compagno di studi di Merab) lo invitava a tenere una conferenza. Nella grande aula di via Mochovaja si radunava tutta la città: era un evento. Jurij Senokosov gli metteva davanti un registratore e così, con il tempo, si è ritrovato tra le mani diverse cassette. Anni dopo le ha sbobinate e trasformate in libri: Variazioni kantiane, Lezioni su Proust, Estetica del pensiero ecc.
Dopo quel convivio dello spirito andavamo tutti a mangiare a casa mia, in via Gor’kij 8, che è a due i dalla Mochovaja.
Gli onnipresenti sbirri non riuscivano a capire che cosa ci fosse di tanto entusiasmante in quelle lezioni su Cartesio o Kant. E dopo essere stati in casa di Jurij e avergli requisito i libri in tamizdat, lo convocarono alla Lubjanka per chiederglielo.
– Come si sente, Jurij Petrovič? – gli domandò uno di loro come se fossero in un qualche salotto.
– Come dopo un’indigestione di merda! – ritenne opportuno rispondergli Jurij, senza tergiversare.
Vennero al dunque: gli chiesero di aiutarli a capire le lezioni di Merab Mamardašvili.
– Ma vi rendete conto? Merab è un amico, e voi lo sapete!
Chissà come sarebbe finita se non fosse arrivato Gorbačëv e non avesse abolito la censura - che ha avuto quell'effetto collaterale dirompente che si chiama libertà. Quali che fossero le sue vere intenzioni, merita la nostra gratitudine ora e sempre.
2. Mark e Galja Malev, fisici di Novosibirsk, li ho avuti in eredità da Ljuda Chaustova-Stanevskaja. Erano di aggio a Mosca con il figlio Maksim, quindicenne, pronti a emigrare. Galja era distrutta: il primo marito non aveva firmato l’autorizzazione all’espatrio del figlio Sergej, studente universitario. I Malev erano in casa mia, quando il ragazzo telefonò:
– Mamma, è uno strazio, stare qui, da solo…
E lei ammise:
– Non parto senza Sergej. Preferisco buttarmi dalla finestra, piuttosto.
Avevano già i biglietti per Čop, quando Sergej chiamò e lasciò senza fiato i suoi:
– Vengo con voi!
Il busillis? L’appartamento che i Malev avevano a Novosibirsk aveva ingolosito un qualche pezzo grosso.
A Čop arrivarono il 7 novembre, anniversario della grande rivoluzione di Ottobre. Tanto grande che la dogana era chiusa per festeggiare. E i visti dei Malev stavano per scadere. Che fare? Accatastarono in un angolo dello stanzone tutti i loro averi e partirono senza bagagli. Senza che ciò offuscasse la gioia della libertà che stavano per conquistare.
Quando atterrai a Milano, il 12 novembre, chiamai subito Ostia:
– Confessa, fate la fame? – interrogai Galja.
– Ma che dici? Il sussidio è più che sufficiente. Banchettiamo a tacchino. Non so perché, ma qua il tacchino costa poco. Ne compro uno, e ai miei uomini basta per una settimana. Quanto alle cose gratuite, tipo le bellezze di Roma e i corsi di inglese, quelle ce le godiamo eccome…
Un mese dopo andai a trovarli a Roma. Mi portarono a Ostia e mi mostrarono la
loro stanza in un appartamento in coabitazione: quattro giacigli, scarpe e vestiti sparpagliati per terra e loro raggianti di felicità. Il giorno del suo compleanno regalai a Maksim – cantautore – una chitarra, e la mia amica Silvana De Vidovič, che avevo pregato di prendersi cura dei Malev, organizzò una cena. Invitò anche un amico comune, Aldo de Jaco.
I Malev, poi, partirono per l’Australia, dove Galja, bravissima, venne assunta al ministero della Pubblica istruzione. Si sono comperati una casa a Canberra. Sergej, ingegnere, e Maksim, medico, si sono sposati e si sono moltiplicati.
Happy end.
28. Lo sponsor
“Oltrecortina”, per mia fortuna, il lavoro non mi è mai mancato.
Varie università mi invitarono subito a insegnare il russo. I miei datori di lavoro non pare-vano rendersi conto che per me significava cambiare professione, cosa non facile. D’altronde non avevo scelta: in che altro modo avrei potuto guadagnarmi da vivere? L’offerta più allettante – quella dell’Università Statale di Milano – non arrivò. Il professor Bazzarelli, direttore dell’Istituto di lingua e letteratura russa e mia vecchia conoscenza, mi invitò a pranzo ma, per quanto strano, non batté ciglio quanto al lavoro. Lui e la moglie erano disperati: il loro unico figlio bazzicava i fascistoidi di San Babila e quello, sperando in una spalla amica, fu l’unico argomento di conversazione. L’invito a collaborare con la Statale (cinque minuti a piedi da casa mia) giunse nel 2005, quando Bazzarelli andò in pensione. Nel 1982 non mi ò nemmeno per la testa che lui, comunista doc, ritenesse inadatto per il suo Istituto qualcuno che “aveva scelto il capitalismo”.
Mi accasai comunque a Milano, allo IULM, e contemporaneamente alla Scuola per traduttori e interpreti di Trieste (cinque ore di treno da Milano). Di lì a poco Vittorio Strada mi chiamò a insegnare a Ca’ Foscari, dove rimasi per diciotto anni combinando, in seguito, ai corsi veneziani altri corsi all’Università di Trento e, a Milano, alla Scuola per traduttori e interpreti e alla Cattolica. I guadagni erano magri, dunque non dicevo mai di no.
Per lunghi anni la mia seconda casa fu il treno, il mio posto di lavoro il sedile di una carrozza.
Il primo problema da affrontare fu come rimpiazzare i manuali di Chavronina e
Pul’kina, zeppi di pionieri e kolchoziani. un cero a Propp e mi misi a cercare i testi adatti. Ormai – evviva! – ero libera di farlo, avevo solo l’imbarazzo della scelta. I miei scaffali si riempirono di libri russi pubblicati in Occidente, quelli che in Unione Sovietica avevano l’etichetta di tamizdat.
Per terminare il mio Russo per italiani ci volle un intero corso di studi universitari: quattro anni. I primi testi li stilai da sola, ma appena gli studenti furono pronti ricorsi agli originali, senza adattarli.
Leggere Dostoevskij in russo (un brano di Netočka Nezvanova) era motivo di grande orgoglio per loro. Divoravano con entusiasmo, acume e impegno pagine e pagine del Maestro e Margherita, del Dottor Živago, dello Scambio di Trifonov, districandosi tra le difficoltà del Mio Puškin di Marina Cvetaeva per concludere sulle poesie cantate di Okudžava, Galič, Vysockij.
Mi compiaccio da sola di un’involontaria trovata compositiva: il manuale si apre – a un livello elementare – con la Canzone del palloncino azzurro (“Piange la bimba, il palloncino è volato…”) e si chiude con la splendida analisi di quello stesso “Palloncino” a opera del celebre critico Efim Etkind.
Il Russo per italiani, come del resto la sua autrice, suscitavano reazioni opposte: rifiuto o entusiasmo. A rifiutarlo erano solitamente i colleghi, vuoi per quei nomi ancora quasi al bando in URSS (Bulgakov, Pasternak, Cvetaeva), vuoi, più semplicemente, perché la loro preparazione non li metteva in grado di utilizzarlo. Una collega a Venezia, tale Goršečnikova dell’Università di Mosca, lo annunciò ufficialmente al mio superiore a Ca’ Foscari: si rifiutava di usare “il manuale antisovietico della Dobrovolskaja”. Quanto agli studenti, per loro stessa ammissione ci dormivano abbracciati. Dal canto mio feci una scoperta felicissima: la Costituzione italiana contemplava la libertà di insegnamento.
Dopo quattro anni, dunque, mi ritrovai fra le mani una pila di fotocopie ormai rodate, ma il sogno di veder pubblicato quel malloppone bilingue restava tale. Le edizioni Cafoscarina di Venezia mostrarono un qualche interesse al riguardo, ma la tipografia pretendeva una cifra spropositata: trenta milioni di lire. All’epoca non c’erano ancora i computer, e il proto non conosceva il cirillico.
Finì lì. E lì sarebbe ancora, se non fosse che accadde un miracolo. Un miracolo che rispondeva al nome di Hans Deichmann, antinazista tedesco venuto per lavoro in Italia negli anni Trenta e che in Italia aveva messo radici.
A presentarmi Hans e Luisa, la moglie architetto, fu un vecchio amico: Gabriele Abbado, fratello del direttore d’orchestra e compagno di università di Luisa.
Hans Deichmann era di famiglia ricca e l’imponente dimora della sua infanzia si erge tuttora a Colonia, dirimpetto alla celebre cattedrale. Sua sorella Freya aveva sposato un amico d’infanzia di Hans, quel conte Helmuth von Moltke che venne giustiziato per aver preso parte al complotto contro Hitler. Hans è mancato poco tempo fa, a 97 anni. Che la terra gli sia lieve: ha sempre cercato di fare del bene al prossimo.
Una sera, a cena in casa loro, la conversazione finì sul mio manuale.
Hans prese la palla al balzo e, da uomo pratico al quale nulla dà più sui nervi che far cadere la manna dal cielo, dichiarò:
– Mi faccio carico io delle spese.
E firmò il contratto con la Cafoscarina. Due lunghi anni (e tre giri di bozze) dopo, Il russo per italiani – corposo volumone blu elettrico e bianco – vide la luce.
Per quanto strano – ha i suoi anni, ormai! – continua a trovare estimatori. Una novità c’è stata, però: al posto delle audiocassette ora gli allegati sono due CD.
Il mio sponsor pose una condizione: a discrezione dell’autrice, una parte dei ricavi della prima tornata di vendite avrebbe dovuto finanziare una qualche iniziativa destinata agli studenti. La prima tiratura andò esaurita in un baleno, dunque i ragazzi poterono contare su una discreta sommetta, per quegli anni.
Vittorio Strada mi consigliò di bandire un concorso nazionale per il miglior scritto sulla letteratura russa, premiando poi il vincitore. A chi sarebbe toccato vagliare tutti quei temi, però? Alla sottoscritta…
Decisi diversamente. Mandai undici tra i miei studenti migliori, scelti tra Venezia, Milano, Trieste e Trento, a perfezionarsi nella prestigiosa Scuola di russo per stranieri di Meudon, a Parigi. Per organizzarla andai una prima volta a Parigi con una mia studentessa di Trieste, Leslie Baroni (ti ricordi, Leslie?), che ora vive con il marito e i due figli in Florida.
La scuola dei padri gesuiti – intellettuali finissimi – era situata nella vecchia sede di un collegio per i figli degli emigrati russi della prima ondata. Il direttore fece i suoi conti e stabilì che la somma di cui disponevamo sarebbe bastata per un seminario di tre settimane, vitto e alloggio compresi. Fissando il programma di studio, incontrammo un solo scoglio: per un qualche motivo il direttore si rifiutò di invitare il celebre storico emigré Michail Heller. Non puntai i piedi, ma telefonai a Heller.
– Non ce le ho, undici sedie… – cercò di affrancarsi lui.
– Non fa niente. Si siederanno per terra!
E dunque, all’insaputa dei gesuiti, i miei ragazzi andarono anche da lui. Ne furono conquistati. Heller era un pozzo di scienza e di simpatia. Qualche tempo prima ci eravamo incrociati a un convegno a Bergamo. Il suo amico e coautore, invece, Aleksandr Nekrič, poi emigrato in America, l’avevo conosciuto a Mosca, in casa di Aleksandr e Zel’ma Grunt. Ricordo che al convegno di Bergamo intervenne anche padre Men’. Nessuno di loro è più tra noi. Padre Men’ è stato ucciso in un boschetto nei pressi di Mosca, mentre andava in chiesa. Era una figura scomoda. Con una grande mente e una grande fede.
Il seminario di Meudon è stato un gradino importante nel curriculm dei migliori fra i miei allievi, un dono che Hans Deichmann ha fatto alla mia personalissima “nazionale”. Rimpiango solamente di non aver suggerito loro di accendere una candela alla sua memoria. Nel 1987, consegnando il manoscritto a Roberto Privato, l’editore, lo avvertii in tutta onestà:
– Potrebbe venirne qualche grattacapo.
– Tipo?
– Stroncature…
Ma il suo fiuto gli suggerì di rischiare: con quel manuale andava a colpo sicuro. L’incontro con Roberto – giovane, dotato, lavoratore indefesso – è stato un caso felice nel difficile mondo dell’editoria. Vent’anni fa era un bell’uomo, somigliava a Gianni Morandi. Di recente mi ha scritto una lettera che non sono riuscita a leggere, tanto la grafia era incerta. Al telefono il suo vice, Giorgio Vianello, mi ha lasciato senza parole:
– Ha un tumore al cervello…
– Chi crede in Dio (e anche chi non ci crede) dica una preghiera per Roberto Privato – sussurrai ai miei studenti della Scuola interpreti di Trieste il 6 maggio 2005, giorno della mia ultima lezione.
Avevo un groppo in gola: l’amarezza per Roberto e una struggente commozione per i festeggiamenti. E una mesta consapevolezza che gettava un’ombra più lunga su tutto: era il mio ultimo giorno di lavoro, cominciava la pensione.
Ma torniamo alla festa. Mi vidi consegnare il programma di un insolito spettacolo dal titolo Dobrovolskaja day. I ragazzi l’avevano provato per un mese, di nascosto dagli insegnanti, e avevano trovato la chiave per il mio cuore mettendo in scena Il russo per italiani. I dialoghi del manuale diventarono degli sketch: il geloso Paolo chiedeva ragione del suo comportamento a Laura, il padre di Laura si indignava perché la figlia tornava a casa a notte fonda “scambiando la casa per un albergo”… Il Bagaglio di Maršak divenne una commedia con tanto di divano, valigia, sacca, quadro, cappelliera e cagnolino, che strada facendo da piccolo diventava grande. Recitarono versi (“Vi ho amata…”), filastrocche e altre facezie (come il “Buon dottore AhichemàleAjbolit” o la conta del leprotto) che nel manuale servivano a perfezionare la pronuncia. Cantarono à la Okudžava, in coro “insieme, da soli e uno per volta”.
Nell’intervallo ci rimpinzammo di torte salate e altre leccornie russe che avevano preparato con le loro mani. Ogni istante venne immortalato a non finire dalle macchine fotografiche. Sembrava di essere su un set.
“Sono più bravi e svegli che a lezione – mi venne da pensare. – Da che dipenderà?...”
La risposta era chiara, l’avevo sotto gli occhi. Riconobbi subito la mano della loro talentuosa e instancabile insegnante: Mila Nortman.
Due Post Scriptum. Anzi tre
1. Quand’è stato? Doveva essere il 1986-87, a Trieste. Un giorno alla Scuola per traduttori e interpreti si presentò una donnina con il pancione.
– Mi chiamo Mila Nortman – si presentò, e aggiunse decisa: – Voglio diventare sua amica.
Non tutti sono capaci di superare l’imbarazzo e le insicurezze del primo o. Io non sarei in grado, lo ammetto. E faccio male.
In un mondo di solitari, dove nulla conta più del calore umano, bisogna fare come Mila. Tra l’altro, allo stesso modo si comportò anche Irina Čajkovskaja. Lei, il marito Saša Mar’in e i due figli vivevano ad Ancona. Irina si trovò tra le mani Il russo per italiani, decise che eravamo fatte della stessa pasta e mi cercò. Da allora, pur con un oceano in mezzo (i Čajkovskij-Mar’in vivono a Boston,
ora), siamo inseparabili.
2. Quindici anni fa al Conservatorio di Milano si tenne uno spettacolo indimenticabile: il concerto di Bach per quattro clavicembali eseguito con quattro pianoforti a coda. Ai primi tre sedevano altrettante pianiste armene della “scuola di Mosca”, diplo-mate al Conservatorio Čajkovskij: Arevìk Hairapetjan e le figlie Tatevìk e Nunè.
Al quarto c’era la nipotina dodicenne di Arevìk, Anì, figlia di Nunè, diplomatasi poi al Conservatorio di Milano. Quattro bellezze minuscole, con grandi occhi scuri e lineamenti delicati. Ringrazio la sorte per averci fatte incontrare e volere bene.
Ma chi diede una mano a queste quattro profughe (di talento, sì, ma farsi strada è un altro paio di maniche)?
Fu, di nuovo, Hans Deichmann. Che aveva incontrato Tatevìk sulla via che da Erevan la portava a Milano. Mise in moto la sua Fondazione benefica OMINA – la stessa che rese possibile la pubblicazione del mio manuale – e le quattro Hairapetjan ebbero un pianoforte Yamaha nuovo di zecca.
3. Colonia. Anni Ottanta del Novecento. Elisabeth Zusalmsalm, per gli amici Lisel, medico in pensione con sangue blu nelle vene, va a vedere la mostra di due artisti moscoviti: Vadim Zacharov e Vladimir Naumec. Resta affascinata da loro e dalle loro adorabili consorti – le sorelle Maša e Ira. Lisel propone a tutti e quattro di trasferirsi nella sua palazzina di tre piani al centro di Colonia. Volodja e Nadja Porudominskij, genitori di Maša e Ira, esitano a lungo prima di decidersi a lasciare Mosca e tagliare i ponti con il ato.
Lisel va diverse volte a trovarli, per convincerli, e alla fine la spunta.
Ora la famiglia – che nel frattempo è cresciuta – vive a Colonia, sotto il tetto di Lisel, a cui continua a essere legata da grande e sincera amicizia.
Volodja – Vladimir – Porudominskij è un ottimo scrittore e un caro amico mio e di Lev Razgon. Una volta l’anno Alëša Bukalov riesce a trovare un pretesto per riunirci a Roma, suoi ospiti. E ogni volta è una gioia, un dono del destino.
Una cosa mi resta da aggiungere: Lisel è amica d’infanzia di Freya, sorella di Hans Deichmann.
29. Nina Nikolaevna Berberova
Milano. Fine dicembre 1982. Ho problemi inenarrabili con il visto americano. Evidentemente il mio aporto di freschissima cittadina italiana con natali a Gor’kij, URSS, non va giù al console statunitense. Per due volte mi sottopone a un terzo grado che mi fa uscire dai gangheri.
– Mi pare d’essere al KGB! – sbotto. – Non pensi che questo viaggio a New York sia una questione di vita o di morte, per me. Vado semplicemente a un concerto alla Carnegie Hall. Mi dica solo sì o no, e facciamola finita!
Interviene Emy. Il giorno prima che il biglietto scada il kgbista americano mi elargisce finalmente il visto.
– Posso domandarle perché ci ha pensato tanto? – ho l’ardire di chiedere al signor console anche se non siamo più “a tu per tu” nel suo ufficetto, ma a un semplice sportello.
– Persone come lei provano spesso a restarci, negli Stati Uniti – risponde il console con altrettanta semplicità, senza infingimenti.
– Non mi a nemmeno per la testa… Non la cambierei con niente, l’Italia!
Ancor prima di aver battuto in lungo e in largo la bella New York (una sorpresa per me: “è la città del demonio giallo”, mi era stato inculcato), agli amici di Nina Bejlina che mi chiedevano che cosa desideravo far risposi che mi sarebbe
piaciuto scoprire se era ancora viva Nina Berberova, la scrittrice, e – nel caso – dove abitava. La risposta che seguì fu inspiegabilmente rapida:
– Nina Nikolaevna Berberova vive a Princeton. Resta accanto al telefono, ti chiamerà fra un attimo!
Ci conoscemmo così: senza convenevoli. La mattina dopo venne a Manhattan, da Nina Bejlina. C’ero solo io, in casa. E rimase fino a sera. Non riusciva a credere che Il corsivo è mio, le sue memorie, fossero arrivate anche a Mosca.
– Le ho scritte per loro, per i russi, ma non speravo che le leggessero… Lo sento da lei per la prima volta…
Non mi credeva. Per dissipare i suoi dubbi le riassunsi alcuni brani che mi erano rimasti impressi. Erano molti. Tra i libri del tamizdat, Il corsivo è mio fu un vero e proprio evento esistenziale, uno spiraglio di luce nel buio degli anni Settanta.
Nina volle i dettagli. Come ci procuravamo i libri pubblicati in Occidente, come facevamo a leggerli. E io le raccontai di come, recapitata da un VIP o da un diplomatico, ti ritrovavi in casa per una notte (massimo due) un’unica copia per una città di nove milioni di abitanti. Le dissi di come ci chiudevamo in casa a divorare pagine su pagine. Di come si formava la cerchia virtuosa di lettori – non solo moscoviti – che faceva sì che il libro entrasse a far parte della cultura russa. Di solito cominciava con uno squillo:
– Che fai di bello? Hai voglia di una tazza di tè?
E via di corsa! Ogni minuto che ava era un minuto in meno a disposizione. Così leggemmo Nabokov, Zamjatin, Bunin, Chodasevič, Gippius, Berdjaev, Frank, Remizov, Zajcev…
– Che non hanno vissuto abbastanza per saperlo… Io invece sì… – sussurrò Nina. E quella donna di ferro pianse. Un pianto sommesso, ma con tutti i crismi, con tanto di singhiozzi e soffiate di naso.
– Non piango mai, io. Non ricordo quand’era stata l’ultima volta…
Per tutti gli anni che le restarono da vivere tra di noi si tese un filo sempre più robusto. Intanto decidemmo che sarei andata a trovarla a Princeton. Venne a prendermi alla stazione: ben curata, vispa, guidava lei. Mi mostrò ogni dettaglio del piccolo cottage a due stanze che l’università metteva a disposizione dei professori.
– Questa me l’ha mandata Lilja Brik tramite Roman Jakobson – mi disse prendendo con estrema cura da una libreria (c’erano libri ovunque!) una tazza di porcellana russa. E la catena delle associazioni ebbe inizio, con nomi di amici comuni e di comuni conoscenze che si moltiplicavano. Il mondo è piccolo, benché a dividerci ci fossero un oceano e la cortina di ferro.
Le diedi un dolore. Nella sua Donna di ferro (storia della baronessa Budberg) fresca di stampa avevo trovato alcune parole e modi di dire ormai obsoleti. Nina Nikolaevna si mise in allarme e corse a consultare il dizionario. È facile dimenticare la propria lingua se si vive da sessant’anni in mezzo a gente che ne parla un’altra.
Il corsivo è mio è uscito in traduzione italiana nel 1989 (è stato il “manuale” su cui ho insegnato a tradurre a Patrizia Deotto, ora mia collega). Due anni dopo traducemmo anche La baronessa Budberg.
Nella primavera del 1989 Nina venne a trovarmi per una decina di giorni. ò buona parte del tempo sotto il glicine della mia terrazza a concedere interminabili interviste e nelle varie librerie a firmare copie del suo libro.
Con l’editore Roberto Calasso si intesero all’istante. Pur di stare ancora un po’ insieme, dopo una cena al ristorante lui e la moglie Fleur ci portarono a casa loro. Sulla via del ritorno Nina mi chiese incuriosita se il posto dove eravamo appena state era una biblioteca (casa Calasso è una galleria di scaffali con migliaia di volumi)!
Tra parentesi. A suo tempo in quella casa-libreria senza altra mobilia fui colpita da una fotografia appesa sopra un tavolo da pranzo traballante: raffigurava i genitori di Roberto Calasso, a Londra, con i loro amici Pasternak, padre e madre di Boris. Non per niente, dunque, mi aveva pubblicato la Berberova, emigrante “bianca”, dopo che una decina di editori mi avevano detto di no!
Concedevo a piccole dosi la mia ospite americana, e solo agli amici più cari: i Vismara e i Venturi, giunti espressamente da Campale.
E la portai a Venezia, a tenere una lezione agli studenti.
La gita in vaporetto sul Canal Grande fu appannata da una pioggerella fastidiosa. Nina si intristì, riaffiorarono i ricordi, si affacciarono i paragoni…
Un bel caratterino, quello di Nina Berberova. I motivi di baruffa tra noi erano due. I soldi in primo luogo.
– Lei è mia ospite. Lasci stare il portafoglio, che pago io! Quando verrò a trovarla a Princeton, farà altrettanto!
– Fisime sovietiche! – sbruffava lei. – I soldi amano che li si conti. In America, al ristorante, anche una madre e un figlio adulto si dividono il conto!
– Roba da matti! – mi arrabbiavo io. – L’intelligencija russa non è mai stata spilorcia…Figurarsi!
Sorvolai elegantemente sul dettaglio che noi sovietici non potevamo essere attaccati al denaro perché in URSS i negozi erano vuoti…
Un’altra cosa che le dava sui nervi era il vedermi pronta ad aiutarla a salire le scale o a scendere dalla macchina. Scansava, risentita, il braccio che le veniva in aiuto, come a dire: “Sarò anche vicina ai novanta, ma non sono ancora decrepita!”.
Si ammalò per aver sovrastimato le sue forze: intraprese un viaggio della memoria a Mosca e Leningrado. Le emozioni, poco importa se positive o negative, furono troppe. Sale gremite, un’accoglienza trionfale, profluvi di domande… (Il corsivo è mio era finalmente uscito anche a Mosca). Una giornata calda di affetti con Vasilij Katanjan-junior e Inna Genc nell’appartamento del Kutuzovskij prospekt in cui era tutto rimasto come ai tempi di Lilja Brik e Vasilij
Katanjan-senior e in cui nel 1978 avevamo festeggiato assieme, noi tre, l’ultimo capodanno di Lilja.
A Leningrado ci fu il triste spettacolo dell’unica sua amica ancora in vita, Ida Nappel’baum, molto malata. E dela casa paterna: un palazzo grigio e malridotto in cui sessant’anni prima aveva visto per l’ultima volta i suoi genitori. Anzi no, il padre l’aveva rivisto alla fine degli anni Quaranta, nel cammeo di un film sovietico proiettato all’Associazione Francia-URSS. Incontrai Nina Berberova un’ultima volta a Philadelphia, dove si era trasferita per essere più vicina ai due medici russi, suoi amici ed estimatori devoti, che si prendevano cura di lei.
Un bel giorno una giornalista romana pensò bene di intervistare qualcuno della prima emigrazione russa per il Venerdì di Repubblica. Calasso le consigliò di parlare con me.
Io, però, non ero pronta a dare consigli in merito.
– A Parigi, dovrebbe cercare a Parigi… Però io là non conosco nessuno… A Roma c’era il figlio di Šaljapin… Che però non c’è più… Di quelli che conoscevo personalmente resta solo la Berberova, a Philadelphia…
La seconda telefonata suonò più decisa: si vede che il gran capo aveva detto di sì.
– I primi di gennaio andiamo a Philadelphia, io e una collega fotografa. Vuole farmi da consulente? Non so nulla né di letteratura né di emigrazione russa. Mi illuminerà lei sull’aereo
In gennaio non avevo lezioni. Nina aveva subito una brutta operazione e mi sarebbe piaciuto andare a trovarla. Accettai.
In aereo, la giornalista si accomodò nel posto accanto al mio con un notes in mano. Il tenore della nostra conversazione fu il seguente:
Lei: – Mi trovi una chiave per l’intervista! Senza approfondire troppo, però… (quanta paura di sapere qualcosa in più!)
Io: – Sarebbe interessante chiedere alla Berberova come mai la fama le è arrivata a ottantacinque anni suonati.
Lei: – È vero. Come mai?
Io: – È vissuta in Francia fino al 1950, e la gauche filosovietica se ignorava gli scrittori russi esuli.
Lei: – In che senso esuli?
Glielo spiegai. Si incupì, si alzò e tornò al suo posto. Sulla sua faccia lessi: “Anticomunismo bieco!”.
“Perché bieco? Democratico” pensai che sarebbe stata la mia risposta: “Quello
che alla cultura italiana manca tanto”.
La mia consulenza finì lì. Repubblica aveva speso male i suoi soldi.
A Philadelphia chiamammo la Berberova senza nemmeno rinfrescarci e senza disfare le valigie (che, tra l’altro, non avevamo: sparirono per due giorni dopo il trasbordo a Boston).
– Niente intervista – disse la Berberova, gelida, alla giornalista italiana. – Ho un impegno. Vado una settimana a New York, da Avedon. E, per favore, dica a Julia che prenda un taxi e mi raggiunga!
– Ma signora Berberova, avevamo un accordo…
– Avrebbe dovuto chiamare prima di partire per avere conferma! – e riagganciò.
Ero mortificata.
– Chiami Calasso – mi venne in mente. – Solo lui può domare la bisbetica.
Lo trovarono, per fortuna.
– L’unico compatriota con cui la Berberova non abbia ancora litigato – sentenziò
– è la Dobrovolskaja.
Le telefonai.
– Nina, quel che è troppo è troppo! Hanno attraversato l’oceano per un’intervista di due pagine!
Riuscii a farle rimandare di un giorno l’appuntamento con il celebre fotografo. L’appartamento di Philadelphia in cui viveva somigliava stranamente al mio attuale, a Milano. Le librerie erano dell’IKEA, come le mie. Sopra il tavolo c’era una famosa foto di gruppo scattata a Parigi: la giovane Berberova con un areopago composto da Chodasevič, Muratov, Zajcev, Remizov, Belyj, Bachrach, Osorgin…
La giornalista non ebbe bisogno di me neanche per l’intervista, che si svolse in se. Ogni tanto Nina si distraeva:
– Apri il nuovo Larousse alla lettera B: adesso prima di Berdjaev, Bulgakov e Bunin ci sono io: Berberova!
Oppure:
– Guarda un po’ il poster della Accompagnatrice, il film se. Lo vedi quant’è piccolo il nome dell’autrice del racconto? Maleducati!
Per poi riattaccare:
– Apri il Larousse alla lettera “B”…
Ora che aveva fama e benessere, una tale reazione tra il trionfale e il puerile era da ascrivere ad anni e anni di immeritato e offensivo anonimato. Dunque la compativo e aprivo ubbidiente il Larousse alla lettera “B”.
Era molto cambiata. Non solo perché era smagrita o perché – come diceva lei stessa – somigliava sempre più a una cinese. Nulla era rimasto della sua sicurezza di un tempo. Forse era una conseguenza dell’accordo siglato con il suo agente se, al quale aveva accordato il diritto di disporre della sua produzione letteraria in cambio di un vitalizio. Non doveva più preoccuparsi del futuro, si era tolta un peso: qualcun altro avrebbe deciso tutto per lei. Ma bisognava aver conosciuto la Berberova di un tempo per capire quanto feroce fosse stata la trasformazione.
Finita l’intervista ci invitò a pranzo in un ristorante vicino a casa sua. Quando la vidi infilare una giacchetta giallo limone mi allarmai:
– Nina, è gennaio, fa freddo, fuori!
– Non preoccuparti, è di cachemire. Parigi!
Non ci fu modo di convincerla. Fuori, con un vento gelido, si arrese e la avvolsi nella mia sciarpa.
Al ristorante gli habitué la salutarono ossequiosamente e i i camerieri fecero a gara per servirla. Poco educatamente, Nina parlò solo con me. Soprattutto dell’ultima persona con cui aveva litigato: Iosif Brodskij.
– Per me non esiste più!
Scoprii che non poteva perdonargli di aver detto: “Le vittime non mi interessano più. Ora mi interessano i carnefici”. Come mai non aveva capito l’idea che stava sotto? Tornammo a casa sua. Ci offrì un tè. Aveva anche una torta.
Quando andai in cucina a prendere il necessario, trovai una sola tazza.
– Dove sono le tazze, Nina?
Confusa, balbettò: – Si sono rotte tutte… Ormai non compero più niente…
Che significava: “Tanto fra poco me ne andrò…”. Lo bevemmo nei bicchieri, il tè.
Provai a deviare la conversazione su un altro binario.
– Nina, per chi hai votato alle ultime presidenziali? – le chiesi.
– Per nessuno. Noi novantenni abbiamo deciso di non votare più.
Niente, non riuscivo a cambiare discorso. Ci riprovai:
– Che cosa metti per Avedon?
E un raggio di luce si accese nei suoi occhi: l’ewig weiblich, l’eterno femminino.
– Venite, ve lo faccio vedere!
Giornalista e fotografa si sedettero sul letto, io restai sull’uscio e colsi l’espressione di Nina allo specchio, trasfigurata per un istante mentre si appoggiava al petto un bell’abito nero (“È italiano!”, tenne a precisare). Era tornata la Nina che occhieggia dalla copertina del suo Corsivo.
La stessa Nina che avrà colto anche il celebre fotografo newyorchese, se sul ritratto a figura intera la novantenne Berberova tiene in mano, rivolta verso chi la guarda, una sua foto da giovane.
Post Scriptum. Ho messo il punto, ma è come se non volessi staccarmi da lei. Sono andata a frugare nel baule con le carte del mio archivio che non ho mai il tempo di riordinare, e ho tirato fuori la cartella della Berberova – recensioni, inter-viste e fotografie con il glicine sullo sfondo. E anche lettere. Le ho rilette. Riflettono tutta una gamma di stati d’animo e di peculiarità. E cioè:
- la gioia mai paga dell’esserci trovate: “Ci rivedremo mai? Sapesse quanto lo spero” (da Princeton, agosto 1983);
- l’affinità elettiva: “La tua dedizione al lavoro mi è nota e cara, e sono felice che così sia” (novembre 1984);
- una paternale in tono didattico (andavo istruita): “Per le condizioni alla traduzione ti manderò una lettera firmata da un notaio senza la quale non si fa nulla (sottolineatura della Berberova – Ju.D.); viviamo in paesi capitalisti e non si può non parlare di soldi” (maggio1985);
- somiglianza tra i nostri caratteri: “Lavorare con te è tremendamente facile” (1987);
- le emozioni che si sprigionano: “Grazie di tutto. Ci penso giorno e notte. L’Italia significa molto per me. Ho un tuffo al cuore quando penso che mi leggeranno in quel paese magico e indimenticato” (31 dicembre 1988);
- e, in risposta a una mia autodifesa: “Non posso avercela con te. Ti sarò grata fino alla tomba per tutto quel che hai fatto…” (1989).
30. L’amore delle tre melarance
Nessuno riusciva a capire che cos'era successo al mio ginocchio sinistro. Mi faceva male come un dente cariato, zoppicavo. Il caro dottor Nani – mio medico curante e chirurgo di formazione – era di fatto un omeopata e un antroposofo steineriano.
– Deve andare a Roncegno – concluse.
Il “San Raffaele” di Roncegno, vicino a Trento, è l’unico centro steineriano d’Italia; ci si cura con l’acqua minerale della fonte di Levico, di uno spaventevole color sangue di bue. Non ci fu niente da fare: dovetti metter mano al portafogli e partire, immolando il mese di luglio alle cure.
Pronunciato il “Si accomodi!” di prammatica, il dottor Gasperi vide sulla cartella clinica il mio lungo cognome poco italiano e si compiacque:
– Che coincidenza! Sono tornato ieri dalla Russia e la mia prima paziente è russa! Stefano e la moglie Nicoletta ci erano andati a cercarsi un figlio. Superate le barriere di fronte alle quali molte coppie senza figli si rassegnano, avevano ottenuto la possibilità di adottare un bambino dell’orfanotrofio di Rostov sul Don. Perché proprio Rostov? Il padre del dottor Gasperi aveva combattuto sul Don e si era salvato solo grazie al buon cuore delle contadine locali, impietosite da quegli italiani stremati (difficile pensare che avrebbero trovato una patata lessa o un pezzo di pane anche per un tedesco). Da allora la famiglia Gasperi aveva il culto della Russia.
Il personale dell’orfanotrofio era schierato all’ingresso con la direttrice in testa. I futuri genitori, con alle spalle una notte insonne, percorrevano emozionati il aggio tra i lettini quando Sergej – Serëža – nove mesi, tese la mano verso Nicoletta. Il suo – e il loro – destino – era segnato.
Nicoletta mi portò Serëža, ora Davide Sergio Gasperi. Era un bell’ometto robusto che cercava in ogni modo di tirarsi su dal eggino, non rassegnandosi a stare sdraiato o seduto.
– Sei stato molto fortunato, piccolino! – gli dissi in russo. – Sei nato con la camicia!
ai la domenica in casa loro, una casa felice con un giardino in fiore e la preghiera prima del pranzo. Semplicità. Bontà. Silenzio. La conversazione che si spegne senza imbarazzi…
La mia memoria conservava qualche notizia frammentaria su Steiner perché Andrej Belyj si era interessato all'antroposofia. Poca cosa. Stefano mi diede dei libri.
Un giorno, poi, mi disse che il maggior teorico dell’antroposofia mondiale contemporanea era un russo che viveva in Germania: Sergej Prokof’ev. Quel nome non mi giungeva nuovo, e non perché fosse un omonimo del compositore. Alla fine ci arrivai: l’antroposofo era il nipote di Lina Prokof’eva, la vedova del grande musicista!
Era andata così. Un giorno Paolo Grassi mi chiamò da Milano e mi chiese di contattare Lina Prokof’eva: la Scala avrebbe messo in scena l’Amore delle tre
melarance e lui aveva bisogno di una fotografia o di un disegno per la copertina del programma di sala.
Con Paolo avevamo conosciuto la vedova di Prokof’ev nel palco del direttore del Bol’šoj, dove lei aveva un posto fisso (almeno a quello avevano provveduto!). Io, poi, la incontravo regolarmente all’ambasciata italiana: come me, Lina era una otkaznitsa, le negavano il visto d’espatrio.
– Alla mia età, povera me, non ce la faccio… – si lamentava Lina quando l’ambasciatore la esortava a non mancare.
Che dire, anni e malanni si facevano sentire, e se non crollava era solo grazie al suo temperamento ispanico.
– Ho forze a sufficienza per una cosa sola al giorno: o vado dal parrucchiere o vado in ambasciata, e invece devo farle entrambe!
Paolo, dunque, aveva una richiesta da farle e Lina era solitamente molto ben disposta verso di lui. La chiamai. Tergiversava:
– È complicato… Se assi a trovarmi te ne renderesti conto… Perché non vieni? Andai. Abitava sul Kutuzovskij prospekt, vicino al negozio di souvenir, in un monolocale che le era stato concesso dopo la riabilitazione (merito di Chruščëv). Il giorno dopo che Prokof’ev l’aveva lasciata per la sua segretaria, Lina era stata arrestata e si era fatta otto anni di lager.
È un appartamento open-space: un arco divide la stanza dall’ingresso, la porta non c’è. Quella stanza budello è stipata di mobili eleganti, ciò che le hanno restituito dell’arredamento sequestrato al momento dell’arresto. Vuoi per fretta, vuoi per stupidità, chi si è occupato del trasloco ha sistemato comodini, armadietti e scansie faccia alla parete, dunque è praticamente impossibile servirsene.
Non si può escludere, però, che dentro uno sperduto cassetto qualcosa faccia al caso di Paolo Grassi.
La stanza è divisa per lungo da un aggio stretto: a sinistra c’è un divanoletto, a destra ci sono il tavolo e la finestra. Non si a. Ora il divano è occupato da due ospiti: Sonja, la prima moglie del figlio ingegnere di Lina, e suo figlio sedicenne, Sergej.
Sergej assomiglia alla madre: mingherlino, capelli neri. Di Sonja, ottima scrittrice per ragazzi, avevo già sentito parlare. Dopo qualche chiacchiera a quattro, Lina mi chiama in anticamera. Si porta un dito alle labbra in un gesto inequivocabile: attenzione, ci sono i microfoni.
L’altro suo figlio, artista, vive a Londra. Gli è nata una bambina, ma Lina non può andare a conoscerla: l’OVIR le ha negato il visto più di una volta. Mi dice che ha deciso di scrivere ad Andropov.
– Dammi un consiglio. Io voglio restare a Londra per sempre: è meglio che chieda un visto per tre mesi o uno illimitato? Cos’è più sicuro?
Come chiunque abbia problemi di udito, Lina non sa regolare il volume della
voce: è convinta che le sue parole siano un sussurro, mentre invece suonano stentoree.
– Piano, Lina, piano! È pieno di cimici, me l'hai detto tu stessa! Secondo me, non è quel che chiedi, che conta, ma il semplice fatto di bussare in alto loco!
Ripartii a mani vuote, sospirando su quegli armadietti inaccessibili.
Il giorno dopo Lina mi telefonò. La voce era tutta un trillo:
– Ho una sorpresa per te! Corri!
Il nipote Sergej era riuscito nell'impresa. Era arrivato a un comodino e ci aveva pescato quanto ci serviva: la fotografia di un ritratto del compositore Prokof’ev dipinto da un artista messicano negli Anni Venti. Con di traverso una scritta autografa di Prokof’ev stesso: “In ricordo delle tre melarance”. Meglio non si poteva fare! Il sovrintendente Grassi ne sarebbe stato entusiasta.
Lina mi diede da far sviluppare anche una pellicola che Sergej aveva trovato e che non si capiva cosa contenesse. Incaricai della delicata operazione Luigi Vismara. Che ci portò due foto: una era il ritratto "messicano" di Prokof’ev, l’altra ritraeva una splendida spagnola ventenne - Lina - con il primogenito in braccio.
Quella volta Andropov ritenne possibile, se non opportuno, lasciar partire Lina. Ci vedemmo un altro paio di volte ai ricevimenti in ambasciata. Si lamentava
dell’insonnia e si tormentava:
– Non rivedrò mai più mio figlio, né Sergej.
Lo adorava, quel nipote. Era certa che avremmo sentito parlare di lui, in futuro, e lo ripe-teva di continuo.
Così era stato. Merito di un ginocchio dolorante e del dottor Stefano Gasperi, antroposofo di Roncegno.
Nel 1983 avrei potuto tranquillamente andare a Londra da Milano. Avevo molta voglia di rivedere Lina, ma ero troppo intenta a sopravvivere. Lina è morta nel 1984. Mai rimandare gli incontri che contano per l’anima.
Una quindicina d’anni dopo, la radio italiana volle trasmettere uno spettacolo del Bol’šoj: L’amore delle tre melarance. Il destino, nei panni di Stefano Catucci redattore di Radio3 (il canale d'arte, letteratura e musica della RAI), mi riportò – più vicina, in quel caso – a Prokof’ev. Catucci mi voleva in radio da che aveva intervistato Marcello Venturi a proposito di Via Gor’kij 8, interno 106. E la trasmissione da Mosca dell’opera di Prokof’ev gli era parsa l’occasione adatta per sentire entrambi, Marcello e me. Mi telefonò.
Io mi schermivo:
– Ma no, guardi che non ho niente a che fare con la musica, io, per lo meno direttamente…
– E indirettamente? – insisteva lui.
– Indirettamente ce l’hanno tutti quelli che la amano…
– E sarà in questa veste che potrà intervenire.
Fu avventato da parte sua, anche perché il terzo canale radio della RAI è noto per la grande professionalità e l’alto livello dei suoi collaboratori.
Dal canto mio, essendo avventata per definizione, accettai pensando che avrei potuto raccontare la storia di Lina. Avevo uno spazio prima dello spettacolo, avrei continuato durante i due intervalli e concluso a rappresentazione finita: quaranta minuti circa. Accettai, lasciandomi contagiare da un italianissimo spirito di improvvisazione.
Finii, dunque, ai microfoni della RAI di Milano. Da Roma Catucci presentò agli ascoltatori me e Marcello Venturi (che quella sera era in Toscana) e mi pose una domanda talmente vaga, che avrei potuto parlare di qualsiasi cosa mi garbasse.
E a me garbava –il lettore se ne sarà ormai accorto – parlare degli amici. Raccontai di Lina Prokof’eva, di come in uno slancio patriottico il compositore russo emigrato aveva deciso di rimpatriare portando con sé nel paradiso sovietico la giovane moglie spagnola e raccontai della loro delusione. Quando si erano resi conto di dove erano capitati, però, era ormai troppo tardi: la cortina si era richiusa.
E raccontai di Dmitrij Pokrovskij, straordinario musicista e studioso di folclore ignoto in Occidente. Quella di Pokrovskij era stata un’autentica rivoluzione musicale: aveva girato con un registratore gli angoli più sperduti della Russia e aveva scoperto e registrato i canti popolari autentici, che poco avevano a che spartire con lo pseudofolclore degli ensemble propinati ai turisti stranieri.
Era una sorta di rito: dopo una dura giornata di lavoro nei campi, i contadini si sedevano fuori dell’izba e, per scaldarsi il cuore, cantavano per ore come avevano fatto i loro nonni e i loro bisnonni prima di loro. A un’osservazione più attenta si scoprì, poi, che quel canto comportava un’impostazione vocale e una respirazione particolari, che era persino terapeutico, salutare. Dmitrij Pokrovskij mise insieme un piccolo coro che assimilò la tecnica e il repertorio, lo portò sulle scene ed ebbe un successo strepitoso. Il Goskoncert, l’ente concertistico di Stato, intuì la novità e la freschezza dell'idea e tenne pervicacemente lontano Pokrovskij dal pubblico colto, relegandolo in provincia e consentendogli di esibirsi a Mosca solo una volta l’anno, in una chiesetta sconsacrata accanto all’albergo Rossija.
A un certo punto Ljubimov invitò Pokrovskij a insegnare canto corale alla troupe del Taganka per il suo Boris Godunov. E accadde il miracolo: lo spettacolo che ne cavò era un dramma vero, come l’aveva inteso Puškin. Nessuno dei grandi registi – Mejerchol’d compreso – ci era ancora riuscito (e aveva addotto a propria giustificazione la “scarsa inscenabilità” del testo). Ljubimov, invece, colse nel segno: “Quelli la tiravano lunga per cinque ore, fra costumi e scenografie sfarzose, mentre bastano due ore ben cadenzate. Non è un testo di genere, nasce dalla piazza, il Godunov”. Dopo un mese di prove con Pokrovskij, un’anziana attrice del Taganka che soffriva di asma da anni guarì.
Quello spettacolo miracoloso nacque sotto i miei occhi. Erano sei mesi che mi crogiolavo nel mio vicolo cieco, chiusa in casa con il aporto italiano ma senza visto per l’espa-trio. Un giorno Ljubimov mi chiamò e mi propose (o meglio, mi intimò):
– Da domani ti voglio tutti i giorni alle prove del Boris!
E, per qualche settimana mi presentai a teatro alle 10 del mattino e ci restai fino alle 3 del pomeriggio. Fu un contatto diretto con l’arte e con la genesi di un’opera d’arte, l'incontro artistico più felice della mia vita.
Ljubimov mi aveva salvato un’altra volta, in quel caso con l'aiuto di Puškin e di Dmitrij Pokrovskij.
L’argomento “musica”, tuttavia, non poteva dirsi esaurito. C’era ancora da citare Viktoria Ivanova e la sua voce di flauto (un gioiello della musica da camera russa), e c’era Boris Pokrovskij, regista del Teatro Bol’šoj, che ormai anziano aveva trasformato lo scantinato di un vecchio cinema in un raffinato teatro di musica da camera, un atollo di gioia come casa Mel’nikov, la cantina di Sidur o la collezione d’arte moderna di Kostaki. Un sostegno per il cuore di molti, in quei lunghi anni bui.
Tre Post Scriptum
1. Anche Milano ha festeggiato i cento anni della nascita di Prokof’ev.
Il Circolo filologico ha invitato da Londra il figlio pittore Oleg. Avvezzo com’era al liberalismo inglese, si sarebbe meravigliato se avesse scoperto che le sue reminiscenze moscovite (l’istruzione forzata secondo i canoni del realismo socialista) irritavano la platea filosovietica del Circolo. Lui, però, non se ne accorse, nessuno glielo fece notare e io, avvicinandolo dopo la sua prolusione,
mi trattenni da ogni commento. Mi bastò pronunciare la parola “Razgon” perché Sesamo si aprisse e cominciassimo a parlare (Lev lo aveva conosciuto – ed erano diventati amici – quando con la figlia Nataša era stato a Londra, ospite di un diplomatico inglese suo amico). Gli chiesi del nipote antroposofo.
– Come no! È stato a trovarmi di recente!
È curioso che lo zio non sapesse del prestigio internazionale di Sergej Prokof’ev jr. È proprio vero: la modestia è dei grandi uomini.
2. In Italia sono stati pubblicati quattro libri di Sergej Prokof’ev jr.
3. Un’eco di quella trasmissione fu una lettera di Enrico Bonaiti di Lecco, che in primo luogo si diceva piacevolmente sorpreso che un canale schierato come Radio3 mi avesse dato la parola; in secondo pretendeva il bis, e in terzo si stupiva di come mi potessi sentire libera in Italia, libera di insegnare e di tradurre quel che volevo…
Come spiegargli che tutto è relativo, compresa la libertà?
31. La cittadina Nemirovskaja
Questo il titolo sotto il quale, il 23 gennaio del 2002, le Izvestija pubblicarono un pezzo a tutta pagina dedicato alla mia amica Lena. Nella fotografia ci sono lei e Jurij, che fuma la sua solita pipa.
Nell’ottobre del 2003, a nome della regina Elisabetta, l’ambasciatore inglese a Mosca ha consegnato a Lena il Knight Commender of the Order of the British Empire.
Che cos’era accaduto, dunque, nei tredici anni trascorsi da che avevo fatto la pronuba? Qualche pagina fa ho lasciato Lena intenta alla sua tesi di dottorato in storia dell’arte. A-vrebbe poi sgobbato per anni alla Biblioteca Lenin, a curare una rivistina per uso interno sotto la supervisione di un colonnello del KGB (giacché vi venivano pubblicati estratti dalla stampa estera).
Mi è rimasto impresso un episodio. Una sera Lena stava aspettando l’autobus per tornare a casa, al n. 4 del Kutuzovskij prospekt. Le si avvicinò un poliziotto: “Mi segua”, le disse. C'era un problema. Sempre molto attenta alla moda, Lena indossava un maxi cappotto non russo e – diciamocelo – assai vistoso, a righe verticali grigie e nere. E diventava perciò un personaggio sospetto! Stentò a convincere il tutore dell’ordine a non scortarla alla polizia ma a casa sua, dal marito e dal padre, affinché confermassero la sua versione.
Tra parentesi. Il fermo di Lena per colpa di un cappotto di fattura estera mi ha rammentato un caso analogo. All’inizio degli anni Ottanta Emy Moresco portò in trasferta a Mosca il suo ufficio da impresario, vale a dire le sue tre colleghe: Denise Petruccione, l’organista uruguaiana Maria Bruzzese e la russofona Milena Bor-romeo. Si accodò anche il marito di Denise, il giovane architetto
Dario Banaudi, che sognava di contemplare de visu l’oggetto della sua tesi di laurea, vale a dire le opere di Konstantin Mel’nikov.
Noleggiammo un taxi per la mattinata e andammo a rimirare ciò che lui conosceva solo dai libri. Avreste dovuto vederlo, raggiante, di fronte al Club operaio Rusakov e alla casa rotonda di Mel’nikov con le sessanta finestre esagonali! Ci girava intorno, li toccava, li accarezzava, avrebbe quasi avuto voglia di addentarli, quegli edifici… Ma soprattutto li immortalava per le sue pubblicazioni a venire. Tutto accadde mentre stava fotografando il garage-”silos” a chiocciola di Mel’nikov.
– Julia, Julia! – mi giunse il suo grido straziato.
Saltai fuori dal taxi e vidi due agenti in borghese, un uomo e una donna, che avevano preso sottobraccio Dario e lo trascinavano – la spia! – al più vicino comando. Più morto che vivo, Dario cercava di opporre resistenza.
Non sapevo che fare, lo confesso. Esordii sbandierando disperatamente la mia tessera dell’Unione scrittori e spiegando loro chi era quel signore. Quelli non mossero un muscolo, strinsero ancora di più la presa e continuarono a trascinarlo via. Avrei dovuto chiamare l’ambasciata, pensai, e davvero era meglio evitarlo.
Mi cavò d’impaccio la forza della disperazione, che mi suggerì l’unica via possibile: la demagogia. Alzai la voce:
– Volete forse sollevare uno scandalo internazionale? Domani tutti i giornali italiani scriveranno dei vostri abusi! E vi prenderete una bella lavata di capo dai vostri superiori! Fareste meglio a lasciar perdere, fidatevi!
Funzionò. Non erano dei cuor di leone e allentarono la presa. Dario, che da studente dell’Università statale di Milano era stato un seguace di Mario Capanna, imparò la lezione. Così bene che ancora oggi si diverte a raccontare quanto gli è accaduto.
La svolta nella biografia di Lena Nemirovskaja e di tutto il suo Paese postgorbačëviano la segnò il golpe dell’agosto del 1991. Lei e Jurij arono tre giorni e tre notti accanto alla Casa Bianca moscovita, consapevoli di essere parte della Storia. Di lì a poco la chiamò un giornalista di una rivista parigina, un amico, e le chiese di scrivere quello che aveva visto e vissuto. Lena lo fece, e aggiunse alcune riflessioni sulla necessità per la politica russa di subire una profonda “educazione culturale”.
“Madame Lalumière, segretario generale del Consiglio d’Europa, viene a Mosca per incontrare El’cin. Avrà una serata libera e le abbiamo suggerito di trascorrerla con lei. Le esponga le sue idee in un paio di paginette in inglese”, le consigliò il giornalista parigino. Madame Lalumière e i suoi sei consulenti restarono da Lena e Jurij fino a tarda sera. Dopo di che Lena venne invitata al Consiglio d’Europa e le venne consegnata una lettera in cui il segretario generale garantiva alla sua iniziativa un sostegno morale e materiale.
Il progetto di Lena venne approvato e il 3 aprile del 1993 ebbe ufficialmente inizio il primo seminario della Scuola moscovita di scienze politiche.
In dieci anni la “Scuola di Lena Nemirovskaja” ha sfornato più di seicento giovani leader regionali, deputati della Duma di ogni frazione politica, amministratori, businessmen, imprenditori, giornalisti.
Il criterio di selezione è uno solo: devono essere persone oneste, efficienti e “aperte allo sviluppo”. “Essere egoisti è naturale, essere cittadini è un’arte”, ha riassunto la questione Jurij Senokosov. I seminari si tengono a Golicyno, vicino a Mosca, ma anche nelle diverse regioni della Russia e all’estero – a Strasburgo, Londra, New York…
Giovani di tutta l’ex Unione Sovietica (armeni, georgiani, bielorussi, estoni, ucraini…) accorrono per imparare come si diventa veri cittadini, ma ne arrivano anche dalla Bulgaria, dalla Mongolia e dalla ex Jugoslavia. Le opinioni politiche degli studenti sono le più varie: liberali e comunisti, centristi e radicali, socialisti e conservatori.
Gli insegnanti sono esperti occidentali, come l’inglese lord Dahrendorf o come Richard Pipes, storico e professore dell’Università di Harvard, o il commissario europeo per i diritti umani Alvar Hill- Robles, o il cancelliere tedesco Helmut Schmidt, o l’addetto stampa di Margareth Thatcher. Sono un centinaio l’anno, intervengono tutti molto volentieri e senza alcun compenso. Le lezioni sono un dialogo tra i giovani russi e i migliori cervelli d’Europa e d’America, teorici e pratici della società aperta. Sui banchi si imparano la tolleranza, la libertà di pensiero e il rispetto delle opinioni altrui (che non implica l'abiura delle proprie). Nel frattempo Jurij lavora giorno e notte e ha pubblicato una quarantina di volumi. Così come per l’one-man-theatre, anche la casa editrice della Scuola di Lena Nemirovskaja è una one-manpublishing house, e l’one-man è Jurij Senokosov. È grazie a lui che anche chi non ha modo di frequentare la scuola hapotuto conoscere le opere di Popper, Pipes, Huxley e di una decina di altri nomi che non avevano mai varcato la cortina di ferro.
Lena ha poco personale, svolge buona parte del lavoro e non delega nulla a nessuno. Dispone di interpreti simultanei eccezionali. Resta poco a Mosca, è sempre in giro per il mondo a raccogliere fondi – i soldi non bastano mai – o a stringere nuovi contatti. Una volta libera di agire, ha mostrato di avere un vero talento da organizzatrice.
Degno di nota e di ammirazione è anche che per iniziativa degli ex allievi di Lena siano state aperte scuole simili in Bulgaria e Mongolia, nei paesi dell’ex URSS e dell’ex Jugoslavia e, va da sé, anche nel resto della Russia.
Nell'agosto cruciale del 1991 che cosa facevo io nella mia “splendida lontananza” – per dirla con Gogol’? Ospite agostana, da anni e anni, di Camilla e Marcello nel monastero di Badia di Tiglieto, in Liguria (che Camilla aveva ereditato dal nonno ambasciatore, che l’aveva ereditato dal bisnonno cardinale, che l’aveva avuto in dono da papa Innocenzo X), la mattina del 21 Marcello mi svegliò bussando alla mia porta:
– Accendi la radio! A Mosca c’è stato un golpe! – annunciò con un sussurro da suggeritore teatrale, dopo di che tornò ad ascoltare le ultime notizie.
Non c’era modo di capire che cosa stesse accadendo: le informazioni erano troppo frammentarie. Non trovavo pace. (A Badia non c’era ancora la luce elettrica, quindi neanche la televisione).
– A-ha! Il cordone ombelicale non è stato ancora reciso! – commentava Marcello.
Soffrii un paio d’ore, dopo di che chiesi a Marcello di accompagnarmi alla stazione. A Milano, a casa, accesi il televisore e non lo spensi più fino a che tutto fu finito.
Mi chiamò Antonio Carioti, della Voce repubblicana di Roma. Evidentemente quel giorno gli organi di stampa erano a caccia di russi in Italia che, dato il periodo, erano tutti in vacanza. A dargli il mio numero era stata Lia Wainstein,
loro collaboratrice. Il giornalista fu felice di trovarmi in casa e mi tempestò di domande. Per quanto strano, ne uscì una discreta intervista, che anche Lev Razgon, poi, avrebbe approvato.
Iniziava così: “Con la voce rotta dall’emozione, la signora Dobrovolskaja…”.
Pur avendo premesso che non mi occupavo di politica e che mancavo da quasi dieci anni dalla Russia, riuscii a chiarire la differenza tra Gorbačëv e El’cin. Mi concessi anche qualche libertà, ma mi astenni dal fare previsioni.
A rassicurarmi fu l’acuto Renzo Benzoni, sposato con la leningradese Marina. Renzo aveva lavorato per anni a Mosca come direttore della sede moscovita della Banca commerciale italiana, e continuava a fare la spola tra Mosca e Milano.
– Niente panico! – frenò subito la mia agitazione. – I golpisti non hanno le palle, ne sono convinto!
Aveva ragione.
Con Lena e Jura ogni pretesto è buono per vederci. Lo facciamo ogni volta che la scuola tiene un corso in Italia. Nella primavera del 2002, dopo un seminario a Firenze e in Val d’Aosta, trascorremmo una breve vacanza – quattro giorni in tutto – a Stresa, sul Lago Maggiore. Il Natale del 2003, invece, l’abbiamo ato tutti insieme a Merano: Lena e Jurij sono venuti da Mosca, Tanja, Leon e la piccola Katja da Londra, e io da Milano. Una mia ex studentessa di Ca’ Foscari e cara amica, la meranese Veronica Daprà, si è presa cura di noi e ci ha offerto a casa sua un cenone di San Silvestro con tutti i crismi.
Per la gioia di tutti, dalla loro seconda casa di Madonna di Campiglio e attraverso le imponenti Dolomiti, ci hanno raggiunto anche Giampaolo e Graziella Gandolfo, che non avevano ancora visto Katja (un tipetto degno di attenzione: una principessina acchiappanuvole con gli occhi da naiade). Con loro (guidava lui) c’era Harvey, ex marito della figlia Madi, professore di letteratura russa antica all’Università di Yale, un simpatico pozzo di scienza.
Non avrei mai voglia di lasciarli andare i Gandolfo: italiani di primissima categoria, gente dal cuore d’oro.
“Sono d’affetto quei momenti felici”, canta Okudžava, e invita: “Concediamoci alle effusioni, dichiariamoci reciproca ammirazione, senza tema di retorica”… È in questa chiave che voglio scrivere dei miei vecchi amici. Che mi sono mancati tanto e che continuano a mancarmi. Il distacco dalle persone care, ahimé, è il prezzo – altissimo – che si paga quando si emigra. È anche vero che poi, alla metà degli anni Ottanta, con la perestrojka, l’ottantenne Lev Razgon è stato sdoganato ed è venuto ogni anno (per unidici anni!) a stare da me a Milano per qualche mese, prima con Rika e poi da solo, quando lei non c’era più. Sul “viale del tramonto” non c’è persona che mi sia stata più vicina e più cara di lui (e viceversa, credo). Mi vien quasi fatto di pensare che quei soggiorni milanesi gli abbiano allungato la vita.
Siamo anche stati fortunati. Alla vigilia del primo viaggio in Italia di Lev e Rika mi venne conferito per la seconda volta il Premio della cultura. Dieci milioni di lire per girare l’Italia con loro come una ricca zia d’America. Fu una sorta di risarcimento per i molti anni che i Razgon avevano trascorso tra prigioni e lager. Un risarcimento inadeguato, certo, ma senz’altro inatteso.
A San Gimignano ci capitò sotto gli occhi un’anziana coppia di inglesi seduti sui gradini di una casetta a godersi beatamente il sole.
– Non mi dispiacerebbe fare come loro – sospirò Lev, – invece di finire i nostri giorni sulla Malaja Gruzinskaja…
Pur di stare assieme, la newyorchese Nina Bejlina mi trascina nelle sue tournée e nelle sue master-class italiane: a Sulmona (in Abruzzo), a Massa Marittima (in Toscana), a Torino, a Roma… Per un suo concerto a Massa Marittima (che città! che cattedrale!) e per i miei settantacinque anni, da Roma vennero anche i Bukalov e gli Stanevskij (Alëša Bukalov, direttore dell’ITAR-TASS, e Feliks Stanevskij, consigliere dell’Ambasciata sovietica). Finimmo in un ristorantino fuori città. Uscendo, Ljuda Stanevskaja notò una cabina telefonica sperduta e pensò a voce alta: a Mosca sono due ore avanti e i Razgon staranno già festeggiando il compleanno di Julia (lo fecero per molti anni)…
– Telefoniamo!
E dunque, uno dopo l’altro, ci “concedemmo alle effusioni, ci dichiarammo reciproca ammirazione, senza tema di retorica”: Lev, Rika, la figlia Nataša, i Lukovnikov, la mia Natal’ja Michajlovna che aveva preparato la cena. Con tanto di pirožki ripieni di verza, immagino…
Sul mio divano milanese ha "dormito tutta la letteratura russa", come ha ben detto Lev: Fazil’ Iskander, Natan Edel’man, Igor’ Vinogradov, Julij Krelin, Nina Berberova, Asar Eppel’, i Porudominskij, i Čudakov…
Niente geremiadi, dunque: ci sono stati anche dei giorni lieti.
Il 25 agosto sono sempre a Milano, sprezzante della canicola, ad aspettare il mio “momento felice d’affetto”: la conference-call di compleanno. Con auguri da Mosca, Pietroburgo, New York e Newton (Boston), dall’Italia, dalla Germania… Pëtr Nemirovskij (cugino di Lena) mi chiama dalla California con la sua Inna. In loro ricordo conservo due documenti cartaceie delle posate d’argento. Il primo documento è una poesia scritta dal figlio Saša prima che partissi per sempre:
No, di morte non è un banchetto
Di ritorno dal camposanto.
È solo un disco di Glinka
In dono, e qualche mughetto.
È solo una cena di commiato
In una casa deserta,
come un’anima scoperta,
come un raggio in uno spiraglio.
È solo un: “Addio a vita”
Frase che sa di condanna.
È andare in cerca dell’equa
Soluzione a una contesa.
Ora Aleksandr – Saša – Nemirovskij è un businessman americano del ramo informatico, un padre di famiglia, uno sportivo e un poeta come un tempo. Lui e la moglie – Saša anche lei – sono venuti a trovarmi di recente.
Il secondo documento è un progetto per interni professionalmente ineccepibile (a Mosca Pëtr era a capo di un grosso ufficio progettazioni). I Nemirovskij erano stati miei ospiti a Milano una quindicina di anni prima, alla vigilia del trasloco dalla lussuosa – e non per le mie tasche – palazzina di Giò Ponti con terrazza di 68 metri quadri invasa da un glicine possente, al bilocale di oggi. Pëtr prese tutte le misure al centimetro e riuscì a “piazzare” nelle due stanzette quasi tutti i miei mobili, dozzinali ma necessari.
L’altra opera buona, le posate d’argento, gli richiese un paio d’anni. Lasciando per sempre l’URSS non avevo il diritto di portarmi dietro le “preziose” posate di mia madre (com’era stato per Nina Bejlina e il suo violino). Pëtr non se ne faceva una ragione e quando me ne andai le affidò a un’amica di Budapest.
Dopo un paio d’anni la signora venne a Milano e io rientrai in possesso
dell’argenteria di famiglia.
Tra parentesi. Emy Moresco aveva ricevuto la visita dei ladri che, tra le altre cose, le avevano rubato anche le posate. “Spendere milioni per forchette e coltelli alla mia veneranda età? Non ci penso nemmeno! Me le compero di plastica!” Nella sua bella casa, però, le posate di plastica c’entravano poco. Le regalai quelle di mia madre. Anni dopo, alla lettura del suo testamento, il primo punto recitava: “Restituire a Julia le sue posate”.
Con la perestrojka ricomparvero anche i miei parenti di Leningrado, alcuni cugini e i loro figli. Per non creare problemi, io non mi ero fatta viva per anni: una parente all’estero era comunque molto compromettente. Poi, come ricordava Lev Razgon: “Un giorno che ero a Leningrado per una conferenza” – dopo la pubblicazione delle sue memorie, La nuda verità, era sempre in televisione o su un qualche palco – “e che avevo parlato dei miei viaggi in Italia, mi si avvicinò un signore dall’aria distinta che mi chiese se, in Italia, non ti avessi per caso incontrata. Gli fornii informazioni esaurienti. Non sapeva come ringraziarmi”. Era mio cugino Vladimir Malev, il figlio di zia Lena.
Fu il primo a riaffiorare. Poi toccò a Tamara Vasil’eva, figlia di mia zia Asja. Tamara è un medico in pensione e una persona affettuosa e sinceramente cara. Scoprimmo presto che due miei nipoti, il fisico-matematico Igor’ Malev e l’ingegnere Michail Zambrovskij (con la moglie Tanja e il figlio Semën – studente universitario – così chiamato in onore di mio marito), erano entrambi programmatori e vivevano in Germania (e io che avevo paura di farmi viva!). Anche loro sono venuti a trovarmi a Milano. Ogni tanto mi telefona il fratello minore di Michail, Alik Zambrovskij, rimasto a Pietroburgo.
Alla fine anche Vladimir Malev ha lasciato l’Istituto universitario di Pietroburgo dove aveva insegnato per tutta una vita e si è trasferito a Francoforte con la sua Sofia per stare vicino al figlio. Di recente è venuto a trovarmi anche l’unico parente di successo che ho: Valerij, figlio di Tamara, ex dottore in scienze
tecniche e ora businessman pietroburghese.
Ci teniamo in contatto: il sangue non è acqua. Sono brave persone e mi vogliono bene. E io ne voglio a loro.
30. La scomparsa di Majorana
In tutti questi anni mi si è sviluppato un riflesso condizionato: non appena il treno parte tiro fuori i miei fogli e mi immergo in un lavoro senza fine. Tutto attorno è un continuo squillare di telefonini – Verdi o Bizet, se ho fortuna… – di conversazioni d’affari o di chiacchiere pure, sottovoce o urlate, ma io non sento niente, mi isolo. Ragion per cui, quel giorno, chi sedeva alla mia sinistra dovette tirarmi per la manica per ottenere la mia attenzione.
– Mi scusi, signora, guardi… C’è una persona che sta facendo avanti indietro per il corridoio e la fissa ogni volta che a…
Alzai lo sguardo: a fissarmi era Bruno Pontecorvo. Gli corsi incontro abbandonando sul sedile le carte che avevo in mano. Non ci vedevamo da Mosca, e il nostro incontro fu tempestoso e tenero insieme.
Gli tremavano le mani: aveva il morbo di Parkinson.
– Non preoccuparti… È la gioia… Mi capita quando mi emoziono… I miei studenti ci sono abituati, non ci fanno più caso…
Ci nascondemmo dagli sguardi indiscreti nella piazzola del vagone e parlammo fino a Bologna, dove lui scese.
Bel canto
Di tutti i “Ti ricordi?…”, il primo posto toccò alla tournée moscovita del teatro La Scala (era il 1974), inaugurata da un gioiello della lirica: Simon Boccanegra per la regia di Strehler. Avvezzo alle ovazioni che La Scala otteneva ovunque si presentasse, Paolo Grassi era furibondo: il pubblico moscovita era stato freddino. La mia spiegazione – “guarda che alla prima viene la nomenklatura, gente lontana dalla musica, mentre da domani, vedrai”… – non gli bastò.
– Sai che ti dico? Prendi la tua rubrica telefonica e fammi un elenco di amici e conoscenti. E falli are alla cassa, domani, a ritirare i biglietti!
Musica per le mie orecchie. Tutti quelli che avevo sull’agenda ascoltarono l’intero repertorio, con grande invidia dei melomani e dei semplici italomani, che in Russia sono una schiera. E dire che per acquistare i biglietti c’era chi stava notti e notti in fila, facendosi scrivere il numero sul dorso della mano con la matita copiativa.
Per Bruno Pontecorvo, che languiva per la sua Italia lontana, quella tournée fu un evento. Lo inserii nel mio elenco con tutta la sua tribù. Che poi è solo un modo di dire, dato che aveva due figli, ma non una moglie: le avevano ceduto i nervi. Bruno aveva tirato su i ragazzi da solo. Certo, con lui c’era Radam, una georgiana statuaria che il primo marito, il poeta Svetlov, aveva soprannominata “Palazzo” ( e faceva buon viso a cattivo gioco, Svetlov: "Sono una persona semplice, io" ripeteva, "che me ne facevo di un palazzo?!").
E dunque, quindici anni dopo, Bruno e io ci ritrovammo a rievocare ogni singolo dettaglio di quelle serate, a scaldarci, a interromperci l’una con l’altro per stabilire come avevano cantato tizio e caio, dove Montserrat Caballé aveva surclassato la Kabaiwanska, in che cosa consisteva la bravura di Placido Domingo, se le opere liriche andavano modernizzate o meno…
Su quel treno Roma–Milano avevo di fronte un uomo con un male incurabile che la perestrojka, però, aveva guarito da un altro morbo: la claustrofobia, anch’essa micidiale. Un uomo felice, nonostante tutto.
Tornai nel mio scompartimento scombussolata, in preda ai ricordi.
A distrarmi fu ancora una volta chi sedeva alla mia sinistra:
– Mi scusi, ma qui stiamo morendo tutti dalla curiosità. Chi era quel signore?
Glielo spiegai brevemente.
Il mio compagno di viaggio si prese la testa tra le mani:
– Me lo sentivo… Lo conoscevo, quel sorriso… Che occasione ho perso… Abbiamo studiato insieme alla Normale di Pisa…
Fui testimone di un dolore inconsolabile.
Perché la gente sparisce
Perché era scomparso Bruno Pontecorvo, fisico teorico residente in Inghilterra, fu presto chiaro: aveva scelto la non-libertà, l’Unione Sovietica. Era comunista e l’URSS, che del comunismo era la patria, garantiva un futuro radioso all’umanità. Tutto chiaro, in teoria. Non proprio. L’edizione del 1991 (in piena perestrojka, dunque) del Grande Dizionario Enciclopedico russo recita: “Bruno Pontecorvo, fisico sovietico, accademico, nasce in Italia nel 1913, dal 1940 lavora negli Stati Uniti, in Canada e in Gran Bretagna; premio Lenin e premio di Stato (ex premio Stalin – Ju.D.)”.
Viene spontaneo dedurre che abbia portato in dono all’URSS i segreti dell’atomica. Che sono segreti proprio per il fatto che non è dato conoscerli, ma solo ipotizzarli. Quel che sapevo io è che i fisici miei amici – criticoni e schifiltosi di prima categoria – gli volevano tutti un gran bene. Sentivo anche che Bruno era tormentato dalla sindrome della trappola: viveva nella prigione dorata della nomenklatura sovietica.
Ho dovuto aspettare il 2004 per vedere sulle pagine del Giornale una fotografia – Bruno con il suo colbacco a bustina di astrakan che eggia per via Gor’kij (viveva dirimpetto a me) – e per leggere un articolo di Duccio Trombadori pieno di orgoglio per quel connazionale “degno di molto più del Nobel” (Pontecorvo era uno dei “ragazzi di via Panisperna”, con Enrico Fermi, Emilio Segre e Ettore Majorana, “i cui successi hanno determinato le sorti dell’Europa”), ma non senza una punta di amarezza.
Nel 1936 Bruno Pontecorvo aveva riparato in Francia per via delle leggi razziali. Si era poi unito ai “cervelli in fuga” negli Stati Uniti e aveva collaborato ai programmi militari anglo-canadesi. Dopo la guerra si stabilì in Inghilterra, lavorò in un laboratorio nucleare, e nel 1950 fuggì in URSS. “Il suo aggio da Ovest a Est – scrive l’autore dell’articolo, – non può essere considerato un caso di spionaggio; la sua fu la scelta consapevole, ideologica e politica di uno scienziato”. In un’intervista fu lo stesso Pontecorvo a fare autocritica: “A spingermi a lasciare l’Occidente fu quel che allora era per me il Sole dell’avvenire”. Quell’ “allora” durò quarant’anni, fino a che il socialismo reale
non si sciolse come neve al sole. Solo in seguito Pontecorvo avrebbe riconosciuto che le sue opinioni politiche erano prive di logica e che somigliavano piuttosto a una religione, a una vera e propria fede.
Di recente a Londra sono stati resi pubblici dei documenti, un “dossier Pontecorvo”, da cui si evince che i servizi segreti inglesi non avevano frapposto ostacoli al suo presunto viaggio “turistico” in URSS.
È rimasto un segreto, invece, perché e dove sia scomparso un collega di Bruno Pontecorvo: Ettore Majorana. Di cui Enrico Fermi ha scritto: “Ci sono geni come Galileo e Newton; Ettore è uno di loro”. Il trentaduenne Majorana insegnava all’Università di Napoli. Un giorno salì sulla nave che faceva la spola tra Napoli e Roma, ma a Roma non arrivò mai. Polizia, ministri, uomini di cultura non sono riusciti a scoprire la verità.
Aveva deciso di togliersi la vita, o piuttosto di lasciarsela alle spalle come Mattia Pascal, creatura del suo conterraneo Pirandello?
Leonardo Sciascia pensò all’eventualità che Majorana si fosse ritirato nello stesso mona-stero in cui aveva trovato rifugio l’uomo che aveva sganciato l’atomica su Hiroshima. E ci scrisse uno splendido racconto.
Fu Luigi Vismara – mio fornitore di giornali italiani, che leggevo dalla A alla Z (erano “le mie università”) – a segnalarmi La scomparsa di Majorana di Sciascia, che la Stampa di Torino aveva cominciato a pubblicare. Letto l’incipit decisi che sarebbe stato un bestseller. Non persi tempo a contattare un editore. Mi misi subito a tradurlo. Dato che si trattava di un “ragazzo di via Panisperna”, chiamai Bruno. All’epoca, a Mosca, le fotocopiatrici non esistevano ancora. Per tradurre una pagina di giornale mi ci volevano un paio di giorni: “a da me dopodomani, verso sera”, gli dissi. Lui non resistette, venne prima e rimase a
languire sul mio divano, sulle spine, in attesa che mettessi il punto fermo. Con la seconda puntata andò allo stesso modo: si presentò prima e se ne stette sul mio divano, a fremere per strapparmi di mano il giornale e correre a casa sua a goderselo.
Terminai la traduzione e mi presentai trionfante alla rivista Inostrannaja literatura: avevo in mano uno scoop! Letto il racconto, la direttrice T.A. Kudrjavceva, che aveva pubblicato più di una volta le mie traduzioni, non solo non si profuse in complimenti, ma mi fece una severa paternale: come avevo osato proporle uno scritto che alludeva a Sacharov! Quello stesso Sacharov che aveva molto indispettito i suoi ex signori e padroni ponendo la spinosa questione della responsabilità dello scienziato di fronte alla società e al genere umano. Sappiamo tutti com’è finita.
Credere di poter proporre ai lettori sovietici le opinioni in merito di Leonardo Sciascia fu un’ingenuità da parte mia.
Farfugliai qualcosa su un’eventuale prefazione dell’accademico Pontecorvo e su una postfazione dell’accademico Ginzburg, ma mi trovai di fronte un muro di gomma. Anche i tentativi di Vitalij Ginzburg – che cercò di far are il racconto nella rivista amica Nauka i žizn’ (Scienza e vita) – furono vani.
La Scomparsa di Majorana prese a circolare in samizdat.
Dopo l’abolizione della censura, un qualche furbastro ha messo il suo nome al posto del mio e il libro è stato pubblicato. Non ho niente da recriminare: l’importante è che sia uscito.
33. Il banco di mutua ammirazione
Tutto iniziò con una telefonata imperiosa di Jurij Petrovič Ljubimov:
– Scriviti questo numero. Non dire che te l’ho dato io. Chiama subito. Chiedi un appuntamento.
– ?!
Alla fine chiamai: – Pronto, vorrei un appuntamento per questioni personali.
– Pperché vuole parlare proprio con me?
Qualche attimo di smarrimento. Non lo so, perché voglio parlare con lui. Ljubimov non me l’ha spiegato. Dico la prima cosa che mi a per la testa:
– Mi dicono che lei è una persona ragionevole…
– Va bene. i domani alle tre.
– Dove?
– Lubjanka 2, scala 5, ci sarà un i a suo nome.
Ecco chi avevo chiamato! Autoinvitandoimi, persino… Ma non potevo più esimermi. Quelle ventiquattr’ore parevano non voler are mai.
Il giorno dopo, alla scala 5, dal gruppo di sbirri se ne staccò uno, un giovane allampa-nato in borghese. Mi accompagnò in ascensore fino all’ottavo piano e poi lungo corridoi infiniti che ben conoscevo.
Un’anticamera ampia, un segretario e un ufficio ancora più ampio, sterminato.
Scoprii solo dopo di esser stata ricevuta dal capo del dipartimento cultura, il generale Bobkov, lo stesso che aveva seguito l’operazione Živago, ma che per qualche motivo non aveva permesso che distruggessero il Taganka, Ljubimov e Vysockij.
– Sono quattro anni, ormai, che mi viene negato il permesso di andare a Roma a ritirare il Premio della cultura della Presidenza del Consiglio dei ministri d’Italia. Non le sto chiedendo di farmi andare, ma di spiegarmi le ragioni del divieto così che io possa riferirle ai miei autori, che sono pronti a sollevare uno scandalo sui giornali. Lo volete, uno scandalo? Io no – scandii.
Il generale, un uomo di mezza età, prestante nel suo bell’abito grigio di sartoria, mi espresse stupore, inquietudine e una comprensione quasi paterna.
– Mi richiami tra un mese, vedrò cosa posso fare…
Dopo trenta giorni esatti al telefono mi rispose una voce annoiata, forse quella del suo segretario:
– Senta, ma qual è il problema? Non ci sono obiezioni a che lei parta…
Ljubimov, dunque, era riuscito a mettere la parola fine alla mia condizione di schiava. Il ghiaccio era rotto.
Io e i miei amici eravamo euforici. L’OVIR, famigerato ufficio visti, me ne elargì uno per tre mesi. Alëša Bukalov era scatenato:
– Nessuna legge obbliga un cittadino sovietico a volare esclusivamente con l’Aeroflot! – tuonò nell’ufficio della responsabile, e la convinse a farmi viaggiare con l’Alitalia.
Non capivo bene perché ci tenesse tanto, ma era senz’altro una vittoria. Caro Alëša, era così felice per me…
La nostra ingordigia fu, però, punita: per colpa di una tempesta, l’aereo decollò alle 23.30 anziché alle 17.30. Ma il sedile su cui aspettai che la bufera scemasse era, ormai, dall’altro lato della cortina.
Sei ore d’attesa non mi pesarono più di tanto. Mi ronzava in testa una frase di
Karl Brjullov, pittore russo che visse, lavorò e morì a Roma. L'avevo attinta da un libro del mio amico Vladimir Porudominskij: “Roma, i ja doma! Roma, i ja doma!!” (Fra poco c’è Roma, dove son di casa, son di casa!). Ma c’era anche il detto “Di lunedì non si parte…”.
E il 3 marzo era lunedì.
Le tre del mattino del 4 marzo 1980. Facciamo scalo a Milano.
Sull’aereo sale un funzionario dell’aeroporto:
– Ho un telefonogramma a nome della signora Dobrovolskaja da parte del presidente della RAI-TV, Paolo Grassi. Le dice di non preoccuparsi: troverà ad attenderla una delegazione, a Fiumicino.
Mi dispiace per loro: una delegazione alle tre del mattino? Poi, però, ripenso a tutte le mie alzatacce alle prime luci dell’alba per accompagnare Paolo a Šeremet’evo.
La “delegazione” sono Paolo con il suo assistente, il giornalista e scrittore Pietro Buttitta, Silvana De Vidovich e il capo dell’aeroporto di Fiumicino.
Mi dico dispiaciuta di averli fatti aspettare. E loro, in coro:
– Che dici! Grazie a te ci siamo fatti due chiacchiere con calma, una volta tanto!
Le formalità durano un minuto e mezzo. Camminiamo per un aeroporto infinito e deserto: sembra un film di Fellini.
Paolo manda tutti a casa a dormire e mi accompagna all’Hotel delle Legazioni, in via Barberini, dove il Consiglio dei ministri mi ha prenotato una stanza. In camera trovo delle rose rosse alte un metro: il suo biglietto da visita. Paolo è un tesoro. erà a prendermi all’ora di pranzo.
Non riesco a dormire: con i primi raggi di sole telefona Guttuso, poi qualcun altro, poi un altro ancora… Corghi (dell’Italia-URSS) è impaziente, a a prendermi e mi porta a fare due i: piazza Barberini, via del Tritone, via Veneto – la via della “dolce vita!” – la chiesa di Trinità dei Monti, e sotto c’è piazza di Spagna con la fontana a veliero. Parlano tutti italiano… Dei fiori di campo in un baracchino: come sono belli! (mi viene fatto di pensare che siano finti, dato che a Mosca c’è ancora la neve). Corghi mi guarda comionevole e me li compera quasi tutti, quei fiori dai mille colori. Quando torniamo in albergo Paolo sta scendendo dalla macchina. Mangiamo da soli, io e lui, su una terrazza da cui si può ammirare l’Orto botanico. Una nuvola rosa in primo piano: un mandorlo in fiore. Non è casa sua, ma di certi suoi amici mecenati. È piena di mobili pregiati, ma non è confortevole, non si avverte la mano di una donna.
Le tre e mezza. Compare l’autista e andiamo in via Mazzini, alla RAI; lasciamo Paolo ac-canto al cavallo imbizzarrito di sco Messina e torniamo a so per la città: il Colosseo, palazzo Venezia, dal cui balcone il Duce arringava folle “oceaniche”, il Corso – il Nevskij prospekt romano – piazza del Popolo con le due basiliche.
Il Pantheon: ma dov’è finita la piazza che mi immaginavo imponente?
Poi la via Appia e i pini marittimi, tanti… Sullo sfondo di un cielo blu.
Si dice che di felicità non si muore. Quel giorno, invece, corsi il rischio. Sempre con una preghiera nel cuore: perché a me? E come posso renderTene grazie?
I miei giorni e le mie notti erano tutti programmati. All’epoca non c’erano ancora i telefoni cellulari e non riuscivo a capire come fe, Paolo, a sapere sempre dove ero e con chi, a tenermi d’occhio e a essermi d’aiuto. La mia guida ufficiale era un professore d’inglese dell’Università di Roma (“Lo ritengo un onore…”), ma io preferivo girare da sola, con in mano una guida cartacea.
L’anglista, dunque, non restò molto al mio fianco. Se no come avrei potuto rimanere, im-mobile – non so nemmeno io quanto tempo, ma tanto, tantissimo – accanto al Mosè di Michelangelo nella chiesa di San Pietro in Vincoli?..
Tutti mi volevano. E non mancarono le sorprese. Come quando, il giorno del mio arrivo, a cena dai Guttuso con mio grande stupore non trovai Paolo, ma Virginio Rognoni, che Re-nato e Mimise non conoscevano.
Casa Guttuso – il cinquecentesco palazzo Grillo con la fontana di Bernini sulla minuscola piazza omonima – era diventata una fortezza: con le Brigate rosse non si scherzava, non ava giorno senza una bomba, un’esplosione, un omicidio. Qualche giorno prima, all’università, era stato ucciso il professor Bachelet. A tutt’oggi la folle tattica dei brigatisti è di uccidere i cervelli migliori, che sciaguratamente considerano “servi del regime”. Renato arriva di corsa dal suo studio con la camicia sbottonata, corre ad abbracciarmi, mi tiene stretta per un po’, mi copre di baci:
– Sei qui, sei qui! Finalmente!
Mimise è raggiante. Gli altri ospiti – Paolo Bufalini e la moglie – ci osservano stupiti. Bufalini è dell’élite comunista, semina citazioni in latino. Quella notte mi avrebbe mostrato le rovine dei Fori come se fossero state casa sua.
Arriva Rocco. Siciliano, ex-pescatore, col tempo è diventato il braccio destro di Renato. L’aveva accompagnato anche a Mosca.
A differenza del maestro, che in cuor suo disprezza la nomenklatura dell’URSS, Rocco ama apionatamente tutto ciò che è sovietico, e io vengo da lì. È molto malato, non è più quello del celebre ritratto, ormai ha i capelli canuti e somiglia a un vecchio e bonario negro americano.
Il cameriere Aldo, che ha sentito parlare di me (la servitù è in casa da tempo immemora-bile), mi mette nel piatto i bocconi di carciofo più gustosi.
Renato ora mi accarezza la mano, ora mi abbraccia:
– Giulietta mia!
L’emozione cresce con l’arrivo del ritardatario Rognoni. Che prima ancora di salutare i padroni di casa (e di presentarsi) corre da me e mi stringe al cuore:
– Dimmi che non è un sogno, dimmi che sei tu!… Che peccato che non ci sia
Giancarla! La moglie è rimasta a Pavia con i bambini. Ci calmiamo a stento.
Il giorno dopo quel “banco di mutua ammirazione” si ricostituisce alla Presidenza del Consiglio dei ministri di via Boncompagni, dove una funzionaria gentilissima, la signora Boncompagni (mi è rimasta impressa l’omonimia con la strada), e il suo capo, il direttore generale del dipartimento informazioni e diritti d’autore, il professor Borzi, mi aspettano con impazienza e un pizzico di curiosità.
Prima di me il Premio della cultura era stato assegnato a uno svedese, traduttore di poesia italiana e segretario del Comitato per il Nobel, dunque las celta si spiegava. Di che pasta era fatta, invece, la moscovita?
Chissà perché, Borzi ci tiene molto a sapere che cosa ho fatto negli anni successivi alla mia designazione.
Quando gli dico che negli ultimi quattro anni ho pubblicato quattro libri – Camon, Sciascia, Rodari e Grassi – si tranquillizza.
Mi avrebbe poi mandato le fotografie scattate durante la cerimonia, e in uno slancio affettuoso avrebbe scritto su un foglio di carta intestata: “Cara Julia, non sei solo brava e simpatica, ma anche fotogenica!” (Figurarsi!)
La cerimonia è per le 18.30 del 13 marzo, al Grand Hotel Palace di Via Veneto. Non mi è permesso di percorrere a piedi neanche i pochi metri che separano il mio albergo dal Grand Hotel: mi caricano su un’ auto blu.
Commessi in livrea, fotografi. La radio e la televisione. Il professor Borzi, agitato:
– È la prima volta che mi capita, in tanti anni! Ho mandato 125 inviti e si sono presentati in 124! Il centoventicinquesimo, Achille Millo, ha telefonato da Napoli, dal set, chiedendo di rimandare la cerimonia di un giorno… Come ha fatto a stanarli tutti quanti, signora?!
La spiegazione? Se quegli str… del Comitato centrale non si fossero attenuti al principio del “teniamoli legati mani e piedi”, in quei quattro anni l’atmosfera non si sarebbe surriscaldata a tal punto e la sala sarebbe stata semivuota come negli altri casi.
Quel giorno, invece, è gremita… C’è Irina Ilovajskaja- Alberti (che avrebbe poi diretto per molti anni il giornale russoparigino Russkaja mysl’), ci sono Renato e Mimise, c'è Silvana, ci sono Moravia, Parise, Leonida Repaci, D’Agata, Aldo de Jaco col suo sindacato degli scrittori, Bigiaretti con Matilde, Enzo Siciliano, Gertrude e Maria Nobile, lo scultore Emilio Greco con la figlia Antonella, storica dell’arte, e ancora Corghi con tutto lo staff dell’Italia-URSS, Giorgio Albertazzi, il regista Squarzina… La mia Nina stretta a Paolo, e lui che se la ride sotto i baffi e trattiene a stento l’esultanza.
Tutti notano che l’ambasciata sovietica non ha mandato nessuno. Anni dopo, già in era di perestrojka, il mio ex allievo Jurij Karlov – ambasciatore in Vaticano e all’epoca addetto culturale – se ne è scusato. Meglio che niente.
Il discorso di Borzi che, come di prammatica, abbonda di superlativi, è coronato dalla consegna del diploma e da un assegno di ottocentomila lire. Quando tocca a me parlare, Paolo versa una parca lacrimuccia virile; così mi riferisce Nina, che a sua volta – pur non capendo del tutto quel che dico – si commuove, come
traspare dai neri rivoli di rimmel sulle sue guance.
A giudicare dal foglio ingiallito di un quotidiano romano che riportò il mio intervento, non dissi nulla di particolare. Dopo aver ringraziato enti e funzionari per il premio e la pazienza con cui mi avevano atteso per quattro anni, e gli amici che per venticinque anni avevano cercato invano di invitarmi in Italia, sottolineai la mia “particolare gratitudine verso Paolo Grassi”, che feci rientrare tra gli “enti e istituzioni”, “perché Paolo Grassi è un’istituzione unica e superefficiente, una dinamo di umanità e bontà. E voglio ringraziarti di fronte a tutti, Paolo, per l’affetto e l’attenzione di cui mi hai circondato negli anni più difficili della mia vita. Felice il Paese che può dire di avere tra i propri cittadini persone come te”. Seguì la riconoscenza per Aldo de Jaco e il suo sindacato degli scrittori, “che per quattro anni hanno combattuto per me”, per Vincenzo Corghi e la sua Italia-URSS, “con i quali abbiamo lavorato tanto, disinteressatamente e in buona fede, per la cultura”… “Tutti sanno che la cultura non deve avere confini, ma perché la Parola possa circolare servono i traduttori, ragion per cui voglio pensare che il premio di oggi non sia rivolto solo a me, ma anche a… (e feci seguire un elenco di colleghi italianisti)”…
“Tradurre dall’italiano è facile e difficile allo stesso tempo. Difficile perché difficile è l’Italia, e facile perché i russi ce l’hanno nel sangue, l’amore per la vostra terra. Prima si amavano Rastrelli, Quarenghi e Rossi, ora amiamo voi, e non approfittare di questo nostro comune DNA sarebbe un delitto”… “Dopo aver risciacquato il mio italiano in Arno, nel Tevere e magari anche nel Po, se Dio vorrà continuerò a tradurvi: a tradurre, ma non a tradire, statene certi”.
Solitamente si sarebbero sentiti un paio di battimani, ma con l’euforia che regnava in sala mi ritrovai una standing ovation.
Quel banco di mutua ammirazione non voleva saperne di sciogliersi. Avevamo già fatto fuori il buffet, bevuto il digestivo e chiacchierato a non finire (non avevo più voce), erano le dieci ate ma nessuno voleva andarsene. Ero felice
di constatare che, involontariamente, per una sera avevo fatto avvicinare persone lontane le une dalle altre, quando non incompatibili.
Paolo scalpitava: avevamo un tavolo riservato al ristorante dell’Hotel Eden con vista su Roma a volo d’uccello.
34. Kennst du das Land wo die Zitronen blühen?
“Conosci il paese dove fioriscono i limoni?” chiede Goethe trattenendo a stento l’entusiasmo: non dimenticava l’Inquisizione, i Montecchi e i Capuleti, ma assolveva l’Italia per la bellezza e il talento.
Lo stesso dicasi per Stendhal, Pavel Muratov e noi tutti con loro. Solo gli italiani sparlano di se stessi e dell’Italia. Non c’è modo di instillare loro l’amor di patria; non si riesce nemmeno a far cantare l’inno di Mameli ai giocatori della nazionale di calcio, che muovono giusto le labbra!
Paolo Grassi era un’eccezione. Socialista riformista, aveva un fortissimo senso civico: per lui la democrazia non era solo libertà, ma anche ordine, leggi, responsabilità. Sulla sua scrivania, sotto vetro, c’era un tallero, simbolo del buon governo. E da sovrintendente scioccò i radical-chic vietando di presentarsi alla Scala in jeans: “Il teatro è una festa, ricordatevelo!”.
Paolo era sempre in giacca e cravatta, nel senso letterale e in quello figurato del termine. Era fiero del suo Paese e di essere italiano. Mi stupiva la sua dedizione (puškiniana!) alle “tombe degli avi” – e non solo dei propri, pugliesi (era nato a Martina Franca). Calcava sul fatto che fossi una “creatura cechoviana” e mi portava (lui portava me, e non viceversa!) al cimitero moscovita di Novodevič’e a posare un fiore sulla tomba di Čechov. Quella di Pasternak, a Peredelkino, gli ispirò un capitolo a parte per l’edizione russa delle sue memorie. – È vevo che avevo vagione? – mi chiedeva conferma quando, emozionata da quanto visto, tornavo dall’ennesimo giro della Toscana o dell’Umbria. – In Italia abbiamo tutto: mare, fiumi, laghi, monti, colline e pianure… E ancora troppo c'è, da vedere. Andremo insieme! Tra poco mi libererò… Tra un mesetto… E per sempre…
Aveva una brutta cera, e ogni tanto si metteva in bocca una pastiglia di trinitrina. Io provavo a convincerlo di restare una sera a casa perché si riprendesse da tutto quello stress, ma c’erano sempre un palco a teatro, due posti al conservatorio di Santa Cecilia o qualcos’altro ancora senza aver goduto dei quali non potevo tornare a Mosca.
– Voglio che tu senta Giorgio Gaber, voglio assolutamente che tu lo conosca di persona! E, davvero, tra tutti i cantautori italiani, Gaber era l'unuco che (per il mio gusto) poteva essere paragonato alla nostra trinità – Okudžava, Galič, Vysockij.
– Sarebbe un crimine perdersi Giselle con Nureev e la Fracci!
Ci andammo.
– Oggi voglio che ti portano da me, alla RAI. Ti farò vedere la registrazione del Giardino dei ciliegi di Strehler.
Un capolavoro, non c’è che dire.
Paolo non era solo malato, era afflitto. Fino a quel momento aveva sempre ottenuto quel che voleva. Nel 1947 lui, Strehler e Nina Vinchi avevano fondato il primo teatro stabile d’Italia, il Piccolo di Milano, al quale Paolo aveva immolato tutti i suoi sogni di regista e di editore. Divenne un manager e si condannò a molti anni di una collaborazione estenuante con Strehler, regista geniale e uomo tremendo. Lo scopo, però era stato raggiunto. Il Piccolo divenne un fenomeno dell’arte drammatica e riscosse fama mondiale.
Alla Scala approdò negli anni Settanta, gli anni di piombo del terrorismo. Non so se ci sia da ridere o da piangere, ma sobillata dal sindacato, in occasione dell’ennesimo sciopero l’orchestra della Scala pretese un risarcimento in denaro per ammortizzare i frac! Ciò non di meno, con Grassi La Scala e i suoi musicisti insuperabili fecero il giro del mondo.
Con la RAI-TV, invece, fece male i conti. Sistemare quel carrozzone statale con migliaia di dipendenti era praticamente impossibile, e Paolo era crollato. La decisione di dimettersi fu per lui un cocente fallimento personale. Affiorarono note di smarrimento che non gli conoscevo: non sapeva che fare della sua vita né dove stabilirsi, se a Roma, Milano o Venezia… Era abituato a ritmi forsennati di lavoro, a telefonate e lettere senza fine… Paolo era un grafomane. Io per prima avevo una valigia di medie dimensioni piena di sue lettere, appunti e telegrammi: nulla die sine linea e anche sine telefonata!
Per questo il Leitmotiv delle nostre conversazioni romane – quando e come saremmo andati a visitare le bellezze d’Italia – suonava patetico. Non avevamo futuro. Io avevo il “complesso dell’agave”, che fiorisce un volta soltanto e lo fa prima di morire. E mi ero messa in testa che l’estate del 1980 era il mio momento magico, a cui sarebbe seguito il vuoto, il ritorno a una non-vita.
Anche Paolo era preoccupato per le mie sorti future. Non come cinque anni prima, a casa mia, a Mosca, quando mi aveva proposto di sposarlo. Ma come avrei fatto a partire, all’epoca? Mia madre era malata e non aveva altri che me. Adesso era altro a preoccuparlo.
Incredibile ma vero, a differenza di tutti i miei amici, lui non voleva che restassi in Italia.
– Tu sei russa e devi vivere in Russia! – gli sentii dire una volta, e non volevo credere alle mie orecchie.
Da quel momento il "non-detto" velò nostri rapporti.
– Ero malato, Nina Vinchi mi era molto devota, ci siamo sposati.
Questo me lo disse. Tenne per sé, però, la continuazione di quel pensiero. E non sarò io a rivelarla. Mi limiterò a dire grazie a Nina Vinchi. Neanche lei ha avuto vita facile.
Tra l’altro, per quanto tutti insistessero, nemmeno io sarei rimasta in Italia senza autorizzazione.
Solo dopo, ormai cittadina milanese, compresi il grido straziante dei miei amici musicisti – russi – al momento di ripartire dopo una tournée in Italia (con i parenti in ostaggio, in Russia): “Dio mio, è come tornare nella tomba!”.
Tra parentesi. Vi regalo una trama da cui uno scrittore potrebbe trarre una novella psicologica. Ho trascorso i miei primi due anni a Milano ospite della mia indimenticata amica Emy Moresco, impresario, colei che ha fatto conoscere all’Italia Mravinskij, Richter, le migliori orchestre e i migliori teatri di Russia. Quando mi sistemai a casa sua, la colf Mariuccia riferì a Emy che nella mia stanza c’era uno strano odore. Emy entrò, annusò e constatò pensierosa: “È lo stesso odore che gli alberghi stentano a cancellare una volta che sono ripartiti i musicisti russi in tour-née… Odore di mele marce o chissà che altro…”.
Mi allarmai: non tollero odori estranei, io, nemmeno lo Chanel n. 5, la “camicia da notte” di Marilyn Monroe! Annusai anche io: in effetti un certo olezzo c’era. Ma di che? Un momento… Era lo stesso odore che incombeva nella stanza di mia madre nei suoi ultimi mesi di vita… La valocardina! Trovai l’ampolla, dimenticata dai tempi di Mosca. La buttai nel secchio delle immondizie e addio odoraccio…
E capii anche il resto: poveri orchestrali! Prima delle tournée all’estero i controlli, le commissioni di autorizzazione all’espatrio e le zizzanie interne li riducevano ai limiti dell’infarto. Capitava persino che qualcuno venisse fatto scendere dall’aereo poco prima del decollo: bastava che arrivasse una delazione, che si trovasse un parente oltre confine o una qualche altra macchia indelebile. Per questo avevano sempre in valigia una scorta di valocardina.
L’idea della “trama omaggio” me la suggerì Oleg Čuchoncev. Tra tutte le nostre conversazioni sull’Italia, a Koktebel’, nel 1981, gli era rimasta impressa la storia dell’agave. “Posso usarla come metafora poetica?” mi chiese qualche tempo dopo, con grande tatto. "Fa’ pure" gli risposi, "non servono autorizzazioni. Non è farina del mio sacco.È opera della somma inventrice, la natura”.
…Nel frattempo nel paese dei limoni aprile era in fiore, con le magnolie costellate di grosse macchie bianche e rosa-lilla, gli oleandri rosa shocking, roseti a ogni o e allegri gerani sui davanzali e sui balconi. Dopo due settimane in albergo era ora di togliere le tende. Pietro Buttitta in partenza per la Polonia mi lasciò il suo appartamento da scapolo in Vicolo delle Palle, vicino a Campo dei fiori e al monumento a Giordano Bruno. Lì ò a prendermi Rognoni per portarmi a pranzo: le quattro macchine (la sua più le tre della scorta) si infilarono a stento nel vicolo, lo bloccarono e misero in allarme l’intero vicinato. Gli artigiani si affacciarono alle porte delle botteghe per godersi l’insolito spettacolo ed ebbero di che discutere per qualche tempo. L’ingresso del ristorante dove ci aspettava Giancarla era spalancato su un giardino; nervose, le guardie del corpo scalpitavano affinché terminassimo al più presto il pranzo e le chiacchiere: sparare al ministro in quelle condizioni sarebbe stato uno scherzo.
Mi viziavano a non finire. Avevo un ricevimento al giorno. Ci fu anche una cena in mio onore con gli ex corrispondenti dell’Unità: Adriano Guerra e i suoi colleghi. Un omonimo di Guerra, invece, lo sceneggiatore Tonino – lui e la moglie russa Lora (e non dovrò dimenticarmi di raccontare di quando lavorammo insieme, con lui e Antonioni) – radunò una “compagnia nostalgica” in un ristorantino di pesce vicino a casa sua: il regista di Nostalghia Tarkovskij, Achille Millo e la moglie cantante, la graziosa Marina Pagano in un abitino di velluto blu. Andrej Tarkovskij era cupo; aveva già maturato la decisione di non tornare in patria che gli sarebbe costata la sua lunga, fraterna, amicizia con Tonino, amicissimo dell’Unione Sovietica.
A Palazzo Grillo Guttuso mi organizzò un incontro – che lui riteneva utile – con Sapegno, il primo critico letterario italiano.
L’Associazione degli scrittori riempì una sala a Firenze, presso la casa editrice Nuova Italia, dove tenni un intervento sulla letteratura italiana in URSS. Sempre a Firenze, in casa dello scrittore Gino Gerola, ammo una bella serata con l’eterno candidato al Nobel e senatore a vita Mario Luzi.
È un gran bel vivere quando tutti ti vogliono bene! E che contrasto rispetto a due anni dopo, quando avrei scelto la libertà: i miei comunisti dal volto umano si volatilizzarono. Per loro ero scomoda, un rimprovero vivente.
Resistette e resiste a tutt’oggi l’amicizia con Marcello Venturi e Camilla Salvago Raggi, con i Vismara, con i Gandolfo, con la famiglia Cevese e con Piero e Marisa Ostellino. Che però la pensano come me. A proposito. A casa mia, di fronte a una tazza di tè, Piero e Marisa rigettarono la mia autocritica quanto all'“utile idiozia”. Con anni di esperienza della realtà sovietica, mi rimisero magnanimamente i miei peccati.
Aldo de Jaco non volle cedere a nessuno l’onore di mostrarmi Napoli, la sua città. E anche Capri.
La famiglia di Maria Nobile mi accolse con minor deferenza, è ovvio, di quanta ne avesse riservata a suo tempo all’infermiera Elisabetta (Elizaveta Semënovna), ma comunque con affetto. Come ne sarebbe stato lieto il generale, se avesse vissuto abbastanza per vederlo! Gertrude Nobile mi portò al lago di Bracciano, dove il padiglione Umberto Nobile del locale museo dell’aeronautica esponeva la tenda rossa, il rifugio dei superstiti della spedizione sul dirigibile Italia. Su uno scaffale c’era anche Krasnaja palatka (La tenda rossa), la mia traduzione delle memorie del generale. Per l’occasione gli aviatori organizzarono una festicciola alla mensa ufficiali.
Gli scrittori mi regalavano le loro opere complete nella speranza che le traducessi. L’editore Mondadori mi invitò all’inaugurazione della libreria di Via Nazionale; con indosso una giacca trapuntata di Yves Saint Laurent identica a quella che mi aveva regalato Lilja Brik, la signora Mondadori porgeva alle signore un vasetto con un’orchidea. Gli scrittori fecero capannello attorno a me. Giorgio Bassani mi fissò un appuntamento.
Tra le tante frasi di circostanza afferrai che nello scantinato di un teatro-caffè di Piazza Navona davano il Dialogo, un testo di Natalia Ginzburg. Scappai via di corsa e arrivai in tempo.
Nell’intervallo offrii la mia orchidea alla primadonna. Il giorno dopo incontrai Natalia Ginzburg nella redazione romana delle edizioni Einaudi, dove lavorava. Mi complimentai con lei per la commedia.
– Lei è la signora dell’orchidea? – dedusse (a differenza degli spettatori russi, il pubblico italiano non coccola gli attori regalando loro dei fiori).
Con lei, autrice di quel Lessico famigliare che non mi era stato permesso di tradurre per via del suo cognome ebreo, non scoccò alcuna scintilla. Forse non ce l’aveva solo con gli editori moscoviti, ma anche con me. Sbagliava.
A pranzo da Moravia c’erano le sue due mogli: l’ultima, Carmen Llera, una giovane spagnola con i capelli castani che le arrivavano alla cintola, e la penultima, Dacia Maraini, graziosa, paffuta. Mi sembrò timida, pur se femminista accesa. Anche lei mi consegnò una bracciata di suoi libri.
Ricordo che sopra il divano era appeso un ritratto di Moravia fatto da Guttuso e ricordo anche che i mobili erano anonimi, moderni (“Sono un uomo moderno, che me ne faccio dell’antiquariato?”). E ricordo anche ciò che Alberto mi disse della censura: “Non è un fenomeno politico, ma culturale, serve alle alte sfere che cultura non ne hanno”. “Ha letto tutti i miei libri” disse, fiero, della colf Giuseppina.
Osservando la quieta compresenza delle due consorti, mi tornò in mente di quando, qualche anno prima, a Peredelkino, Lilja aveva chiesto a Moravia se avesse con sé una foto della moglie. Con mia grande sorpresa quel cuore arido sfilò una foto sbrindellata di Dacia dalla tasca interna della giacca. Moravia non piacque a Lilja. Se mi capiterà, racconterò di quando venne ospite a un congresso degli scrittori sovietici, rivelandosi nelle sue diverse ipostasi.
Bassani mi ricevette in tarda mattinata in un Circolo tennis d’élite. Da come si muoveva per i campi a mostrare a tutti “la traduttrice di Mosca” (bestia rara!), si sentiva che ne era lusingato. Ci sedemmo sugli spalti a guardare un doppio e pranzammo serviti da camerieri in smoking. Ricordo che erano gli ultimi giorni
di vita del Circolo, e che lì vicino doveva essere costruita la più grande moschea d’Europa (figurarsi che record!). Alla mia domanda – poco originale – su cosa stesse facendo, Bassani diede una risposta che mi stupì:
– Sto riscrivendo Il giardino dei Finzi Contini.
Perché riscrivere un best-seller, viene da chiedersi? Sentiva la sterilità alle porte? Che tristezza…
La seconda parte della mia Italia del 1980, la più lunga, la dedicai alle visite agli amici. Fui ospite della villa tra il glicine di Camilla Salvago Raggi e Marcello Venturi, a Campale, nel sud del Piemonte (con un’unica sortita a Milano per la prima della Scala); poi da Giampaolo e Graziella Gandolfo a Genova Quinto, con le eggiate sul lungomare e sul famoso sentiero di Nervi, cittadina che prima della rivoluzione d’ottobre aveva ospitato l’aristocrazia russa e, come allora non si diceva, l’intelligencija creativa del tempo. A Nervi avevano vissuto anche gli Cvetaev: Maria Cvetaeva Mejn, madre di Marina, sperava di guarirvi dalla tubercolosi. A Genova fui ospite di Camillo e Valentina Bassi, vecchi amici di Mosca e tra i pochi matrimoni italo-russi che abbiano resistito alla prova del tempo. A Milano mi fermai a lungo da Emy Moresco, in stretto contatto con l’ORIA, il suo ufficio da impresario, e dunque con la buona musica. E alla fine, ai una settimana a Venezia, dai Nono.
Mi venne a riprendere Paolo, che mi mise su un aereo e mi riportò a Roma, di dove con lo stesso ritornello – “Dio mio, è come tornare nella tomba!” – me ne volai a casa, a Mosca.
Sul terrazzo della casa di Julia Dobrovolskaja in via De Sanctis. Da sinistra: Ugo Giussani, Julia Dobrovolskaja, Anna Prina, Marcello Venturi, Luigi Vismara. Milano, 1985.
35. Il melil
“Le pause della scrittura” diceva Čechov, “sono come le irregolarità del battito”…
La mia pausa stava durando troppo. Non farò appello a cause oggettive o a depressioni senili. Lo confesso: la ferita è ancora aperta (non credo che si rimarginerà mai) e mi fa male anche solo a sfiorarla.
Cancro al seno, fu la diagnosi per mia madre. Non operabile per via dell’ipertensione. I miei amici medici mi confortavano: nelle persone anziane la malattia avanza lentamente. Sottintendevano: risparmia a tua madre il calvario della chemioterapia.
Tutti dobbiamo morire, ma come si fa a vivere sapendo che le sofferenze e la morte sono imminenti? Che dovevo fare? Insistere per l’operazione? Starmene con le mani in mano ad aspettare la fine? C’era da impazzire.
“Decidi tu”, mi disse mia madre. Era da tempo, ormai, che ci eravamo scambiati i ruoli. Se un tempo era lei la sovrana incontrastata, ora delegava a me ogni decisione. Io, però, invece di agire e di rassicurarla, vivevo un incubo, mi sentivo i piedi di piombo.
Trovai della brava gente che mi diede un indirizzo. In una casa come a Mosca ce n’erano a migliaia, malandata e lugubre, a un terzo piano senza ascensore vivevano marito e moglie, due fisici che in Bulgaria avevano scoperto una panacea, il melil, una sorta di yogurt prodotto da un qualche astruso fungo. Per
tutta la mattina sulla scala che portava dall’ingresso al loro piano si allungava una fitta coda di condannati o di loro cari. Si stringevano al muro verdastro e quando dalla porta agognata usciva precipitosamente l’ennesimo possessore del prezioso vasetto e delle istruzioni per utilizzarlo, salivano il gradino seguente con un respiro di sollievo.
Il fungo andava rinnovato ogni tre mesi e dunque anche la coda andava ripetuta.
C’è solo da stupirsi che i nostri benefattori non siano mai finiti in galera. Forse dovettero la salvezza alla gratuità del loro gesto.
La mamma, e io con lei, visse altri sette anni. Sopravvivemmo tenendoci reciprocamente nascosta l’angoscia. Io cercavo persino di fingermi speranzosa e lei celebrava con fervore il rituale del melil. Pareva crederci davvero, e anche le crisi ipertensive (con l’ambulanza e le iniezioni di magnesio - le pillole apposite non erano state ancora inventate) arono in secondo piano.
– Il cuore è appeso a un filo – mi disse un giorno il dottore del pronto soccorso. Ma il tempo ava e mia madre pareva cavarsela.
Sopportò abbastanza bene i tre mesi della mia assenza italiana; poteva contare su Natal’ja Michajlovna, la governante, e sugli amici. Qualche giorno prima del mi oritorno andò con un’amica a farsi un giro in vaporetto sulla Moscova, e la ritrovai abbastanza vispa. Mi fece raccontare cento volte le mie vacanze italiane. Poi, di colpo, sabato 21 luglio mi disse:
– Sai, Ju, mercoledì morirò…
Lei che aveva paura di morire, che non voleva morire, che non parlava mai della morte… Che cos’era stato? Non me la sentii di riprenderla, di esortarla a non dire sciocchezze. Restai senza parole.
Mercoledì, alle undici del mattino, si presentò la solita infermiera del policlinico. Era pronta a farle l’iniezione, quando sentii un grido e un lamento… Era la fine.
Scoppiai a piangere, e invece di prendermela con me stessa e la sorte, mi scagliai contro la povera infermiera.
– Ringrazi il cielo che sua madre non ha sofferto, che se n’è andata in un attimo… – mi tranquillizzava la brava donna stringendo la mia testa conto il suo grosso ventre morbido.
– Non ha sofferto? – le urlavo io, feroce. – È morta in un attimo, dice lei? E che cosa sono stati gli ultimi sette anni d’inferno sotto la spada di Damocle? Eh?
Non ricordo che cosa accadde dopo.
E non saprò mai né se il melil di quei fisici caritatevoli le avesse allungato la vita, né come lei avesse indovinato quando sarebbe morta. Era stanca di lottare? Si era arresa? Però aveva avuto interesse e voglia di vivere fino all’ultimo…
Nel giro di un anno e mezzo vennero a mancare mia madre, sua sorella Lena e suo fratello Boris. Asja se n’era già andata. Boris non era vecchio, aveva ato
indenne la guerra e stava scrivendo le sue memorie, rimaste incompiute. La mia amata zia Lena si spense a Leningrado, in un ospedale sovietico di uno squallore indicibile. Avrei fatto meglio a non andare a trovarla, tanto più che non mi riconobbe.
Da Leningrado tornai in un vagone semideserto che puzzava di latrina. Ero a pezzi. A salvarmi fu la filodiffusione del treno che trasmetteva il “Concerto di Viktoria Ivanova”. La tua voce di flauto, amica mia indimenticata, ora triste, ora pensierosa, ora birichina, mi prese il cuore come sempre faceva e mi rasserenò. “Capir non potete la mia pena…” cantavi, e lacrime di sollievo – che non mi asciugavo per non attirare l’attenzione di chi mi stava seduto di fronte – mi scorrevano a fiumi lungo le guance, giù giù, fin sotto il colletto. Nella notte tra il 13 e il 14 marzo del 1981 in una clinica di Londra, per i postumi di un’operazione al cuore si spense anche Paolo. Aveva sessantatrè anni. Non servono altre parole. Temo che potrebbero eclissare quanto c’era stato prima e quanto ci fu poi.
– C’è qualcosa in te che non mi piace, ultimamente – mi disse categorico Lev Razgon, e prese a parlarmi di una crociera Odessa-Atene-Napoli-Genova da cui erano tornati entusiasti alcuni conoscenti.
– Non sei più un’otkaznitsa, ormai puoi partire quando vuoi, non dimenticartene. Cosa aspetti?
– C’è tempo – tergiversavo, fiacca.
– “Amico mio, ci spetta vivere di fretta”… – replicò Lev citando Gamzatov tradotto da Grebnev. – Vai! Così poi racconti a me e a Rika dell’Acropoli!
Le sue telefonate quotidiane, che dalla notte dei tempi cominciavano con la parola “Proverka!” (Controllo!), da quel giorno ebbero uno scopo. Sul far dell’estate del 1981 la ebbe vinta. Me ne andai in crociera.
Non c’era nulla che mi pie, a cominciare da Odessa. Come si era ingrigita da che ci ero andata con Senja e Lena Nemirovskaja, ai primi di maggio di qualche anno prima! E non parlo dell’Odessa dei violinisti geniali e di ogni sorta di talenti: i violinisti erano in A-merica da un pezzo e i talenti a Mosca. Parlo dell'ineguagliabile giovialità di Odessa, dei normali odessiti ingegnosi come pochi (come i napoletani, che si sono inventati le magliette con la striscia nera per simulare le cinture di sicurezza: niente multe e si guida più liberi!). Ricordo i malandrini à la Babel’ nel ristorante dell’albergo: una sera avevamo ac-canto una tavolata di venti persone, ma i commensali cambiarono in continuazione e potrei scommettere che alla fine della cena saranno stati almeno il doppio a gustarsi quelle leccornie!
Nel 1981 era tutto diverso: Odessa era apita, si era spopolata, e anche gli odessiti normali stavano migrando a Brooklyn. La crociera si rivelò una barba. La comitiva, le conversazioni, l’animatore: non c’era nulla che mi andasse bene.
Al porto di Genova vennero a prendermi Graziella Gandolfo e Tanja, figlia di Lena Nemirovskaja, che i medici di Mosca avevano condannato a una morte imminente e straziante. Tanja aveva un aspetto decisamente florido.
– Ho trovato lavoro – mi disse strizzando un po’ gli occhi, come sua abitudine. – Ogni mattina rifaccio venticinque letti in un albergo del porto!
Verso i sedici anni Tanja aveva cominciato a deperire - prima lentamente, poi sempre più in fretta - ma senza che i suoi disturbi fossero d'ostacolo alle fatiche più impervie, come gli esami di ammissione alla facoltà di lingue e lettere che
superò brillantemente.
Morbo di Kushing, questa era stata la diagnosi: una malattia del cervello che non lascia speranza di guarigione e che i medici attaccarono con medicinali che, evidentemente, presentavano delle controindicazioni.
Nel frattempo Madi Gandolfo, studentessa dell’università di Genova, era a Mosca a perfezionare il suo russo. Sentito che ebbe della condanna a morte di Tanja, si precipitò a telefonare a casa, a Genova Quinto, a suo fratello:
– Giampiero, chiama a raccolta gli amici! Bisogna trovare qualcuno che venga a Mosca e sposi Tanja. Dobbiamo portarla a Genova e farla ricoverare!
Mezz’ora dopo Carlo Tarantino – che Dio lo benedica! – prendeva accordi con i genitori di Tanja per farsi andare a prendere all’aeroporto di Šeremet’evo.
Il matrimonio venne “celebrato” e gli “sposini” partirono per Genova, dove Tanja fu prontamente ricoverata all’ospedale San Martino. La dimisero di lì a un mese, tanto in salute – come constatai personalmente – da poter rifare ogni mattina 25 letti all’italiana (cosa tutt’altro che semplice).
A Genova Quinto, a casa Gandolfo, mi sistemarono nella camera ancora piena di giocattoli di Madi. Tanja viveva nella tavernetta, nella stanza per gli ospiti. I Gandolfo avevano sempre una mezza dozzina di posti-letto pronti per ogni evenienza: prima che prendessero ognuno la propria strada, i figli avevano continuamente ospiti, chi di aggio, chi per un periodo più lungo.
Il giorno seguente Graziella e io fummo ricevute dal capo reparto dell’ospedale.
– Tutti sanno che la medicina sovietica è la migliore al mondo – esordì il professore, per poi contraddirsi: – E quindi non capisco come abbiano fatto a commettere un tale errore diagnostico! Si tratta di un tipico caso psicosomatico. Quanto allo scompenso metabolico e al sovrappeso, basta la dieta a curarli.
Ed elencò una sfilza di cibi introvabili a Mosca.
Lo spettro del morbo di Kushing, comunque, si dissolse. Vero è che, in seguito, le sarebbe venuto il diabete (che non è uno scherzo!), ma Tanja è viva e vegeta, grazie al cielo. Dopo sei mesi con i Gandolfo senza riuscire a metter radici in Italia, Tanja si trasferì a Londra e sposò un inglese unico nel suo genere: il genialoide Leon Conrad, figlio di un’egiziana copta e di un ingegnere polacco naturalizzato. Per i primi tempi i novelli sposi ebbero una casa grazie a un’organizzazione filantropica; se ne comprarono una quando incassarono la piccola eredità della madre di Leon.
Dopo essersi diplomato al conservatorio, Leon ha lavorato come accompagnatore al piano a domicilio ed è poi diventato uno specialista di impostazione vocale: per cantanti ma anche per manager. Ora è un noto esperto di ricamo, arte assai in voga in Inghilterra e in America, e sta frequentando un dottorato in storia dell’arte. Di Katja, la loro bambina, ho già parlato.
Mi si permetta un balzo avanti nel tempo: quando, con la perestrojka, Lena e Jurij poterono finalmente uscire dall’URSS, ce ne andammo tutti e tre a Londra a trovare i coniugi Conrad.
– Leon, perché ami Tanja? – gli chiesi io, indiscreta, sbirciando con la coda dell’occhio la faccia paffuta della moglie.
Lui non si stupì della mia domanda e mi rispose – in russo e senza esitazioni:
– Perché con lei non mi annoio mai!
…Da Genova Quinto raggiunsi Milano ed Emy.
Erano ati dei mesi, e la tomba di Paolo non aveva ancora un’iscrizione. Colpa della burocrazia? Non saprei. Lo avevano tumulato al Cimitero Monumentale, in un imponente sepolcro destinato ai cittadini illustri di Milano. Un giorno, a Peredelkino, seduto sulla panchina accanto alla tomba di Pasternak, Paolo – che di cimiteri se ne intendeva – si disse invidioso di quella semplice stele di cemento sotto i tre pini. Sembrava intuire che non avrebbe riposato solo.
Paolo lo incontrai un’ultima volta nella sua terra, la cittadina pugliese di Martina Franca dove ogni anno si tiene un festival dell’opera che è una sua creatura e che è in perfetta sintonia con il luogo. Non solo la sede – il cortile del palazzo ducale – ma l’intera cittadina diventa la scenografia di un’opera lirica.
Ero ospite del festival. Nella sua Martina Franca Paolo è una leggenda. Tutti, a partire dal proprietario dell’Hotel dell’Erba dove Paolo si fermava sempre, mi si presentavano dicendo: “Con Paolo eravamo amici fraterni”. Il cugino di Paolo, il senatore Giulio Orlando, mi accolse come una di famiglia. Ci eravamo conosciuti a Mosca: tra i miei doveri di interprete avevo avuto anche il compito di assistere una delegazione del Senato italiano. Giulio mi avrebbe poi presentato la moglie, Giovanna Bemporad, traduttrice niente po’ po’ di meno che dell’Iliade
e dell’Odissea.
Nina Vinchi, in abito nero a pois e frangetta grigia un po’ infantile, fu naturalmente gelida con me. Io, intanto, mi chiedevo che fine avesse fatto la montagna di mie risposte alle lettere di Paolo. Nina non era benvoluta nella cerchia di Paolo. Chissà perché, dato che si era rivelata una persona positiva e generosa: non per niente aveva dedicato la vita a una coppia complicata (e quanto!) come quella Grassi-Strehler. Dopo l’ictus di Paolo fu l’unica a restargli accanto. E quando Strehler, il Giorgio nazionale, rischiò la galera per la faccenda dei sussidi che il Fondo europeo aveva stanziato a favore del Piccolo, fu ancora lei ad addossarsi le accuse (con Giorgio – figlio di buona donna! – che glielo lasciò fare!) prendendosi due anni con la condizionale.
Martina Franca è un sogno, ma io ho un peso sul cuore e mi sento disperatamente sola… Forse non avrei dovuto accettare l’invito? E se anticii il ritorno? Franca Celli, amministratrice del festival e critico musicale, non capisce la mia fretta. Decidiamo di rimandare la conversazione all’indomani. Nel frattempo vado a fare due i. Ricordo i racconti di Paolo su quella cittadina fiabesca tutta linda e di un bianco accecante.
Porte di legno scuro costruite per esistere in eterno… Una ragazza scalza che lava il marciapiede e il selciato davanti a casa col detersivo. I gerani di agosto che imperversano. Paolo amava girare per quei posti di notte e mostrare agli amici e ai giornalisti gli angoli più nascosti che solo lui conosceva.
Nella biblioteca civica ci sono diverse fotografie sue. C’è anche quella, famosa, del Mio teatro, dei tempi della tournée moscovita della Scala nel 1974: Paolo al Bol’šoj, al tavolo dell’ufficio che gli avevano riservato, con alle spalle un ritratto di Lenin.
Alla serata in sua memoria, in quella stessa biblioteca, si radunò gente da tutta Italia. Non Enzo, suo fratello, che per qualche ragione restò a Milano, e nemmeno Emilio Pozzi, braccio destro di Paolo e suo coautore; non venne nemmeno la figlia di primo letto, sca. Si vociferava di una loro incompatibilità con Nina Vinchi.
Sarà vero?…
Si parlava a mezzavoce di quel che sarebbe accaduto all’archivio di Paolo. Giulio Orlando riteneva che andasse affidato alle cure di Emilio Pozzi. Ma la proprietaria era la vedova.
– Paolo maneggiava milioni e non si è mai tenuto una lira… È un vizio di famiglia… – sentenziò pensieroso Giulio, alla sua quarta elezione in Senato.
Un aneddoto. Il direttore del festival presenta gli ospiti al vescovo. Tocca a me.
– Monsignore, mi permetta di presentarle la professoressa Julia Dobrovolskaja, che ha tradotto in russo le memorie di Paolo Grassi.
– Conosce il russo così bene?
– È la mia lingua, Monsignore!
Il vescovo non demorde: – Ma che bella cosa conoscere a tal punto una lingua da
tradurre un libro intero!
Niente da fare, non ci capimmo. Forse perché era la prima volta che un russo visitava Martina Franca.
Di nuovo il mondo si rivelò più piccolo di quanto si potesse credere. Chi fu il mio premuroso cicerone in quei giorni pugliesi? L’avvocato Marangi, che per anni aveva lavorato alla Italsider di Genova con Giampaolo Gandolfo!
Tipo sportivo, socievole, sveglio, me lo ritrovavo sempre alle costole: era a mia disposizione, diceva, se lo desideravo. Imbeccato da Giampaolo, sicuramente. Poi, però, piano piano diventammo amici. A farci andare d'amore e d'accordo furono soprattutto l’affetto e la stima che entrambi provavamo per il nostro comune amico.
Tra parentesi. È impossibile non voler bene a Giampaolo, che è una perla d’uomo, che è buono come il pane. Degne di stima sono le sue capacità linguistiche, rare per un italiano. Liceale sedicenne nella grigia cittadina piemontese di Ovada, si apionò al russo e lo studiò da solo. Pur sapendo di non potersi consacrare alla russistica (di lì a poco avrebbe messo su famiglia), continuò a dedicarealla Russia il tempo libero dal lavoro alla sezione cultura dell’Italsider: raccoglieva libri russi, leggeva, scriveva, pubblicava. In vacanza andava in Russia, da solo, con i figli, oppure alla testa di comitive dell’Italsider. Era nostro immancabile ospite e diventò amico dei nostri amici.
“Vorrei scrivere di Lidia Čukovskaja” mi confessò un giorno. Era una richiesta camuffata: voleva che gli presentassi la scrittrice dissidente.
Sapendo che Lidia era malata, che aveva problemi agli occhi, provai a tastare il terreno e telefonai a Klara, la segretaria del padre di Lidia, Kornej Ivanovič, affinché mettesse una buona parola. Così fu. Lidia Korneevna acconsentì. Le due ore di intervista a Peredelkino vennero pubblicate sul Secolo XIX.
“Vuole vedere dove stava Aleksandr Isaevič, dove lavorava?” ci propose Lidia Korneevna. E senza nemmeno aspettare una risposta comunque scontata (chi non avrebbe voluto vedere dove lavorava Solženicyn?), aprì la porta della stanza accanto. Era una stanza come tante, con la scrivania accanto alla finestra, la libreria... Da dietro allo scaffale Lidia Korneevna tirò fuori un rastrello. Un rastrello, e perché?, ci meravigliammo. Dopo una breve pausa intesa a creare un po’ di “suspense”, la nostra ospite ci spiegò che Solženicyn lavorava dalla mattina alla sera, ma che di tanto in tanto faceva qualche pausa nel bosco, sugli sci, per sgranchirsi le gambe. Sapendo, come ha scritto Pasternak, di avere “addosso le ttenebre della notte con i suoi mille binocoli” (se non con qualcos’altro!), quando prendeva per i boschi Solženicyn si legava in spalla un rastrello, così da potersi difendere senza rischiare un’incriminazione per possesso d’arma bianca. Da esperto reduce dei lager, sapeva perfettamente che il Codice Penale sovietico non contemplava rastrelli.
Una volta pensionato, Giampaolo non ha perso tempo e ha cominciato a insegnare letteratura russa nelle università, prima a Genova, poi a Pisa e da diversi anni anche a Trieste (otto ore di treno e due cambi, da Genova Quinto!).
Senza accorgercene, Marangi e io avamo intere giornate a chiacchierare di Paolo – milanese innamorato del suo paese natale – dei nostri samaritani Giampaolo e Graziella, della Puglia e del Meridione in genere, tanto diverso dal Centro-Nord che già conoscevo. Non so quand’è che lavorasse. Girammo la Val d’Itria in lungo e in largo: una terra benedetta, gente cordiale, aperta… Il terreno è sassoso; con quelle stesse pietre cinque secoli prima, i “trullari” - ormai estinti - avevano costruito i trulli, case contadine con tetti di pietra a cono assemblati in un modo di cui si è perso il segreto. Intorno e in mezzo ci sono boschi pieni di funghi. Se la si ara, quella terra diventa rosso-bruna.
In un trullo rimodernato (ogni stanza ha il suo bagnetto) viveva anche la famiglia Marangi. L’avvocato aveva la ione dei cavalli. Nella stalla ne aveva uno di due anni – grigio argento, splendido – e dieci puledri.
Sul finire del mio soggiorno l’avvocato volle condividere la sua scoperta moscovita con gli amici. Vecchia volpe e collega di un sovietologo-russista, conosceva le peculiarità dei miei concittadini, che più di ogni altra cosa temono di dire ciò che non devono. Dunque mi chiese un centinaio di volte se ero d’accordo, e un altro centinaio se ci avevo ripensato o se temevo che l’incontro potesse nuocermi. Io, però, ero ormai un asso a vincere la paura. Avrei dovuto trovare una qualche scusa e perdere la faccia? Figurarsi!
Le nove di sera, in cielo una luna da fondale d'opera lirica. Su un colle il trullo dei Marangi, a due chilometri da Martina Franca. Davanti un bel prato con ai lati due pini maestosi; ai piedi del colle, la mandria delle automobili parcheggiate. C'è tutta l’intelligencija locale, giunta da Bari, da Trani... Non ricordo dove si fossero accomodate quelle persone, una cinquantina tra uomini e donne. Forse per terra? Ricordo più la temperatura dell’incontro, mutevole, a tratti rovente. Il primo a porre una domanda, un ex colonnello dei carabinieri campione di equitazione, comincia con un preambolo sibillino:
– Può anche non rispondermi, signora. Io leggo e so come vanno le cose, da voi…
Lo interrompo all’istante:
– Signori, io sono abituata a dire sempre e ovunque solo ciò che penso e, soprattutto, solo ciò che so. In caso contrario questo incontro non avrebbe senso.
Vocio di approvazione. Marangi non fa in tempo ad annotare le domande. Una docente di storia vuol sapere che ne è del movimento femminista in URSS; un legale di Bari se è vero che in URSS è normale celebrare processi in contumacia; il preside di un liceo che cosa pensano i lettori russi della letteratura italiana contemporanea.
I sinistrorsi esordiscono con frasi del tipo: – La scuola sovietica (o la sanità, o l’assistenza sociale…), che è la migliore del mondo, …”.
Visto che dico pane al pane e vino al vino, il pubblico si schiera secondo le opinioni di ciascuno. Capita anche che si dimentichino di me per darsi addosso gli uni con gli altri. Un tale non fa che gridare a sproposito:
– L’Unione sovietica è comunque mille volte meglio dell’America!
– Tu faresti meglio a tacere! – lo zittisce Marangi.
Restiamo a discutere fino a sera tarda.
Coloro che la pensano come me sono la maggioranza.
Il colonnello cavallerizzo, tanto polemico in principio, chiude con una nota galante:
– Ho ato la serata ad ammirare le sue caviglie sottili (!).
Il giorno dopo i miei sinceri ammiratori mi mandarono mazzi di fiori di una bellezza (e di una misura) impensabile, che ravvivarono la reception dell’Hotel dell’Erba.
Tornai a Milano quel giorno stesso.
36. …e ti saranno rimessi i tuoi peccati, ati e futuri…
In quella mia "estate italiana" Emy, Marcello e Camilla erano ossessionati dall’idea di farmi restare: “A Mosca ti rovini. Non hai più nulla da fare, là!” ripetevano. Avevano ragione. Ma non i panni della transfuga non mi piacevano. Io volevo avere le carte in regola. Me lo sentivo dentro, anche se non sapevo ancora fino a che punto fossero di sinistra e ostinatamente filosovietiche le università e le case editrici per cui avrei dovuto lavorare se volevo mettere qualcosa nel piatto.
A non voler considerare l’emigrazione in Israele, l’iter legale per chi sceglieva la libertà era quello, già citato, di sposare uno straniero o una straniera. Da qualche tempo, in seguito alle pressioni degli accordi internazionali, questo tipo di matrimoni era legale anche in URSS. Il codice civile italiano, poi, prevedeva addirittura il “matrimonio simulato a fine umanitario e perciò annullabile”.
Fu a quell’inganno che – a malincuore – acconsentii.
A Campale Molare si diedero alla ricerca di un fidanzato. Non senza risate e battutine. Soprattutto quando nella vicina Molare si trovò uno scapolo di mezza età, un viaggiatore apionato che proprio in forza della sua ione per le terre lontane si diceva pronto alla transazione (si sarebbe scoperto, ma solo poi, che viaggiava a sbafo nella cabina di un camion di import-export). Un giorno il possibile pretendente, un pezzo d’uomo, si presentò nel salotto della marchesa Camilla Salvago Raggi con indosso dei bermuda che avevano visto giorni migliori. Li portava tutto l’anno, quei bermuda, con una camicia a scacchi stinta: lui voleva are per un inglese stravagante, ma somigliava più allo scemo del villaggio.
Non se ne fece nulla per “motivi familiari”: le sorelle si impuntarono, temendo che avessi messo gli occhi sul suo patrimonio.
È ato un quarto di secolo, ormai, ma se ci ripensiamo ridiamo ancora a crepapelle. Le ricerche, comunque, non si fermavano.
Nel frattempo io mi attenevo al programma. A Capri mi attendevano a un seminario di traduzione per insegnanti di russo. A Roma incontrai Giulio Orlando e la moglie traduttrice, che in mio onore contravvenne alla sua regola di vita: lavorare di notte e dormire di giorno. E trascorsi una giornata con Lia Wainstein, giornalista bilingue che pubblicava su La stampa (e che avrebbe poi inderogabilmente recensito ogni mia pubblicazione, dizionario compreso). Viveva sola in una palazzina dietro Via Veneto chel’architetto Pincherle, padre di Alberto Moravia, aveva costruito negli anni Venti, poco prima che al padre di Lia – commerciante all’ingrosso di tessuti – venisse in mente di trasferire la famiglia da Tallinn a Roma, lontano dalla rivoluzione d’ottobre. L’anziana Lia ha lavorato sodo fino alla fine dei suoi giorni, scrivendo di letteratura russa e accogliendo in casa propria solamente i sovietici di una certa pasta: Jurij Trifonov e la moglie Olga, per esempio, o gli emigranti di Ostia. Le presentai Nina Bejlina e i Bukalov, e fecero amicizia. In casa sua conobbi lo storico e politologo Viktor Zaslavskij, anticomunista assai combattivo.
Il seminario di Capri organizzato dall’associazione Italia-URSS era diretto da Lucetta Negarville, figlia di uno dei fondatori del PCI, docente di russo, interprete simultanea e donna bellissima. Insieme ammo a prendere la madre, Nora Borisovna, dopo di che partimmo in treno per Napoli, dove prendemmo il traghetto per Capri.
La mia stanza all’hotel Quisisana dà sul mare, a sinistra c’è una montagna a strapiombo, sotto, oltre una vegetazione rigogliosa, occhieggiano bianchissime le ville e il monastero e si vede la Piazzetta, l’ombelico, il fulcro della celebre isola. La mia terrazza è cinta su tre lati da robuste piante di aloe, lo stesso che –
in miniatura – cresce (o forse cresceva) nel vaso sul davanzale di ogni casa russa (in Italia pochi ne conoscono le miracolose proprietà terapeutiche).
Il mio pubblico è composto in prevalenza da russe sposate a italiani, che singhiozzano: “Darei tutta questa bellezza per un bosco russo”, o ancora: “Qui non c’è nessuno, nessunissimo, con cui scambiare due parole…”.
Studiano con ione. Ljudmila Zecchini, dell’Università di Trieste, registra le lezioni. Di che cosa ci occupiamo? Elementare, Watson! L’ABC della teoria e della pratica della traduzione. Con testi in due lingue: Dingo cane selvaggio di Fraerman e Il diavolo di Marina Cvetaeva. Da Capri, con collegamenti tutt’altro che diretti, arrivo a Gragnano, sul lago di Garda. In quella che era stata la villa di D’Annunzio si terrà un convegno su Blok. Non ho le competenze per intervenire, ma il professor Bazzarelli, docente milanese di letteratura russa, ha insistito affinché partecipi (o meglio presenzi) anche io.
La settimana dopo mi rinfresco (letteralmente) a Gressoney, sui monti della Valle d’Aosta (sotto il Monte Rosa), nella seconda casa di Emy; in seguito avrei ato con lei – o meglio sopra di lei, nella mansarda – parecchie estati.
Il mio compleanno mi trova a Velate, a casa Guttuso. Da Palermo sono arrivati i quattro Carapezza: Marcello con Ginevra e i figli Marco e Fabio. Marco somiglia al padre, tartaglia un po’, sta scegliendo se occuparsi di filosofia o di critica letteraria; Fabio va pazzo per la musica, quella barocca e quella moderna, anch’essa con flauti a profusione. Ha apprezzato il disco che gli ho fatto avere: un concerto di Korneev, il miglior flautista russo. Con Marcello Carapezza andiamo ogni mattina a eggiare, tête-à-tête. Si interessa veramente al mio caso e vuole aiutarmi. Mi porta i saluti dal prigioniero dell’Hotel delle Palme, il barone Di Stefano, commosso dal mio telegramma pasquale e dai sigari cubani che gli ho mandato (Mosca, all’epoca, ne era invasa).
Renato continua a rivangare il ato:
– Ho mandato un biglietto di auguri a Sciascia, per Capodanno, ma lui l’ha scambiato per un biglietto di scuse!
Non si rimarginava, quella ferita.
Renato e io iamo mattinate intere nel suo studio, lontano dalla villa. Parliamo dei suoi quadri. La Visita mattutina: lei, deliziosa, sotto il cappottino niente; si intravvedono le “cuffie”, i due chignon sulle orecchieche Mimise non si può permettere di cambiare, Renato non glielo consente. E poi la Visita notturna: una grossa tigre che avanza a o felpato, micidiale. È Marta. Povero Renato…
Si lamenta di non riuscire a democratizzare il suo stile di vita, e tutto per colpa di Aldo! Nulla riuscirebbe a fargli togliere la livrea da maggiordomo – la giacca bordeaux con i bot-toni dorati e i guanti bianchi – o a fargli semplificare il rituale dei pasti, con i piatti scaldati, il vassoio porto sulla sinistra e il piatto sporco ritirato a destra, come gli aveva insegnato la prima signora per cui aveva prestato servizio, ragazzotto di campagna agli albori della carriera. Quando però Aldo andava in ferie, dieci giorni l’anno, in casa regnava il caos, altra cosa che Renato non sopportava.
– Che colpa ne ho, se sono ricco? – urlava isterico. – Perché mi invidiano? Lavoro come un mulo, alle sette e mezza sono già in piedi. Vendo a un milione un quadro che ne vale quattro e non mi consento lussi. Non mi prendi in giro anche tu, perché ho sempre adosso lo stesso golf?
Il golf ricomparve anche con Mimise. Che lo stuzzicò:
– È vero. E quando ti accorgi di avere i buchi ai gomiti, te ne compri uno identico, chissà perché!
Renato non la degnò di una risposta e continuò a scaldarsi:
– Non c’è intervista in cui non mi chiedano come posso combinare l’incombinabile: essere comunista e ricco “con tanto di camerieri in guanti bianchi”!
“Un momento”, mi a per la testa per la prima volta, “e se la sua fede politica indefessa si spiegasse con il desiderio di dimostrare a tutti, pur con i suoi miliardi, di essere un comunista ortodosso? Se fosse solo un paravento? Allora sì che i conti tornerebbero!”.
A Milano mi aspetta un’Emy su di giri. Restano 48 ore alla mia partenza per Mosca, ma l'indomani avremo un incontro importante con un tal Ugo Giussani, un amico di suo figlio.
– Ugo – gli dice solennemente Emy quando ci vediamo. – Vuoi che ti siano rimessi i tuoi peccati ati e futuri?
– Che cosa dovrei fare per meritarlo? – sorride lui.
– Un’opera buona: vai a Mosca e sposa Julia. Dobbiamo portarla via di lì.
Ugo, che ho conosciuto cinque minuti prima, non batte ciglio e chiede con fare professionale che gli venga spiegato quando dovrà partire e per quanto tempo.
Così è stato che nella mia vita entrò un’anima buona di Milano, un ragazzo di quarantadue anni slanciato, dai tratti delicati e un po’ timido. Ugo Giussani. Si era laureato in legge a quell’Università Cattolica in cui, anni dopo, avrei insegnato anch’io. La sua era un’ottima famiglia: il padre aveva combattuto in Spagna con i repubblicani (non prima di aver spedito moglie e figli in Francia. Ugo è nato a Parigi).
Nell’ottobre del 1981 il mio promesso sposo venne a Mosca per sbrigare le formalità. Fu Nina Bejlina a pagare il viaggio. Le tribolazioni infinite, i sadici ostacoli della burocrazia erano finalmente alle spalle. Per l’ultima formalità – l’autorizzazione del ministero degli Esteri – ci volle mezza giornata. Ugo rischiava di perdere l’aereo. Spossati e smarriti, ce ne stavamo sulla Sadovaja con la mano alzata, sperando che asse un taxi. Un fiume di auto e camion ci sfrecciavano accanto rombando e sputandoci contro i loro gas di scarico. Ma niente taxi. D’un tratto dal fitto di quella marea ruggente – solo Dio poteva avercela mandata! – ci si avvicinò zigzagando Olga Trifonova, la moglie dello scrittore:
– Salite – disse – vi porto io! Dove dovete andare?
Solo così, per un miracolo, Ugo riuscì a prendere il suo aereo.
La registrazione delle nozze all’anagrafe di via Griboedov – il cosiddetto
“Palazzo dei matrimoni” – era per il 6 gennaio del 1982.
Ugo tornò a Mosca una seconda volta con il suo compagno Ioachim Schmidt alla vigilia di Capodanno, con un visto turistico. Non ci fu verso di strapparli al loro gruppo, alloggiato all’Hotel Kosmos. Luigi Vismara interpellò la direzione dell’albergo, garantendo che sarebbero stati suoi ospiti – ospiti, dunque, di un giornalista italiano corrispondente a Mosca e non di una sovietica. Invano.
Dunque festeggiammo il Nuovo anno ognuno per proprio conto: noi a casa mia e loro due da turisti, a Suzdal’. “Noi” eravamo i Razgon, i Bukalov, i Senokosov, gli Stanevskij e qualcun altro, tredici in tutto (lo ricordo, quel numero!), turbati da quell’ultimo Capodanno assieme.
Ogni parola, ogni piccolo gesto assumeva un significato particolare.
Rika Razgon mi regalò una saliera d’argento Liberty a forma di cigno che era stata di sua nonna: l’unico oggetto che aveva ritrovato quando era tornata a casa dopo vent’anni di Gulag e che ora è il mio portafortuna.
Ci lasciammo sul far del giorno, controvoglia. Feliks e Ljuda alle sette del mattino sarebbero partiti per Toržok, per l’ennesimo viaggio “culturalilluministico”. Era stata Ljuda a inventarsi quella fuga dalla stagnazione brežneviana in forma di gite in città antiche e ricche di storia. Peccato che le varie Toržok presentassero anch’esse un quadro desolante di degrado e squallore…
I nostri “turisti loro malgrado” tornarono a Mosca il primo gennaio.
A parziale indennizzo offrii loro le curiosità del Cremlino e un balletto con la Pliseckaja al Bol’šoj, le icone di Rublëv alla galleria Tret’jakov e il Maestro e Margherita al Taganka, oltre a grandi manifestazioni di gratitudine da parte di tutta la mia brigata di amici.
– Vado? Non ci avete ripensato? – chiese per l’ultima volta l’impiegata dell’Ufficio anagrafe soffiando sul timbro. – La musica la volete? Il fotografo? Lo spumante?
– Senza non si può fare? – chiese Alëša, il testimone della sposa.
– Come volete voi. Può baciare la sposa.
Ugo esegue. I miei se la ridono sotto i baffi. Il testimone dello sposo, Ioachim Schmidt, è imibile.
Il giorno dopo il consolato mi consegna il aporto italiano. La colonia italiana a Mosca, che ha fatto il tifo per me, si complimenta.
Ma è presto – troppo presto! – per cantare vittoria… L’OVIR mi rifiuta il visto, autorizzandomi “a ripetere la richiesta di lì a sei mesi”. Io li ho raggirati e loro non me lo possono perdonare, non posso lasciarmi partire come se niente fosse.
Sono in trappola, né di là né di qua. Per quanto ancora? O forse per sempre?
I contatti con il mondo esterno erano stati troncati e decaddero anche quelli con le case editrici, va da sé.
Mi congedai dai miei allievi traduttori in erba. C'era la torta, c'erano i fiori, ma pareva più una veglia funebre. “Rimaniamo orfani”, mi dicevano i ragazzi. Ci mancavano tre mesi di lavoro per dare alle stampe la raccolta di racconti italiani che avevano tradotto. Tamara Aksel’ insistette affinché lavorassi con loro fino alla primavera. E mi convinse a sottoporre la questione a Lazar’ Karelin, segretario dell’Unione scrittori che sovrintendeva alla sezione di traduzione letteraria. Che si infuriò:
– Noi siamo uniti dalle stesse idee, siamo un’Unione, mentre lei ha scelto di are al nemico! Come può pensare che…
Non lo feci nemmeno finire:
– Guardi che si sbaglia. Non è a me che serve il seminario, ma all’Unione scrittori, per “far crescere la gioventù creativa”. È così che la chiamate, no?
Me ne andai sbattendo la porta.
– Mia madre è a letto, ha la pressione alta – mi rispose al telefono la figlia di Tamara, Elena Moločkovskaja, una delle migliori del seminario.
Le reazioni del mio entourage, in quei giorni, furono le seguenti:
Luigi Vismara: approfittando del telex e di una segretaria che era una persona per bene, teneva al corrente Emy, che faceva altrettanto con gli altri.
Tra parentesi. Una domenica che i Vismara si trovavano in dacia da amici, un gruppo di “ignoti” entrarono in casa loro e gli lasciarono un mucchio di cacca nel water. Un avvertimento, era così che si usava.
Ugo (al telefono): “Ricordati che non sei sola, siamo sulla stessa barca. Fatti forza. Come stai a soldi?”.
O ancora: “Vuoi che venga a Mosca?”.
O ancora: “Rivolgiti all’ambasciatore!”.
O ancora: “Mi muoverò per vie ufficiali”.
O ancora: “Sono stato a Roma, dal sottosegretario agli Esteri Bottai. Qualcosa si muove”. O ancora: “Rognoni e Colombo (all’epoca ministri degli Interni e degli Esteri – Ju.D.) se ne stanno occupando personalmente”.
Migliolo (ambasciatore italiano a Mosca): “Accetta sempre i nostri inviti; capisco che hai altro a cui pensare, ma non mancare ai ricevimenti in ambasciata: che vedano che stiamo dalla tua parte. Ho spiegato a Rognoni che il rifiuto è la norma, ma che bisogna insistere affinché facciano un’eccezione”.
Viktor Abramovič Zukkerman (musicologo): “Sa che cosa ho sognato? Tra poco sarà un anno che Hortensia Pavlovna è scomparsa, e io chiedevo a lei, Julia, di unire i nostri destini…”.
Pluček, sul viale Tverskoj innevato (dopo cena Zina lo copriva ben benino, come si fa con i bambini, e lo spediva a farsi una "eggiatina salutare"; lui mi chiamava e andavamo a eggiare e a guadagnare in salute insieme). Sentita la novità – “Valik, parto…” – si sfilò bruscamente la sciarpa, se la ficcò in tasca insieme ai guanti e scoppiò in una lunga tirata: “Era ora! E chi doveva partire, se non tu! Brava! Se solo consocessi anch’io una lingua straniera… Mi hai sempre rimproverato tu! A differenza di Peter, io sono un buzzurro che non sa spiccicare una parola in nessun’altra lingua… Ma mentre Peter girava l’Europa con istitutrici e istitutori, mia madre mi mandava al mercato a barattare il nostro ultimo cucchiaio d’argento per un paio di aringhe…” Era stato un nostro battibecco di tanto tempo prima, ma lui se l’era legata al dito.
Jurij Senokosov: (il mio caro bibliofilo!): “Comprati Il PCUS e i diritti dell’uomo, di Černenko e manda tre telegrammi: uno a Brežnev, uno a Tichonov e uno ad Andropov”. “L’opuscolo è esaurito”, gli risposi.
Ljubimov: “Torna da Bobkov” (Strinsi i denti e ci andai. Il generale, irriconoscibile, fece orecchio da mercante).
Lena Nemirovskaja: “Vedrai che la tireranno in lungo fino a che le tue traduzioni di Rodari e Sciascia non saranno esaurite. Non possono vendere libri tradotti da un’emigrata, no?”. Tamara Vladimirovna Ivanova: “Il mio fiuto non mi inganna mai: ti faranno a pezzi, ma alla fine ti lasceranno andare”.
Natal’ja Michajlovna: “Senza di lei, Julečka mia, sono perduta. L’unica consolazione è che mi lascia il tostapane”.
E – udite udite! – Tat’jana Alekseevna Kudrjavceva (della Inostrannaja literatura): “Non si preoccupi, Julia. Le manderemo un invito e lei potrà continuare a tradurre per noi”. Una bugia bell’e buona, ma salvò la faccia. La maggior parte dei colleghi non si fece viva. In quegli anni infami dire era pericoloso quanto fare. E pochi ne erano capaci.
Quando chiesi i certificati per l’OVIR (attestanti l’assenza di pendenze), alle edizioni Chudožestvennaja literatura e Progress redattori e redattrici uscivano a guardarmi come se fossi stata un fenomeno da baraccone.
Degli otto mesi grigi in attesa del visto mi è rimasto impresso il 5 marzo 1982, il pranzo a casa mia dopo la conferenza di Merab alla Facoltà di Psicologia e il consueto brindisi di reciproche felicitazioni per i ventinove anni dalla morte di Stalin. Non era un anniversario a cifra tonda, ma era comunque un evento lieto. Era sempre Lev Razgon a badare che non ce ne dimenticassimo.
E, per concludere, così reagì alla mia decisione di voltare pagina un mio vecchio estimatore, il professore di letteratura russa Viktor Andronnikovič Manujlov:
Alcune conclusioni tratte dalla lettura del palmo della mano sinistra di Julia Abramovna Dobrovolskaja
addì 12 maggio 1981
Koktebel’.
Pur restando sempre fedele a se stessa, Ju.A. è stata testimone partecipe nonché artefice della sua vita e, al tempo stesso, in certa qual misura si è mantenuta estranea ai fatti e alle mire della sua epoca, pur senza mai entrare in conflitto diretto con essa e, anzi, interpretando coscientemente, con dedizione sacrificale e non senza dispendio di energie il ruolo che il destino aveva scelto per lei.
Le impressioni di una vita piena sono cresciute come una semina generosa e hanno continuato a crescere in una mente e in una memoria mai paghe, risvegliando e alimentando lo sviluppo di uno spirito eterno, motore recondito e instancabile della persona.
È finalmente giunta l’ora del raccolto. Ju.A.D. ha di fronte un nuovo gradino di sacrifici fruttuosi sulla scala dell’autodeterminazione, dell’affrancamento da un’esperienza preziosa e della Liberazione totale. Impresa per cui ha tutto il tempo e le forze che le servono.
Manujlov
Due Post Scriptum
1. Il Peter di cui sopra è il regista Peter Brook. Era venuto a Mosca per un incontro teatrale. Quella sera il suo vicino di posto al ristorante era il direttore artistico del Teatro della Satira, Valentin Nikolaevič Pluček. I due si piacquero. Una volta in albergo Brook telefonò a Pluček dicendo:
– Non dorme ancora? Ho dimenticato di chiederle da parte di mio padre se a Mosca ci sia per caso qualcuno che si chiama Brook.
Pluček sorrise:
– Neanche a farlo apposta! Il cognome da nubile di mia madre è Brook!
Si scoprì che il regista inglese Peter Brook e il regista moscovita Valentin Pluček erano cugini.
Ovviamente nessuno dei due aveva più voglia di dormire. Brook chiamò un taxi e corse dai Pluček, e i cugini parlarono fino al mattino seguente. Trovarono anche un’altra parentela: l’unità di idee quanto alla regia teatrale. E anche una somiglianza straordinaria: avevano lo stesso viso.
2. Una mattina mi chiamò Demetrio Volcic e mi chiese se poteva are da me. Mi portò Michelangelo Antonioni e Tonino Guerra. Per un progetto di coproduzione italo-sovietica.
– Andiamo cinque giorni in Uzbekistan per i sopralluoghi. Il copione va tradotto in russo per quando torniamo – mi informò Antonioni in un tono che non ammetteva repliche. Intanto Guerra posava sul tavolo un pacco di carta.
– Prima di dare una risposta devo vedere il testo. Io lavoro così – lo avvertii.
Al maestro scappò un sorrisetto supponente –”Lo sai o non lo sai, con chi stai parlando?” – mentre mi chiedeva:
– E quanto le ci vorrà?
– Una giornata – risposi asciutta.
La mattina dopo Volcic li riporò da me.
– L’aquilone è condannato al successo – dissi in assoluta franchezza.
L’accordo venne concluso. Regista e sceneggiatore partirono per Taškent.
Di lì a cinque giorni la traduzione era pronta.
Ricordo ancora l’episodio-chiave: un ragazzino uzbeko lancia un aquilone nel deserto che circonda la sua città e l’aquilone si leva sempre più alto nel cielo. O forse era lo spazio? (allora non si parlava d’altro che di voli nel cosmo). Accorrono in tanti. Per aiutare il ragazzo ad allungare il filo, qualcuno gli porge un pezzo di spago, altri dei lacci, una cinta, una sciarpa… C’è chi disfa maglioni e tappeti… Ma all'improvviso,così come aveva spiccato il volo l’aquilone comincia a scendere, e lo spazio tutto intorno si riempie di ricami multicolori.
Che film sarebbe stato! Antonioni, però, ebbe dei contrasti con il Mosfilm, l’ente cinematografico moscovita. Per una telecamera in più, pare. Dunque l’Aquilone
non vide mai la luce.
37. La prova generale della morte
Non mi ero mai fermata a pensare a che cosa avrei fatto di là se mi avessero lasciata andare, dove avrei vissuto e con che mezzi. Non mi interessava, mi bastava andarmene. Allo stesso tempo, però, avevo un groppo al cuore: partire significava separarsi per sempre non dico dai libri di una vita e dal mio bancone carico di dizionari (si legga: dalla mia professione), ma strapparsi per sempre dagli amici più cari che, però, erano i primi a spronarmi.
– Respirala almeno tu, l’aria della libertà, e per tutti quanti noi! – mi diceva Razgon.
– Niente paroloni, Lev! – gli rispondevo io. – Chissà che cosa ne verrà fuori…
Mi aspettava una prova generale della morte: solo nella tomba non si può portar niente con sé. Sempre che l’OVIR mi concedesse il visto. Se così non fosse stato, mi sarei ammalata di cancro e sarei morta. Non ne potevo più, ne avevo fin sopra i capelli. Certo, non avevo garanzie che dall’altra parte della cortina avrebbe funzionato… Poco importava, voleva dire che non era destino. A 64 anni potevo dire d’aver vissuto. Se invece fosse andata bene, sarebbe stato un dono della sorte.
Era a quello che pensavo, rigirandomi nel letto fino a mattina.
A chi si stupisce del fatto che non sia più tornata in patria, rispondo: non ci sono andata e non intendo andarci. Ho sputato sangue per andarmene, me lo ricordo anche troppo bene, e c’è ancora troppo di ciò da cui sono scappata e molto che
non posso perdonare, non per me, ma per gli altri. Del resto, in un certo senso, portando con me la lingua russa non l’ho mai abbandonata, la mia terra.
Quanto all’aver lasciato una professione che avevo cara, per la libertà come per tutte le cose belle di questa vita bisogna pagare, e anche caro.
Sebbene paradossale, lo status di cittadina italiana di origine russa non è poi tanto male. Con il residuo di energie che mi restano condivido gli interessi sani dell’Italia e della Russia, sgobbo per l’una e per l’altra.
Ma torniamo a Mosca e alla seconda metà del 1982. L’estate ò, venne l’autunno. Mi giunse all’orecchio che a contendersi l’appartamento interno 106 in procinto di liberarsi (fosse vero!) di via Gor’kij 8 erano in due: l’Unione scrittori e il Comune di Mosca.
La legge era dalla parte dell’Unione scrittori (un membro dell’Unione avrebbe sostituito il precedente), ma l’idea di tenersi quell’appartamento di fronte al Municipio per un figlio o una figlia arrideva certamente anche a qualche pezzo grosso del Soviet cittadino. Quanto più scoprivo i dettagli di quella contesa, tanto più mi illudevo. Uno dei primi giorni di novembre si presentò Ljuda, affannata:
– Ha telefonato Feliks, mi ha detto di dirti che è tutto a posto…
Che cos’era a posto?
– Era presente all’incontro fra Tichonov e l’ambasciatore Migliolo. Tichonov ha detto di sì. Una volta calmate le acque, ricostruimmo insieme l’iter degli eventi. Il ministro degli Esteri Colombo aveva dato disposizioni affinché Migliolo si presentasse dal presidente del Consiglio dei ministri dell’URSS Tichonov con una lettera in cui era scritto che il rifiuto del visto alla signora Dobrovolskaja avrebbe avuto ripercussioni sulle relazioni culturali italosovietiche. Il povero Tichonov conosceva Indira Gandhi, conosceva Margareth Thatcher, ma non aveva idea di chi fosse Julia Dobrovolskaja… Dapprima puntò i piedi, poi – forse – mise sulla bilancia i vantaggi delle relazioni commerciali con l’Italia e vergò il nullaosta su quella buffa lettera.
Il saggio Lev mi spronava: non perdere tempo, che magari ci ripensano!
Veloci, veloci, di corsa a ritirare i certificati al condominio, alle case editrici, alle biblioteche… La tessera di partito e quella dell’Unione scrittori le avevo già restituite, grazie al cielo. Prima di emigrare le persone oculate facevano per tempo il giro delle sette chiese per ottenere i permessi necessari a portare con sé i libri (qualcosa veniva concesso, altro no, bisognava presentare una lista completa con gli estremi di ogni pubblicazione). Si vendevano gli altri averi e ciò che si voleva portare con sé doveva essere fotografato per le perizie. Io non avevo né le energie, né la voglia di occuparmene.
Pëtr Nemirovskij diede prova di grande spirito di iniziativa: si tenne in casa l’argenteria di mia madre e riempì una cassa con vari oggetti privi di valore (i vassoi neri con i fiori sgargianti della tradizione popolare russa, per esempio) da spedire a Milano quale rimedio contro l’eventuale nostalgia. Lev Timofeev portò i miei libri italiani da un bouquiniste; Galja Kolobova mi propose di lasciare a lei i libri che mi erano serviti a lavorare (uno scatolone di dizionari che due anni dopo Corghi mi avrebbe portato a Roma). Regalai tutto il regalabile agli amici e consegnai la chiave di casa a Rika Razgon, affinché disponesse di quel che restava dei miei averi. Per conto mio, preparai una piccola valigia con l’archivio di famiglia e le “reliquie”: ci misi le lettere – le più interessanti – che mi avevano scritto i miei autori (quelle di Parise, per esempio, che erano delle vere e proprie
novelle). La lasciai a Lena e Jura, quella valigetta, senza alcuna speranza di riaverla mai.
Tra parentesi. Venuto a sapere che me ne stavo andando, una vecchia conoscenza che non ricordo più chi mi avesse presentato, Rosario A., importante manager italiano, insistette affinché gli lasciassi quel che non mi era concesso di portare con me. “Non mi perquisiscono mai, sono un VIP, io”, cercava di convincermi. Mi convinse, e mandò qualcuno da Lena e Jurij a ritirare la valigetta. Qualcuno, però, fece la spia, perché all’aeroporto di Šeremet’evo la valigia venne requisita con grande scalpore. Per Rosario poteva comportare la perdita del visto e grossi inconvenienti sul lavoro, dunque l’impossibilità di concludere affari importanti con il ministero per il Commercio estero sovietico. Alla fine, grazie all’inter-cessione di un viceministro, una brava persona, tutto si sistemò. Lo shock, però, era stato tale che, pur vivendo nella mia stessa città, Milano, il mio protettore dimenticò per vent’anni che esistevo. Il ventunesimo anno nel suo ufficio (la Fondazione della camera di commercio italo-russa), dove a un lungo tavolo era seduto il suo staff, entrammo Lena, Jurij e io per prendere accordi riguardo a un eventuale scambio tra la Fondazione e la scuola di Lena. Quando mi vide si profuse in baci e abbracci. Poi, tutto infervorato e dimentico del suo ruolo, si mise a raccontare nei dettagli (che non conoscevo) la storia della valigetta perduta. Tutto come se si trattasse di una cosa successa il giorno prima. E concluse:
– Mia figlia Giulia tiene bene in vista il tuo regalo: il disegno di Guttuso con la dedica: “Alla mia cara Giulia”.
… Il biglietto per il volo dell’Aeroflot era per il 12 novembre.
Il 10, a cena dal direttore dell’Alitalia Marra, il padrone di casa non faceva che alzarsi per andare a rispondere al telefono. Luigi Vismara, seduto al mio fianco rizzò le orecchie: l’istinto del giornalista purosangue.
– Sospetto che il 12 non potrai volare su un aereo dell’Aeroflot. Questo è il telefono del mio ufficio, tienimi al corrente! – mi bisbigliò Marra.
ammo la serata – l’ennesima – a commentare la notizia non confermata della morte di Brežnev.
Il giorno dopo la notizia divenne ufficiale. Vennero proclamate due settimane di lutto nazionale, i voli vennero cancellati; in centro, via Sadovaja compresa, venne imposto il coprifuoco.
Casa mia si riempì di gente. Verso le cinque ò Nelli Molčadskaja, attrice del teatro del Mossovet, che ci mise in allarme: gli attori avevano ricevuto dei i, la polizia li controllava, controllava la residenza sui documenti d’identità e fermava anche le auto. E dal mio aporto per l’espatrio io non risultavo più residente a Mosca.
I Lukovnikov vivevano in un condominio delle edizioni Progress sulla Sadovaja, e il mio “consiglio dei saggi” deliberò che sarei andata da loro prima del coprifuoco e che mi sarei fermata per la notte; la mattina seguente Boris mi avrebbe accompagnato a Šeremet’evo. Buttai i vestiti in una valigia e le scarpe in un’altra, alla rinfusa, baciai tutti quanti più di una volta. Ci sedemmo un attimo, in silenzio, per congedarci secondo la tradizione russa, e via che andammo.
La mattina dopo chiamai Marra.
– Ascolta attentamente quello che sto per dirti – mi istruì. – Vai a Šeremet’evo e rivolgiti al mio collega dell’Aeroflot, che scambierà il tuo inutile biglietto con l’ultimo volo dell’Alitalia, alle 18. Siamo già d’accordo. Non appena riesco a uscire dal centro, ti raggiungo in aeroporto e ti vengo a cercare.
Il piano di Marra funzionò.
Molto prima della partenza la mia combriccola – che era riuscita a superare in qualche modo il cordone di polizia – si affollò vicino alla dogana. Io fingevo disinvoltura: me ne stavo lì, con le mani nelle tasche di un cappottino di astrakan di fattura tedesca nuovo di zecca.
– Avanti! – mi fu detto finalmente.
Le mie due valigie vennero caricate sul bancone. Non c’era fila, pareva che fossi l’unica a partire con quel volo. Qualcosa, però, doveva essersi inceppato; il tempo ava e quel brutto ceffo del doganiere non svolgeva le sue mansioni.
Arrivò il suo superiore, un tipo corpulento, avanti con gli anni.
– Non può partire. La legge vuole che chi lascia il paese i la dogana il giorno prima. Doveva presentarsi ieri!
– Allora parto senza bagagli!
– No. Se se li è portati fin qua, è tenuta a prenderli con sé. Ritiri le sue valigie.
E se ne andò compiaciuto, sbuffando.
Eccola la fine infelice che mi aspettava al varco… In seguito, a mente fredda, avrei capito perché il Grassone non mi voleva far are; non era colpa delle valigie, ma del fatto che non essendo consentito volare, alla dogana non era presente l’incaricata del KGB per le perquisizioni corporali.
Vidi che Alëša si avvicinava al Brutto ceffo. Lo chiamò da parte, gli spiegò qualcosa, qualcosa gli mostrò… Il Brutto ceffo tornò al suo posto, si segnò qualcosa in un notes e gracchiò:
– Prenda le valigie!
Feci un o indietro:
– Non ci penso nemmeno! Riferisca al suo superiore che esigo di essere ricevuta!
– Il mio superiore le ha già detto quel che doveva.
Dunque c’era solo il Grassone, a cui rivolgersi. Se fossi stata capace, mi sarei messa a urlare. Non amano le scenate, quelli lì. Ma io ho preso da mio padre…
Il Grassone tornò.
– Che altro c’è?
Dal profondo delle mie viscere scoppiai in un:
– Sa che le dico? Lei non è più giovane e non è nemmeno in salute. A furia di fare del male al prossimo le verrà un accidente!
Non potevo crederci: era spaventato, fece tanto d’occhi e disse al doganiere:
– Va bene. Procedi…
Quello, senza fretta alcuna, flemmatico, svuotò la valigia, tastò con grande attenzione ogni cucitura, piegò e ripiegò le spalline, tirò fuori le scarpe e ò i tacchi ai raggi X. Intanto la lancetta avanzava. E superò le cinque e mezza…
– Può chiedere una mano a chi l’ha accompagnata…
Che magnanimità! Accorse Ljuda, che mi aiutò a ricacciare dentro la mia roba, tramutatasi in una montagna indistinta di vestiti, scarpe, stivali… Le chiusure schioccarono. Spuntato da chissà dove, Marra afferrò le valigie e le scagliò sulla bilancia, mi strizzò l’occhio e mi spinse delicatamente verso l’uscita e la guardia
della polizia di confine.
Ma il Brutto ceffo mi sbarrò la strada con il notes in mano:
– Un momento, chi è Aleksej Bukalov?
Mi si gelò il sangue… Non sarei più partita e Alëša sarebbe stato licenziato.
– Non conosco nessun Bukalov! – dissi rinnegando il mio caro amico ed ex allievo.
Sono convinta che, potendo, il Brutto ceffo mi avrebbe morso: c’era odore di bruciato. Per supplicarlo di farmi are, l’ex primo segretario d’ambasciata Aleksej Michajlovič Bukalov gli aveva mostrato il suo vecchio aporto diplomatico scaduto.
La figura di cera nella garitta dietro il vetro prese il mio aporto e, come d’abitudine, se lo rigirò a lungo tra le mani, guardando in alto ogni tanto (continuo a non capire il perché di quelle mosse; che siano manovre intimidatorie?), dopo di che - finalmente! - me lo rese! Mezza svenuta, mi lasciai cadere nella prima poltrona di plastica del mondo libero.
Tra parentesi. Mentre torno in me, mi siano consentite due parole a proposito del documento esibito da Alëša Bukalov. Dopo la laurea al MGIMO, Alëša lavorò come diplomatico per sedici anni. Non fece carriera: finì nelle ex colonie italiane, la Somalia e l’Etiopia. È probabile che agli occhi dell’Ufficio personale
il suo principale “difetto” fosse non tanto e non solo la madre ebrea, la cara Evgenia Jakovlevna Thomas, pediatra (a cui era anche toccata la disgrazia di nascere in Australia), ma piuttosto il suo carattere aperto e gioviale, il suo senso dell’umorismo, la lingua sciolta, il talento letterario. Ciò non di meno, in forza di una fortunata combinazione di circostanze, alla fine Alëša venne assegnato all’ambasciata sovietica a Roma. Destino volle che per Roma, tappa verso l’emigrazione, asse il fratellastro Aleksandr Klibanov (che ha fatto una bella carriera scientifica in America) con la famiglia. Un altro avrebbe ignorato quel parente scomodo, ma Alëša – che è una persona normale – andò a prenderlo, gli mostrò la Città eterna e lo riaccompagnò. Dopo di che, con un qualche pretesto, venne richiamato a Mosca e cacciato dal ministero degli Esteri in men che non si dica. Rimase a lungo disoccupato e subì molte umiliazioni. Si attaccò a una fune del cielo, il giornalismo, e tornò a galla. Ha nuotato a lungo, il mio Alëša: dai pezzi per la rivistina V mire knig (Nel mondo dei libri) all'incarico da corrispondente per l’ITAR-TASS a Roma. E non ha nemmeno sotterrato il suo talento letterario: ha pubblicato una raccolta di poesia somala e, da apionato puškinista, ha scritto un libro sull’Arabo di Pietro il Grande, l’abissino Hannibal bisnonno di Puškin, e di recente anche un Puškin italiano. Note di un giornalista.
…Il battito si è fatto più regolare. O così sembra. Stanno imbarcando.
Il caro Marra resta al mio fianco anche a distanza e a migliaia di metri d’altezza: di tanto in tanto, per convincersi che ancora respiro, il pilota viene a sedersi accanto a me - è per sgranchirsi le gambe, dice.
All’aeroporto di Milano mi aspettano in quattro, angosciati e disorientati (il telex di Luigi diceva “è partita”, mentre le notizie ufficiali confermavano che tutti i voli erano stati cancellati): Emy Moresco, Ugo Giussani con Ioachim Schmidt, e Leda Vismara.
Iniziava una nuova vita.
Non subito, piano piano, mi tornò anche il fiato.
Milano, 2004
Risposte ad alcune domande dei lettori
1.
Domanda – Il vecchio pettegolezzo che la vuole prototipo di Maria in Per chi suona la campana di Hemingway è duro a morire. A mezzo secolo di distanza, nel 1996, Marcello Venturi lo ripete in Via Gor’kij 8, interno 106, e dopo un altro decennio, nel 2005, Sergej Nikitin lo cita nella postfazione all’ennesima ristampa del Corso pratico di lingua italiana di Ju.A. Dobrovolskaja. Può fare chiarezza al riguardo e dirci se è una voce a cui prestar fede?
Risposta – Volentieri. È inventata di sana pianta, come altre leggende sul mio conto. Sapesse quante ne hanno dette! Che non vedevo l’ora di arrivare in Italia per iscrivermi al PCI, il Partito Comunista Italiano, che ero un’agente del KGB, che un pilota venuto a trovarmi nel lager di Chovrino per chiedere la mia mano volava e rivolava sopra il lager. Quest’ultima fandonia, una paraš”, un “bugliolo” per usare il gergo del lager, si è arricchita man mano di dettagli romantici.
Prima o poi venivo a saperle, quelle storie, e le reazioni possibili erano due: ridere o piangere. Ho preferito (e continuo a preferilo a tutt’oggi) fare finta di niente.
Tra l'altro, ho anche provato a ridurli alla ragione, il sognatore Venturi e il baldo Nikitin, ma non c’è stato verso: hanno preferito il fascino della leggenda. Contro ogni buon senso, per di più, dato che io sono stata in Spagna verso la fine della guerra (nel 1938-39), mentre Hemingway vi era stato prima.
2.
Domanda – In che modo, italianista novella, riusciva a procurarsi libri italiani nonostante la cortina di ferro?
Risposta – Alle origini della mia biblioteca italiana c’è, purtroppo, una disgrazia altrui. Si era alla fine degli anni Quaranta. Mi chiamò un conoscente per dirmi di prendere tutti i soldi che avevo, di chiederne altri ai vicini e di correre in via Gor’kij 10, all’hotel Lux.
– Chiedi della signora... (e mi fece un nome italiano). Vende dei libri.
All’hotel Lux, l’albergo del Komintern, vivevano i rifugiati politici, quei comunisti che poi – inesorabilmente – il KGB spediva in galera. Sorte analoga era capitata anche al marito della mia italiana.
Mi stava aspettando. Sul tavolo c’erano pile di libri sciupati, letti e riletti più volte: Dante, Manzoni, Pinocchio, Cuore, ma anche letture amene come i romanzi di Pitigrilli. E c’erano anche due ragazzini, rintanati in un angolo del letto: una bimbetta pallida e un maschio con qualche anno in più. Che squallore, che miseria...
Svuotai il portafogli, raccolsi i libri, abbracciai quella povera donna e mi trascinai a casa. Che ne è stato di loro? La poveretta avrà fatto la stessa fine del marito? E i ragazzi? A loro sarebbe toccato l'orfanotrofio per i figli dei nemici del popolo... Ultimamente, tra l’altro, questa pagina ingloriosa del comunismo internazionale gode di rinnovato interesse, con libri e articoli di giornale sulle centinaia di antifascisti italiani che invece del paradiso trovarono l’inferno.
Non si potevano ricevere libri per posta, dall’Italia. O me li portavano direttamente gli autori, oppure trovavano qualcuno che me li recapitasse. Prima di venire a Mosca, Paolo Grassi ava al negozio Einaudi di Via Manzoni, a Milano, dall’amico libraio Aldrovandi, perdeva un’ora e più a scegliere le pagine da cui non potevo prescindere (e lui ne sapeva, di libri!) e – approfittando del suo status di VIP – mi portava decine e decine di volumi. E ogni volta insisteva che lo aprissi di fronte a lui, il pacco, per godersi la mia gioia. Ho stampato in mente il giorno in cui trovai la raccolta del Politecnico di Vittorini. Che festa! Ho già detto di quando dovetti separarmi da quel mio patrimonio.
Non lo augurerei al mio peggior nemico. Voglio solo sperare che quei libri, con le mie note a margine, le mie sottolineature, i miei punti interrogativi ed esclamativi (pensavo che sarebbero stati miei per sempre), siano sani e salvi, e che ci sia qualcuno che ancora li legge.
3.
Domanda – Ha mai conosciuto Solženicyn?
Risposta – Di sfuggita. Quella sera al Conservatorio di Mosca eseguivano una nuova sinfonia di Šostakovič su testi di poeti si. Accomodandoci ai nostri posti di quinta fila, io e mio marito Semën scoprimmo di avere accanto un diplomatico che conoscevamo, il primo segretario dell’ambasciata messicana. Mentre lui e Semën si scambiavano le frasi di circostanza, vidi che in quarta fila Solženicyn e la (prima) moglie stavano raggiungendo i loro posti. Lui si sedette di fronte a me, lei alla sua destra. Il cuore cominciò a battermi all’impazzata, ma mi scoprii a pensare che, forse, era solamente qualcuno che gli somigliava. “Ma no, è proprio lui”, conclusi. In splendida forma, bel colorito, occhi limpidi, elegante... “...Magari mi sbaglio... La BBC, Radio Liberty, La voce dell’America
ripetono in continuazione che Solženicyn non ha più una casa e vive ospite di Rostropovič nella sua dacia di Žukovka, nella dependance dell’autista; dicono che non si azzarda a uscire, che è in clausura...”. Semën colse il mio sguardo, si animò e mi fece un cenno col capo: “È lui, sì..” Quel nostro dialogo muto non sfuggì al messicano, che però trasse una conclusione diversa. No, non poteva essere lui, Solženicyn non si mostrava mai in pubblico... Ascoltai distrattamente la sinfonia di Šostakovič. Attesi a fatica la fine della prima parte, e quando Solženicyn si alzò, proclamai: “Aleksandr Isaevič, siamo davvero felici che sia con noi, questa sera!”. “E lei sarebbe?” si interessò lui, pragmatico. “Traduco letteratura italiana, mi chiamo Julia Dobrovolskaja”. “Che fortuna!”, disse e tirò fuori un taccuino. “Ho traduttori dall’inglese, dal se e dal tedesco, ma non ho nessuno per l’italiano. Mi dia il suo telefono!”.
Gli dettai il mio numero e ci salutammo con una stretta di mano.
Solženicyn si girò, fece per raggiungere il corridoio dove già l’attendeva Šostakovič, ma venne nuovamente fermato da una signora col viso simpatico che sedeva di fronte a lui, in terza fila. “Aleksandr Isaevič, che gioia averla con noi!” “Lei sarebbe?” “Nadežda Porudominskaja, giornalista” (all’epoca non ci conoscevamo ancora).
I primi che incontrammo nel foyer furono Vitja Gol’danskij e Mila. “Sapete chi c’è stasera? Solženicyn!” “Cosa ti inventi, non può essere!” mi redarguì, molto sicuro di sé, il futuro accademico, che poi andò a verificare di persona e appurò che Solženicyn era nell’ufficio del direttore insieme a Šostakovič. In un attimo la notizia fece il giro del conservatorio. Quando l’intervallo finì, l’ingresso in sala dello scrittore proibito venne accolto da uno scroscio di applausi. Ormai scoperto, a concerto finito Solženicyn si sedette al tavolo in fondo al foyer per firmare autografi.
4.
Domanda – Cosa c’è dietro alla frase su Carlo Benedetti: “in seguito si sarebbe comportato come un coniglio di fronte a un boa”? (nel capitolo Il violino di Nina Bejlina)
Risposta – Parto da molto lontano. Dopo l’ennesimo aggio per la Segreteria dell’Unione scrittori, Bonchio e Garritano – rispettivamente direttore e vicedirettore di Editori Riuniti – mi pregarono “da compagni a compagna” di fugare i loro dubbi riguardo ai libri che si sentivano raccomandare. “È ‘letteratura da segreteria’, sono gli scritti tirati in milioni di copie dei segretari dell’Unione degli scrittori dell’URSS”, spiegai loro. “Cosa facciamo, allora? Aiutaci tu!” Stilai una lista degli ultimi libri degli autori di Novyj mir, la rivista letteraria più aperta, all’epoca. Da quel giorno Bonchio e Garritano presero l’abitudine di fare sempre un salto a casa mia, in via Gor’kij, di ritorno dall’Unione scrittori.
Tra parentesi. Un giorno Bonchio mi telefonò dall’hotel Nacional: “Stavo per venire da te, ma non mi fanno uscire dall’albergo. Non è che eresti tu?” Dopo lunghe, umilianti trattative con l’usciere e la responsabile al piano – e scortata da quest’ultima – arrivai finalmente alla stanza di Bonchio. Quando ebbe verificato che lo straniero – orrore! - mi stava aspettando e la porta della sua stanza era spalancata, la responsabile batté malvolentieri in ritirata.
Bonchio mi trascinò sul balcone: “Che diavolo sta succedendo?”.
La piazza del Maneggio era invasa da una folla nera, una folla fitta e densa di uomini vestiti di nero. E circondati dalla polizia.
“Chi è questa gente?” mi chiedeva l’allarmato Bonchio.
Non lo sapevo. Lo scoprii quella notte ascoltando Golos Ameriki, La Voce dell’A-merica: erano i tedeschi del Volga che cercavano di ottenere l’autorizzazione a emigrare in Germania.
Da tempo Bonchio e Garritano volevano conoscere Lilja Brik. “Il mio Majakovskij è vostro, ma a condizione che lo traduca Julia!” dichiarò Lilja in un tono che non ammetteva repliche. A replicare fui io. “Lilja cara, i traduttori sovietici non sono autorizzati a collaborare con gli editori stranieri”. “E allora non se ne fa niente”, tagliò corto lei. A trovare una via d’uscita fu l’allora corrispondente dell’Unità Carlo Benedetti, che accompagnava i due ospiti. “Ho un’idea. Suddividiamo il testo in parti, io mi invento una domanda per ogni sezione e la facciamo are per un’intervista destinata alla stampa estera. E le interviste si possono tradurre!”.
Così fu deciso. Carlo cominciò a venire a casa mia armato di macchina da scrivere (la mia aveva i caratteri cirillici, e con i caratteri latini non se ne vendevano), io gli dettavo la traduzione, lui la limava, il lavoro procedeva. A un certo punto, più o meno a metà dell’opera, Carlo sparì. Non era mai in casa, non rispondeva al telefono.
Il tempo ava, Bonchio telefonava a me, sollecitava, ma i materiali li aveva Carlo e Carlo era scomparso. Alla fine Bonchio perse la pazienza, salì su un aereo, si presentò a Mosca, stanò Carlo e la traduzione fu finita. Quando il libro uscì, Carlo portò a Lilja, a Peredelkino, le copie che le spettavano.
Dopo essersi rotta il femore, Lilja era praticamente allettata. Due mesi prima aveva confessato di non aver mai atteso un libro con tanta impazienza: – Aspetterò che esca l’edizione italiana e poi basta!
Mi sembrò strana, quella frase: – Basta che cosa? –” le chiesi, ottusa. Ma lei fu brava a cambiare discorso. Ora, finalmente, l’aveva in mano, il suo Con Majakovskij.
– Prenditi un taxi, festeggiamo! – mi disse Vasilij Abgarovič che erano quasi le dieci di sera. Carlo era al capezzale di Lilja. Vasja riempì i calici e anche Lilja bagnò le labbra. Era raggiante. In macchina, sulla via del ritorno, non mi trattenni da fare a Carlo una domanda che di certo si aspettava.
– Adesso me lo spieghi cosa diavolo è successo?
– Ero fra l’incudine e il martello. Il Comitato Centrale del PCUS mi aveva vietato di occuparmi del libro...
Di lì a qualche giorno Lilja prese undici pastiglie di barbiturici.
Nel biglietto che lasciò chiese che le sue ceneri fossero sparse in un campo. Vasilij Abgarovič ne scelse uno vicino a Zvenigorod. Là, al margine del bosco, ora c’è un masso che ignoti ammiratori di Lilja hanno portato con un trattore. Per tutta la vita Lilja è stata o adorata e portata in palmo di mano, oppure odiata e diffamata. È così, pare, a tutt’oggi, che su di lei continuano a scrivere libri su libri...
5.
Domanda – Lei ha voluto molto bene alla sua amica Viktoria Ivanova, lo si
sente. Ci parli un po’ di lei. Come vi siete conosciute?
Risposta – Viktoria Ivanova era la Maria Callas del canto da camera.
Nei tanti anni in cui fu una semplice solista della Filarmonica di Mosca, doveva produrre il dovuto come un tornitore in fabbrica: un tot di concerti al mese in città e campagna, in centri di vacanze sindacali e nei dopolavoro delle fabbriche. Belocerkovskij, il direttore della filarmonica, ostacolava la sua carriera: raffinata com’era e con quel suo naso aquilino sospettava che fosse ebrea... Perché qualcosa si muovesse e Viktoria diventasse artista emerita ci volle un’epidemia di colera in Crimea.
Quell’estate il marito Jura – Jurij Petrovič Matusov – riuscì ad avere quattro posti nel Centro creativo per scrittori di Koktebel’: per sé, per Viktoria, per la figlia Katja e - il quarto -per uno zio di Viktoria, il simpaticissimo zio Žeka. Del colera, com’è ovvio, le autorità non facevano parola (e Černobyl’ vi spiega che poco è cambiato, da allora).
Il povero Zio Žeka andò a farsi il bagno, mandò giù un bel sorso d’acqua di mare, si infettò e morì. Gli ospiti del Centro furono trasferiti tutti quanti all’ospedale di Sinferopoli per la quarantena. Dove trovarono anche Belocerkovskij.
I quaranta giorni a stretto contatto con Viktoria non arono invano, anche lui ne restò ammaliato.
– Sono proprio una balena! – scuoteva la testa guardandosi allo specchio la mia amica Viktoria. Era spietata con se stessa e con quel suo corpo a colonna, ma
era anche consapevole del proprio fascino.
La gente impazziva a sentirla cantare, e posso dirlo per esperienza diretta.
Aveva una voce unica, argentina; di suo ci metteva una grande maestria nell’usarla per narrare di cose serie e facete, tristi e felici con sentimento, ponderazione, ilarità, civetteria, severità, furbizia... Il suo era un virtuosismo raggiunto a costo di un lavoro certosino. C’era, poi, la sua splendida femminilità: occhi azzurri radiosi, pelle di un candore accecante, risata argentina, sorriso disarmante. E come sapeva raccontare... Non posso dimenticare la descrizione di un suo “normalissimo concerto”, di come aveva conquistato un pubblico di donne con i fazzoletti in testa e uomini mezzi brilli raccontando di un vecchio musicista sordo di nome Beethoven che aveva composto, e adesso gliene avrebbe cantata una, anche alcuni canzoni decisamente allegre...
– Ancora, ancora! – le gridavano dalla sala, entusiasti,. Da dietro le quinte, però, l’amministratore allungava un braccio mostrandole l’orologio: “Guardi che perde il treno”...
Lei salì su un autobus gelido e via, su una strada tutta buche. Il binario era deserto, seduto su una panchina c’era un vecchio con indosso un tulup e in mano un thermos di tè. Viktoria tirò fuori dalla borsa una tazza di plastica che portava sempre con sé, si avvicinò e gliene chiese un sorso. Il viaggio di ritorno sarebbe durato cinque ore e più.
Grazie alla radio tutta la Russia poté conoscerla e amarla. Quanto ai recital, gliene concedevano uno solo all’anno nella sala minore del Conservatorio. Con che impazienza lo aspettavamo! Chiamava sempre me perché avere lumi su cosa mettere.
Era un bel problema. L’abito da concerto è un ferro del mestiere, deve essere comodo, deve stare bene e – se possibile – deve anche mascherare la ciccia in più. In uno dei primi pacchi che le mandai da Milano misi un taglio di velluto liscio blu per un caftano senza maniche. Ho poi saputo che lo indossò spesso nei suoi concerti.
A Viktoria Dio concesse tanto talento, ma poca - pochissima - felicità. Dopo un’opera-zione al cervello, a sedici anni la figlia Katja si ritrovò disabile (schizofrenia). Aveva la voce della madre, e già avevano cantato in duetto alla radio. Quella disgrazia segnò Jurij, che morì prematuramente per un improvviso, fulmineo, infarto.
“Non so che fare” mi disse un giorno Viktoria. “I capelli lunghi sono un problema per Katja, all’ospedale. Bisognerebbe tagliarglieli, ma come?”.
“Glieli taglio io, scusa!” esclamai felice. Ormai avevo una certa esperienza nel ramo. Siccome in Occidente si usavano i capelli lunghi, i figli grandicelli delle mie amiche si rifiutavano di andare dal parrucchiere a farsi “rapare”. Riuscivo a convincere i recalcitranti con un cespuglio in testa a venire da me: loro si lavavano i capelli nel lavandino e io – prima con le forbici e poi con un rasoio apposito – facevo loro un bel taglio (un’idea che, tra l’altro, piacque a Lev Razgon, che diventò mio cliente abituale).
Ed eccoci, dunque, Viktoria, Katja e io, sotto lo sguardo vigile del donnoneinserviente, nel grande bagno scuro del lugubre ospedale.
– Zia Julia, fammeli corti, che ogni capello è uno spirito maligno... – mi disse Katja in tutta tranquillità.
– Cosa stai a discorrere, tu! E voi sbrigatevi, che non è mica vostro, il bagno! – sbottò l’inserviente.
Con le mani che mi tremavano tagliavo quegli “spiriti maligni” e piangevo, mentre Viktoria, ormai abituata a tutto, ripeteva compiaciuta:
– Ah sì, è stata proprio un'ottima idea...
...
Come ci siamo conosciute? Io e Jurij eravamo amici già da bambini: i Matusov erano amici di famiglia dei miei dai tempi di Nižnij Novgorod, vivevamo nella stessa casa di vicolo dei Falegnami. Poi non ci vedemmo per un bel po’: noi trasferiti a Leningrado, loro a Mosca. Il padre di Jurij, lo stimatissimo e adoratissimo dottor Pëtr Michajlovič Matusov, era medico militare nell’ospedale di Lefortovo.
Dove aveva un collega: Nikolaj Ivanov, padre della paffutella e canterina IječkaViktoria, che sposò il compagno di scuola Jurij. Ci ritrovammo a Mosca dopo la guerra. Da allora, e fino alla mia partenza per l’Italia, io e Viktoria siamo state molto vicine, necessarie l’una all’altra. Il distacco fu doloroso.
6.
Domanda – Aveva promesso di scrivere di Alberto Moravia. Che persona era?
Risposta – Di un’intelligenza acutissima, un lettore accanito, ne sapeva di qualunque argo-mento. Non si perdeva una sola traduzione dal russo, in particolare i libri di memorie dei transfughi sovietici, compreso Ho scelto la libertà di Kravčenko. Era un uomo asciutto, razionale, come asciutta e razionale era la sua prosa. Un viaggiatore indomito e un cammina-tore instancabile, nonostante la zoppìa dovuta ad anni e anni di tubercolosi ossea. Trascinava svelto la sua gamba claudicante e si scapicollava ovunque, altro che camminare!
Era piuttosto tirchio. E con l’avarizia mi spiego, in parte, la sua prontezza nell’accettare l’invito a un Congresso degli scrittori sovietici. In quel periodo aveva in mente di visitare la Mongolia per trovare la location giusta di un suo film.
L’Unione scrittori gli avrebbe fatto risparmiare i soldi del viaggio.
In quanto sua traduttrice, dovevo fargli da balia. Moravia venne a Mosca con Andrea Andermann, un cameraman giovane e spigliato. Uomo di mondo, capì in un attimo, già all’aeroporto di Šeremet’evo, che dalle nostre parti le cose andavano in un certo modo tutto e non mi mollò più. Al Congresso individuai un mongolo grande e grosso, mi presentai e gli presentai Moravia. Risultò essere il presidente dell’Unione scrittori della Mongolia. In men che non si dica ebbe l’OK dei suoi superiori per invitare il capofila della letteratura italiana progressista, colui che era noto in tutti i paesi fratelli quale critico spietato della corrottissima borghesia occidentale.
Ospiti d’onore e dunque spesati di tutto, Moravia e Andermann furono invitati a Ulan-Bator. La soddisfazione venne incrinata, anche se di poco, dalla notizia che
al congresso Moravia non avrebbe potuto restarsene con le mani in mano; gli chiedevano di prendere la parola e di sottoporre il giorno prima il suo discorso per iscritto.
– E questa cosa sarebbe? Censura? – ribatté Moravia aggrottando i cespugli che aveva al posto delle sopracciglia. E per quanto parve credere che il testo servisse agli interpreti, cercò comunque di tirarsi indietro: – Non ho neppure la macchina per scrivere…
– Le presto la mia – insistetti io, chissà perché. Cedette, ma continuò a bofonchiare:
– Come faccio a sapere oggi cosa dirò domani! E se poi domani mi venissero altre idee? È assurdo!
Quel giorno Jurij Trifonov ci invitò a colazione da lui, in via Pesčanaja. Era vedovo, a sfaccendare per casa c’era la mia allieva Lena Moločkovskaja e il companatico l’aveva preso il giorno prima al Circolo dei letterati.
L’ospite fu attirato da un’edizione ingiallita del 1919 di un opuscolo di Freud sulla scrivania del padrone di casa.
– Uno scrittore sovietico che legge Freud? – si stupì piacevolmente Moravia.
– Uno scrittore non può prescindere da Freud – rispose Trifonov, ammettendo con ciò il proprio anticonformismo. I due si piacquero e arrivarono al congresso
di ottimo umore. All’ingresso in sala, però, ci si parò davanti il presidente della Commissione esteri dell’Unione scrittori, Fedorenko. Benché con un ato da diplomatico, fece una gaffe marchiana:
– Non condivido affatto quel che dirà.
– Ah-ha! Non sbalgliavo, è proprio censura! – fu il ghigno di Moravia.
Più tardi, invece, durante il ricevimento ufficiale al Cremlino, nel clamore generale, alcuni scrittori – in cuor loro tutt’altro che allineati – lo avvicinarono e gli bisbigliarono il proprio grazie per aver citato il “sottosuolo” di Dostoevskij (il subconscio!), Freud – “che aveva illuminato con la ragione il buio dell’animo umano” –, e Kafka – “che meglio di chiunque altro ha mostrato la geografia della vita interiore dell’uomo” (così aveva detto Moravia nel suo discorso al Congresso).
Al ricevimento ci fu un mezzo scandalo. La sala di san Giorgio era gremita quando entrammo. Dal tavolo d’onore Fedorenko si agitava, ci faceva segno di raggiungerlo, ma a pochi i dalla meta Moravia venne afferrato da alcuni marcantoni in borghese, i gorilla del pezzo grosso che troneggiava al centro del tavolo.
– Ma che fate! È Moravia! – urlò Fedorenko. Divincolatosi a fatica, trascinando più del solito la sua gamba zoppa, l’ospite d’onore si aprì un varco verso di me tra la folla che lavorava di ganasce.
Per vendicarsi del suo discorso poco politically correct, i compagni sovietici gli fecero anche un altro sgambetto. Moravia voleva scrivere di Specchio, il film di
Tarkovskij che aveva fatto scalpore. Gli era stata promessa una proiezione, ma all’ultimo momento, con una scusa fasulla, gli rifilarono dei cartoni animati giapponesi...
– Lo sapevo che mi fregavano! – brontolò Moravia trascinando via me e Andermann, stremati da lunghe ore di attesa, dalla sala del Comitato per la cinematografia. – Aria! Aria fresca!
Del film italo-mongolo, ahimé, non si fece nulla. A puntare i piedi fu la parte mongola; non gradirono gli articoli che Moravia scrisse sul suo viaggio in Mongolia per il Corriere della sera.
Ebbi anch’io il mio piccolo smacco.
– Ah no, questo no! – squillò la voce, solitamente sorda, di Moravia alla mia preghiera di parlare con l’ex moglie Elsa Morante. Li sapevo in cordiali rapporti di amicizia e ci avevo sperato. Avrei voluto tradurre Una storia, ma la Morante avrebbe dovuto autorizzarci a tagliare la cronologia degli eventi che apriva ogni capitolo, in quanto le sue formule, com’è ovvio, dissentivano con le sovietiche. Elsa Morante, invece, salvò la faccia: rispose alle edizioni Progress che avrebbe “atteso il giorno in cui, in URSS, i libri sarebbero potuti uscire senza tagli”.
Moravia ce l’aveva con me perché, nonostante le sue insistenze, mi ostinavo a non voler tradurre il suo Il conformista, impubblicabile perché violava una serie infinita di tabù sovietici. Anche una persona perspicace e informata come lui non riusciva a comprendere fino in fondo il meccanismo dell’assurda realtà sovietica.
Insomma, non si può dire che andasse tutto liscio. A smussare gli angoli ci pensò
una Serata di poesia al Parco Gor’kij. Moravia non riusciva a credere che migliaia di persone si fossero ritrovate per ascoltare dei versi. Poesie recitate da poeti... Fu una pagina straordinaria di una storia - la nostra - sciagurata. Il pubblico era eterogeneo, c’erano molti giovani, una marea di gente emozionata e concentrata nell’attesa di un momento che presentiva felice. Ed era un pubblico ferrato: quando Okudžava dimenticava le parole, gliele suggerivano da ogni dove, dalla quinta, dalla venticinquesima e anche dalla cinquantesima fila. Sul palco si alternavano gli idoli di allora: Voznesenskij, la Achmadulina, Evtušenko (che salvava con la splendida recitazione poesie che non erano gran cosa)... L’arido Moravia per poco non si sciolse in lacrime:
– Se lo racconto a Roma, non ci crede nessuno...
Domanda – Mi perdoni l’insistenza. Ha appena detto che non possedeva una macchina da scrivere con i caratteri latini. Che cosa prestò a Moravia?
Risposta – È vero, non ce l’ho avuta per anni. Dopo di che è comparsa come pagamento “in natura”. La traduzione dell’“intervista” di Lilja Brik Editori riuniti non me la retribuì in lire
– Dio scame i sovietici dallo sfiorare valuta straniera! –, ma con una fulgida Contessa rossa di produzione olandese. A loro è convenuto e per me è stato un dono impagabile, uno strumento di lavoro prezioso.
7.
Domanda – Sappiamo che è stata più volte ospite della radio italiana.
E della televisione?
Risposta – È capitato... Un paio di volte.
1. Il quiz.
“Vuole guadagnare seicentomila lire in dodici minuti?”, mi chiesero da un’agenzia di traduzioni di Milano. Erano metà del mio stipendio mensile come lettrice universitaria. Accettai. C’era di mezzo Mike Bongiorno, il decano dei presentatori italiani.
Aveva voluto ospiti del suo telequiz due astronauti sovietici in orbita intorno alla Terra, dunque serviva qualcuno che traducesse.
I due giovani erano ben felici di svagarsi. Sentita la domanda del quiz (la risposta doveva essere “spazzolino da denti”), i due astronauti si scambiarono sguardi perplessi. Quando Mike capì di aver fallito lo scoop – la vittoria dei cosmonauti sarebbe stata un colpaccio! – consegnò in fretta e furia il premio al vincitore e, da vero professionista, prese la palla al balzo e continuò:
– Ma voi li avete, gli spazzolini? Mostrateceli! – e due eterei spazzolini da denti galleggiarono nello schermo.
– La vedete, l’Italia, da lassù?
– Ma certo! Quello è l’Etna!
E via di questo o per una mezz’ora. Gli astronauti stettero al gioco tra l’entusiasmo del pubblico in studio.
Gli snob si fanno beffe di Mike Bongiorno, lo considerano un sempliciotto, ma lui a ottantanni e a è ancora in gambissima.
2. Incatenata alla pellicola.
Poeta, editore di una raccolta poetica d’avanguardia e persona assai bizzarra, Gianni Toti non poteva non andare a genio a Lilja Brik. Che gli fece un regalo: un frammento di pellicola di un minuto e mezzo, quanto si era salvato dall’incendio del film Incatenata alla pellicola, sull’amore di un artista (interpretato da Majakovskij) per una ballerina stella del cinema (Lilja in tutù).
Io e Gianni ci conoscemmo in casa di Lilja e Vasja, sul Kutuzovksij prospekt.
Anni dopo mi chiamò a Milano, da Roma:
– Domani comincio a girare il filmato elettronico di Incatenata alla pellicola per la RAI TV di Milano. Il prologo sarà quel che tu racconterai di Lilja. Ti aspetto per le nove.
Ero abituata alle stramberie di Gianni, ma quella volta era troppo.
Dov’erano il contratto, la sceneggiatura? Tagliò corto:
–Non ci sono né l’uno né l’altra. Ripeti quel che hai raccontato a me di Lilja e racconta dei suoi ultimi giorni!
La logica avrebbe voluto che dessi una sonora strigliata a quel pressapochista, che rifiutassi. Ma non potevo voltare le spalle a Lilja. Del cast facevano parte anche Alessandro Gassman e una simpatica ballerina italo-americana. Il prologo consisteva in sei minuti di mia improvvisazione. La scena era una stanza con alcune file di sedie che dovevano rappresentare un cinema; io e “MajakovskijGassman” eravamo seduti nell’ultima fila, spalle allo schermo e a una gigantografia del masso con le date di nascita e di morte di Lilja.
Per quella sua versione elettronica di Incatenata alla pellicola, in cui il minuto e mezzo dell’originale si amplia fin quasi a diventare un lungometraggio, Gianni Toti ha vinto un’infinità di premi internazionali.
Vidi il film al Festival di Bologna, odiai la strega che ero sullo schermo – una vera babajagà! – e voltai pagina. Più avanti Inna Genc, critico cinematografico e vedova di Vasilij Katanjan- junior, mi mise in contatto con il Museo Majakovskij di Mosca, che stava cercando di procurarsi il film di Toti. Non so se l’abbiano mai rintracciato. Toti non è più ricomparso al mio orizzonte.
8.
Domanda – Nelle sue memorie lei cita il celebre scultore italiano Giacomo Manzù. Cosa ricorda di lui?
Risposta – A differenza dal suo collega Messina, il bergamasco Manzù tarchiato e massiccio - amava dire pane al pane e vino al vino.
– Lei ha creato sculture straordinarie per molti paesi, ma non ha mai preso in considerazione il nostro! – lo rimproverò la Furceva, ministro della Cultura dell’URSS, a un pranzo in suo onore al Cremlino.
– Difatti! – prese la palla al balzo Manzù. – Sarebbe ora che anche voi dedicaste un monumento ai partigiani! (il bassorilievo “La morte del partigiano”, sul portale di San Pietro, è opera sua).
– Ottima idea! E lei è la persona adatta. Ma a una condizione: che la scultura sia comprensibile alla gente.
– La solita solfa alla Ždanov! – si infuriò il maestro battendo il pugno sul tavolo. La moglie Inge si irrigidì. Il grande critico d’arte Brandi, che li accompagnava, cercò di rimediare con una battuta.
Tra l’altro, la “solfa” non era di Ždanov, ma di Lenin, che citava una frase di Clara Zetkin travisata (forse intenzionalmente) dal traduttore: “l’arte dev’essere compresa dal popolo”, scriveva la “madre fondatrice” tedesca. Sia come sia, la questione del monumento al partigiano sovietico non venne più sollevata.
Il giorno seguente ci aspettava una visita importante a Zagorsk.
Un ormai placato Manzù (Inge e Brandi avevano avuto buon gioco) si lagnò:
– Chi l’avrebbe mai detto? Arrivo nella rossa Mosca e finisco in braccio ai popi! L’abbraccio caloroso del patriarcato di Mosca si spiegava facilmente: in Giacomo Manzù, rinascimentale sanguigno che non credeva né in Dio né nel diavolo, vedevano soltanto il creatore di ritratti scultorei di cardinali e di bassorilievi in bronzo come Adamo ed Eva, Davide, la Crocefissone di Cristo...
A Zagorsk la giornata ebbe inizio con la colazione nella foresteria del monastero (serviti dalle monache). Seguì una visita al museo, dove ci raggiunse il pittore Il’ja Glazunov, che all’epoca si spacciava per non conformista perseguitato e che, aprendosi un varco nelle barricate del ministero, riuscì a presentarsi a Manzù. Il culmine della giornata fu il pranzo offerto dagli alti gradi del monastero nel refettorio dell’Accademia di teologia. Il menù era lo stesso del giorno prima al Cremlino, si mangiava anche lì come al Comitato centrale. Ricordo che, salendo verso il refettorio, Manzù notò che il vano delle scale era chiuso con del filo di ferro. Avevano paura che i seminaristi si suicidassero?, chiese. Altrimenti perché quelle recinzioni?
Le mostre di Manzù al museo Puškin e all’Ermitage attirarono folle immense di italofili. Per quanto abituato agli onori, il maestro si commosse: non aveva mai visto nulla di simile. Al vernissage moscovita, per preservare il suo virginale candore sovietico la Furceva avrebbe voluto saltare a pié pari la sala degli Amanti. Riuscirono a farle capire che “non c’era nulla di sconcio”, lì dentro, e che gli amanti in lega di bronzo e argento erano perfettamente vestiti.
Accondiscese. E Manzù si fece una risata.
Durante le mie “vacanze romane” del 1980, Manzù mi invitò ad Ardea (a meno di un’ora di macchina da Roma); voleva vedermi, ma desiderava anche mostrarmi il suo futuro museo. Sculture, disegni, gioielli, medaglie, incisioni, scenografie... Non sapevo dove guar-dare!
Trovai un Manzù abbacchiato, sotto tono. Ne aveva ate troppe: aveva perso il figlio di primo letto in un incidente d’auto, Inge l’aveva lasciato e aveva portato i bambini con sé, in Germania.
Dopo un bicchiere di vino si abbandonò ai ricordi. Ripensò al giorno in cui l’aveva vista per la prima volta a una lezione di danza in cui era andato per degli schizzi, mi disse di come lei aveva sopraffatto le compagne, tutte innamorate perse dell’artista italiano, di quanto fosse stato difficile e splendido il loro amore.
Post Scriptum. Due colleghi si sono scornati su un saggio di Brandi: l’introduzione al catalogo della mostra russa di Manzù. Intraducibile, fu il verdetto. Sostenendo da sempre che non esistano testi intraducibili, non potei sottrarmi alla sfida. Imbrattai tonnellate di carta, il cervello mi fumava, ma alla fine qualcosa partorii. È stata la mia prima esperienza di traduzione di testi di critica d’arte contemporanea. Posso solo consigliare ai colleghi più giovani di evitarli come la peste.
9.
Domanda – In Occidente ha mai incontrato qualche otkaznik allievo di sua madre?
Risposta – Ne ricordo due. Uno venne da New York. Mi telefonò annunciandomi con estrema precisione ora e durata della visita:
– Resterò giusto qualche ora a Milano, mi aspettano per lavoro in Spagna, a Barcellona. Un po’ più in carne, una zazzera di capelli un tempo fulvi e ora canuti. Scartai a lungo il suo regalo: una tazzina da caffè con un monogramma: una B russa [la V latina].
– L’ho comprata al negozio di porcellane di fronte a casa di sua madre Vera!
Ce l’ho ancora, con tanto di piattino. Ma confesso – e mi dispiace – di non ricordare il nome di chi me la donò.
Il secondo incontro non è stato a quattr’occhi. I tramiti sono stati Lev Razgon – che quell’anno, prima di venire da me a Milano, era stato in Israele – e una traduttrice moscovita di mezza età. A cena a casa di amici comuni, chiese a Lev se non conoscesse una certa Julia Dobrovolskaja. Quando scoprì che mi conosceva eccome, la signora esclamò:
– La ringrazi tanto da parte mia!
Per che cosa? Da poco a Gerusalemme, a colloquio con l’impiegato del ministero per l’Immigrazione lo supplicava di darle, a lei che era sola, un alloggio in centro, vicina ad amici e conoscenti, e non in periferia come si faceva con i nuovi arrivati. L’impiegato ci pensò su un bel po’, dopo di che le chiese:
– La conosce, Julia Dobrovolskaja?
– Certo.. – rispose. Ed ebbe il suo appartamentino in centro.
10.
*Domanda – A lei piace regalare trame di “novelle psicologiche”. Ne avrebbe una anche per me?
Risposta – Chi fra noi non ha letto e riletto Il tafano della Voinich! È stato il livre de chevet della nostra adolescenza, un’iniezione di romanticismo rivoluzionario. L’azione si svolge in Italia, il periodo è l’Ottocento, il protagonista un carbonaro chiamato Tafano, giornalista della clandestinità che per pungiglione ha la penna con cui fa a pezzi gli odiati occupanti austriaci. Nel finale, in prigione, Tafano condannato a morte riceve la visita del padre segreto, il potentissimo cardinal Montanelli. Che però non ha cuore a sufficienza per usare il suo potere e salvare il figlio. Tafano viene dunque giustiziato con il suo tacito benestare.
Di tutti i lettori del Corriere della sera, quel giorno ero forse l’unica a ricordare questa storia, che poi è il prologo alla confessione che, poco prima di spegnersi, il principe del giornalismo italiano contemporaneo – Indro Montanelli – fece a un amico giornalista, Stenio Solinas. Penso di essere stata l’unica a cogliere il senso del lungo articolo, un’intera pagina, in cui Solinas riportava la confessione dell’amico defunto.
Che è poi questa. Anni Trenta del secolo scorso, Londra, un pub come tanti. Al giornalista italiano presentano una bella ragazza.
“Montanelli”, si presenta lui. “Daisy...” sussurra lei dopo qualche indugio, poi lo prende per mano e, tra lo stupore generale, lo porta via. A casa sua lo fa accomodare in poltrona, si siede di fronte a lui e gli legge Il tafano, romanzo della scrittrice inglese Ethel Lilian Voinich. La lettura si protrae fino a ben oltre la mezzanotte.
Daisy reagì a quel modo alla coincidenza: il giornalista italiano protagonista del libro che aveva appena letto si chiamava anche lui Montanelli. Se avesse sospettato che anche Indro Montanelli aveva la stessa irresistibile grinta di Tafano...
L’anno seguente Daisy arrivò a Roma con un neonato. Uomo integerrimo, Indro lo riconobbe. Ma non ci fu un seguito: Daisy ripartì senza lasciargli né una lettera, né un indirizzo. E Indro non la ritrovò più.
Negli ultimi anni di vita Montanelli era sempre più tormentato dall’idea di somigliare al suo omonimo, il cardinale del romanzo della Voinich: anche lui aveva tradito suo figlio.
11.
Domanda – Quali sono state – se ci sono state – le reazioni alla pubblicazione di Post Scriptum?
Risposta – Devo ammettere che mi aspettavo critiche feroci, con tutti quei comunisti ai posti chiave del Paese! Paradossalmente, la prima presentazione –
il 15 dicembre 2006, all’uscita del libro – venne organizzata proprio dall’ex Associazione Italia-URSS, ora Italia- Russia. Nella sua lunga prolusione, la padrona di casa Daniela Bertazzoni si è perfino tirata le orecchie da sola: “E noi che non sospettavamo nemmeno che a due i da qui, in casa di Julia, ci fosse un rigoglio di cultura russa...”.
La sala era gremita. Tra protagonisti e comparse, i personaggi in carne e ossa del mio Post Scriputm saranno stati una ventina. Primi fra tutti i miei compliciamici: Claudia Zonghetti, traduttrice dell’edizione italiana, Mila Nortman, che l’ha digitata al computer e il veneziano Giorgio Vianello, l’editore; poi i Gandolfo da Genova, i Bukalov da Roma, Ljuda Stanevskaja da Mosca, l’avvocato Marangi da Martina Franca; l’ORIA di Emi Moresco al completo, come anche alcuni miei colleghi e allievi delle università di Milano: la Cattolica e la Statale. E c’erano Tatevik e Nunè Ajrapetjan, pianiste d’eccezione, con il loro piccolo, splendido concerto.
– Dov’è il mio salvatore? Ugo, ci sei? – l’ho chiamato a un certo punto, emozionata.
E dall’angolo della sala in cui si accalcavano coloro che non erano riusciti a trovare posto si è stagliato il suo: “Sono qui!”.
I i erano due: Giampaolo Gandolfo (la sua è stata un'autentica lectio magistralis) e il mio allievo e ora corrispondente dell’ITAR- TASS a Roma Aleksej Bukalov, che come sempre ha conquistato il pubblico.
Le altre due presentazioni milanesi si sono svolte una al Rotary – o per meglio dire al Ristorante del Circolo della Stampa (domande e risposte a pancia piena) – con a moderare il presidente del Pen club italiano Lucio Lami, e l’altra, presieduta da padre Sergio Katunarič, nella sala dell’Istituto Leone XIII, al
seminario ecumenico, dove più volte avevano parlato i miei amici – gli scrittori russi Edel’man, Krelin, Razgon, Eppel’ – e dove, in quest’ultima occasione, l’attrice Ridoni del Piccolo ha letto dei aggi del mio libro. Se padre Sergio non l’avesse fermata, avrebbe continuato a lungo. A un certo punto si è persino commossa.
Nemmeno la stampa mi ha trascurato. Il 16 dicembre il Corriere della sera mi ha dedicato un paginone della Cultura, pubblicando il capitolo su Guttuso e un articolo di Sebastiano Grasso, caposervizio per l’arte. Il moscovita Novoe vremja (n. 48) ha pubblicato come “recensione, o quasi” un panegirico di Aleksej Bukalov dal titolo puškiniano: “Le righe tristi non cancello”. Sempre a Mosca, sulla Nezavisimaja gazeta del 1 febbraio 2007, c’è stata una recensione di N. Murav’ëva: “Il metodo Čechov funziona”, sottotitolo: “Spremersi di dosso l’homo sovieticus è impresa scrupolosa e poco gradevole”.
Lo scorso gennaio sono venuti a intervistarmi a Milano per Radio Liberty prima Michail Talalaj da Napoli e poi il direttore in persona, Ivan Tolstoj, da Praga. Pensare che ad ascoltare Radio Liberty ai tempi sovietici si rischiava la libertà... Il mondo, grazie al cielo, va avanti.
Emilio Pozzi ha dedicato il suo “seminario” a San Vittore al capitolo nove di Post Scriptum (sulla prigione e il lager), letto ad alta voce da un detenuto.
Chi mi ha davvero lasciato senza parole, però, sono stati gli studenti dell’Università di Trieste, che hanno dedicato alla presentazione del mio libro la loro annuale Festa russa. Trenta fra ragazzi e ragazze si sono presentati sul palco di un’aula magna gremita indossando magliette dell’azzurro del mio manuale con su scritto “Julia Dobrovolskaja. Il russo per italiani”, riassumendo a coppie, in russo e in italiano, alcuni capitoli di Post Scriptum. Dopo di che hanno intervistato l’autrice, l’editore pietroburghese Igor Savkin e anche Aleksej Bukalov.
Sono seguite una poderosa declamazione in coro di Ja vas ljubil... (V’amavo...), canzoni di Okudžava e la rappresentazione – verosimilissima – di una “lezione di russo di Mila Nortman”. Il primo anno ha pensato al rinfresco. Russo ovviamente. Tutto quanto nella convinzione più assoluta che il Post Scriptum altro non sia che l’ennesimo manuale di russo “della” Dobrovolskaja.
Devo ammettere che questo libricino senza troppe pretese, a cui mi sono dedicata quasi controvoglia e con poca convinzione, è fonte di emozioni continue. Chi non l’ha gradito non me l’ha fatto sapere, mentre i fan – e siano tutti ringraziati – telefonano, scrivono, vengono a trovarmi da vicino e da lontano: emozionati, commossi, riconoscenti...
12.
Domanda – Come si sentiva a bocciare uno studente?
Risposta – Ero combattuta. Chi non si applica non merita pacche sulle spalle. Ma se il docente avesse anche lui la sua parte di colpa?
La mia proposta era la seguente: se te la senti di sgobbare, ti darò una mano. Insomma, mi facevo carico anch’io dell’insufficienza. Dal canto suo, per lo studente un esame preparato con coscienzia e superato non era solo un gran sollievo, ma anche e soprattutto un gradino in più verso la maturità.
Simona Mercantini, mia allieva all’Università Cattolica – tra le migliori, lasciatemelo dire – per un qualche, pur valido, motivo un giorno si presentò a un
esame senza sapere un’acca. Ci restò male.
Sgobbò tutta l’estate; a furia di sottolineature con l’evidenziatore verde, la sua copia della “Grammatica russa” di Cevese, Dobrovolskaja e Magnanini si gonfiò fino a raddoppiare. ato l’esame, giurò e spergiurò che in Russia avrebbe colmato le lacune rimaste.
E non solo le si sciolse la lingua, cominciò a parlare russo e raccolse materiale per la tesi, ma andò fino alle isole Solovkì (per volere di Lenin il primo lager sovietico fu ospitato nel loro antico monastero), toccando con mano le piaghe della Russia e prendendosele a cuore. Alle Solovkì incontrò il fotografo e letterato Jurij Brodskij, fervido cronista dei paesaggi e delle pene di quelle splendide isole del mar Bianco. Divennero amici, e Simona riportò a Milano il manoscritto e le fotografie di quello che presto (prima che a Mosca) sarebbe diventato un volume per i tipi della Casa di Matrëna.
I giorni prima, Simona e l’amica Serena avevano tappezzato il quartiere con i manifesti che annunciavano la presentazione del libro di Jurij Brodskij all’Università Cattolica, e dunque la grande aula era gremita non solo di studenti, ma anche di gente comune. Sul palco sedevano padre Scalfi, l’editore, i professori Vittorio Strada, Adriano e Marta dell’Asta, il festeggiato Jurij Brodskij, Simona e io. Quella sera, per la prima volta, parlai in pubblico del mio gulag; fino a quel momento, con in mente i diciassette anni e a dei tanti Razgon, mi sembrava inopportuno dar voce al mio anno e poco più da carcerata.
Ebbi l’impressione che mi ascoltassero col fiato sospeso. D’altronde, non era cosa da tutti i giorni incontrare qualcuno che quelle cose le aveva vissute sulla propria pelle. E mi fermarono per strada. Ricordo una signora non più giovane, dal viso intelligente:
- Sto studiando il russo con il suo manuale, il “Russo per italiani”, la sua voce è sempre con me...
- E perché mai? Chi è, lei?
- Lavoro in banca... E invece di andare a teatro, al cinema o ai concerti, studio russo.
Ora Simona insegna italiano in un'università di Mosca.
13.
Domanda – Come riusciva a far sì che gli studenti acquisissero fiducia in se stessi?
Risposta – Dopo aver letto e riletto il solito Russo per italiani, sca decise di scrivere la sua tesi di laurea su Kornej Čukovskij traduttore. Andò dal suo relatore, gli portò i materiali: una volta, due, tre... Non c’era verso: era sempre un no. “Sarò una zuccona”, fu l’amara conclusione di sca, che – pur di laurearsi - pensò di lasciare la prestigiosa Ca’ Foscari per un’università vicina e meno “esigente”.
- Julia, dalle una mano tu – mi convinse Claudia Cevese, - se lo merita.
Che se lo meritasse lo sapevo già: sca era stata una brava allieva per tutti e quattro gli anni di corso.
Venne a trovarmi a Milano insieme al fidanzato, sco. Una bella coppia. Lei robusta, occhi neri e guance rubizze, “tagliata e cucita alla perfezione”, per citare Gogol’ con qualche rettifica. E anche lui era un ragazzone. Non era difficile capire che i genitori (tessitori di seta comaschi) e il fidanzato (che produceva materassi) non vedessero l’ora di avere un “dottore” in famiglia.
Gli scritti di sca non avevano né capo né coda, il suo relatore aveva visto giusto. La mia diagnosi fu la seguente: 1) non era una zuccona, 2) la sua preparazione aveva lacune madornali, ma 3) capitolare a quell’età sarebbe stato un errore fatale, da evitare... Dunque attaccai il mio solito disco: “Se te la senti di sgobbare, ti darò una mano”.
I fidanzatini ripartirono sollevati, portando con sé – tanto per cominciare – il volumone di storia dell’URSS di Heller e Nekrič, L’utopia al potere. sca “sgobbò” un anno e più. Studiando dalla mattina alla sera, perdendo persino qualche chilo. Veniva a trovarmi carica di domande, ma quel che più conta, era entusiasta!
E pian piano, finalmente salda sulle sue gambe, cominciò a scrivere cose sensate.
Le avevo consigliato di confrontare la traduzione italiana e russa (di Čukovskij) di una fiaba di Kipling. E il povero traduttore italiano, che, purtroppo per lui, non possedeva l’esperienza unica della scuola traduttoria russa, venne strigliato per bene.
sca si mostrò intraprendente. Poco prima di discutere la tesi mi chiese in prestito Čukokkala, fece una scelta dei testi e preparò un quadernetto per ogni membro della commissione di laurea.
Distribuendoli, seppe riassumerne con acume il contenuto.
L’iniziativa ebbe successo: nessuno degli astanti aveva mai sentito nominare Čukovskij.
Con la laurea ormai in tasca, cavalcando l’onda della sua creatività, sca tradusse la famosa filastrocca Mucha Cokotucha, ne fece un libricino, lo fotocopiò e lo distribuì negli asili vicini.
Una così è difficile che si perda per strada.
14.
Domanda – Non ha scritto molto sui suoi anni in Italia. Come mai, dato che tra poco sarà un quarto di secolo che ci vive?
Risposta – Che cosa volete che scriva? Libertà e democrazia sono noiosette, monotone. E anche la lotta per la sopravvivenza è nell’ordine delle cose.
Sarà stata la metà degli anni Ottanta quando il preside della facoltà di traduzione
dell’Università di Trieste – dov’ero professore a contratto – mi propose di partecipare a un concorso per un posto di ruolo, così da tenermi stretta. Fu allora che scoprì quanti anni avevo. Ne restò turbato. “Come farà a campare?” gli uscì di bocca.
Semplice. Avevo tre assi nella manica: la mia lingua, (il russo si insegnava in trentacinque università italiane), la capacità di insegnare e un certo nome come traduttrice. Un posto da “professore a contratto” l’avrei sempre trovato, pensavo.
I miei amici si prendevano cura di me, gli studenti mi volevano bene, uscivano manuali, dizionari, traduzioni... La tempesta si scatenò quando all’ufficio personale del mio principale posto di lavoro – l’Università di Venezia – scoprirono che avevo 75 anni e avevo ato da un pezzo l’età della pensione. A poco servì che gli studenti fossero in tumulto, che scrivessero petizioni al rettore – “ridateci la nostra insegnante”... La legge è legge. Una dozzina di amici decise, a mia insaputa, di versare ogni mese una certa somma sul mio conto. Claudia e Renato Cevese coinvolsero una Banca di Vicenza con iniziative di sostegno alla cultura, e l’Università di Venezia mi mandò il contratto per l’anno seguente. La mia vita sul treno Milano-Venezia e ritorno poté continuare, dunque, per un’altra dozzina d’anni. Quando il sipario stava per calare, ebbi altri due anni di contratto a Trieste.
Il mio tran-tran è stato questo. E non c’è granché da dire, al riguardo.
Alle ioni politiche italiane – sempre arroventate – non mi dedico. Mi limito a leggere due quotidiani al giorno. Quando ricevo inviti da scuole e licei, di solito per parlare del Gulag o della guerra civile spagnola, vado e dico la verità. La mia “politica” è tutta qui.
La domenica è il giorno del tè, del mio “five o’clock tea” con Luigi e Leda
Vismara. Ogni tanto si uniscono a noi Maria Bruzzese e la pittrice Rosanna Forino. Facciamo il punto della settimana, gli animi si scaldano e diciamo peste e corna dei comunisti, dichiarati e ribattezzati.
Un paio di volte l’anno Ugo Giussani mi invita alla Scala, nel suo palco.
– Ugo caro, mi piacerebbe tanto fare qualcosa per te, ma che cosa? – chiesi al mio salvatore appena sbarcata a Milano, nel 1982. Scoprii che, da melomane qual era, aveva sempre sognato un abbonamento alla Scala, impresa impossibile per i semplici mortali.
E dunque, contravvenendo alla mia abitudine di non chiedere mai nulla a nessuno, mi rivolsi all’allora sovrintendente Badini, che – tra l’altro – era in debito con me. E Ugo ebbe il suo palco.
L’ORIA e i suoi impresari – Maria Bruzzese, Denise Pertuccione e il braccio destro del maestro Muti Milena Borromeo con il suo Paolo - mi portano regolarmente al Conservatorio e sempre e comunque ai concerti degli amici che abbiamo in comune: la pianista moscovita Eliso Versaladze, la violoncellista Natalija Gutman e il violoncellista Anatolij Liberman (il Trio Čajkovskij). In breve, la buona musica non mi fa mai difetto.
Ma la vecchiaia è alle porte. Peccato. “Non fai in tempo a guardarti alle spalle, che è già ora di morire”, si lagnava mia zia Lena, nemmeno troppo anziana.
Ho novant’anni, e mi scopro anch’io a pensarla allo stesso modo.
Come nella Canzone del palloncino azzurro di Okudžava:
Piange la vecchia, che poco ha vissuto...
La solita solfa. Una morte lieve: è questo che si dovrebbe chiedere, piuttosto...
Post-Post Scriptum
Neanche questa volta ho un motivo particolare, pressante per scrivere. Che cosa mi induce, dunque, a prendere in mano la penna, la mia ottima ed eterna Waterman?
Con l'avvicinarsi delle feste, le telefonate di lettori ed estimatori del mio Post Scriptum si sono moltiplicate. La domanda che le chiude è spesso la medesima: "Allora? Il Post Scriptum? Continua a scrivere? Ci sono novità?". "No, nessuna" rispondo secca.
Forse per questo oggi - primo gennaio 2009 - la mia mente intorpidita ha un sussulto: e se scrivessi di loro, di questi miei fan insaziabili e mai paghi?...
Del resto, le emozioni sono già bell'e che rinfocolate: è dal primo mattino che la TV trasmette i classici della musica di Capodanno, fra arie della Traviata e della Carmen e brani di Strauss-padre e Strauss-figlio. Tutte cose sentite e risentite, eppure…
Va detto che l'esecuzione è eccellente e i pianissimo sono straordinari. Un dono prezioso, nell'era della techno.
Prima il coro del Nabucco - quel Va', pensiero ormai assurto a inno nazionale o quasi, nonostante che a cantarlo siano gli schiavi babilonesi - che muove a commozione ogni italico cuore. Poi la marcia di Radetzki, con il pubblico della Filarmonica di Vienna che batte le mani a ritmo come neanche all'asilo, ispirato, fino all'ultima nota. Insieme a un miliardo di spettatori estasiati in giro per il
mondo.
A questo credo di dovere l'euforia di oggi.
La presentazione
"Ma è lucidissima!" commenta con il suo collega il giornalista televisivo al quale ho appena concesso una lunga intervista in mezzo ad antichi scaffali carichi di volumi profilati in oro. Per quanto il mio orecchio destro non mi assista come un tempo, lo sento perfettamente. E con un ghigno ironico sulle labbra, sottobraccio a un accompagnatore, faccio il mio ingresso in sala. Sul palco già mi attendono tre cattedratici, pronti ad attaccare le loro prolusioni. La sala della rinomata "Società di letture e conversazioni scientifiche" (che può vantarsi di annoverare fra i suoi iscritti del ato anche Garibaldi) è in un'ala del Palazzo Ducale di Genova, ora sede del Municipio. Aspettiamo il sindaco - Marta Vicenzi. Stranamente non ci sono studenti. Genova è fra le città più "rosse" d'Italia ed è assai probabile che si sia scelto di preservare la gioventù - plagiabile - dalla presentazione di un libro come il mio Post Scriptum. Che ce ne sia ben donde lo capisco dalle prime parole del professor Gandolfo, grande conoscitore di cose russo-sovietiche e mio grande amico.
– Dopo che nel 1917 Lenin fece il suo colpo di Stato… – esordisce.
Alla mia destra il professor Ferrari - docente di letteratura italiana oltre che assessore alla cultura del comune di Genova - ha un fremito e comincia febbrilmente a prendere appunti. Attende a fatica che anche il secondo oratore termini la sua prolusione (il professoer Bacigalupo, che ha letto attentamente il mio Post Scriptum e ne fornisce una rigorosa analisi letteraria), dopo di che si scaglia contro i profanatori con un fervore comunistoide che né il crollo del
muro di Berlino, né lo sfaldamento dell'URSS, del PCUS e del PCI sono riusciti a smorzare.
– Per me non c'è e non c'è mai stato nulla di più importante e di più sacro della Rivoluzione d'Ottobre.
E il battibecco divampa. Ogni tanto dal pubblico si leva un timido "Vogliamo sentire l'autrice!". L'autrice, però, non ha alcuna intenzione di intromettersi nell'eterna guerra civile italiana, dunque si limita a dirsi sinceramente affranta per coloro che ancora credono al futuro radioso dell'umanità e non capiscono che è stato un errore e che è giunta l'ora di voltare pagina.
A cena (perché segue una cena), ho di fronte il sindaco Marta Vicenzi, una signora interessante da più d'un punto di vista che lascia me e Alëša Bukalov a bocca aperta esclamando felice: – Quando ho aperto il PostScriptum ho capito che siamo quasi parenti! Sa che per il dottorato in filosofia all'Univerità di Pisa ho scritto di Vladimir Propp?
Il caro Alëša non poté esimersi dal commentare che in Russia sarebbe stato oltre modo difficile trovare un sindaco esperto di Propp!
Due lettere
1. 9 .08.1986
Gent.ma professoressa,
Le scrivo questa lettera perché ho forse un po' di nostalgia dei tempi dell'università. Sono una sua ex allieva, Angela Luise, che sicuramente Lei non ricorda. Per questo Le allego una mia foto, nella speranza che individui un po' chi Le scrive e anche per mio ricordo.
Mi sono laureata a novembre del 1994 e l'ho pensata tante volte da allora, perché Lei è sempre stata la docente che ho ammirato maggiormente e che mi ha dato di più dal punto di vista linguistico, didattico e forse anche umano.
Quanto odiavo imparare a memoria tutti i proverbi russi del suo libro! Quanto sciocchi mi sembravano Mojdodyr'o Doktor Ajbolit! Quanto ammiravo la sua bravura nello scrivere Il russo per italiani e la ione con cui conduceva le nostre lezioni.
Dalla sua figura è sempre emanato un certo fascino, per la sua storia di vita avventurosa e misteriosa e la sua esperienza didattica.
Le scrivo per raccontarle un po' quello che mi è successo dopo la laurea: il primo anno è stato molto difficile, perché la realtà commerciale del paese era tutt'altra cosa rispetto alla realtà accademica. Il primo lavoro è stato una delusione e un insuccesso: tre mesi come impiegata commerciale in una piccola ditta mi hanno sconvolto per la durezza e la maleducazione dei padroni, che non mi insegnavano nulla, pretendevano che sapessi tutto, e mi umiliavano per le mie incertezze. Il secondo lavoro sta andando bene: un professionista vicentino che conosco bene ha creato una società in Ucraina.
Dapprima traducevo semplicemente la corrispondenza, poi ho preso un po' alla volta tutta l'attività nelle mie mani.
All'inizio del 1996 ho ritenuto fondamentale per la mia vita e per il lavoro (e soprattutto per la mia curiosità) andare a vivere in Ucraina. Ora vivo là, forse per uno-due anni. Vivo a Kiev e mi ci trovo abbastanza bene. Sono molto indipendente e ne sono felice, perché ne avevo veramente bisogno. Ho finalmente trovato il mio equilibrio e la mia libertà. Sto vivendo e lavorando intensamente e ne sono contenta.
Questi mesi sono stati importanti per praticare il mio russo. Sono ancora molto distante dalla perfezione e ho poco tempo per studiare, ma la ione per questa lingua così ostica e melodiosa è rinasta! Ecco che solo ora ho capito che senso avessero i proverbi e le filastrocche, ho capito che tanti modi di fare russi, tanta parte della cultura russa li avevo già fatti miei. Grazie al suo insegnamento. Tutti mi fanno i complimenti per come scrivo e come parlo in russo. E volevo ringraziarla per questo.
Spero che ci sia occasione per incontrarla, una volta o l'altra. Spero che stia bene e che stia ancora lavorando al vocabolario.
Tanti cari saluti
Angela Luise
2. Mosca, dicembre 2008
"Ricordo quel meraviglioso istante"…
Questo verso di Puškin esprime perfettamente ciò che provammo io e le altre amiche della classe di italiano (eravamo sette in tutto) quando la porta dell'aula si aprì ed entrò una donna che nulla aveva in comune con gli stereotipi di quel grigissimo primo anno del dopoguerra (era il 1946).
Noi figlie della guerra e di famiglie modeste - e che poco vestite e bubbolanti di freddo in stanze non riscaldate nonostante l'autunno inoltrato sembravamo ancor più delle poveracce - ci trovammo di fronte una visione celestiale: una giovane donna con i capelli color dell'oro pettinati con eleganza. Che - diversamente da noi - aveva lasciato il cappotto al guardaroba e si era presentata in classe con un abito nero di maglia, una camicetta di seta con tanto di jabot, i collant e un paio di décolleté col tacco alto. Era un profluvio di vita, di vita vera e serena, e anche di luce e calore. Era la nostra prima maestra di lingua italiana, che subito prese il gesso e cominciò a scrivere alla lavagna quello che noi dovevamo copiare. Non c'erano ancora manuali né dizionari né libri italiani, all'epoca, e noi bevevamo ogni sua parola e scrivevamo, scrivevamo, scrivevamo per non perdere nulla di ciò che diceva.
Di Julia Abramovna Dobrovolskaja - perché la visione aveva nome, cognome e patronimico -non ci colpì solo l'aspetto, ma anche la didattica: aveva un suo metodo molto ben elaborato, una pronuncia impeccabile, una conoscenza precisa della grammatica e di altri aspetti di una lingua, l'italiano, che con lei imparammo ad amare (e per sempre!). Dopo di lei vennero anche altri insegnanti - lo specialista di grammatica, di fonetica, di traduzione, di storia della lingua e via dicendo - ma a decenni di distanza, dopo che ho tradotto, insegnato e studiato tanto pure io (che per trent'anni ho collaborato con l'Accademia delle scienze), posso dire senz'ombra di piaggeria che nessuno mi ha mai dato tanto quanto mi diede Julia Abramovna. Da insegnante ho mutuato il suo metodo e ho usato i suoi manuali. E anche oggi che ho 77 anni e molti acciacchi, come lei cerco di non darmi per vinta e di fare, fare e ancora fare. Spronata in questo anche dalle lettere che mi scrive e per le quali non smetto di ringraziarla. (…)
E allora, cara la mia maestra, le auguro tanta salute e tanti altri anni di vita in cui far felici i suoi allievi italiani come faceva felici noi, qua in Russia.
Con grande, immenso affetto
La sua allieva - e amica - Elja Blinova.
Post scriptum. Gli auguri di Elja mi arrivano immancabilmente da un quarto di secolo, con l'approssimarsi del Natale. Un anno le risposi annunciandole che mi ero data alle memorie: "Ricordi la nostra prima lezione?" le domandai. "Se così fosse, raccontamela, per favore". Elja rispose con la lettera che avete letto.
Per me quei primi i da docente all'Istituto universitario di lingue straniere, negli anni Quaranta del secolo scorso, erano tabula rasa. Ricordavo solo che non avevo né esperienza né un manuale da seguire e che, perciò, andavo tentoni. E mi tormentava l'idea dei pasticci che potevo avere combinato da autodidatta qual ero, delle inevitabili figuracce (che spero comunque di avere scampato)… Vero è anche che le mie sette cavie parevano felici e contente: merito di Propp e del suo metodo, che le apionò allo studio dell'italiano e accese la scintilla di quell'entusiasmo che sempre si traduce in ottimi voti.
Elja mi scrisse sull'onda delle impressioni del Post Scriptum. Era riuscita a trovare l'edizione russa, l'aveva letta ed era tornata ai suoi anni da universitaria. "Antonio Fogazzaro è costato la carriera anche a me…" aggiunse, raccontandomi ciò che avrei dovuto raccontare io e che avevo dimenticato, lo confesso. E me ne vergogno, irriconoscente che sono stata. Perché l'indomita ragazza che Elja era allora aveva compiuto un'impresa civile encomiabile: aveva atteso che i corridoi dell'università si svuotassero, era andata alla bacheca con il giornale murale e aveva fatto una bella croce sull'editoriale che accusava di "miopia politica" la sua insegnate di italiano che le aveva fatto leggere un
racconto di Fogazzaro, scrittore non solo cattolico ma "reazionario". A Elja toccò una bella lavata di capo e il biasimo del Komsomol per "condotta irrispettosa verso gli organi di stampa". Che in quegli anni significava sporcarsi per sempre il curriculum e andare incontro a conseguenze indesiderate. Insomma, la presero di mira fino a che - ormai docente nella stessa facoltà - decise di andarsene sbattendo la porta.
"È una perla rara" avrebbe detto di lei un caro amico che non c'è più, lo scrittore Lev Razgon.
Due amici
Michela
Quando, in una sera cupa di novembre, una voce maschile che non conoscevo mi disse: "Fiori per lei", pensai che a mandarmeli fosse sca Grassi. Quel giorno era ata a trovarmi e le avevo consegnato - a lei che presiedeva la Fondazione Paolo Grassi - un bel pacco di lettere che mi aveva scritto suo padre. "Ma guarda com'è cortese e ben educata" ricordo che pensai.
Il biglietto che trovai nel mazzo, invece, mi rivelò che la mittente era una tal Michela B., una giovane (ventiquattrenne, avrei scoperto) che voleva ringraziarmi per il mio Post Scriptum.
Che cosa aveva apprezzato, Michela?
"Lei è Julia Dobrovolskaja" mi scriveva, "e a nessuno verrebbe in mente che ha avuto delle difficoltà, che ha avuto paura. Invece lei lo ammette, lo ricorda e ne scrive. E io non posso che essergliene grata, perché mi trovo a vivere le stesse difficoltà, ai suoi stessi anni, e per me è un sollievo sapere che anche lei c'è ata! Non posso che augurarmi che, come la sua, anche la mia vita sia densa di eventi e ricca di belle persone e di decisioni coraggiose". Seguiva la spiegazione di come le era capitato di leggere il mio libro. Galeotto era stato Sergej Nikitin, il caro Serëža che ogni tanto fa capolino tra la folla dei personaggi del Post Scriptum. "L'ho conosciuto a Mosca" scriveva Michela, "durante una della sue Velonotti, le biciclettate notturne che organizza lungo il Sadovoe kol'co. Lui apre il gruppo con il casco in testa e il megafono in mano, e noi lo seguiamo: eravamo trecento, quella notte, a voler conoscere una Mosca inedita. Sprizzava amore per la sua città, Sergej, per quella città che ha poco di umano, ormai. E io pedalavo per restargli accanto e non perdere neanche una parola delle sue spiegazioni sull'architettura costruttivista. Gli dissi di chiamarmi, quando ava da Milano. Poi lui venne, ma non riuscimmo a vederci. Prima di salire sull'aereo, però, mi chiamò per dirmi che mi aveva lasciato un regalo all'Antica locanda lombarda, in via tal dei tali. È così che ho avuto il suo Post Scriptum".
Io e Michela ci siamo conosciute, qualche giorno dopo i fiori. Alla mia porta ha bussato una giovane bella, intelligente, elegante e colta, insoddisfatta della sua vita. Si era laureata in russo alla facoltà di Mediazione linguistica della Statale di Milano. Uno scenario che conoscevo. In mano a sinistroidi che le avevano dato un taglio "progressista" e pseudo-scientifico, la Statale sfornava "in-esperti" privi di competenze professionali.
Il lavoro - in un'azienda di moda che commerciava con l'Ucraina e la Russia non la soddisfaceva. E alla mia domanda su cosa avrebbe desiderato fare, rispose: tradurre la letteratura russa. Nientemeno. Se anche ne fosse stata capace, le possibilità erano davvero risibili… Piuttosto - le suggerii - prova a scrivere qualche raccontino (in chiave ironica, se ne sei capace) sul bizzarro ambiente in cui sei finita e che, da quel che dici, è un pozzo senza fondo di storie divertenti. Vuoi vedere che sul lago dove abiti (Michela è di Lecco) trovi anche qualcuno che te li pubblica e li fa diventare un appuntamento fisso? Pensavo a un caso che
conoscevo: la già citata Tanja Senokosova-Konrad, ormai casalinga londinese, e la sua divertente rubrica bisettimanale di "vita inglese" per la moscovita Novaja gazeta.
Il Natale seguente Michela mi ha chiamato: «Sa che ho deciso di provarci?» ha detto. Avanti tutta, Michela carissima!
Franco
Franco P. fa il fisioterapista a domicilio. È un antroposofo e un bibliofilo. Vent'anni fa ci presentò l'ottimo dottor Gasperi di Trento, antroposofo pure lui. La nostra amicizia è iniziata perché ho avuto bisogno delle sue mani d'oro (soprattutto durante l'annosa fatica al Grande dizionario che mi spezzava la schiena) e a lui faceva comodo arrotondare. Piano piano siamo diventati amici (affinità elettiva?), ci siamo aperti il cuore e ormai lui sa tutto di me e molto dei miei cari, e io tutto - o quasi - di lui.
Franco ha 73 anni, un paio di matrimoni alle spalle e un figlio grande: un ragioniere auto-munito (per dirla in burocratese). Lui non ce l'ha, la macchina, e nemmeno ha mai avuto la patente: si sposta sempre con i mezzi pubblici. E fra un appuntamento e l'altro si infila in una libreria, si concede qualche vasca in piscina e fa un'infinità di opere buone. Ha cura della sua salute, non fuma, beve moderatamente e compra solo cibi biologici. Il finesettimana, poi, scappa da Milano e macina una cinquantina di chilometri al giorno in bicicletta. Il suo è un lavoro fisico, deve tenersi in forma.
È una cara persona, Franco. Magro, fisico asciutto, una folta zazzera di capelli biancoargento, lo sguardo intelligente e un bell'eloquio.
– Che posso fare per te? Fammi fare qualcosa, dai! – insiste, e io lo mando a comprare questo o a informarsi di quell'altro. È sempre pronto ad accantonare i suoi impegni e ad accompagnarmi nelle mie trasferte a Vicenza, Trieste, Grado… Mi tiene d'occhio, si preoccupa per me e quando siamo lontani mi telefona spesso.
Una storia recente che dice molto di Franco (me l'ha raccontata in confidenza, perché sentiva puzza di bruciato). Era a Pianello, la sua "base" ciclistica. Un bel giorno alla sua porta bussò un conoscente di lunga data, un tal Peruzzi, un chimico genialoide, poeta, musicista e inventore. Che gli chiese di ospitarlo: "Solo per un po', altrimenti mi tocca andare in carcere… Solo fino al processo… Non ho dove stare ai domiciliari, non ho una casa mia".
In carcere? E come mai? si chiese Franco, che non riusciva a trovare il bandolo della matassa. A furia di domande scoprì che il genialoide in questione era stato arrestato perché un conoscente gli aveva chiesto di fabbricare una molotov. Sandalo - il conoscente, un vecchio brigatista - l'aveva poi infilata sotto l'auto di un qualche islamista (perché aveva cambiato bersaglio, Sandalo, e dai servi del regime era ato ai musulmani) e per questo si era preso sette anni di carcere. Al suo sodale Peruzzi, invece, era stato intimato di non lasciare il proprio domicilio (che per varie questioni non aveva) fino alla fine del processo.
Il povero Franco divideva la casa di Pianello col figlio e non sapeva cosa dirgli. Allo stesso tempo non poteva pensare di lasciare quel povero cristo per strada anzi, nel suo caso in cella. Dunque lo ospitò nella stanza del figlio. Peruzzi arrivò con un centinaio di scatoloni e si mise al computer come se niente fosse stato.
– Tu che cosa avresti fatto, al posto mio? – mi chiese Franco.
– Quello che hai fatto tu. L'hai almeno avvertito, tuo figlio?
– Certamente. Subito.
– E che cosa ti ha detto?
– Papà, sei un pirla.
Alla vista dei due carabinieri presentatisi a controllare, la padrona di casa - una signora di un certo tono e di una certa età - si spaventò non poco; e all'arrivo di Franco lo prese a male parole.
Alcune settimane dopo il tribunale condannò Peruzzi a un anno di arresti domiciliari. Per fortuna si fece viva la moglie, che gli trovò un alloggio. Dunque Peruzzi tolse le tende. E la padrona di casa di Pianello perdonò Franco. È fatto così, che volete?
Una lettera a Mimma
Cara Mimma,
Ti ringrazio di avermi mandato il Quaderno dell'Antroposofia con lo scritto su
Sergej Prokof'ev e il suo bel viso in copertina.
Man mano che leggevo, alla memoria affioravano i ricordi…
Ho così scoperto di avere conosciuto - in diverse epoche, circostanze e aree geografiche - ben quattro dei sei membri della famiglia del grande musicista.
Con Lina - la moglie - eravamo amiche a Mosca negli anni Settanta del secolo scorso (e di lei parlo anche qui, in questo Post Scriptum, nel capitolo "L'amore delle tre melarance"). Nella casa moscovita di Lina - lo striminzito monolocale dove era andata a vivere da riabilitata, dopo il Gulag - incontrai e conobbi il nipote Sergej, sedicenne all'epoca e futuro luminare del pensiero antroposofico, e sua madre Sof'ja Prokof'eva, autrice di bei libri per bambini. Fu durante un breve soggiorno a Londra negli anni Novanta, invece, che alcuni amici russi mi portarono da Oleg Prokof'ev, il padre di Sergej-junior. Ci rivedemmo qualche anno dopo al Circolo Filologico di Milano, dove Oleg era stato invitato a intevenire durante le Giornate per Prokof'ev.
Del mio "universo prokof'eviano" fanno parte anche il dottor Daniele Nani antroposofo, mio medico curante a Milano e caro amico - e il dottor Stefano Gasperi - antroposofo, mio medico a Roncegno e caro amico pure lui. Ed è dal dottor Gasperi che sentii parlare per la prima volta di quel Sergej Prokof'ev "mente dell'antroposofia" in cui riconobbi subito il nipote di Lina (che lo adorava e non faceva che ripetere: "Sentirete parlare di lui").
Last but not least, tengo a ricordare Sof'ja Vladimirovna Guerrier, antroposofia clandestina nella Mosca sovietica. Le devo moltissimo: fu lei a instradarmi verso l'insegnamento della lingua italiana, l'arte di tradurre e la lessicografia.
Un ultimo ricordo. Invitata dalla TV italiana - dal TG3 milanese, per la precisione - a parlare della"Musica russa", scelsi come argomento principale proprio Lina Prokof'eva! La trasmissione ebbe vasta eco e mi procurò amicizie durature.
Cara, cara Mimma, so da Franco che stai per cambiare vita. Che Dio ti aiuti!
Ti abbraccio Julia
Sono comunista
Da Firenze, un giorno il professor sco Izzo dell'associazione "Amici di Leonardo Sciascia" mi scrisse: "Per me avere incontrato la traduttrice del Giorno della civetta, del Consiglio d'Egitto e della Scomparsa di Majorana ha voluto dire molto. E ancor più bello è stato scoprire che lei e Sciascia vi eravate conosciuti. Il suo regalo, poi - l'antologia moscovita di opere di Sciascia con postafazione di Cecilia Kin (che ho incontrato) - mi ha addirittura commosso. Tra l'altro, lei e Cecilia eravate amiche? Sarebbe interessantissimo se, magari, le andasse di immaginare una conversazione con lei riguardo a Sciascia. Ci provi, ci tengo molto!".
Gli risposi così:
«Caro professore,
mi ha pregato di scrivere una conversazione immaginaria su Sciascia fra me e Cecilia Kin. È impensabile, purtroppo. E le spiego perché.
Un giorno - saranno stati i primi anni Settanta del secolo scorso - Cecilia mi telefonò per chiedermi di consigliarle un insegnante di italiano. Con lei ero sempre molto sollecita. Sapevo che non aveva avuto una vita facile - il marito Viktor, giornalista e corrispondente delle Izvestija dall'Italia, era stato fucilato, Cecilia aveva lunghi anni di lager sulle spalle e il loro unico figlio era morto in guerra - dunque mi venne spontaneo offrirle il mio aiuto en amitié. Cecilia non disse né sì né no. Ma non si fece più viva. Di lì a poco cominciai ad avere notizia di suoi commenti acidi - acidissimi - sul mio conto che circolavano per Mosca. Ci restai male, ma non gliene chiesi ragione.
L'unica possibile spiegazione era assurda, perché ideologicamente connotata: Cecilia restava una comunista tutta d'un pezzo (le sue convinzioni non avevano vacillato nemmeno nel Gulag) mentre era risaputo che io la pensavo diversamente. Incassata la riabilitazione, l'italiano e l'italianistica divennero il suo pane: Cecilia seguiva la stampa italiana e scriveva articoli e libri di politologia. Entrò anche nell'Unione scrittori e le fu assegnato un appartamento nel condominio per letterati vicino alla stazione della metropolitana "Aeroporto", dove andò a vivere con la madre e la vecchia tata.
Un bel giorno, però, non riuscii a evitare l'incontro. Un caro amico - Goffredo Parise, di cui ero anche la traduttrice - mi chiese di conoscerla. Minuscola, capelli lisci di un colore indefinibile raccolti in una crocchia, occhi vispi e intelligenti, Cecilia si mostrò moderatamente cordiale, farfugliò qualche parola in un italiano storpiato e accettò di occuparsi dell'introduzione all'ultimo libro di Parise che avevo tradotto. Scrisse, però, qualcosa di poco lusinghiero. Tradussero le sue pagine a Parise, che se ne ebbe a male e - soprattutto - si domandò a lungo perché Cecilia avesse accettato l'nvito.
Cecilia non mi sopportava. Non sopportava che gli studenti mi fossero
affezionati, non sopportava che traducessi un libro dietro l'altro, non sopportava che il mio Corso pratico di italiano e il mio dizionario tascabile avessero messo radici salde, non sopportava che sapessi anche fare l'interprete. E non sopportava - soprattutto - che gli ospiti italiani cercassero sempre e solo me.
Con la perestrojka Cecilia poté finalmente tornare in Italia. Andò a Palermo da Leonardo Sciascia, che adorava, e a Milano da Indro Montanelli, altro suo idolo. Due ioni senza un filo logico: Sciascia - liberale e fautore della società aperta - e Indro, che teneva sulla scrivania una foto di Stalin per "ringraziarlo di avere fatto strage di comunisti, lui più di chiunque altro".
"Rimani in Italia" insisteva Montanelli. "Ti trovo io dove stare e cosa fare. E avrai finalmente una vita decorosa". Lo scricciolo però - così la chiamava il grande giornalista - non cedette.
"Perché ti ostini? Perché rimani in URSS dopo tutto quello che ti hanno fatto?" le chiese Montanelli.
"Perché sono comunista" rispose Cecilia.
E dunque, caro professor Izzo, crede ancora che io possa immaginarmi di chiacchierare di Sciascia con Cecilia Kin?
Immaginarmi, sì. Perché Cecilia non c'è più. Si è tolta la vita.
Una storia sciocca
Ai miei tempi - e i "tempi" che ho in mente sono gli anni Settanta sovietici - a teatro e ai concerti si andava con il vestito buono.
La Milano degli anni Ottanta del secolo scorso prediligeva i jeans, e in jeans la trovai, al mio arrivo: il tanfo degli "anni di piombo" non si era ancora rarefatto e anche i ricchi preferivano camuffarsi da poveri. Qualcuno, tuttavia, disse no. "Il teatro è una festa. Vietato entrare in jeans": così dispose il mio amico Paolo Grassi, sovrintendente al teatro La Scala e noto socialista-riformista.
Ma questo è l'antefatto. Il fatto è un caso della vita che seguì.
"La prima volta che l'ho vista di persona indossava un abito di velluto blu e delle scarpe di camoscio in tinta" esordì una certa Elvira - o forse Eleonora? - a casa di amici comuni, a Mosca. "Mi sono rimaste impresse le sue gambe snelle, le caviglie sottili e soprattutto i capelli: color dell'oro, forti, lucidissimi. L'intervallo stava finendo, lei saliva lo scalone del conservatorio per tornare in sala e chiacchierava animatamente con uno stuolo di amici. L'ho seguita, ho ripreso il mio posto come un automa, ma da quel momento in poi non ho più fatto caso alla musica. Il giorno dopo sono corsa a farmi la tinta dal miglior parrucchiere di Mosca - un certo Jean, se lo ricorda? Però, invece di un fantomatico biondo oro sono uscita del più ordinario fra i 'biondi tinti'. Non era certo il caso di riprovarci, ma io speravo nel miracolo e mi ostinai a chiedere un secondo tentativo, che diede il colpo di grazia a una capigliatura - la mia - già assai patita. Il secondo o fu di setacciare i negozi in cerca di un taglio di velluto blu. Potevo scordarmi di trovarlo nei grandi magazzini di Stato, il Mostorg; l'unica speranza erano le kommissionki, le botteghe che vendevano su commissione. Ne girai tanti, di quei sacrari di ciò che non era dato trovare altrove, ma non ci fu nulla da fare… Alla fine, però, ebbi un colpo di fortuna: in un negozio sulla Sretenka una vecchia cliente - un' 'attrice emerita' dell'URSS - aveva lasciato una pellegrina di velluto blu. La sartina a cui la affidai ci si mise d'impegno e… rovinò tutto quanto. Diventai matta, a furia di prove e modifiche! Né mi riuscì mai di trovare un paio di scarpe in tinta. Però una volta l'ho messo, quell'abito,
sa? Al Bol'šoj, alla prima di Anna Karenina con Maja Pliseckaja. Ci ero andata con i colleghi. 'Gita culturale' la chiamavano, all'epoca…" spiegò Elvira.
"Lo so che è una storia sciocca" aggiunse. "E non capisco perché gliel'ho raccontata. Ha insistito mio marito, mi ha convinta lui…".
Abbado
È morto Claudio Abbado, illustre direttore d'orchestra e senatore a vita. In onore del grande maestro defunto, l'Orchestra del Teatro alla Scala ha eseguito il Requiem di Beethoven con la sala deserta, solo per lui, come tradizione comanda. Il pubblico ascoltava fuori, sulla piazza antistante. "Lo conoscevi?" mi chiedono in tanti, sapendo che in altri tempi sono stata vicina alla Scala per lavoro. Come no…
Tre sono le ipostasi in cui lo ricordo. Oltre a quella di direttore, ça va sans dire.
Mosca, aeroporto di Šeremet'evo. Gli orchestrali della Scala scendono dall'aereo. È la celeberrima tournée del 1974. Apre il gruppo il direttore, Claudio Abbado. Altezza media, magrolino, bel sorriso. In una mano ha una borsa normalissima. Dentro c'è un neonato: suo figlio Daniele, il primogenito. A "orchestrare" l'incontro è il sovrintendente Paolo Grassi, a Mosca dal giorno prima. Io sono l'interprete.
– Noi due ci conosciamo già, vero? – fa Claudio. – Abbiamo così tanti amici in comune…
La seconda ipostasi è immortalata da una fotografia ufficiale.
Hotel Metropole, Mosca. Su un divano fané siedono Claudio Abbado e il giornalista che lo sta intervistando, lo scrittore e musicologo Solomon Volkov. Sul bracciolo - amazzone stremata - c'è l'interprete esausta: io. La conversazione ha ingranato e il trio se la intende, si vede.
Tra parentesi. Volkov non aveva ancora pubblicato il libro su Šostakovič che avrebbe fatto scalpore in tutto il mondo, io avevo ancora davanti otto anni di prigionia sovietica e a Claudio ne restavano altri quaranta da direttore a produrre musica geniale. Per la quale gli si perdonano anche i deliri comunistoidi.
Milano. Aeroporto di Linate, anni Novanta. A telefonarmi è Gabriele Abbado, mio amico di lunga data, fratello di Claudio e unico non-musicista della famiglia. È architetto, Gabriele.
– Siamo qui con Claudio, bloccati in aeroporto non so per quanto. Forse un bel po'. E sic-come è il 25 agosto ed è il tuo compleanno, perché non prendi un taxi, ci raggiungi e festeggiamo?
Così fu che mi ritrovai con i fratelli Abbado e le due signore - due sorelle - che li accompagnavano: Viktoria e Galina (ora Gaia) Mullova, violinista la prima e infermiera la seconda. Due belle donne, due donne di razza.
– Viktorija è una tua compatriota – dice Claudio presentandomela (la madre della famosa violinista è russa, il padre del Caucaso) e subito continua: – Fammi un favore, dimmi che ne pensi!
– Ma come? Se neanche la conosco…
– La conoscerai ora. Fammi questa cortesia, per favore…– insiste.
Non so come cavarmi d'impaccio.
– Facciamo così – gli propongo. – Inizia col descriverla tu!
Nei suoi occhi frulla un guizzo furbetto.
– È gentile, dolce, per niente egoista…
Il sorrisetto che ha stampato sul viso significa che devo intenderle all'inverso, le sue parole. Ma il tono scherzoso non basta a sciogliere il mio imbarazzo. L'imbarazzo di tutti, anzi. Come ultima pennellata alla scena - e a rischio di sforare nel gossip - aggiungo che la coppia scoppiò, ma Claudio riconobbe il figlio (sedici anni dopo, però).
Quanto a Gabriele, che cercò di imitare il fratello vita natural durante, per qualche tempo visse con l'altra Mullova, Gaia. E prima di tornare con la moglie regolarizzò la sua posizione in Italia.
Le badanti
Al mattino mi infilo il pigiama, vado al cesso a fumarmi una cicca. E ti incrocio Marusija-badante. Toh, chi si vede!, le dico. A. Galič
Tanja
Alla fine degli anni '90 mi era rimasta una sola università in cui insegnare, la Cattolica, e - sul filo di lana - la Statale, entrambe a Milano.
In quella che sarebbe stata la mia ultima aula sedevano quaranta studenti, io avevo 86 anni e con quella lezione dicevo addio alla vita e mi preparavo all'assalto della vecchiaia.
Non son più buona a nulla, anima mia... La vecchiaia è una grande porcheria!
facevo mestamente eco - io pure - a Puškin.
Invece, no: ebbi ancora un guizzo. Spinta dagli amici, avevo pubblicato il Post Scriptum. Memorie, o quasi e l'euforia con cui era stato accolto mi tenne a galla per un certo periodo. Un breve periodo. Mi stavo intorpidendo, mi stavo arrugginendo quasi, e me ne rendevo conto. Dunque mi diedi come abitudine di sorvegliare la mia agilità mentale scribacchiando.
Aveva ragione Lev Razgon, però: ati i novanta, un letterato ha esaurito il suo arsenale e deve saper mettere un punto fermo. "Se puoi" diceva, "fa' a meno di scrivere!"… In nome di una vecchia amicizia, invece, la rivista russo-bostoniana Čajka ha continuato a pubblicare le mie righe stentate, che - con mia grande sorpresa - fecero uscire allo scoperto parenti e amici emozionati: miei e di coloro che citavo nei miei aneddoti. Tra loro ci sono anche Anna da Mosca e Sergej da Omsk, ingegneri. Anna e Sergej sono i figli di Miron Tetel'baum, e solo grazie alle pagine di Čajka prima e del mio Post Scriptum poi hanno finalmente conosciuto la storia - una storia tragica - del padre. Da Washington, invece, spuntò Alina, una lontana nipote (figlia di una mia cugina) che non sapevo di avere e che ho scoperto essere docente di spagnolo all'università.
Nel frattempo avevo compiuto 95 anni. Perdevo colpi - me ne rendevo conto io per prima - e avevo bisogno di un aiuto costante, e non delle solite tre ore tre volte alla settimana con la mia indimenticata Vittoria. Vittoria Conte è una calabrese cicciottella con un viso dolce e due occhi neri vispi e intelligenti. A fare la colf l'aveva ridotta il marito camionista - un bell'uomo con i capelli rossi, un padre padrone donnaiolo e prepotente che l'aveva lasciata con quattro figli per andarsene in Bulgaria con l'amante (bulgara). "Qui con lei sto in paradiso" non mancava mai di dirmi la povera Vittoria. È stata nel mio "paradiso" per sedici anni, e ancora oggi non manca di farmi visita.
Un giorno, poi, venne a trovarmi mio "marito" Ugo Giussani. ò mezza giornata con me, fece due più due e - generoso! - cominciò a mandarmi una badante peruviana alla quale pagava lo stipendio affinché si occue dei suoi parenti milanesi in difficoltà. La peruviana si stupì di costatare che mi arrangiavo ancora da sola: "Ma come? Oggi tutti i signori anziani hanno la badante", fu il
suo commento inappellabile.
Del resto, se una volta erano i figli a prendersi cura dei genitori, da che lavorano anche le donne la necessità di trovare un aiuto esterno si è fatta improrogabile. Per questo motivo dai paesi più poveri migliaia di donne si sono riversate in Europa per "badare" a vecchi altrui abbandonando i propri (oltre che i figli e i mariti). Un'altra questione è quanti vecchi italiani possono permettersi di sborsare un migliaio di euro al mese...
Il solo pensiero di avere accanto un'estranea ventiquattrore al giorno mi metteva tristezza e mi spaventava: il mio conto corrente si sarebbe prosciugato in quattro e quattr'otto. Come avrei fatto? Potevo lasciare che i miei amici si accollassero anche questa preoccupazione? Com'era potuto succedere - continuavo a rimuginare fra me e me - che dopo avere lavorato come un mulo non fossi in grado di garantirmi una vecchiaia serena?
Alla fine mi arresi: "Trovatemi una badante!", fu il mio grido d'aiuto. I primi a raccoglierlo furono i Bukalov, che mi proposero di far venire dall'Ucraina Tanja, colei che si era occupata di Ženja, la mamma di Aljoša, fino alla fine dei suoi giorni.
"È la persona giusta per te" mi assicurò Aljoša. Ma si sbagliava, e quanto! Perché un conto è prendersi cura della madre del direttore dell'ITAR-TASS in una villa con parco e piscina, un altro condividere con una vecchietta un angusto bilocale.
Me ne feci comunque una ragione: le avrei ceduto il mio letto e la mia cameretta e mi sarei sistemata sul divano della camera "grande" - congedandomi per sempre dalla mia scrivania.
E dunque, un giorno in casa mia entrò una donna di mezz'età slanciata, graziosa, in abiti modesti, ma dignitosi. Una fantasiosa acconciatura incorniciava il suo viso stanco e gli occhi leggermente a mandorla. Aveva una storia triste, alle spalle: il marito l'aveva lasciata con tre figlie piccole e si era trovato una nuova compagna con quattro maschi. Ed era scomparso.
Tanja è di Černobyl. Ed è sopravvissuta alla catastrofe e allo sfollamento. Come sia riuscita a crescere le sue figlie e a farle studiare con uno stipendio da fame è un mistero e un prodigio. L'hanno salvata gli "aiuti umanitari": tre famiglie italiane di buon cuore che ogni anno ospitavano le bambine per le vacanze estive fino a che non sono cresciute. Sono ragazze intelligenti, le figlie di Tanja, e parlano tutte italiano: una vera fortuna e un lavoro sicuro, di questi tempi.
Le vicissitudini di una vita dura, durissima spiegano - dunque - il carattere duro e autoritario di Tanja. Irritabile, gridava invece di parlare e riusciva sempre a farmi salire la pressione a duecento. Non sapeva neanche cucinare: nell'anno che ha ato con me abbiamo sempre mangiato minestrone insipido e polpette insapori... Tutti i santi giorni. Ma era il male minore: non ho grandi pretese quanto alla cucina. Il peggio era che mi ero presa un nemico in casa. Giudicate voi stessi.
– Sono stata chiamata per badare a lei, non ai suoi ospiti – mi rinfacciava di continuo. Non aveva tutti i torti: gli amici ano spesso a trovarmi, ma è il mio modus vivendi e non posso né voglio cambiarlo.
Un giorno, dopo aver letto sul giornale la triste storia di una famiglia russa, chiesi la sua opinione. Molto sovieticamente, con piglio da KGBista, Tanja mi chiuse la bocca dicendo: – Sono stata assunta per accudirla, non per fare conversazione.
– Per favore – la scongiuravo, – butta questi tuoi cosmetici. La loro puzza ha invaso la casa! Te ne comprerò di nuovi, senza odore.
– Non posso fare niente,qui con lei! – s'infuriava. – Mi sembra di essere in un lager!
– Perché mi ha fatto un dono così costoso? – mi chiese un giorno con un sorriso sarcastico, stringendo il mio regalo di compleanno: un necessaire per la manicure. Eppure, vedendo quanto tenesse alla sua persona, avevo pensato che le fe piacere e (vuoi mai!) me ne fosse grata. Ma la parola "grazie" non figurava nel suo vocabolario. L'italiano non le entrava in testa, anche perché - va detto - non si impegnava nemmeno tanto a impararlo. Non sapeva né domandare né rispondere: scena muta.
– Lei è una pessima insegnante – mi ha licenziato dopo un po'. – Sa solo correggermi e mortificarmi! Con lei non studierò più!
Detto, fatto. Oltretutto, era camaleontica: in presenza di estranei (soprattutto la domenica, a casa di Claudia e Filippo) era una "nuvola in jeans" - per dirla con Majakovskij. Col sorriso stampato sulle labbra (incredibile, vero?), non aveva nulla della cafona incattivita che era con me. Claudia - mia ex-studentessa e ora amica e factotum - non mi credeva allora e non mi crede neppure adesso, e non capisco perché. Ascriveva ai miei "spigoli" gli inevitabili conflitti "fra due persone che vivono prigioniere l'una dell'altra". "Bisogna avere pazienza" insisteva. "Con un'altra sarebbe persino peggio". Anche il mio amico Franco che sapeva e vedeva tutto - era d'accordo con Claudia: un'altra non poteva che essere peggio. E puntualizzava: "Però! Che bel culetto alto che ha!".
Il peggio, però, doveva ancora venire. E venne d'estate, nella casetta che avevo affittato per le vacanze. Due mesi interi insieme, io e lei e nessun altro. Ricordo ancora come un incubo l'accogliente casina sul Lago Maggiore, il giardino con il pergolato, la "eggiata in mezzo alle viti" e i cordialissimi padroni di casa. Arrivammo al punto che, incapace di sfondare la sua corazza, presi a scriverle delle lettere-ultimatum: "Se ci tieni a mantenere il lavoro, smetti di gridarmi contro". Niente, non fece una piega. "Ho semplicemente una voce giovane e squillante" ribatteva.
Di ritorno a Milano, entrammo in casa e fummo investite da un gran fetore proveniente dal frigorifero: le cibarie che si era dimenticata di buttare prima di partire e che erano marcite. Eppure: "Non è colpa mia!" riuscì a gridare, di nuovo.
La soluzione venne da sola. Tanja dovette tornare in Ucraina perché la figlia si sposava; per il mese che sarebbe rimasta lontana mi trovò Ljudmila, Ljuda, una sua conterranea. La simpatica, ridanciana Ljuda era stanca di cercare lavoro, e quando le dissi che l'avrei presa a scatola chiusa e per sempre pianse per la felicità.
"Traditrice", l'aggredì Tanja al suo ritorno. E mi chiese di riprenderla nel mio "lager". Proprio oggi, a sei mesi di distanza, ho saputo che da che se n'è andata da casa mia ha già cambiato cinque posti di lavoro.
Ljuda
Ljuda dimostra molto meno dei suoi quarantanove anni. Ha un bel fisico anche senza "punto vita" ( è una mangiona!), un faccino da bambola, due occhi vispi sotto una spessa frangetta platinata ("color perla") e un seno florido del quale va
legittimamente fiera e che non disdegna di mettere in mostra. Si diverte persino, quando racconta con i suoi soliti risolini squillanti di come una volta, in un negozio, una signora inferocita aveva strattonato il marito che indugiava sul suo decolleté.
Ljuda ha una ione smodata per camicette, maglie, gilerini, giacchettine, gonne e gonnelline e sandali "alla schiava". Franco si stupisce ogni volta che la vede: "È un caleidoscopio! Ma quante ne ha?". Le mise di Ljuda seguono la moda dei teenager di oggi: se porta una gonna, non può che essere parecchio sopra il ginocchio, mentre i leggins le strizzano il sedere e la pancia, che sfugge comunque da sotto il top corto. Negozi, saldi e mercati sono la sua ione. L'ovvia, naturale risposta ad anni di privazioni. Allo stesso modo, stremate dai negozi vuoti dell'URSS, reagivano le sovietiche di fronte all'abbondanza occidentale. E se oggi nei negozi russi e ucraini si trova di tutto, è anche vero che la maggior parte della gente non ha i soldi per comprare.
Ljuda è una brava cuoca. I suoi cavalli di battaglia sono i piatti della tradizione ucraina: il boršč (la minestra di barbabietole rosse) e i golubcy (le foglie di verza ripiene di carne). E dopo essersi rimpinzati a dovere, i suoi ospiti non possono pensare di andarsene senza qualche ghiottoneria da portare a casa.
Nonostante la cocciutaggine tutta ucraina, i modi un po' infantili e la testa tra le nuvole, Ljuda ha un buon carattere. È generosa, cordiale, ospitale e - soprattutto - sprizza gioia di vivere, joie de vivre come dicono i si. Ingenua com'è, fa quello che le a per la testa senza curarsi di nulla e di nessuno.
Un esempio? Ospiti a pranzo in casa di amici, dopo un lauto pranzo è capace di prendere una bella fetta di pane, di salarla e condirla con l'olio d'oliva e di mangiarsela al posto del dessert.
Le manca molto la sua cucina - gustosissima. "Con la pastasciutta non mi sazio" si lamenta, e obbliga la figlia a mandarle lardo, salumi, grano saraceno e latte condensato con i furgoni che fanno la spola fra l'Ucraina a Milano. "È tutto più buono, da noi... Qua, poi, i cetrioli sono grandi e grossi, mentre a me andrebbero tanto i nostri, piccoli, in salamoia...". E difatti è capace di mangiarsene un intero barattolo da un litro non appena lo riceve. "Che vuoi farci? È la natura" come diceva della moglie Nina il futuro premio Nobel Vitalij Ginzburg.
Ljuda parla molto bene russo, con qualche minima e perciò divertente eccezione. Adora i diminuitivi e i vezzeggiativi, che usa a mani basse: "C'è da comprare un pochinino di latte", oppure "Uh, sono finite le melucce"…
Le mie lezioni d'italiano danno i loro frutti, ma quand'è ora di studiare Ljuda batte la fiacca. Lo scoglio peggiore è il predicato nominale. Non riesco a farle entrare in testa che non si può dire "Mio fratello medico", ma si deve dire "Mio fratello è medico".
Procedendo nello studio abbiamo capito che le è più facile ricordare le rime, e per questo ho cominciato a comporre per lei delle specie di filastrocche. Tipo:
Franco è il nostro miglior amico.
È un gran massaggiatore e fico.
È buono come il pane
Il nostro amico Franco Pagliano.
Oppure, sempre e solo a scopo didattico:
Mi chiamo Ljuda, sono badante,
Di donna Julia l'aiutante.
Andiamo d'accordo se non metto
Troppo fuori le mie tette.
Le impara di buon grado e le piace "recitarle" agli ospiti.
Ljuda si è diplomata a Kamenec-Podol'skji. Durante il primo anno si è sposata, ha avuto una figlia, l'ha affidata alla madre, al paese, e di lì a poco s'è separata. Non riuscendo a trovare lavoro come maestra, è andata a vendere pesce, verdura e frutta al mercato, al gelo o sotto un sole cocente: non era affatto facile. Il suo secondo marito - Saša, all'anagrafe Aleksandr Petrovič - ha un bel po' d'anni più di lei e dirige un centro per bambini handicappati. E ogni volta che la chiama tutte le sere alle otto precise - prima di are il telefono a Ljuda scambiamo due parole. È una persona intelligente e positiva, Saša, e davvero non capisco come si sia deciso a lasciar venire in Italia la sua civettuola signora, tutta sola.
– Non mi piaceva più, dove stavo, ero stufa di tirare a campare e volevo aiutare
mia figlia e mia nipote – risponde Ljuda quando le chiedono perché è venuta in Italia a fare la badante.
Anche Ljuda e le sue colleghe hanno divorato e divorano il mio Post Scriptum, che deve avere toccato corde di emozioni simili. Le badanti hanno una nuova scrittrice di culto, dunque: Julia Dobrovolskaja! Ljuda voleva possederne una copia tutta sua (per avercela sempre a disposizione), ma nonostante le ricerche non riusciva a trovarla: esaurito! Con un'intraprendenza che non mi conoscevo, sono riuscita a recuperarne due copie a Genova e gliele ho regalate: una per lei e una per la sua cara amica Tonja, badante anche lei.
Persino Saša ha apprezzato il Post Scriptum, e in una delle sue telefonate si è prodotto in una recensione piena di complimenti. Si è talmente interessato alla curiosa signora per cui lavora la moglie, che ha letto anche Via Gorkij 8, interno 106 di Marcello Venturi, scovandolo sulla rivista letteraria Vsesvit, che ne ha pubblicato la traduzione ucraina. Ljuda svolge volentieri gli incarichi "intellettuali" che le affido: frugare nel dizionario, trovare un libro finito chissà dove... È la mia "PR" numero uno, e non perde occasione di sguainare le ultime pubblicazioni sul mio conto. Ha portato anche a Tonezza (dove siamo ora) la rivista dell'Accademia Urbense della città di Ovada con un articolo di otto pagine di Giorgio Fassino che mi cita: "Dalle trincee spagnole alla Lubianka".
La montagna le piace molto: "Speriamo che la notte i presto! Domattina non vedo l'ora di andare per funghi nel bosco" fantastica a voce alta, su di giri come una bambina. Come la sua nipotina di otto anni.
Tonezza, giugno 2014
Rino
Quando mi chiedono: "Ma lei ha conosciuto Leonardo Sciascia?" rispondo: "Sì" e tengo anche a precisare: "Ho avuto questa fortuna…".
È una mattina di giugno. Due marcantoni della Guardia medica mi impacchettano per bene, mi caricano sull'ambulanza e mi scaricano al Policlinico, l'ospedale su cui affacciano le finestre della mia casa. Lì - con analoga solerzia - mi danno da "firmare per accettazione" il nullaosta all'intervento.
E sempre siano ringraziati, per carità. Perché se la sanità milanese è al top, il chirurgo che mi opera - Pietro Broglia, un dottore pasciuto e avanti con gli anni è un' eccellenza nel suo ramo, un vero fuoriclasse.
Tuttavia, i ventotto minuti che ha preventivato per l'intervento sono ormai trascorsi, ma lui continua ad armeggiare. E bofonchia:
– Sono vecchie, queste arterie, non vanno… Dovremo rimandare…
– No, dottore, no– guaisco da parte mia. – Ne cerchi un'altra, sopporterò...
Il dolore, in realtà, è atroce. Ma non è una preghiera che mi esce di bocca in quei momenti, bensì un sonetto scandito e recitato come dio comanda:
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand'ella altrui saluta…
Comincio io, ma la delizia è che Broglia prosegue con me:
ch'ogne lingua devèn tremando muta…
e che a noi si unisce - con un filo di voce - la dottoressa con la frangetta brizzolata che continua a fissare il suo monitor.
Dopo quasi tre ore di ricerche, il povero, sudatissimo esculapio (parola čechoviana) stana la vena adatta e il pace maker viene messo a dimora sotto la clavicola sinistra.
Mi riprendo nella mia stanza: è una singola, grazie a dio. E adesso? Adesso, dopo 96 anni di una vita fin troppo lunga, mi ritrovo nel petto "un motore che romba al posto del cuore" (come cantavamo da bambini con al collo il fazzoletto rosso dei "pionieri") e non posso più sperare di andarmene come mi è capitato di volere. Detesto l'entusiasmo edulcorato per la longevità: o è sciocco o è ipocrita. Tanti anni addosso sono sinonimo di acciacchi e dolori, di una lenta agonia in cui, un po' per volta, occhi, orecchi e gambe si rifiutano di funzionare. Vorrei vedere voi, con il mio mal di testa perenne.
Post scriptum. 10 novembre 2014. Un fatto appena accaduto mi induce a
cancellare la pagina di geremiadi che seguiva alle ultime righe e in cui mi lamentavo della mia incapacità di garantirmi una vecchiaia serena, tanto da dovere accettare l'inevitabile aiuto mensile di un gruppo di amici ed ex allievi riconoscenti che con il loro bonifico mi aiutavano a pagare quella badante di cui, ormai, non posso più fare a meno.
Il fatto è il seguente: il Consiglio dei Ministri mi ha destinato il sussidio Bacchelli, ventiquattromila euro l'anno.
Ma torniamo a noi. La porta che dà sulla corsia si spalanca e arrivano le prime, graditissime, visite. Con chi sta parlando il mio caro, affettuoso esecutore testamentario Filippo Gaggini? È un tipo robusto, di bella presenza, fra i cinquanta e i sessanta…
Mi porge un mazzo di fiori e una scatola di cioccolatini svizzeri ed esordisce scusandosi:
– Mi perdoni, se ho fatto… come dire… irruzione senza attendere che la dimettessero…
– Lei sarebbe? – gli domando.
– Mi chiamo Rino Tringale, sono ingegnere informatico e vivo in Svizzera con la mia famiglia. Ma il punto è un altro. Sono uno sciascista. Ieri ero a Firenze, a un incontro dell'associazione Amici di Leonardo Sciascia, dove ho scoperto che la sua traduttrice russa - Julia Dobrovolskaja - viveva da tempo a Milano. Ero basito: come? A Milano, a due i da me, abita niente po' po' di meno che una traduttrice di Sciascia?... Dovevo trovarla! Ho avuto il suo telefono dal professor
Izzo, che lei conosce. Gli aveva regalato le sue traduzioni: Il giorno della civetta e Il Consiglio d'Egitto.
– Certo che mi ricordo! Come sta, il professor Izzo? E soprattutto, che cos'è uno sciascista?
– Lasci che le spieghi…. Scrittore di livello europeo e uomo, cittadino, bandiera del pensiero liberale, Leonardo Siascia è al mio fianco da tutta una vita, sempre prodigo di consigli e di ispirazione. Ammiro la sua libertà di pensiero e ammiro l'intelligenza delle sue intuizioni. E ho cara la sua "sicilianità" indipendentemente dal fatto che sono siciliano anch'io…
– Anche lei scrive?
– Sì.
– Prosa?
– Non proprio. Il mio libro si intitola Rivolta ed è sulla Rivoluzione d'Ottobre, su ciò che penso dell'evento più importante dell'era contemporanea. Crede anche lei che lo sia?
Mi scappa un sospiro. "Ci risiamo" penso fra me e me. "L'ennesimo delirio comunistoide sul futuro radioso dell'umanità…".
– Il più importante lo è senz'altro, ma in negativo. L'utopia di Lenin è costata fiumi di sangue e ha portato miseria e schiavitù a ogni tentativo di tradurla in realtà.
Il mio interlocutore parve preoccupato:
– No no, la mia interpretazione di quanto accadde in Russia nel 1917 è fondata su migliaia e migliaia di pagine lette e su lunghe conversazioni con gli amici russi. Posso portargliene una copia, se crede…
Il giorno seguente Rivolta era sul mio comodino. Mi misi di'impegno a leggerlo e a correggere en ant, la traslitterazione dei nomi russi; ma il luogo - e il pregiudizio, lo confesso - mi frenarono presto.
Lasciai l'ospedale la settimana seguente, e i miei incontri con Rino proseguirono al 51 di Corso di Porta Romana. Non mi annoiavo mai, in sua compagnia. Continuavo a chiedermi, tuttavia, perché un uomo d'affari, un imprenditore di successo e con un paio di fabbriche al suo attivo avesse tutto quel tempo da perdere con la scrittura. Però, di fatto, così era. E mi piaceva che così fosse, lo confesso.
– E sua moglie? I suoi colleghi? Che ne pensano del suo hobby?
– Mia moglie è felice, i colleghi sono invidiosi.
(La moglie di Rino insegna se, i figli - un maschio e una femmina -
studiano).
– Se mi permette – azzardò un giorno – vorrei fare come Mila Nortman e chiederle l'auto-rizzazione a essere suo amico…
Aveva letto le mie memorie, dunque, il mio Post scriptum.
E ammo al "tu".
Un giorno si presentò con una grossa borsa piena di erbe aromatiche: rosmarino, salvia, timo, lavanda... Le aveva raccolte quella mattina stessa nel suo giardino, disse. Che tesoro! Quello stesso giugno mi toccò l'ennesima tegola dell'età: persi la vista dall'occhio sinistro. Maculopatia, fu la diagnosi. Con il destro vedevo ancora, ma non abbastanza per leggere.
– Dio mio, come farò a vivere senza libri e giornali?! – chiesi, terrorizzata.
E mi tornò in mente Rino: "Ricordati" aveva detto una volta, "che se hai bisogno d'aiuto puoi contare su di me. Farò tutto ciò che è in mio potere". Gli chiesi, dunque, di aiutarmi a rafforzare l'occhio destro (il mio oculista si era opposto).
Rino si diede subito da fare. Mi caricò sulla sua macchina e mi portò prima in Brianza e poi in Svizzera. L'ottico brianzolo - bravissimo, non c'è che dire riuscì in ciò che a Milano avevano dato per impossibile: trovò la giusta gradazione per i miei occhiali. E con l'aggiunta di una lente d'ingrandimento, ora posso leggere i testi in colonna, tipo i quotidiani. Oppure - allargando i caratteri
più che posso - il libro elettronico che mi ha regalato la cara Ljuda Chaustova.
Da tecnico qual è, Rino svolse in quattro e quattr'otto anche un'altra missione che a Milano avevano definito impossibile: trovò il modo per chiudere l'occhio sinistro, che ormai mi era solo d'intralcio. Quando poi seppe che l'amica Bianca Balestra ritagliava un po' di tempo alle sue giornate per leggermi ad alta voce qualcosa, sbottò: "Posso farlo anch'io!".
Per semplicità, arrivava in treno. E dopo quattro chiacchiere e una tazza di tè, c'era anche il tempo di mettere mano al suo libro.
Personalmente, avevo qualche dubbio su una scena in cui, in piedi su un carretto che avanza sussultando fra le buche, una bella rivoluzionaria grida ai quattro venti il suo sostegno alla rivoluzione incruenta. Nuda.
Per tutta risposta Rino mi ricordò le fanciulle russe in topless che avevano manifestato contro Putin sul sagrato della Cattedrale di Cristo Salvatore, a Mosca.
– È un fenomeno analogo, no? – insisteva.
Un altro argomento a favore della scena con la pacifista-pasionaria desnuda era a suo dire - che fosse basata su un fatto realmente accaduto descrittogli da un'amica siberiana, Julia, della quale non si stancava di tessere le lodi, tanto era bella, colta e intelligente. Scoprii così che la protagonista della sua Rivolta era l'aristocratica bisnonna siberiana.
È risaputo che gli italiani amino la Russia e i russi l'Italia. L'amore di Rino per la Russia, però, è davvero serissimo: Rino soffre per una rivoluzione sciagurata che - lo sa bene anche lui - fu più che altro un golpe dei bolscevichi, e desidera, brama di condividere la sua sofferenza con chi lo leggerà. C'è qualcosa di ingenuo, di infantile nel suo entusiasmo. Ma io amo e sento vicini - non lo nascondo - coloro che, un po' come i dissidenti sovietici, fanno delle disgrazie di tutti una disgrazia personale.
– Ho una gran voglia di andare a Roma – mi ha confessato un giorno – e di piazzarmi davanti al Quirinale su un tappetino con una qualunque citazione di Sciascia… Perché è quello, il partito a cui sento di appartenere! …E di lì urlare ciò che penso di quella manica di incapaci, mediocri e corrotti. Mi sentirà qualche decina di persone in tutto, gli eventuali anti, ma almeno mi sarò sfogato!».
Una vita dopo
Perché proprio oggi, in questo uggioso 10 luglio 2014 che segue ai violenti acquazzoni abbattutisi sulle Alpi sopra Vicenza, dai recessi della mia memoria riaffiorano i pochi istanti di un breve episodio che, però, ho ancora vivo davanti agli occhi?
Ricordo persino il nome, di quel professore di Storia della Letteratura Occidentale. Reizov, si chiamava. Stava facendo lezione, quando si bloccò e disse:
– Vi esorto a rivolgere la vostra attenzione a quella chioma, all'apoteosi di sfumature color dell'oro trafitta dai raggi di questo splendido sole di primavera.
Una cinquantina di visi perplessi si voltarono verso la finestra dov'ero seduta. E un centinaio di occhi mi fissarono. Non saprei dire quanto sia durata, quella pausa, né se fece seguito qualche commento. Non me lo ricordo.
– Torniamo a noi! – disse subito il professore, e non ci furono strascichi.
Una cosa ricordo: quel giorno non seppi reagire alla sua lode. Lo faccio ora, una vita dopo. Avevo vent'anni, all'epoca, ero pragmatica, vivace e senza lune di traverso. Non mi facevo grandi illusioni, quanto all'aspetto: come la porcellana, mi illuminavo solo quando la fiammella ardeva, dentro di me. Ma se il fuoco era spento, la maliarda diventava una normalissima pel di carota lentigginosa.
Quando descrive i compagni di corso dell'Università di Leningrado, nelle sue barbose memorie Lidija Lotman - sorella di Jurij, famoso semiologo - mi liquida con un unico -sprezzante - commento: "Era una bellezza". Un po' tardi per prendersela perché nella bacheca degli studenti migliori c'ero sempre io - o meglio, la mia fotografia.
Mi guardo allo specchio solo di sfuggita, quando mi lavo il viso. E che cosa vedo? "Le due stelle marroni" che ho per occhi (così diceva il mio primo marito, Aleksandr Dobrovol'skij) sono diventate due puntini tristi, con tanto di borse sottostanti; la bocca è incavata per colpa di una dentiera malriuscita. E "le labbra gustose" (a sentire Semën Gonionskij) sono ridotte a una striscia sottile. I capelli resistono ancora, folti, ma sono color della paglia, ormai, e non dell'oro. Però continuano a restare in piega da soli, senza bisogno del parrucchiere.
Ecco: dev'essere stato un simile contrasto a riportare in vita un ricordo radioso, antelucano o quasi.
Nižnij Novgorod, 1925.
Fulgencio, Spagna, 1938
Jurij Lubimov nel suo studio. Mosca, Teatro Taganka, anni ’70.
Con Paolo Grassi, Vittorio Boni, Emilio Pozzi, Demetrio Volcich durante un incontro con il presidente della Radio-Televisione sovietica. Mosca, anni ’70.
Renato Guttuso e Julia Dobrovolskaja all’inaugurazione di una mostra di Guttuso. Mosca, anni ’70.
Con la famiglia Nono (da sinistra a destra): Luigi, Silvia, Serena, Nuria nel campeggio dei pionieri a Staraja Ruza, 1973.
Con Nuria Schönberg Nono, Luigi Nono, le figlie Silvia e Serena, e due abitanti del luogo. Ruza, 1973. (Casa della creatività per compositori).
Dopo un’intervista rilasciata da Claudio Abbado a Solomon Volkov, Mosca, Hotel Metropol, 1974.
Semjon Aleksandrovič Gonionskij. Mosca, 1974.
Con Paolo Grassi, il Ministro della Cultura dell’URSS Furtseva, Montserrat Caballé. Mosca, Teatro Bolšoj, 1974.
Con Mirella Freni e Placido Domingo all’Accademia Musicale Gnesin. Mosca, 1974.
Nella casa moscovita dei Razgon si festeggia il compleanno di Julia Dobrovolskaja, ormai da anni in Italia. In piedi: Lev Razgon e Aleksej Bukalov. Seduti (da sin.): Ludmila Chaustova-Stanevskaja, Rica Razgon, Galina SluzkajaBukalova, Zinaida Lukovnikova, Natalia Michajlovna, anni ’80.
Alberto Moravia si congratula con Julia Dobrovolskaja per il Premio della Cultura. A destra, Maria Nobile. Roma, 1980.
Il professor Barzi consegna a Julia Dobrovolskaja il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri d’Italia. Roma, marzo 1980.
Valentin Pluček (in piedi, al centro), durante una prova del Mandato di Erdman. Mosca, Teatro della Satira, anni ’80.
Peter Brook.
Con Mimise e Renato Guttuso a Mosca, sul balcone dell’Hotel Nacional, ottobre 1982.
Con Emy Moresco e Ugo Giussani a casa di Emy, in via De Sanctis. Milano, novembre 1982.
Con Nina Barberova nella casa milanese di Julia Dobrovolskaja in via De Sanctis, Milano, 1989.
Con Lev Razgon, Milano, anni ’90.
Con Vittorio Strada, Fazil Iiskander, Olga Strada. Capri, anni ’90.
A Campale Molare: (da sinistra) Camilla Salvago Raggi, Julia Dobrovolskaja, Graziella e Giampaolo Gandolfo, anni ’90.
Con Arevik Hairapetian, (in piedi) Franco Bocchio, Tatevik Hairapetian in casa sua in Corso di Porta Romana, 51. Milano, 2002.
Con Marcello Venturi e György Reti all’aeroporto di Budapest, 2002.
Studenti della Scuola per Traduttori e Interpreti alla presentazione di Post Scriptum. Università degli Studi di Trieste, febbraio 2007. (Sulle magliette: “Julia Dobrovolskaja. Il russo per italiani”).